Giustizia: nessuna “autogestione delle carceri”, ma solo una piccolissima riforma… di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2012 Con la Circolare Dap sui detenuti a “media sicurezza” non si introduce l’impossibile logica della “autogestione delle carceri” ma solo una piccolissima riforma. Di fronte alla sostanziale paralisi politica del governo Monti e del parlamento in relazione ai diritti delle persone detenute, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino cerca di affrontare con pochi e ordinari mezzi la presente e catastrofica realtà carceraria. La circolare del Dap n. 3594-6044 del 25 novembre 2011 recante “Modalità di esecuzione della pena. Un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione” proponeva, per svariate persone detenute a “ridotta pericolosità”, modalità custodiali meno rigide “procedendo a modificazioni di talune prassi sin qui seguite” e superando, inoltre, la “dicotomia tra i concetti di sicurezza e trattamento “per pervenire alla “auspicata apertura verso modelli di detenzione più consoni alle finalità costituzionali della pena”. La Circolare G-DAP 0206745-2012 riguardante le linee programmatiche per la “Realizzazione circuito regionale ex art. 115 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230” si muove nella stessa logica di quella del 25 novembre, cerca di “ampliarne la portata positiva” e punta a favorire la “realizzazione di circuiti regionali ex art. 115 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230” nei quali la “media sicurezza” tenda ad evolversi verso la crescita e l’ampliamento degli “spazi utilizzabili dai detenuti” e l’incentivazione delle “iniziative trattamentali e i rapporti con la comunità esterna”. Il modello di organizzazione per “accompagnare e sostenere l’attuazione di un sistema del genere” ha come snodo il “livello regionale, ossia il Provveditorato”. Ogni Provveditore, a sua volta e “sulla base del lavoro preliminare che i Direttori d’istituto hanno approntato insieme ai Comandanti di reparto e le Equipe di trattamento per l’applicazione della circolare di novembre, sentiti in conferenza di servizio i Direttori d’Istituto e d’Uepe (ufficio di esecuzione penale esterna) della regione”, dovrà elaborare un progetto regionale ispirato a un “sistema integrato di istituti differenziato per le varie tipologie detentive ...” e individuare - per tutti gli istituti a “media sicurezza” e in particolare nelle case di reclusione - le modalità più congrue per ampliare gli “spazi utilizzabili dai detenuti” di tipo scolastico, formativo, lavorativo, culturale, ricreativo e sportivo. Inoltre, ove possibile, dovrà destinare un istituto o una sezione di questo totalmente a “regime aperto” (art. 115, 3° comma). Da quanto si legge, non viene proposto il “regime aperto” in modo generalizzato ma, in ogni Regione, sempre ove possibile, dovrebbe esserci almeno un Istituto o una sezione al suo interno con tale regime per detenuti identificati nella categoria della “media sicurezza” che da un lato hanno un fine pena inferiore ai 18 mesi e dall’altro sottoscrivono un “patto” con l’amministrazione con cui “accettano le prescrizioni ivi contenute”. Il “regime aperto”, una specie di oasi nel deserto relazionale per la massa prigioniera del circuito carcerario, è una forma di autodisciplina pattuita da alcuni gruppi di detenuti a cui corrisponde il massimo sviluppo, al posto del mero e impossibile controllo continuo, di una sorveglianza dinamica da parte della polizia penitenziaria coadiuvata dalle altre figure istituzionali (educatori, psicologi, assistenti sociali) che per altro risponde a una direttiva dettata dalla Raccomandazione R (2006) 2 sulle Regole penitenziarie Europee del 2006 e alla legge del15 dicembre 1990 n. 395 per la riforma della Polizia Penitenziaria in un Corpo specializzato sotto il profilo custodiale e trattamentale. In questo ambito si collocano anche le proposte di creare “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” come prevede la legge 21 aprile 2011 n. 62 e “Istituti a custodia attenuata per tossicodipendenti” per incrementare i percorsi alternativi alla detenzione indicati dal d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309. Tutto ciò potrà riguardare “anche detenuti non direttamente gestiti dai Provveditori (a esclusione, in ogni caso, di coloro sottoposti al regime restrittivo ex art 41-bis l. 354/75)”. In linea di principio e fatta eccezione per i regimi carcerari ad Alta Sorveglianza, la Circolare pone i problemi di una sicurezza intesa “quale condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento” e di una individuazione dei posti di servizio “sulla base del personale effettivamente a disposizione, previa decurtazione della percentuale di assenze dovute per la fruizione di congedi e riposi equamente ripartiti, sulla base della tipologia dell’istituto e degli obiettivi prefissati”. Per diversi aspetti il “regime aperto” già esiste. A Roma ad esempio c’è da molti anni il reparto G8 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso che, oltre a non riguardare solo persone detenute che hanno un fine pena inferiore ai 18 mesi, viene considerato all’avanguardia nell’Unione Europea. In questo senso la Circolare, lungi dal costituire una qualche rivoluzione, appare come una piccolissima riforma che tende a razionalizzare il sistema carcerario italiano facendo leva sull’esistente. Il suo vero limite, oltre alla questione degli scarsi fondi per le attività trattamentali, è l’indiretto avallo di una logica di differenziazione accentuata e permanente fra l’Alta Sorveglianza e gli altri regimi detentivi. È l’assenza di una strategia volta a rendere l’intero sistema carcerario subordinato allo scopo rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione. È come se da un lato ci fosse la coscienza garantista e libertaria di dover colmare il gap fra la Costituzione formale e la Costituzione materiale e dall’altro non si abbia la forza e la coerenza per proporre una linea strategica di riduzione della differenziazione dei gradi di sorveglianza, di eliminazione progressiva del carcere duro e di tendenziale abolizione della pena detentiva, sostituita da un multiforme sistema di risarcimento sociale delle trasgressioni, perché far penare legalmente qualcuno fabbricandone il dolore è sempre una forma di vendetta istituzionale. La Circolare d’altra parte, al di là della sua concreta efficacia, sembra abbastanza chiara e attenta rispetto alle condizioni di vita e di lavoro della Polizia Penitenziaria ma proprio da quest’ultima sono arrivate le critiche più severe. Secondo l’opinione di Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), “la circolare del Dap è illegittima nella parte in cui stravolge l’organizzazione del lavoro della Polizia Penitenziaria, perché questa è materia di confronto sindacale che non c’è stato, e per tale ragione adiremo le competenti sedi della Giustizia. Ma c’è di più: la nota di Tamburino è incredibilmente anacronistica, perché si rivolge ai detenuti con pene brevi da scontare che in tutta Europa scontano la pena fuori dal carcere”. Il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti rincara la dose affermando che la Circolare del Dap, prevedendo una “sorveglianza dinamica” senza un “preventivo confronto con i rappresentanti dei lavoratori”, introdurrebbe la “logica dell’autogestione” e aumenterebbe “il rischio di implosione delle carceri”. In realtà il parere dei Comandanti della Polizia Penitenziaria è previsto dalla Circolare rispetto alla formazione del Progetto da parte di ogni Provveditore e senza dubbio risulta sempre possibile il confronto sindacale sull’organizzazione del lavoro. Sulla circostanza per cui la Circolare auspica il “regime aperto” solo per detenuti a “media sicurezza” aventi un fine pena inferiore ai 18 mesi, quelli che in altri paesi europei scontano la pena residua fuori dalle carceri, Capece ha ragione. Il punto su cui il segretario del Sappe e il segretario dell’Ugl Polizia Penitenziaria vanno al di fuori di una cultura garantista e libertaria è quando invece ritengono che la Circolare rischi di consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti. Questa critica, al di là delle intenzioni e delle mode comunicative di sapore populistico penale, è infondata. Ritenere che la Circolare introdurrebbe la logica dell’autogestione delle carceri da parte dei sepolti vivi è come credere che nei cimiteri si possa manifestare l’autogestione dei sepolti defunti da parte dei sepolti defunti. In questa specifica critica sindacale alla circolare del Dap traspare una cultura che, nel concreto, potrebbe ostacolare ogni forma di transizione da un sistema di controllo continuo ad uno di sorveglianza dinamica. E questo non va bene per nulla! In Italia la categoria della polizia penitenziaria svolge un’attività difficile, dura e stressante ma ha la buona fortuna di avere un posto di lavoro garantito ed uno stipendio superiore alla media dei redditi complessivi da lavoro dipendente perché da una parte lo Stato la finanzia col denaro pubblico, cioè con le tasse pagate dai cittadini (compresi i parenti dei detenuti e i detenuti lavoranti), e dall’altra un’irriducibile popolazione prigioniera - passata il 31 maggio 2012 alle 66487 unità - ne costituisce l’indispensabile “datore di lavoro”, come fece intendere il romanziere Andrea Camilleri in una prefazione del 2007 all’ironico Elogio del crimine di Karl Marx. Se quindi la polizia penitenziaria - attraverso i suoi svariati sindacati - desidera proporre qualcosa di democratico e pacifico per eliminare il problema del sovraffollamento del sistema penitenziario e ridurre il numero dei suicidi in carcere dovrebbe recepire, con grande senso di responsabilità e spirito altruistico, i bisogni comuni delle moltitudini imprigionate. Persone detenute e persone della Polizia Penitenziaria stanno sulla stessa barca. Se quest’ultima dovesse affondare le conseguenze si riverserebbero su tutti. O si capisce che la difesa della dignità delle persone detenute e dell’articolo 27 della Costituzione deve essere interna ad ogni piattaforma dei sindacati della Polizia Penitenziaria oppure si andrà verso la comune rovina di tutte le soggettività che vivono nel carcere o grazie al carcere. Giustizia: Belisario (Idv): l’autogestione carceraria di Tamburino è un’idea folle Agenparl, 6 giugno 2012 “La proposta del capo dell’amministrazione