Giustizia: terremoto; “detenuti al lavoro per la ricostruzione”, polemica sul piano Severino di Liana Milella La Repubblica, 5 giugno 2012 Non è solo “una mia piccola idea”, come modestamente la chiama il Guardasigilli Paola Severino, è già un progetto concreto su cui è al lavoro il vertice delle carceri italiane. Che potrebbe impegnare, come conferma il direttore del Dap Giovanni Tamburino, tra i cento e i duecento detenuti. Dell’Emilia-Romagna, ma non solo. Potrebbe diventare operativo in sette - dieci giorni. A Bologna nel penitenziario della Dozza, dove il ministro della Giustizia fa tappa nella sua visita alle carceri colpite dal terremoto, racconta come “la popolazione carceraria potrebbe diventare protagonista di un’esemplare ripresa”. Condannati in via definitiva, “già in semi libertà e non pericolosi” precisa subito, verrebbero utilizzati per contribuire alla ricostruzione post-sisma. Com’è successo a Roma, seppellita lo scorso inverno dalla neve, dove sei detenuti, abbigliati in arancione, furono ripresi da Repubblica Tv mentre pulivano la scalinata del Campidoglio. Dice Severino: “Ho sempre pensato che il lavoro carcerario sia una risorsa per chi sta in cella, un vero modo per portare queste persone a risocializzare e a reinserirsi nella società”. Il terremoto, per il ministro, può essere “l’occasione giusta”. Quasi a prevenire le obiezioni di chi è contrario, Severino fa l’esempio del carcere di Bologna dove verrebbero ovviamente esclusi i 101 reclusi che oggi si trovano in massima sicurezza in quanto pericolosi, mentre verrebbero considerati come candidati al lavoro esterno i 246 tossicodipendenti e gli extracomunitari. Il Guardasigilli racconta che giusto durante la sua visita lungo le celle, dove ha trovato persone “serene e motivate”, uno ha lanciato la proposta “di essere mandato a lavorare nella ricostruzione”. Idea che aveva avuto, scrivendole una lettera, anche un gruppo di carcerati di Civitavecchia. Inevitabile una voce contraria, quella del leghista Roberto Calderoli, che agitalo spauracchio di “far uscire persone pericolose” e propone invece di “far tornare dalle varie missioni all’estero le migliaia di nostri soldati”. In compenso si registrano opinioni a favore come quelle dei finiani Fabio Granata e Giuseppe Consolo. Ma soprattutto c’è l’adesione piena del direttore delle carceri Tamburino e dei magistrati di sorveglianza, che saranno i primi “controllori” di chi esce. Dice Tamburino”: “Il mio giudizio è pienamente positivo. È realistico pensare a piccoli gruppi di lavoro”. Partirà immediatamente il monitoraggio su chi può uscire, sulla provenienza, su come saranno controllati i singoli gruppi, su quanti agenti saranno necessari. Aggiunge Tamburino: “I presupposti giuridici ci sono: le regole della semilibertà e quelle che disciplinano il lavoro esterno”. Delegati i magistrati di sorveglianza a sobbarcarsi onere di “scegliere” chi può uscire e chi no. Dice il presidente della sezione dell’Emilia-Romagna Francesco Maisto: “Con la direttrice di Modena Rosalba Casella ci stavamo già muovendo in questa direzione e ci ha fermato solo l’ultima scossa. Bisogna però rassicurare l’opinione pubblica, i detenuti usciranno a squadre, dove l’uno controlla l’altro”. Tutti insistono, nessuno sarà “pericoloso”. Severino, del resto, ha voluto sfidare l’umore anti-detenuto che pur si respira, soprattutto mentre si continuano a verificare episodi di sciacallaggio nelle case abbandonate. Lei invece annuncia di aver dato disposizione di “lasciare le celle aperte”. E spiega: “Una cosa è reggere all’emozione di una scossa, un’altra è quella di un continuo scuotimento