penitenziaria Tamburino, favorevole a un regime aperto e a sezioni di fatto autogestite dai detenuti, è folle, va rimandata al mittente senza pensarci due volte e dimostra che al Dap le idee sono poche e molto confuse”. Lo ha dichiarato in una nota il presidente dei senatori dell’Italia dei Valori, Felice Belisario. “Ci auguriamo che il ministro Severino non dia seguito alla circolare e che, anzi, ne chieda l’immediato ritiro. L’emergenza carceraria non si può risolvere depotenziando il ruolo della polizia penitenziaria con l’autogestione. La direzione da prendere è completamente diversa e passa attraverso il potenziamento del corpo degli agenti e l’apertura di nuovi padiglioni carcerari già costruiti che, di fatto, aspettano solo di essere messi in funzione”. Giustizia: Bernardini (Pd); nel ddl sulla depenalizzazione… sono sparite le depenalizzazioni! Ansa, 6 giugno 2012 “A chi si oppone alla proposta di amnistia e indulto di Pannella e i Radicali, diamo la notizia che ieri in Commissione giustizia la ministra Paola Severino ha comunicato la scelta di espungere dal disegno di legge delega del Governo in materia di depenalizzazione e pene detentive non carcerarie, la materia delle depenalizzazioni”. Lo riferisce a Radio Radicale la deputata Rita Bernardini, unico membro della Commissione Giustizia a contestare questa decisione, che, dice ancora Bernardini, “dimostra ancora una volta la scarsa sensibilità del governo ad affrontare la mole immensa di procedimenti pendenti che gravano come un macigno sul funzionamento della giustizia in Italia”. “Lo scrivono oggi con chiarezza i professori Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera quando spiegano che le infrastrutture che servono all’Italia non sono quelle fisiche ma di altro tipo: ‘una giustizia veloce, certezza del diritto...”. La ministra Paola Severino, che fino ad oggi ha replicato alla richiesta di amnistia dei Radicali con l’obiezione che occorre trovare una maggioranza in Parlamento, ha dato ragione ieri alla deputata Radicale Bernardini affermando però che la materia delle depenalizzazioni è ancora oggetto di studio degli uffici legislativi del governo e che, non appena sarà pronto il relativo disegno di legge per questo verrà chiesta una corsia preferenziale. “Peccato - conclude Rita Bernardini - manchino appena 10 mesi alla fine della legislatura e che il nostro paese si trovi nell’illegalità più totale sia in materia penitenziaria che in quella riguardante il mostruoso debito giudiziario dello stato nei confronti dei cittadini”. Giustizia: Alfonso Papa (Pdl) in sciopero della fame per l’amnistia, domani visita Sollicciano Agi, 6 giugno 2012 Domani si recherà in visita al carcere di Sollicciano il deputato del Pdl Alfonso Papa in sciopero della fame dal 26 maggio scorso. Alle ore 13 è prevista una conferenza stampa davanti al carcere sito in via Girolamo Minervini, 2. Saranno presenti anche il Garante dei detenuti del Comune di Firenze Franco Corleone e l’esponente radicale Annalisa Chirico. “Il sistema carcerario italiano è il perfetto specchio del sistema giudiziario” afferma il deputato del Pdl - che ha trascorso 101 giorni nel carcere di Poggioreale in seguito all’inchiesta sulla P4 - sempre più convinto che “l’amnistia non è un colpo di spugna né la resa dello Stato. È invece il punto di partenza necessario per azzerare l’esistente, liberare le scrivanie dei magistrati e ridurre la popolazione carceraria”. “La mia esperienza detentiva - ricorda Papa - è stata terribilmente violenta come tutto è terribilmente violento in celle asfissianti dove la dignità umana, prima ancora che la libertà, è calpestata. Aver scoperto a distanza di mesi, a seguito delle inequivocabili pronunce del Tribunale del Riesame e della Corte di Cassazione, che non c’erano gli estremi per il carcere preventivo - sottolinea Papa - non è di sollievo alcuno. Se sono ancora vivo, lo devo ai miei compagni detenuti”. L’esponente del Pdl, infine, annuncia di essere “in procinto di depositare una proposta di legge assai vigorosa che limita il ricorso a tale strumento cautelare soltanto ai reati di sangue e di grave allarme sociale. Si deve riaffermare nel nostro ordinamento una regola di civiltà: a processo si va senza manette ai polsi nè inutili umiliazioni, in condizioni di vera parità con l’accusa. È il dettato costituzionale a prescriverlo, e noi oggi siamo in aperta violazione della Costituzione”. Giustizia: Sbriglia; Emilia Romagna ricostruita dai carcerati? ottima idea, bisogna organizzarsi di Carlo Candiani Tempi, 6 giugno 2012 Il direttore del carcere di Trieste Enrico Sbriglia approva la proposta del ministro Severino: “È fattibile, un piccolo salario e uno sconto sulla pena per i detenuti. Basta fare selezione e non ci saranno problemi”. Come tutte le proposte fuori dal coro, quella del ministro della Giustizia Paola Severino di impiegare detenuti non socialmente pericolosi o in semilibertà per la ricostruzione degli edifici e delle fabbriche danneggiati dal terremoto in Emilia sta suscitando reazioni e polemiche. “Il tema del lavoro per i carcerati è fondamentale - commenta a tempi.it Enrico Sbriglia, attuale direttore del penitenziario di Trieste -. Attraverso il lavoro si offre al detenuto una maggiore dignità e qualunque iniziativa vada verso la promozione del lavoro per i carcerati è condivisibile”. Chi lavora nella giustizia e nelle carceri ha accolto bene la proposta. Ma la proposta può essere realizzata? Per portare i detenuti in aree con difficoltà oggettive, come le aree terremotate, c’è bisogno di un’organizzazione che non si può inventare dall’oggi al domani. Bisogna selezionare, verificare le oggettive abilità e soprattutto creare una logistica capace di utilizzare queste risorse. Non dobbiamo pensare a una sorta di lavoro forzato, saremmo fuori strada, ma sono convinto che il ministro Severino non intendesse questo. Quali potrebbero essere i problemi concreti? Portare detenuti nelle aree terremotate per ricostruire significa preoccuparsi dei luoghi dove dovranno pernottare, lavarsi e mangiare. Per non parlare delle cure mediche necessarie. Bisognerà garantire una sfera di diritti: assicurazione contro gli infortuni, un minimo di preparazione professionale, sicurezza sul posto di lavoro, cose che richiedono un minimo di tempistica organizzativa. E poi, ovviamente, ci vuole il personale che dovrà vigilare. Non ricadrà tutto sulle spalle del personale di sorveglianza? Bisogna superare la classica visione del sorvegliante e del sorvegliato. Qui non si parla solo di aiuto alle zone terremotate, questo sarebbe un modo di concepire lo strumento penitenziario in termini diversi. Tutte le pene finiscono e una volta esaurito il debito con la giustizia si torna da dove si è venuti: le persone tornano sul territorio e gli enti locali hanno bisogno di reintegrarli insieme alle associazioni dei volontari che operano già nelle carceri. Una proposta così non farebbe che anticipare la reintegrazione nella società. Non possiamo pensare che chi commette un reato debba sparire. I detenuti verrebbero pagati? È impossibile che il ministro voglia sfruttarli in nero. Vorrei precisare che chi ha un ruolo politico, anche se questo è un governo tecnico, ha l’onere di indicare dei percorsi, delle possibili finalità. La manodopera detenuta non è gratuita. È ragionevole immaginare che invece di un trattamento salariale pieno si pensi a forme di compensazione morale, come uno sconto della pena. Guardiamo la proposta dal lato del detenuto: se invece di rimanere in cella 24 ore su 24, potesse fare qualcosa di utile, guadagnando qualcosa in termini di denaro e di sconto della pena, accetterebbe di sicuro. I Comuni colpiti dal terremoto e la Lega sono scettici. Se neanche le catastrofi naturali sono capaci di toccare le corde della coscienza credo che siamo messi proprio male. Però è ovvio che un’operazione del genere debba prevedere una selezione dei detenuti. Nessuno metterebbe mai un piromane vicino ad un bosco. La proposta cadrà nel vuoto come spesso accade? Noi custodiamo persone, non oggetti. In carcere si entra più per fatti banali che per reati gravissimi. Chi è stato condannato per abuso edilizio o per un furtarello tornerà libero tra poco. Questa proposta camminerà con le sue gambe se troverà qualcuno, tra i responsabili istituzionali, disposto a mettersi in gioco per concretizzarla. Come direttore del carcere di Trieste so che alcuni detenuti lavorano per la Provincia, per il Comune e fanno attività di manutenzione degli edifici, dei parchi, dei giardini. E lo fanno da anni senza i titoloni sui giornali e senza che nessuno mai si sia lamentato. Giustizia: Lisiapp; nelle carceri continuano disagi per sovraffollamento e mancanza di personale Comunicato stampa, 6 giugno 2012 “Per comprendere appieno la situazione che sta vivendo il Corpo di polizia penitenziaria dobbiamo scorrere i dati sulla carenza di organico che è di circa settemila unità oltre quelle delle strutture penitenziarie prive di direttori/dirigenti penitenziari”. È quanto si apprende da una nota diffusa dal sindacato autonomo Lisiapp della Polizia penitenziaria al quale sottolinea che “nelle strutture detentive del paese ci sono 44mila posti letto e nelle celle sono invece stipate 67mila persone; che la Polizia penitenziaria ha seimila agenti in meno”. La reale portata delle deficienze organiche - afferma Luca Frongia segretario generale aggiunto Lisiapp - in seno al Corpo di Polizia Penitenziaria occorre ricordare che nel 2001, quando ne fu decretata la pianta organica, erano in servizio circa 42mila unità, con una popolazione detenuta attestata intorno alle 45mila presenze. Dieci anni dopo con una popolazione detenuta che ha sfondato quota 67mila, con molti istituti penitenziari nuovi e qualche decina di nuovi padiglioni attivati, la polizia penitenziaria conta 37.784 unità. In sintesi negli ultimi dieci anni la popolazione detenuta è aumentata del 51% mentre l’organico della polizia penitenziaria ha subito un decremento di circa il 9%. “Quelle delle carenze organiche costituisce una delle più gravi criticità, ed è evidente che questa situazione è di grave nocumento al raggiungimento degli obiettivi di rieducazione e risocializzazione che la Costituzione affida al sistema penitenziario e determina anche un grave vulnus alla sicurezza sociale. A scorrere bene i dati - prosegue Frongia - si appalesano forti vacanze organiche anche nei profili degli operatori demandati al trattamento intramoenia. All’appello, infatti, mancano 93 dirigenti, 318 contabili, 494 assistenti sociali e 325 educatori. Questi numeri sono parte integrante della deriva dell’universo penitenziario che, nello scorso anno ha visto 65 suicidi, 945 tentati suicidi, oltre 5000 atti di autolesionismo grave e circa 400 agenti penitenziari feriti per aggressioni subite da detenuti senza dimenticare gli otto suicidi di poliziotti che per la maggioranza archivia come stress personale”. Questi episodi, sappiamo bene che non possono essere liquidati semplicemente come gesti isolati e personali, ma bensì rientrano appieno nel fenomeno da stress e disagio sui luoghi di lavoro. Tutte queste situazioni - conclude il segretario generale aggiunto Lisiapp - e che non si può certo continuare ad aprire nuove strutture senza assumere viceversa bisogna garantire la funzionalità degli Istituti penitenziari garantendo anche Poliziotti penitenziari i propri diritti elementari che spesso è costretta a rinunciare, come risposi settimanali e ferie”. Giustizia: fango sugli innocenti… poi nessuno si scusa, e non solo per Rignano Flaminio di Valter Vecellio Notizie Radicali, 6 giugno 2012 Fa molto bene Pierluigi Battista che nella sua rubrica “Particelle elementari” sul “Corriere della Sera”, a sollevare la questione di Rignano Flaminio: maestre, bidelle, congiunti, per settimane, mesi, indicati come mostri e stupratori di bambini, e infine assolti perché “il fatto non sussiste”. Fa molto bene Battista a riprendere le parole di uno degli accusati ingiustamente, Gianfranco Scancarello: La mia vita, e quella di mia moglie, per non parlare di quella dei miei figli, è stata distrutta dall’oggi al domani…All’improvviso fummo portati in carcere, tenuti in isolamento, gli altri carcerati ci minacciarono di morte, a me dissero “tu da questa cella uscirai in orizzontale e con i piedi verso la porta”, mia moglie fu picchiata da altre carcerate, i secondini si “dimenticarono” per tre giorni di consegnare le pillole salvavita e mia moglie e persone che mi volevano bene mi consigliarono per un paio di giorni di non toccare cibo in cella, perché poteva essere avvelenato. La testimonianza di Scancarello, che Battista riprende dal lungo articolo che Claudio Cerasa ha scritto per il “Foglio”, prosegue drammatica: “Io, tutto sommato, in questi anni sono stato fortunato, perché ho continuato a lavorare qua e là, e sono riuscito a mettere da parte qualche soldino per pagare gli avvocati e tutte le spese processuali. Mia moglie però, così come le altre maestre, ha dovuto lasciare il suo lavoro, ha dovuto abbandonare la scuola in cui lavorava da trent’anni, ha dovuto allontanarsi dal suo paese, ha dovuto spiegare ai suoi figli che non era vero che eravamo due pedofili che terrorizzavano i bambini vestiti da diavolo o da conigli”; e con parole semplici, e per questo ancora più sferzanti, accusa chi, “anche tra le istituzioni ci condannò e gettò altro carbone nel rogo che ardeva sotto i nostri piedi, prima ancora che fossimo condannati…Un timbro di fuoco è stato stampato sulla mia fronte e su quella di mia moglie e so che nessun tribunale, e nessuna sentenza, e nessuna assoluzione, potrà mai cancellare del tutto: pedofilo, sì”. Di suo Battista aggiunge: “In Italia nessuno paga, o pagherà per questo che non è un banale errore giudiziario, ma un accanimento totalmente irrispettoso dei diritti e della dignità delle persone. Nessuno si interrogherà sulla pessima abitudine del sistema mediatico di amplificare a dismisura i teoremi accusatori e di concedere uno spazio minimo alle ragioni della difesa. La presunzione d’innocenza, tutelato dalla Costituzione, viene stracciata, ma i loquaci difensori dello spirito costituzionale diventano improvvisamente silenti. E nessuno chiederà ufficialmente scusa a Scancarello e a sua moglie”. Tutto giusto, e tutto sottoscrivibile; e conforta che vi sia chi, profittando di una tribuna come quella offerta dal “Corriere della Sera”; un paio di notazioni, però, e non marginali. La prima: perché parlare di “tutti” e di “nessuno”? Le eccezioni ci sono; i radicali saranno pure marginali come si tende a far credere e accreditare, ma questo è un buon motivo per annullarli e annullare quello che da sempre dicono, fanno, propongono? Forse - lo si dice a Battista, ma evidentemente non a lui solo - se le proposte e le iniziative radicali fossero state valorizzate, fosse stata garantita quella “visibilità” e quella conoscenza che invece pervicacemente viene negata, casi come quello di Scancarello e sua moglie non ci sarebbero; o comunque qualcuno sarebbe chiamato a pagare per quello che giustamente viene definito “non un banale errore giudiziario, ma un accanimento totalmente irrispettoso dei diritti e della dignità delle persone”. Battista poi stigmatizza “la pessima abitudine del sistema mediatico di amplificare a dismisura i teoremi accusatori”. Sacrosanto, non fosse che questa “pessima abitudine” è tra gli altri coltivata proprio dal “Corriere della Sera”. Siamo, insomma, all’asino che rimprovera al bue di ragliare. Uno scatto di resipiscenza? Auguriamocelo. Ci vorrebbero un Paolo Benvenuti e una Lucia Poli, per raccontare questa “Costanza da Libbiano” dei tempi nostri che è la vicenda dell’asilo di Rignano Flaminio. Non c’è neppure da faticare molto: è sufficiente prendere gli atti del processo; e, a corredo, un’antologia di articoli che alla vicenda sono stati dedicati. E sarebbe lettura insieme istruttiva e deprimente. Giustizia: Cassazione; anche l’ex evaso può andare ai domiciliari, non ci sono automatismi Tm News, 6 giugno 2012 Chi l’ha detto che il condannato per evasione non possa ottenere gli arresti domiciliari? Nell’ambito del riconoscimento dei benefici penitenziari non esistono rigidi automatismi e la valutazione va sempre effettuata caso per caso. Sbaglia dunque il presidente del Tribunale di sorveglianza che dichiara inammissibile la domanda di affidamento in prova al servizio sociale e di detenzione domiciliare sul mero rilievo che l’istante è detenuto anche per il reato ex articolo 385 cp è quanto emerge dalla sentenza 20559/12, pubblicata dalla prima sezione penale della Cassazione e riportata dal sito Cassazione.net. È escluso che nel nostro ordinamento penitenziario si configuri una prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione sociale rispetto a quelle di recupero dei condannati: risulta invece “costituzionalmente vincolante” il criterio di valutazione individualizzata, a seconda della singola fattispecie: diversamente l’opzione repressiva finirebbe per relegare nell’ombra il profilo rieducativo si instaurerebbe di conseguenza un automatismo “sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena”. Giustizia: indagato ex dirigente del Dap, mandava gli agenti a fare i camerieri per sua madre di Valentina Errante Il Messaggero, 6 giugno 2012 Stellette, decorazioni e una lunga e contestata permanenza all’interno dell’amministrazione penitenziaria. Adesso Enrico Ragosa, già numero uno del Servizio Operativo Mobile e del Gruppo Speciale Mobile dell’Esercito è indagato per peculato, truffa e abuso d’ufficio. Nulla a che vedere con gli abusi sui detenuti: avrebbe utilizzato gli agenti come camerieri pagati dallo Stato. L’epilogo della carriera di Ragosa, genovese, classe 1945, uomo d’ordine e disciplina, generale dell’esercito applicato al corpo di Polizia penitenziaria, collaboratore di Giovanni Falcone durante il primo maxi processo, ex ufficiale del Sismi e poi del Sisde, figura ombra in tante missioni delicate e infine direttore generale delle Risorse materiali del Dap, non è stato dei più gloriosi. La procura lo accusa di avere gestito i soldi del Dap come quelli del proprio conto corrente. Il generale avrebbe simulato trasferte, alle quali neppure prendeva parte, per inviare gli uomini della sua scorta, dipendenti dell’amministrazione, a badare ai suoi affari personali: mamma, moglie e barca. Qualcuno in ufficio, adesso, racconta anche altri episodi, rimasti però fuori dall’inchiesta giudiziaria. Il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il sostituto Corrado Fasanelli hanno chiesto e ottenuto il sequestro dell’auto, una Land Rover, e di un quinto dello stipendio del generale per congelare il patrimonio che il dirigente avrebbe sottratto all’amministrazione. A far compagnia Ragosa ci sono due agenti della penitenziaria, comandati nelle missioni inesistenti a Genova per gestire gli affari personali del capo. Agli uomini del Dap venivano affidati compiti di ogni genere: accompagnare l’anziana mamma di Ragosa, sbrigare faccende per la moglie o governare la barca, ormeggiata a due passi da Genova. Quella che la procura di Roma voleva sequestrare e invece non ha trovato. Alla fine dell’estate, quando ha appreso dell’indagine sul suo conto, il generale ha scelto di sparire dagli uffici che gestiva da più di dieci anni. Ha staccato i cellulari ed è andato in pensione anticipatamente, senza salutare nessuno. La data prevista era gennaio, ma le indagini della procura hanno accelerato i tempi. Qualche tempo dopo nei corridoi dell’ufficio ha cominciato a circolare la voce dell’inchiesta della procura e delle dimissioni indotte dai vertici della stessa amministrazione. Del resto, l’indagine dei pm romani nasce proprio da un’ispezione interna disposta dall’allora capo del Dap Franco Ionta, oggi in forze come procuratore aggiunto a Roma. Secondo il pm Corrado Fasanelli, che ha calcolato un danno di circa 92 mila euro alle casse dello Stato, la scorsa estate. Ragosa avrebbe dichiarato di dover andare in missione nella sua città natale per motivi d’ufficio e di avere bisogno della tutela di due uomini della penitenziaria. Di fatto, a Genova il generale non sarebbe mai andato mentre, nel capoluogo ligure, per occuparsi delle faccende personali di Ragosa, sarebbero sbarcati gli agenti, allettati dal pagamento della missione fuori sede da parte dell’amministrazione. Adesso anche loro sono nei guai. Quando il pm Fasanelli lo ha convocato per interrogarlo, il generale ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. Del resto la procura aveva già tutte le carte in mano. E qualche giorno fa ha congelato i beni del “capo”, un sequestro conservativo equivalente al denaro che Ragosa avrebbe sottratto. Piemonte: il Garante regionale delle carceri resta un