che tutte le notti accompagna chi è dentro”. Ancora: “Non possiamo aggiungere anche l’angoscia della claustrofobia”. Quindi detenuti liberi di muoversi all’interno dei penitenziari nelle zone del terremoto. Non solo: via anche i reclusi in manifesto eccesso, 350 tra gli ospiti della Dozza e della casa di Modena saranno trasferiti altrove. Allo stesso modo sarà potenziato l’organico degli agenti di custodia “in modo da dare turni di riposo più rasserenanti che consentano di stare vicino alle famiglie”. Chiosa Severino: “È quello che si può fare dal punto di vista umano di fronte a un fenomeno sovrumano”. Giustizia: dopo il terremoto “ricostruzione esemplare”… col lavoro dei detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 giugno 2012 Una “piccola idea” scaturita dall’incontro della ministra con i carcerati bolognesi ma che cozza con i tagli del governo agli enti locali e alla legge Smuraglia. E se le porte delle carceri dell’Emilia Romagna si aprissero alla società esterna e i detenuti “non pericolosi” potessero diventare “protagonisti”, attraverso il proprio lavoro, al fianco dei cittadini liberi, “di un’esemplare ripresa” del territorio terremotato? La “piccola idea”, come lei stessa l’ha definita, balzata alla mente della Guardasigilli Paola Severino ieri a conclusione della visita negli istituti penitenziari di Dozza, a Bologna, e di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, è di quelle che si fanno presto largo nei buoni sentimenti. E nei titoli dei giornali. Ma cozza terribilmente con la politica dei tagli di cui il governo Monti è maestro. In particolare con quelli che hanno notevolmente ridotto il già difficile accesso al lavoro dei carcerati (fondi per le mercedi e legge Smuraglia). Ma il ministro ieri ha anche predisposto il trasferimento di 350 - 400 detenuti dalle carceri delle zone terremotate in altri istituti fuori regione e l’apertura dei blindi delle celle 24 ore su 24 per “evitare di aggiungere angoscia su angoscia” in questi giorni di terrore. E al contempo ha annunciato il rafforzamento dell’organico di polizia penitenziaria emiliano attraverso il trasferimento di alcuni agenti da altre sedi. Le strutture penitenziarie, secondo la ricognizione del ministero, non hanno subito grossi danni dalle scosse e solo una parte dell’edificio di Castelfranco Emilia ha bisogno di qualche lavoro di restauro. “Ho sempre pensato - ha detto ieri Severino, appena uscita da Dozza - che il lavoro carcerario sia una risorsa per il detenuto, un vero modo per portarlo alla risocializzazione e al reinserimento nella società”. Così, “in momenti come questo del terremoto che impongono interventi tempestivi e immediati”, ragiona la Guardasigilli, si potrebbe agevolare chi, tra i detenuti “non pericolosi” che abbiano i requisiti di pena adatti per accedere al regime di semilibertà, volesse prestare la propria opera per la ricostruzione post sisma. Sarebbe un’occasione di reinserimento “doppiamente utile”, continua il ministro, perché il detenuto “si sentirebbe utile alla società” e contemporaneamente s’insegnerebbe “alla cittadinanza a considerare il carcerato un soggetto che può essere ancora utile, non un peso”. Severino, raccogliendo una volontà espressa dagli stessi detenuti del carcere bolognese, ipotizza che a Dozza, per esempio, si potrebbe “lavorare su due fasce” di reclusi: “Ci sono 246 tossicodipendenti, ambito in cui si possono distinguere casi di persone non pericolose, ma anche un 57% di detenuti extracomunitari tra cui alcuni che hanno una grande voglia di ricominciare”. Qualche precedente non manca: secondo la testimonianza di un agente di polizia