fantasma… di Salvatore Grizzanti www.linkiesta.it, 6 giugno 2012 Fra il 2000 e il 2005, i consiglieri regionali radicali in Piemonte Carmelo Palma e Bruno Mellano effettuarono circa 100 visite ispettive nelle carceri piemontesi. Tali visite servirono a comprendere che i 13 istituti penitenziari della regione hanno caratteristiche e problemi uno diversi dall’altro; e che tali problemi non potevano essere sicuramente risolti con visite ispettive sporadiche e frammentarie (seppur sempre auspicabili, anche da parte dei consiglieri regionali attuali). Occorreva istituire una figura nuova, in grado di interagire con i vari soggetti (direttori carceri, agenti polizia penitenziaria, detenuti, educatori), in grado di ridurre il danno derivante sia dal sovraffollamento sia dal fatto incontestabile che il carcere svolge ormai le funzioni di discarica sociale, con tutte le violenze, frustrazioni, dolore che questo comporta. Tali riflessioni portarono alla presentazione, il 7 febbraio 2005, della prima proposta di legge per l’istituzione del garante regionale delle carceri. Da allora sono state ben 12 le regioni italiane (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta) ad aver approvato leggi istitutive del garante; nove regioni hanno nominato poi effettivamente un garante delle carceri; esistono poi anche sette garanti provinciali e 18 garanti comunali, fra cui quello del comune di Torino (per l’elenco completo vedi link in calce al presente testo). In Piemonte, la proposta radicale fu ripresa dai consiglieri Rocchino Muliere (Pd) e Mariangela Cotto (Forza Italia) e divenne legge regionale sul finire della passata legislatura (L.R. 28 del 2 dicembre 2009). Le motivazioni che sorreggono la legge non sono state intaccate dal tempo; anzi, risultano ancora più forti, vista la situazione esistente nelle carceri italiane e, in particolare, piemontesi: 5.200 detenuti stipati in 3.634 posti regolamentari; esistenza di strutture vetuste, con infiltrazioni d’acqua, docce non regolamentari, mancanza di possibilità di lavoro sia dentro il carcere sia per chi esce, inadeguata attuazione della normativa (Dpcm 1° aprile 2008) per il trasferimento alle Asl delle competenze in materia di sanità penitenziaria, scarsità di educatori (e quindi insufficiente istruzione delle pratiche per le misure alternative da sottoporre ai magistrati di sorveglianza). A proposito della magistratura di sorveglianza, è estremamente preziosa la testimonianza del Dr. Giovanni Tamburino, audito dalla Commissione Straordinaria Diritti Umani del Senato della Repubblica nella sua veste di Coordinatore nazionale dei Magistrati di Sorveglianza: i 168 magistrati di sorveglianza esistenti in Italia devono smaltire circa 300.000 pratiche di detenuti. E sono proprio i magistrati di “sorveglianza” che dovrebbero “sorvegliare” quello che accade nelle carceri, reprimendo abusi e violenze. Il Dr. Tamburino (che è stato poi nominato Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) sottolineava in audizione che proprio il sovraccarico di lavoro sulle spalle dei magistrati di sorveglianza era stata una delle cause della comparsa sulla scena dei garanti delle carceri. In Piemonte non è stato così; ad oltre due anni dall’approvazione della legge, né il Consiglio Regionale precedente né quello attuale hanno provveduto alla nomina del garante, come imponevano loro rispettivamente gli artt. 7 e 2 della L.R. 28/2009. Preso atto dell’inerzia del Consiglio Regionale, l’Associazione Radicale Adelaide Aglietta ha promosso un’iniziativa nonviolenta a partire dal 15 gennaio scorso: Igor Boni ed io (presidente e segretario) abbiamo digiunato per dieci giorni, ottenendo di essere ricevuti dal Presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo (che aveva comunque provveduto all’indizione del bando per il garante e all’acquisizione delle domande dei candidati), che ha calendarizzato nell’ordine del giorno del Consiglio la nomina del garante. Si è aggiunto inoltre un digiuno a staffetta e la raccolta di adesioni su un Appello per il garante, a prima firma Emma Bonino; lo hanno sottoscritto, fra gli altri: Luigi Manconi (Presidente di “A Buon Diritto”); Vladimiro Zagrebelsky (Direttore Ldf/Laboratorio Diritti Fondamentali); Marco Bonfiglioli (Dirigente Provveditorato Amministrazione Penitenziaria); Leopoldo Grosso (vice-presidente Gruppo Abele); Donata Canta (segretaria generale Camera del Lavoro di Torino); Valentino Castellani (già sindaco di Torino); Maria Pia Brunato (garante dei diritti dei detenuti comuni di Torino). Il Consiglio comunale di Torino ha approvato una mozione che chiede alla Regione la nomina del Garante. Ad oggi alcuni consiglieri regionali di Pdl e lega hanno proposto con il PDL 188 di abolire le figure dei garanti regionali “per risparmiare denaro pubblico” (mi verrebbe da dire un po’ demagogicamente: “si tagliassero lo stipendio!”): questo costituirebbe una marcia indietro, una regressione politica ma anche culturale grave e inspiegabile. Ritengo del tutto improprio il richiamo che i proponenti fanno ai “costi della politica”. Come radicali, siamo da sempre favorevoli a un oculato utilizzo del denaro pubblico; pertanto, siamo assolutamente favorevoli ad economie di scala (per esempio, l’utilizzo di strutture regionali già esistenti per le funzioni di segreteria e di archivio). Non si può e non si deve, invece, fare l’economia di un istituto, di una persona, che deve essere messa in grado di affrontare la mole di lavoro prima accennata con la dovuta tranquillità economica (stiamo parlando di uno stipendio di 3.000 euro mensili; nulla se confrontato alle mille nomine regionali). E a proposito di costi, quanto è il costo economico per i contribuenti piemontesi della situazione esistente nelle carceri della regione (tenendo presente che il costo di un detenuto è pari a 160 euro al giorno; il costo di un detenuto tossicodipendente in una comunità terapeutica non va oltre i 50 euro al giorno)? Trovo, poi, francamente inspiegabile la proposta di assegnare le funzioni del garante all’Osservatorio regionale sull’usura. Le funzioni e la stessa mission dell’Osservatorio sono del tutto altre rispetto alle funzioni e alla mission del garante. L’unico risultato che si otterrebbe sarebbe di snaturare l’Osservatorio, senza ottenere un garante all’altezza dei compiti affidatigli. Le stesse valutazioni possono essere fatte rispetto alla proposta di “aggregare” il garante agli uffici del Difensore Civico regionale. Ben venga, lo ripeto, l’utilizzo di strutture comuni, ma il Difensore Civico regionale è già oberato di una mole di ricorsi tale da impedirgli di dedicarsi seriamente alle problematiche carcerarie. Occorre, invece, una figura nuova, munita di adeguata professionalità ed esperienza, che si ponga al servizio dell’intera comunità penitenziaria (non solo dei detenuti, ma anche di tutto il personale che vive nel carcere), che sappia valorizzare le sinergie possibili, i finanziamenti possibili (vedi “Cassa delle Ammende”), le risorse celate e misconosciute dietro le sbarre. Ciò detto c’è un dato di fondo ovvero un Consiglio regionale che approva una legge e poi non la attua ed è questa la questione principale, che poi è la peste italiana: le istituzioni che non rispettano le leggi che esse stesse hanno approvato. Questa sera, mercoledì 6 giugno, dalle ore 17:30 alle ore 18:30, militanti di Radicali Italiani e dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta terranno un sit-in all’entrata del “Museo Carcere Le Nuove” (Torino, via Paolo Borsellino n. 3), in concomitanza con un seminario dell’Unicri sul sovraffollamento delle carceri (con interventi, fra gli altri, di Giovanni Tamburino, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, e di Pietro Buffa, direttore Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino). Marche: Segretario Sappe al 16/o giorno sciopero fame, chiede depenalizzazione e alternative Ansa, 6 giugno 2012 Depenalizzare alcuni reati, poi prevedere misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare e il bracciale elettronico per pene fino a due anni, e trattamenti terapeutici obbligatori per i tossicodipendenti. Sono queste le misure, volte alla decongestione delle carceri, proposte dal segretario del Sappe Marche Aldo Di Giacomo, oggi al suo sedicesimo giorno di sciopero della fame, attuato per sensibilizzare politici e istituzioni sulle problematiche del carcere di Montacuto e degli istituti di pena italiani in generale. Da domani Di Giacomo - che stamane ha tenuto una conferenza stampa ad Ancona, insieme con i consiglieri regionali Giancarlo D’Anna (Gruppo Misto) e Franca Romagnoli (Fli) - estenderà ad altre regioni la sua protesta, iniziando dalla Toscana, poi all’Abruzzo, al Molise, alla Sicilia e quindi Roma, dove proseguirà il suo sciopero al Parlamento. Il sindacalista ha detto d’essere dimagrito in questi giorni 7-8 kg., di avere la pressione bassa, azotemia e problemi ai reni: “ormai - ha tenuto a precisare - mi muovo con un’infermiera accanto”. “Dai politici - ha aggiunto - tante telefonate e tanti proclami, ma poi solo pochissima attenzione, e non si è mosso nessuno. Dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi, non ho avuto alcuna attenzione”. Milano: detenuto si uccise a San Vittore, medico e psicologa a processo per omicidio colposo Ansa, 6 giugno 2012 Luca C., nel 2009, si uccise a San Vittore. Per la corte d’assise non fu “abbandono d’incapace”, ma “omicidio colposo”. Il giovane “fu lasciato solo, senza adeguata osservazione”. Non si può parlare di un’ipotesi di abbandono di incapace, ma di omicidio colposo in merito alla vicenda del suicidio di Luca C. che, detenuto a San Vittore, il 12 agosto del 2009 si tolse la vita. A deciderlo sono stati i giudici della prima corte d’assise di Milano di fronte a cui il pubblico ministero di Milano Silvia Perrucci aveva portato a processo una psichiatra e una psicologa del carcere con l’ipotesi appunto di abbandono di incapace aggravato dalla morte. Nel corso dell’udienza di mercoledì si doveva decidere il calendario, ma la Corte, presieduta da Guido Piffer ha dato lettura di una sentenza di “incompetenza per materia”. In sostanza i giudici hanno “riqualificato” il fatto come omicidio colposo: un’ipotesi che non è di competenza della Corte d’assise ma di un giudice monocratico. Gli atti ritornano quindi al pubblico ministero, che dovrà riformulare l’imputazione. Luca C. entrò nel carcere di San Vittore il 30 luglio del 2009. Secondo quanto ricostruito dalle indagini il 28enne, con alcuni atti di autolesionismo alle spalle, non sarebbe stato sottoposto ad un’adeguata sorveglianza. Il 12 agosto dello stesso anno, detenuto in una cella a medio rischio, si impiccò. Di qui la contestazione del pm ad una psichiatra e una psicologa del carcere: la grave accusa di abbandono di incapace. Un reato volontario che la Corte oggi ha riqualificato a colposo, con gli atti che tornano al pm. “Auspichiamo che il processo si concluda in tempi rapidissimi. Sono anni che i familiari aspettano giustizia” ha affermato Andrea Del Corno, legale dei parenti del giovane. Milano: vigile urbano uccise 28enne cileno al Parco Lambro, accusato di omicidio volontario La Repubblica, 6 giugno 2012 L’agente Alessandro Amigoni lo scorso 13 febbraio ferì mortalmente Marcelo Valentino Gomez. Cortes durante un inseguimento al Parco Lambro. “Il colpo fu esploso da una distanza minima”. Alessandro Amigoni, l’agente di polizia locale che lo scorso 13 febbraio sparò durante un inseguimento e uccise un cileno di 28 anni, dovrà affrontare un processo con l’accusa di omicidio volontario. Il gip milanese Maria Vicidomini ha disposto il giudizio immediato, accogliendo la richiesta del pm Roberto Pellicano. Il processo davanti alla Corte d’assise di Milano è stato fissato per il prossimo 9 ottobre, ma Amigoni, attraverso il suo avvocato Giampiero Biancolella, sceglierà probabilmente di essere giudicato con il rito abbreviato che prevede lo sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Nei prossimi giorn la difesa dovrebbe avanzare l’istanza di abbreviato, dunque, e a quel punto il processo sarà fissato per un’altra data e davanti a un gup. La difesa del vigile ha sempre sostenuto che l’agente quel pomeriggio, in zona Parco Lambro, ha sparato da una distanza compresa fra i 15 e i 20 metri, solo a scopo intimidatorio e non con l’arma rivolta verso la vittima, Marcelo Valentino Gomez Cortes. La perizia disposta dal pm, invece, ha accertato che il vigile avrebbe esploso il colpo da una distanza che va da un minimo “di 50 centimetri” a un massimo “di due metri e 80 centimetri”, mentre il giovane correva. Il proiettile, secondo le indagini, ha raggiunto l’uomo (i familiari sono assistiti come parti civili dall’avvocato Corrado Limentani) alla schiena, uscendo poi dal cuore Sulmona (Aq): morto per “shock cardio-neurologico” detenuto 41enne trovato senza vita in cella Il Centro, 6 giugno 2012 È morto per cause naturali Nicola Grieco di Paduli (Benevento), il detenuto 41enne trovato morto nella sua cella di via Lamaccio nei giorni scorsi. L’autopsia eseguita dall’anatomopatologo Luigi Miccolis ha legato le cause della morte ad uno shock cardio-neurologico e ha accertato la mancanza di lesioni. L’esame era stato disposto dalla Procura sulmonese, che ha aperto un’inchiesta per fare chiarezza sull’ennesima morte all’interno del supercarcere sulmonese. Ad accorgersi del decesso era stato u agente penitenziario al momento della conta dei detenuti, con Grieco - in carcere da circa un anno per reati contro il patrimonio - che non aveva risposto all’appello e che era stato trovato senza vita sul suo letto. Napoli: Sappe; incidente durante trasporto detenuti, feriti 2 agenti Adnkronos, 6 giugno 2012 Incidente stradale questa mattina sulla tangenziale di Napoli, coinvolti due furgoni della polizia Penitenziaria di Benevento mentre trasportavano al Palazzo di Giustizia del capoluogo partenopeo undici detenuti, illesi nell’impatto mentre due agenti sono rimasti feriti. Lo segnala il sindacato di categoria Sappe, in una nota. “Dobbiamo ringraziare Dio - scrive il segretario del sindacato, Donato Capece - se l’incidente non si è trasformato in una tragedia. Ai due colleghi dei baschi azzurri del Nucleo traduzioni del carcere di Benevento che sono rimasti feriti voglio esprimere la nostra vicinanza e l’augurio di una pronta guarigione. Ma è evidente - sottolinea Capece - che questo grave episodio deve fare seriamente riflettere sui gravi rischi che le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria quotidianamente affrontano nel trasportare i detenuti”. I mezzi di trasporto dei detenuti, scrive ancora Capece, sono “spessissimo inidonei a circolare per le strade del paese e con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi. Uno dei mezzi di Benevento coinvolto ha circa 500.000 km all’attivo e nonostante tutto è ancora in uso”. Napoli: troppi detenuti, Poggioreale in tilt; entro il mese ministro Severino in visita di Giuseppe Grimaldi Il Mattino, 6 giugno 2012 Poggioreale, ultima chiamata. In quell’inferno in terra che sono gli istituti penitenziari italiani, sovraffollati, spesso fatiscenti e - comunque - inadeguati a garantire i minimi standard di trattamento limano a chi vi è rinchiuso, c’è un’emergenza assoluta e infinita che porta direttamente a Napoli. Poggioreale, appunto. A ribadire l’allarme è stato il garante regionale dei detenuti, Adriana Tocco. La sua ultima relazione è un lunghissimo cahiér de doleance, ma anche un promemoria per il ministro della Giustizia Paola Severino, che sin dal primo giorno del suo insediamento a via Arenula ha espresso con chiarezza una delle linee ispiratrici del proprio dicastero: restituire dignità a quei gironi infernali che sono diventate ormai le carceri. Paola Severino ha da tempo programmato una visita nel capoluogo campano. E nella sua agenda, al primo posto, c’è la visita al carcere che detiene molti dei record negativi a livello nazionale. Il Guardasigilli potrebbe essere in città prima di luglio. E questa è la situazione di fronte alla quale si verrà a trovare. Poggioreale ormai sta esplodendo. Vi sono reclusi ben 2.600 detenuti, a fronte dei 1.300 previsti dalla pianta organica. Siamo dunque vicini al livello massimo di sopportabilità, e tutto questo a ridosso dell’estate, stagione che coincide con i massimi disagi che una tale situazione di convivenza coatta inevitabilmente comporta. Ma a parlare di questi 2.600 detenuti (la cui stragrande maggioranza è composta da detenuti “non definitivi”, stabilizzati cioè in regime di custodia cautelare preventiva o, comunque, senza ancora alcuna condanna passata in giudicato) senza far riferimento allo “status” quotidiano con il quale devono confrontarsi è dir poco. Celle superaffollate: in alcuni padiglioni si vive anche in otto, dieci persone, con letti a castello che hanno ormai raggiunto il livello del soffitto; con un unico bagno, e con tutte le conseguenze che si posso immaginare. E questo - va sottolineato - accade nonostante la direzione e il personale tutto della polizia penitenziaria si faccia in quattro per rendere meno gravose tali condizioni. Ma con i numeri non si scherza. Soprattutto se i numeri sono quelli appena aggiornati dal garante dei detenuti. Diciassette sono - complessivamente - gli istituti di pena nella nostra regione. Il calcolo della capienza complessiva di queste 17 carceri prevede una capienza di 5.793 posti. I detenuti attualmente ed effettivamente reclusi in Campania sono molti di più: 7.983, 990 dei quali è rappresentato da donne: nelle sezioni femminili resta drammatico il problema dell’assisten2za educativa ai bimbi che (per legge fino a 6 anni) vivono in compagnia della detenuta; mentre gli stranieri - pure in costante, progressivo aumento, ammontano a 341. L’eccedenza complessiva, come denunciata dallo stesso garante, è di 2.190 unità. Un capitolo a parte merita poi l’argomento dei detenuti campani che sono reclusi in strutture che si trovano fuori regione. Sono quasi 5.000 e vivono - escludendo naturalmente i casi più gravi, come quelli dei camorristi che scontano il regime del carcere duro (il cosiddetto 41 bis lontano dalle famiglie e, spesso, anche in condizioni di indigenza, “nonostante - spiega ancora il garante - la legge prevedano la maggiorali -za dei casi il principio della territorialità della pena”. Altra emergenza, quella dei minori. Gli istituti loro dedicati in Campania, quelli di Nisida e di Airola, ospitano attualmente quasi 100 giovanissimi. E solo in piccola parte ottengono misure alternative per il reinserimento. Milano: la scorsa notte incendio a San Vittore, causato da esplosione deposito bombolette bas Ansa, 6 giugno 2012 Un incendio è divampato la scorsa notte in alcuni locali del carcere milanese di San Vittore, senza provocare danni né al personale della struttura, né ai detenuti. Le fiamme hanno coinvolto un locale nel quale erano custodite numerose bombolette, che sono esplose, usate dai detenuti per preparare pasti nelle loro celle. Spento l’incendio, è ora in corso una verifica dei danni alle strutture carcerarie. Secondo quanto si è successivamente appreso, in conseguenza dell’incendio sono rimaste intossicati alcuni agenti di polizia penitenziari e un vigile del fuoco. Le loro condizioni non destano preoccupazione. Le sezioni di detenzione di San Vittore non sono state interessate dall’incendio, che è stato spento dai vigili del fuoco. Sono ora in corso indagini per risalire alla causa che ha dato origine alle fiamme. Papa (Pdl): incendio san vittore cronaca morti annunciate “L’incendio scoppiato in una cella del carcere di San Vittore conferma le condizioni di vita inumane cui sono costretti oltre 68mila detenuti - afferma il deputato del Pdl Alfonso Papa - I detenuti vivono assiepati in celle asfissianti così come assiepati sono i generi di sopravvivenza quali carta e fornelletti a gas. Cose che peraltro vengono acquistate a caro prezzo dai detenuti per garantirsi quel minimo di dignità altrimenti negata da mense in condizioni igieniche pietose e da una amministrazione che non fornisce di nulla il detenuto”. “Si vadano solo a vedere - conclude l’onorevole Papa - le condizioni dei materassi e lo stato in cui versano le suppellettili interne alle celle. Vicende come quella di San Vittore sono semplici cronache di morti annunciate”. Sappe: ministro disponga ispezione per accertare eventuali responsabilità e inadempienze “L’incendio di martedì notte nel carcere di Milano San Vittore è stato un drammatico evento che poteva avere ben più gravi conseguenza. Per fortuna, e grazie alla professionalità, al sangue freddo ed al senso del dovere delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere milanese (ma anche di quelli presenti nella Caserma interna che sono subito accorsi ad