penitenziaria raccolta dall’Ansa, nel 1980, durante il terremoto in Irpinia, quando crollarono alcune strutture penitenziarie, i carcerati “si misero a rimuovere le macerie insieme a noi”. E perfino nelle cucine delle tendopoli dell’Aquila quattro detenuti di Rebibbia prestarono la loro opera in solidarietà con i terremotati. Ma in questi casi si tratta, appunto, di lavoro volontario e gratuito. Che non può, ovviamente, diventare lavoro regolare, strutturato, ma non retribuito. Aspettando la conclusione dell’iter parlamentare del ddl sul lavoro socialmente utile, nel frattempo tra pochi giorni, il 20 giugno, sarà siglata un’intesa tra l’Anci, il ministero di via Arenula e il Dap per consentire ai detenuti di accedere a lavori esterni utili a quei comuni che ne fanno richiesta accollandosi il costo delle retribuzioni. Qualcosa di simile a quanto accaduto a Roma, dove dall’aprile scorso una ventina di carcerati sono al lavoro per ripulire i parchi e le aree archeologiche con un progetto finanziato però dalla cassa ammende e dalla sovrintendenza della capitale. Più difficile, invece, è pensare di coinvolgere i detenuti nella ricostruzione delle aree terremotate. Agli imprenditori locali riuniti a Parma per l’assise annuale, Severino ha parlato della seconda parte del suo pacchetto, quello che riguarda il tema caldo e caro alle imprese della giustizia civile. Ma non deve aver spinto troppo sulla “piccola idea” di assumere detenuti per far ripartire l’Emilia. Solo la Coldiretti, infatti, ha espresso parole di apprezzamento per la suggestione del ministro, ipotizzando mano d’opera carceraria nei “campi dove manca l’acqua per irrigare, nelle case rurali, nelle stalle, nei fienili e nei capannoni danneggiati”. Forse potrebbe essere utile, per far diventare la “piccola idea” una grande idea, ripristinare il fondo per le mercedi (gli stipendi) dei carcerati che lavorano per l’amministrazione penitenziaria (passato da 71,5 milioni del 2006, quando la popolazione reclusa si aggirava sulle 60 mila unità, ai 50 milioni del 2011 per 68 mila carcerati), e il fondo, bloccato dal 2000, della legge Smuraglia sugli sgravi fiscali per le aziende che assumono detenuti. Giustizia: l’dea della Severino “usiamo i detenuti per la ricostruzione”… ma è impossibile di Emiliano Liuzzi Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2012 L’ultima proposta impossibile per aiutare l’Emilia è arrivata dal ministro della giustizia, Paola Severino, in visita al carcere di Bologna: “Occupiamo i detenuti nella ricostruzione, potrebbero essere almeno 350”. Detta così sembra la trama delle “Ali della libertà”, memorabile film con Morgan Freeman e Tim Robbins. Non c’è nessuna legge in Italia che preveda, in caso di emergenza nazionale, di concedere la semilibertà ai detenuti per il lavoro fuori dalla prigione. Se qualcuno può decidere, è il Tribunale di sorveglianza, caso per caso. Poi ci deve essere una cooperativa sociale che si possa far carico del lavoro dei detenuti, infine un accordo con gli enti locali. Insomma, una proposta che oggi porta l’attenzione altrove visto che, neanche la Regione, neanche il pragmatico Vasco Errani, ha parlato di ricostruzione. È presto, serviranno almeno cento giorni prima di poter iniziare a progettare qualcosa. Questa fase si chiama emergenza. L’altra sera c’è stata l’ennesima scossa che ha fatto tremare mezza Italia e finito di demolire gli edifici danneggiati tra Finale Emilia, Mirandola e Novi di Modena. E ieri lo sciame sismico ha proseguito per tutta la giornata, con avvisi più o meno prepotenti. Gli esperti, i sismologi, sono giorni che si affannano a dare una definizione a un terremoto quanto meno anomalo. Terremoto che, secondo le ultime stime ufficiose (l’ufficialità, su questo punto, lo ha detto anche il numero uno della protezione civile, Franco Gabrielli, non ci potrà mai essere) ha portato a 50mila le persone senza casa, evacuate, alcune censite nei campi, altre fuggite lontano nella seconda casa o da parenti e amici. “L’idea di impiegare i detenuti”, ha spiegato il ministro al Fatto Quotidiano, “mi è venuta mentre visitavo la Dozza. Uno di loro si è avvicinato e mi ha chiesto come potesse essere utile, mi ha chiesto di poter andare a lavorare tra le macerie. Io ho lanciato un’idea, ma la mia idea lì nasce e si ferma, in questo il ministro non ha competenze, servono i giudici, i direttori delle carceri, le coop sociali, gli accordi con gli enti locali”. Gli emiliani, zigomo forte e scarpe grosse, sanno che toccherà a loro infilare le mani nelle macerie. L’attenzione e la gara di solidarietà necessariamente è destinata a esaurirsi. Poi sarà un fatto tra loro e quello che il terremoto ha lasciato. Poco o niente, perché insieme alle case se ne sono andati il polo biomedicale più importante del mondo, i caseifici, le aziende che producono l’aceto balsamico. Se ne sono andati anni d’investimento e il futuro, che oggi più di ieri nessuno sa quale sia. Con gli sfollati che iniziano a trascorrere le giornate aiutati dalla chimica, ansiolitici e sonniferi, soprattutto, vedono un complotto a ogni scossa: “Non ce la raccontano giusta. Non ci dicono la verità. Questa terra finirà per inghiottirci tutti. Le scosse sono più violente di quanto ci raccontano”. Vivono in un perenne stato ansioso, come dicono gli psicologi che in questi giorni fanno il giro dei campi d’accoglienza e sono costretti a prescrivere ricette. Hanno paura, complice le sfilate in tv di esperti e presunti tali, che il peggio debba ancora arrivare. Non hanno più la percezione del tempo: “Vivono rinchiusi nelle tende”, racconta un volontario della protezione civile, un ragazzo di Ascoli che nel suo girare tra le macerie dei terremoti ha visto anche L’Aquila, “escono solo per il pranzo, poi si chiudono dentro: hanno una reazione diversa da quella che ebbero in Abruzzo”. Giustizia: il terremoto in Emilia e l’ultimo spot della Severino di Riccardo Arena www.ilpost.it, 5 giugno 2012 “Vorrei lanciare un’idea: quella di rendere utile la popolazione carceraria per i lavori di ripresa del territorio”. È l’ultimo spot del Ministro della giustizia Paola Severino. Uno spot, di cui non si sentiva la mancanza, diffuso durante una visita fatta in alcune carceri emiliane. Pura propaganda. Annunci che hanno un unico scopo: finire sui giornali. Spot che non meriterebbero neanche di essere commentati. Spot a cui, purtroppo, si è abituati. E infatti, è lo stesso Ministro Severino che ha definito la detenzione una tortura, per poi non fare nulla per interrompere tale tortura. È sempre la Severino che ha definito ogni suicidio in carcere una sconfitta per lo Stato, per poi dimenticarsi che è lei responsabile per l’amministrazione delle carceri e di ciò che avviene lì dentro. Ed è sempre il Ministro della giustizia che ha ribattezzato il decreto svuota carceri con il termine (ancora più bugiardo) di decreto “Salva carceri”. Decreto che non ha svuotato nulla e non ha salvato nulla. Spot. Ora ci risiamo. La smania di apparire, di dire comunque qualcosa, prevale sul laborioso silenzio. Più sensato sarebbe stato infatti non dire nulla. Convocare la protezione civile. Chiedere di quale tipo di mano d’opera avesse bisogno e verificare se ci fossero detenuti idonei nelle carceri emiliane. A quel punto, ove