aiutare i colleghi) le conseguenze pur significative sono state contenute. Va quindi a tutto il Reparto di Polizia Penitenziaria di Milano S. Vittore il nostro plauso ed il nostro più vivo apprezzamento per come è stato gestito l’evento critico. Ma la cosa grave è che tutti o quasi sapevano i pericoli di quella struttura prefabbricata dalla quale sono sprigionate le fiamme: una struttura adiacente la Sesta sezione detentiva, un locale nel quale erano custodite bombolette di gas, carta e altro materiale altamente infiammabile. Perché si è permesso che quel luogo diventasse una zona altamente pericolosa, a stretto contatto con una sezione dove lavorano poliziotti e vivono molti detenuti? Perché si è permesso che si accumulasse lì dentro tanto materiale pericolosissimo? Forse è più opportuno parlare di una tragedia evitata, grazie al prezioso e fondamentale contributo dei poliziotti penitenziari milanesi. E per questo chiediamo alla Ministro della Giustizia Paola Severino una immediata ispezione a Milano che accerti eventuali responsabilità e inadempienze”. Questa la dura presa di posizione di Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), circa l’incendio sprigionato nella serata di martedì nel carcere di Milano S. Vittore. “Il grave episodio di Milano conferma quel che diciamo da tempo, e cioè che nell’Amministrazione Penitenziaria manca una cultura della prevenzione e della salubrità dei luoghi di lavoro nei quali sono impiegati gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria nonostante esistano precise disposizioni di legge. Esistono ad esempio nuclei centrali e territoriali di vigilanza, Visag, che non vigilano se poi accadono fatti del genere. La sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro nelle carceri è un optional: esistono (ma non dappertutto!) le figure professionali previste dalla specifica normativa ma poi non le si mettono in condizione di operare perché mancano la formazione e l’aggiornamento professionale. In più occasioni, da ultimo il 20 marzo scorso, abbiamo chiesto con una nota ufficiale all’Amministrazione Penitenziaria di disporre un monitoraggio a livello nazionale finalizzato ad accertare se i rappresentanti della sicurezza presenti negli istituti penitenziari fossero effettivamente in possesso dei requisiti per l’esercizio del mandato perché è obbligo del datore di lavoro la formazione dei lavoratori, dei loro rappresentanti e dei responsabili ed addetti al servizio di prevenzione e protezione nonché degli incaricati delle attività di prevenzione ed incendi. La risposta è stata una annunciata sensibilizzazione dei provveditori regionali, che a loro volta forse hanno sensibilizzato i direttori delle carceri, ma corsi di formazione non se ne sono visti! La realtà è che l’Amministrazione Penitenziaria continua a vivere in una dimensione virtuale rispetto alle reali criticità delle carceri e invece di promuoverne la salubrità pensa a introdurre la vigilanza dinamica dei poliziotti (ossia un agente in più posti di servizio) e patti di responsabilità con i detenuti, a tutto discapito della sicurezza dei nostri penitenziari, di chi ci lavora e di chi ci vive.” Catanzaro: l’8 giugno le Camere Penali espongono lo striscione “Fate presto” Comunicato stampa, 6 giugno 2012 Dopo Napoli, S.M. Capua Vetere, Nola, L’Aquila, Palermo e Bari, l’8 giugno, a cura della Camera Penale di Catanzaro e della locale Delegazione de “Il Carcere Possibile Onlus”, l’appello al Ministro e al Parlamento partirà anche da Catanzaro. Continua l’impegno delle Camere Penali Italiane e de “Il Carcere Possibile Onlus” per sollecitare misure urgenti e indifferibili per la drammatica situazione delle carceri, dove si continua a morire senza che vengano adottati concreti provvedimenti. Al 4 giugno sono 73 i decessi, tra questi 24 suicidi. Un morto ogni due giorni da diversi anni. Lo stato di emergenza proclamato dal Consiglio dei Ministri all’inizio del 2010 è stato prorogato, il Capo dello Stato chiede che venga affrontata con “prepotente urgenza” il problema, il Ministro della Giustizia definisce “tortura” l’attuale stato detentivo, ma nulla si muove. Le strade più volte indicate dall’Avvocatura per eliminare il sovraffollamento sono ignorate. “Fate presto” come il titolo de il quotidiano “Il Mattino” all’indomani del terremoto in Irpinia. Occorre intervenire subito perché la Giustizia in Italia è “terremotata”, ma, se la vita ha ancora valore, eliminare le ragioni del sovraffollamento è un dovere primario. A Catanzaro, l’8 giugno alle ore 15.30, presso la Sala Convegni del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, sarà collocato lo striscione “Fate presto”, con l’indicazione del numero dei decessi dal 2010 ad oggi. Nell’occasione prevista la proiezione di due video-inchieste girate in alcuni Istituti di Pena e l’intervento dell’Avv. Gregorio Viscomi - Vice Presidente della Camera Penale di Catanzaro e componente l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane - e dell’Avv. Riccardo Polidoro - Presidente de “Il Carcere Possibile Onlus”, Camera Penale di Napoli. Ravenna: una sala colloqui più accogliente, abbellita con pannelli artistici e mobili colorati www.ravenna24ore.it, 6 giugno 2012 È stata inaugurata nei giorni scorsi, presso la Casa Circondariale di Ravenna, nell’ambito delle iniziative riguardanti “trattamento penitenziario e genitorialità”, la nuova sala colloqui, evento frutto della collaborazione con il Liceo Artistico “P.L. Nervi” di Ravenna e l’Ikea di Rimini. All’evento hanno partecipato il Prefetto di Ravenna Dott. Bruno Corda, il Sindaco Fabrizio Matteucci, il Preside Marcello Landi del Liceo Artistico “P.L. Nervi” lo stormanager Domenico Simone e il referente attività ambientali e sociali Simone Berlini del negozio Ikea di Rmini Ikea, la preside Patrizia Ravagli del Liceo classico Dante Alighieri, alcuni insegnanti e studenti del Liceo artistico i Ravenna, le volontarie del “Comitato pro detenuti e famiglie”. Il progetto, denominato “Una finestra sul mondo”, è stato realizzato allo scopo di rendere più accogliente e a dimensione di bambino la sala destinata ai colloqui tra i ristretti e i familiari, compresi i figli minori, con la finalità di consentire loro di incontrarsi in un ambiente il più possibile protetto ed “umanizzato”. “Cercare di rendere meno triste l’impatto dei minori con la realtà carceraria costituisce, infatti, un’esigenza primaria di questa Direzione insieme all’impegno costante nel favorire e tutelare in vario modo la tenuta della relazione padre-figlio - spiega la direttrice del carcere Carmela Di Lorenzo. Offrire ai detenuti e ai loro bambini la possibilità di incontrarsi in un ambiente confortevole e variopinto, abbellito dai pannelli artistici realizzati dagli studenti del liceo Nervi con la tecnica “tromp l’oeil”, arredato con tavolini e sedie colorate donate dall’Ikea di Rimini insieme a tanti giochi, colori e libri di fiabe, è di certo il modo più concreto ed immediato per realizzare tale obiettivo. Questa direzione non è nuova alla realizzazione di eventi che hanno come protagonisti i bambini, in nome dell’implicito riconoscimento del loro diritto all’infanzia, caratterizzato anche dall’opportunità di godere di momenti lieti e festosi insieme ai propri genitori, piccoli attimi che valgano ad accorciare le distanze nonché ad alleviare almeno in parte le sofferenze per un rapporto affettivo fondamentale vissuto, loro malgrado e senza colpa, soltanto a metà”. Piacenza: Sappe; agenti fanno sciopero della mensa contro sovraffollamento e carenza personale Ansa, 6 giugno 2012 “Sciopero della mensa” degli agenti di Polizia Penitenziaria di Piacenza. Lo riferisce un comunicato di Giovanni Battista Durante, Segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. “È sempre più difficile - spiega il sindacalista - la situazione nel carcere di Piacenza, a causa dei problemi legati al sovraffollamento e alla carenza di personale. Tale difficile situazione ha indotto tutto il personale di polizia penitenziaria, a partire da oggi, ad astenersi dal consumare il pasto nella locale mensa. Oggi, infatti, nessuno degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria in servizio si è recato in mensa. Tale protesta proseguirà anche nei prossimi giorni”. “A testimonianza della difficile situazione esistente nel carcere di Piacenza - sottolinea Durante - il grave episodio che si è verificato due giorni fa, quando un detenuto del circuito alta sicurezza, dopo aver urinato all’interno di una bottiglia, ha versato il contenuto addosso ad un agente della polizia penitenziaria. Tutto ciò è davvero intollerabile. È opportuno che con le prossime assegnazioni di personale che avverranno a luglio il Dipartimento invii a Piacenza almeno dieci agenti di polizia penitenziaria, per rinforzare l’organico”. Immigrazione: “La vita che non Cie”, tre cortometraggi a cura di Fortress Europe Famiglia Cristiana, 6 giugno 2012 Tre cortometraggi a cura di Fortress Europe raccontano le difficili condizioni dei clandestini detenuti nei Centri di identificazione ed espulsione, diretti da Alexandra D’Onofrio. Un bambino di cinque anni che si ostina a chiedere alla mamma dov’è finito papà e perché non torna più a casa. La rabbia di un ragazzo che vuole essere accanto alla donna che ama quando lo renderà padre. E il limbo di un uomo che da ex prigioniero si prende cura degli amici ancora dietro le sbarre, contando i giorni che mancano alla loro uscita. Sono le storie di Kabbour, Nizar e Abderrahim, protagonisti dei tre documentari “La vita che non Cie” prodotti da Fortress Europe e diretti da Alexandra D’Onofrio. Sono le vite che stanno dietro alle statistiche della macchina delle espulsioni dei “clandestini”: per i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) transitano ogni anno 11.000 persone delle quali circa 4.500 vengono poi effettivamente rimpatriate con la forza. Luoghi di detenzione, con sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati giorno e notte da militari e agenti, dove si finisce perché privi del permesso di soggiorno. Lì si vive sospesi: nel 2011 la detenzione è stata prolungata da un massimo di sei a diciotto mesi. Il 60% dei detenuti non viene identificato né rimpatriato, ma rilasciato ugualmente senza documenti dopo diciotto mesi. Con un anno e mezzo di vita in meno. Nei tre corti, i numeri tornano ad essere uomini e donne in carne e ossa. Con una storia che va oltre il Cie, che ha un prima e un dopo, un dentro e un fuori la gabbia. Una storia che soprattutto annulla la distanza apparentemente incolmabile tra un “noi” e un “loro” con cui spesso si parla dei “clandestini”. Dipinti come diversi - addirittura “criminali” da quando, nel 2009, la mancanza di documenti è diventato un reato -, si tratta invece di persone “normali”. Come noi, ad esempio, vivono passioni ed amano. Così, in “L’amore ai tempi della Frontiera”, si scopre come dietro alla ribellione di Chinisia, a Trapani, ci fosse una storia d’amore: Nizar, giunto in Italia dopo le rivolte in Tunisia e rinchiuso in un Cie, aveva organizzato la protesta dei compagni di detenzione per scappare ed essere in sala parto accanto alla giovane olandese Winny al momento della nascita del loro figlio. Si erano conosciuti in Grecia, dove lui lavorava come animatore e lei era in vacanza, e poi, per non separarsi, avevano vissuto insieme in Tunisia; allo scoppio della rivolta contro Ben Ali, lei, incinta, era rientrata in Europa in aereo: l’Italia era diventata il punto in cui rincontrarsi e Nizar aveva attraversato il Mediterraneo con un barcone. In “La fortuna mi salverà”, Abderrahim, badante in nero truffato dal datore di lavoro all’epoca della sanatoria del 2009, spiega come la clandestinità sia “una fregatura della vita”. Basta poco per diventare irregolare. Soprattutto in tempi di crisi economica: se perdi il lavoro e in sei mesi non trovi un contratto regolare, per la legge italiana sei “clandestino”. Abderrahim è stato cinque mesi e due giorni al Cie di Torino, una gabbia circondata da condomini. Centinaia di torinesi ogni mattina si affacciano dai loro balconi e maledicono il giorno in cui la prigione ha rovinato la reputazione del quartiere. Abderrahim invece sui balconi ci sale per salutare dall’alto gli ex compagni di cella. E per loro cerca di fare il possibile: li intervista dai microfoni di una radio locale, porta del cibo e dei vestiti, comunica con i detenuti lanciando nella gabbia messaggi nascosti in palline da tennis. I racconti dì chi esce dal Cie parlano di soprusi, bagni otturati e luoghi fetidi. Non mancano i suicidi. L’ultimo l’8 marzo a Roma: Abdou Said, 25 anni, si è ammazzato dopo essere uscito dal Cie di Ponte Galeria, dove è stato per più di sei mesi. I suoi compagni di detenzione hanno avviato uno sciopero della fame poiché sostengono che Said sia stato percosso dagli agenti, costretto ad assumere psicofarmaci e per questo diventato “pazzo”. “Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”, “trattamenti degradanti e disumani”, si legge nel “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti” approvato a marzo dalla Commissione Diritti Umani del Senato. Il suo Presidente, il senatore Marcenaro, ha definito i Cie “una violazione della legalità”, luoghi in cui “le persone vengono private delle libertà personali, dove ragazzini spauriti vivono fianco a fianco con delinquenti incalliti, dove i migranti vengono tenuti in gabbie come animali, dove il tempo di totale inattività viene riempito solo dalla totale insicurezza”. Sempre più spesso, poi, tra i detenuti vi sono padri e madri con bambini nati in Italia. È il caso di Kabbour, il protagonista di “Papà non torna più”, la storia più assurda dei tre corti di Alexandra D’Alfonso. Nel 1995, quando Kabbour ha 11 anni, con la madre e le sorelle raggiunge il padre in Abruzzo; è qui che studia, lavora, si sposa con una ragazza polacca, Bogusha, e ha un bambino. Ed è qui che vive fino a quando i carabinieri vanno a prenderlo a casa per espellerlo dall’Italia. Nel 2010, infatti, la prefettura di L’Aquila gli aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno per “pericolosità sociale”, poiché nel 2006 era stato condannato per violazione del diritto d’autore (vendeva cd masterizzati) e, dieci anni prima, aveva rubato una tuta in un negozio di Avezzano. Dopo alcuni mesi al Cie di Modena, un anno fa, Kabbour è stato rimpatriato in Marocco con in tasca un foglio di carta che in nome della legge italiana gli vieta di vivere con la sua famiglia. E come spiegare a Tareq, 5 anni, che non può vivere con suo padre? Così Bogusha decide di portarlo a Casablanca, per farli almeno stare un po’ insieme. Kabbour li porta in giro nel suo quartiere, dove ha passato l’infanzia, ma dove ora, dopo 16 anni, si sente straniero. Tareq, che scoppia in lacrime prima di prendere l’aereo di ritorno, davanti alle telecamere, alla domanda come mai sia dovuto venire così lontano per vedere il papà, spiega giustamente: “Non lo so”. Queste sono le domande che rimangono senza risposta nella Fortezza Europa, di cui i Cie sono uno dei luoghi più emblematici. E le storie raccontate da “La vita che non Cie” sono quelle che stanno facendo la storia, “la storia - ricorda Gabriele del Grande, il fondatore di Fortress Europe - che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d’Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere”. Israele: “Affamati di giustizia”, rapporto di Amnesty sulla detenzione amministrativa www.agoravox.it, 6 giugno 2012 In un nuovo rapporto su Israele, Amnesty International ha chiesto che tutti i palestinesi sottoposti a detenzione amministrativa siano rilasciati oppure incriminati e sottoposti a un processo equo e tempestivo. Il rapporto, intitolato “Affamati di giustizia: palestinesi detenuti senza processo da Israele”, documenta le violazioni dei diritti umani collegate alla detenzione amministrativa, un’eredità delle leggi britanniche che permette la detenzione senza accusa né processo sulla base di ordinanze militari rinnovabili a tempo indeterminato. L’organizzazione per i diritti umani ha chiesto alle autorità israeliane di cessare di ricorrere alla detenzione amministrativa per reprimere legittime e pacifiche azioni degli attivisti dei Territori palestinesi occupati e di rilasciare tutti i prigionieri di coscienza, detenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e di associazione. I palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa, così come molti altri prigionieri palestinesi, vengono sottoposti a maltrattamenti e torture nel corso degli interrogatori e a trattamenti crudeli e degradanti durante il periodo di carcere, talvolta a mo’ di punizione per aver intrapreso scioperi della fame o altre proteste. Inoltre, i palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa e le loro famiglie sono costretti a vivere nell’incertezza di non conoscere per quanto tempo resteranno privati della libertà e nell’ingiustizia di non sapere esattamente perché sono detenuti. Come altri prigionieri palestinesi, vanno incontro a divieti di visite familiari, trasferimenti forzati, espulsioni e periodi d’isolamento. Queste pratiche violano gli obblighi di Israele rispetto al diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Israele ha infatti il dovere di rispettare gli standard sul giusto processo e sui procedimenti equi e di prendere misure efficaci per porre fine ai maltrattamenti e alle torture sui detenuti. Israele deve inoltre consentire le visite familiari a tutti i prigionieri e detenuti palestinesi, e porre fine ai trasferimenti forzati e alle espulsioni. Israele, infine, è obbligato a indagare sulle violazioni dei diritti umani, sottoporre a processo i responsabili e fornire riparazione alle vittime. “Da decenni sollecitiamo Israele a porre fine alla detenzione amministrativa e a rilasciare i detenuti, oppure sottoporli a un processo rispettoso degli standard internazionali per un reato internazionalmente riconosciuto” - ha dichiarato Ann Harrison, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Alla fine di aprile, erano in detenzione amministrativa almeno 308 palestinesi, tra cui 24 parlamentari del Consiglio legislativo palestinese e il presidente di questo organismo, Aziz Dweik. Tra gli altri detenuti, figurano difensori dei diritti umani come Walid Hanatsheh, almeno quattro giornalisti, studenti e impiegati universitari. Negli ultimi mesi, il prolungato sciopero della fame di alcuni palestinesi in detenzione amministrativa, come Khader Adnan e Hana Shalabi, ha proposto questo tema all’attenzione internazionale. A partire dal 17 aprile, lo sciopero della fame ha coinvolto circa 2000 detenuti palestinesi, molti dei quali stavano scontando condanne o erano in attesa del processo. Il rapporto di Amnesty International documenta una serie di misure adottate dalla direzione delle carceri (Israel Prison Service - Ips) nei confronti dei prigionieri in sciopero della fame, alcuni dei quali hanno denunciato di aver subito maltrattamenti da parte del personale medico dell’Ips. Dopo un accordo promosso dall’Egitto, il 14 maggio lo sciopero della fame di massa è stato sospeso. Mahmoud al-Sarsak, un calciatore palestinese di Gaza, ha però deciso di continuarlo e ha superato i 70 giorni senza assunzione di cibo. Al-Sarsak protesta contro i quasi tre anni di detenzione senza accusa né processo. Ricoverato in un centro medico dell’Ips che non può fornire le cure specializzate necessarie a pazienti in condizioni critiche come le sue, si trova in grave pericolo di vita. In base all’accordo del 14 maggio, Israele ha accettato, tra l’altro, di porre fine all’isolamento di 19 prigionieri, che in alcuni casi si protraeva da 10 anni, e di rimuovere il divieto di visite familiari ai detenuti originari della Striscia di Gaza. “Nonostante molti resoconti di stampa abbiano fatto intendere che Israele avrebbe accettato di rilasciare i palestinesi in detenzione amministrativa alla fine del periodo di detenzione in corso, salvo ricevere nuove, significative, informazioni, ci risulta che per quanto riguarda la detenzione senza accusa né processo le cose vadano avanti come sempre” - ha aggiunto Harrison. “Riteniamo che da quando è stato raggiunto l’accordo, siano state rinnovate almeno 30 ordinanze di detenzione amministrativa e ne siano state emanate tre nuove. Le visite ai prigionieri originari della Striscia di Gaza non sono ancora iniziate”. “Le autorità israeliane hanno il dovere di proteggere ogni persona, in Israele e nei Territori palestinesi occupati, dalle minacce alla loro vita e alla loro integrità fisica. Ma devono farlo in una maniera tale da rispettare i diritti umani” - ha sottolineato Harrison. “Israele usa da decenni la detenzione amministrativa, che dovrebbe essere un provvedimento eccezionale contro persone che pongono un rischio estremo e imminente per la sicurezza, per aggirare i diritti umani dei detenuti. È un relitto della storia che dovrebbe essere consegnato al passato” - ha concluso Harrison. Amnesty International svolge campagne contro la detenzione amministrativa in tutto il mondo. Negli ultimi anni, l’organizzazione per i diritti umani ha denunciato questo istituto e ne ha chiesto la fine in paesi tra cui Sri Lanka, Egitto, Cina e India (con riferimento allo stato di Jammu e Kashmir). Il rapporto “Affamati di giustizia: palestinesi detenuti senza processo da Israele” si basa su informazioni e resoconti forniti ad Amnesty International da ex detenuti e dai loro familiari e avvocati, attraverso interviste telefoniche e sul campo, così come da organizzazioni israeliane e palestinesi per i diritti umani e scambi di corrispondenza con le autorità israeliane. Questo rapporto non riguarda le violazioni dei diritti dei detenuti da parte dell’Autorità palestinese o dell’amministrazione de facto di Hamas a Gaza. Queste violazioni sono state e saranno oggetto di separate campagne di Amnesty International. Georgia: il Paese con più carcerati in Europa, quasi cinque volte oltre la media di Tengiz Ablotia www.balcanicaucaso.org, 6 giugno 2012 È il Paese con il più alto tasso di carcerati in Europa, quasi cinque volte più della media europea. E le organizzazioni per i diritti umani denunciano violazioni sistematiche dei diritti dei detenuti. Ma il governo georgiano replica che proprio grazie al fatto che la popolazione carceraria è più che triplicata dal 2004 a oggi, il Paese è più sicuro. Lo stato del sistema carcerario georgiano è da tempo oggetto di numerosi report delle organizzazioni per i diritti umani, sia locali che internazionali, che non lesinano critiche. I primi anni di indipendenza. Dopo il crollo dell’Unione sovietica, per la Georgia iniziò un lungo periodo caratterizzato da instabilità politica, guerra civile e aumento della criminalità. A metà degli anni novanta, delinquenti e criminali prima in carcere andarono ad ingrossare le fila delle milizie semi-ufficiali, ove si dedicavano al saccheggio senza alcun rischio di cattura. In carcere finivano solo i piccoli criminali, senza soldi né qualcuno di importante disposto ad intercedere per loro. È chiaro che in quel periodo le carceri non presentavano particolari problemi di sovraffollamento. Alla fine degli anni novanta, le milizie armate furono sciolte e per 2-3 anni nel Paese vi fu nel complesso una situazione di ordine. A quel tempo il numero dei detenuti raggiunse i livelli del periodo sovietico, circa 10.000 persone. E qui cominciarono i problemi. A causa del cronico deficit di bilancio, lo Stato non riusciva a mantenere decentemente i detenuti, pagare gli stipendi alle guardie carcerarie, l’energia elettrica e così via. A causa della corruzione, nelle prigioni spadroneggiavano i boss del crimine, mentre le direzioni delle carceri difficilmente interferivano. Le torture divennero la norma: per estorcere confessioni, gli arrestati erano picchiati e torturati con l’elettricità, l’acqua ed altri metodi. In quegli anni, la corruzione è diventata onnipresente in Georgia, a partire dallo stesso sistema carcerario. Ad inizio degli anni 2000, la popolazione carceraria scese ulteriormente, avvicinandosi alle 7.000 unità, nonostante la piccola criminalità e quella organizzata avessero raggiunto livelli da capogiro. Questo perché la polizia non registrava i reati, ma dava agli arrestati 2-3 giorni di tempo per trovare i soldi per corromperli. Se i soldi si trovavano li liberavano, altrimenti registravano il reato e trasmettevano la pratica al tribunale. L’era Saakashvili Dopo il cambio di regime nel 2004, la situazione è cambiata drasticamente. La corruzione nelle forze dell’ordine è stata ridotta al minimo. Ad oggi, chi viene arrestato non ha alcuna possibilità di pagare una tangente per essere rilasciato senza conseguenze. Esiste la possibilità di uscire su cauzione, ma di solito è riservata a chi ha compiuto reati minori e non costituisce una minaccia per la società. Naturalmente, anche oggi, per uno stesso reato c’è chi è a piede libero e chi è in carcere, ma si tratta di un numero limitato di persone che non incide sulla situazione complessiva. Il risultato è che il numero di detenuti è aumentato significativamente. Secondo i dati del Servizio nazionale di statistica “Gruzstat”, a fine marzo 2012 si contavano 23.?969 detenuti e 39.708 condannati per reati minori con pena sospesa con la condizionale. Si tratta di uno dei tassi di condannati più alti al mondo: 545 su 100.000 abitanti, contro una media UE di 120. Con un tale aumento dei carcerati, il sistema penitenziario si scontra però con grandi difficoltà: ad ospitarli non bastano nemmeno le nuove carceri costruite sotto il governo di Saakashvili. Secondo il difensore civico della Georgia Georgi Tugushi, presto tutte le carceri si troveranno in condizioni di sovraffollamento, anche a causa del rigido codice penale vigente nel Paese. Secondo il suo rapporto, nel corso dell’ultimo anno sono morti in carcere 142 detenuti, il 56% in più rispetto al 2009, soprattutto a causa di inadeguate cure mediche. La principale causa di morte nei detenuti è infatti la tubercolosi, a seguito di cure inadeguate o tardive. “Posso affermare con certezza che i problemi sanitari nel sistema penitenziario potrebbero essere evitati o significativamente ridotti. Nonostante i nostri ripetuti appelli, il Ministero si è preoccupato di nascondere i problemi anziché di risolverli”, ha dichiarato Tugushi. In ogni caso, gli attivisti per i diritti umani e il difensore civico concordano sul fatto che il ministro della Giustizia Khatun Kalmakhelidze non riesce a controllare completamente il proprio sistema e che sia proprio la mancanza di controlli adeguati una delle cause del perdurare dell’attuale situazione. La politica La situazione del sistema carcerario in Georgia è indissolubilmente legata alla politica ed è tema di costanti controversie fra governo e opposizione. L’opposizione porta l’alto numero di detenuti a prova del fatto che si stia costruendo uno stato di polizia e che in prigione finiscano per lo più persone innocenti o colpevoli di reati minori per i quali si potrebbe anche non andare in carcere. A queste accuse il governo risponde che 23.000 detenuti non sono molti per un Paese in cui intere generazioni sono cresciute in mezzo alla criminalità e hanno avuto dei ladri come modelli di riferimento. Inoltre, l’alto numero di detenuti avrebbe contribuito a rendere la Georgia uno dei Paesi più sicuri al mondo. “Scegliete quello che preferite: pochi detenuti e molta criminalità per le strade o molti detenuti e poca criminalità. Non c’è una terza via”, dicono i rappresentanti delle autorità. Nonostante ciò, non solo nel mondo politico, ma nemmeno nella società, si trova una risposta univoca al perché il numero di detenuti in Georgia sia quasi cinque volte maggiore della media europea. Egitto: Mubarak in condizioni “critiche”, possibile trasferimento in ospedale Adnkronos, 6 giugno 2012 Le condizioni di salute dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak sono peggiorate notevolmente nelle ultime ore e sono “critiche”, tanto che a breve potrebbe essere trasferito dall’ospedale del carcere di Tora, dove si trova attualmente, a un ospedale militare. Lo riferiscono i media egiziani, spiegando che la decisione finale sul trasferimento spetta al procuratore generale. Sabato scorso l’ex rais è stato condannato all’ergastolo per corruzione e per aver ordinato di sparare contro i manifestanti a gennaio 2011. Dopo la sentenza, prima di essere condotto a Tora, ha avuto un problema cardiaco e, una volta entrato in carcere, ha rifiutato cibo e cure. Secondo il quotidiano al-Ahram, Mubarak è stato sottoposto a respirazione artificiale per cinque volte nelle ultime ore. Nel carcere di Tora è arrivato un team di cardiologi che gli ha diagnosticato un crollo nervoso, grave depressione, probelmi di respirazione e pressione molto alta. Secondo la radio di stato, il figlio Gamal, anche lui detenuto a Tora, è stato trasferito nell’ospedale del carcere, dietro raccomandazione dei medici, che ritengono che la salute dell’ex rais possa beneficiare della vicinanza dei suoi cari. Lo stesso provvedimento potrebbe essere preso a breve per l’altro figlio, Alaa. Iran: appello a comunità internazionale; avvocato Sakineh in gravi condizioni per torture subite Adnkronos, 6 giugno 2012 Javid Hutan Kian, l’avvocato di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana che rischia la lapidazione per adulterio, ha lanciato, dopo 20 mesi di carcere, un nuovo appello agli iraniani e alla comunità internazionale chiedendo aiuto perché si trova in gravi condizioni di salute nel carcere di Tabriz. Lo riferisce il sito d’opposizione Iran Press News, spiegando che dal carcere Kian ha detto che le sue condizioni di salute sono peggiorate per le torture subite, sottolineando il fatto che, da mesi, è stato trasferito nella cosiddetta sezione “metadone”, dove sono detenuti tossicodipendenti e malati di Aids. A febbraio Kian è stato condannato in appello dal Tribunale di Tabriz a 6 anni di reclusione perché riconosciuto colpevole di “aver attentato alla sicurezza nazionale facendo propaganda contro la repubblica islamica e per aver infangato la reputazione del paese rilasciando interviste critiche nei confronti delle autorità iraniane ai media stranieri sul caso Sakineh”. Il legale di Sakineh era stato arrestato dagli agenti dell’intelligence nell’ottobre del 2010 a Tabriz. Nel marzo 2011, Kian dal carcere era riuscito a far pervenire una lettera nella quale denunciava torture e chiedeva l’intervento della comunità internazionale. Il legale di Sakineh, prima del suo arresto, si era battuto in prima persona per la sua assistita, rilasciando diverse dichiarazioni ai media stranieri e chiedendo l’intervento del Vaticano. Comportamenti, questi, che hanno suscitato il duro intervento delle autorità giudiziarie iraniane. Kian al momento è recluso nel carcere di Tabriz e non ha diritto ad alcuna visita. L’avvocato iraniano aveva rilasciato nel 2010, prima del suo arresto, diverse interviste esclusive ad Aki sul caso Sakineh. Il legale di Kian, Taqi Mahmoudi, a sua volta ha confermato che il difensore di Sakineh si trova in pessime condizioni di salute a causa delle dure torture subite in carcere.