possibile, affermare: “30 detenuti, tra manovali, agricoltori e idraulici, stanno lavorando all’esterno”. Questo è un metodo di lavoro concreto. L’opposto di uno spot. E infine, un’osservazione. Mentre la giustizia è inesistente e milioni di cittadini non riescono a ricevere un’adeguata risposta nei tribunali. Mentre le carceri sono una vergogna, e migliaia di detenuti subiscono un trattamento disumano e degradante. Mentre aumentano i detenuti che muoiono per una pena, il Guardasigilli non ha di meglio da fare che esibirsi nella sua ultima idea: far lavorare i detenuti per la ricostruzione. Bè, sapete che faccio? Cambio canale. Come quando in Tv c’è la pubblicità. P.S. Le dieci carceri dell’Emilia Romagna potrebbero contenere solo 2.450 detenuti. Oggi ce ne sono ammassati più di 3.930. 1.600 sono in attesa di giudizio. Alcune di queste dieci galere non reggerebbero a una quarta scossa. Giustizia: qui servono ingegneri, non manovali… lo scetticismo di sindaci e sfollati di Luigi Spezia La Repubblica, 5 giugno 2012 La più scettica, con un pizzico di ironia, è l’assessore al Welfare del Comune di Mirandola, una che dalla prima scossa non è mai stata ferma. “I detenuti a lavorare nella ricostruzione? Ma in carcere ci sono ingegneri? Ci sono così tanti geometri? Non lo sapevo. Mah, forse il ministro non si rende conto che qui non abbiamo bisogno di manovalanza generica. Qui c’è bisogno di personale qualificato, magari il personale delle stesse fabbriche distrutte che ora sono senza lavoro, perché questo è un distretto produttivo ad alta tecnologia. Qui non ci sono campi da arare”. Il sindaco Maino Benatti, un altro che da quindici giorni non sta fermo, ha la risposta pronta: “Sì, ho sentito di questa cosa. Mi sembra che il ministro l’abbia lanciata in una maniera un po’ estemporanea. Non è che sono contrario per principio, per carità, ma sarebbe il caso di capirla meglio, questa idea, magari sarebbe il caso di discuterne”. Se gli amministratori nicchiano, tra la gente le reazioni sono più nette, ma prevale il no secco al ministro. A Novi, dove dopo il nuovo scuotimento di domenica sera è crollato l’unico monumento che gli abitanti avevano preso per simbolo, la torre settecentesca dell’orologio, al bar del centro sportivo trasformato in campo comunale di accoglienza, Gabriele il custode guarda un po’ smarrito, poi sorride di sì: “Ma guardi, l’importante è che sappiano il mestiere. Voglio dire, basta che non ci sia un elettricista che fa il muratore o un muratore che si mette a riparare i fili”. Simonetta è una sfollata e non ha dubbi: “No, i detenuti non servono, se uno si guarda in giro qua dentro vede tanti giovani delle associazioni del paese che lavorano dal primo giorno”. Maurizio Nigrelli è il più anziano del gruppo: “Ma non sarebbe meglio usare i cassintegrati, non sanno i ministri che qui ora ce ne sono tanti? E l’Esercito? Perché non mandano piuttosto l’Esercito?”. Qualche reparto c’è a lavorare nell’emergenza... “Sì? Io non mai visto una divisa, a parte quelle delle forze dell’ordine”. Il più polemico è un altro sfollato, Fernando: “Ma c’è bisogno di andare a chiamare dei detenuti? Ci sono tanti spacciatori anche qui in paese, allora basta prendere quelli, che in carcere non ci vanno mai e sono già qui”. Il sindaco di Novi Luisa Turci è più possibilista del suo collega di Mirandola: “Bè, non ho ancora avuto tempo per rifletterci, qui ci sono tante di quelle cose da fare. Però si potrebbe ragionare su come impostare un progetto. Potrebbe essere una doppia opportunità, per noi che comunque abbiamo bisogno e per loro, i detenuti, che secondo l’ordinamento devono essere rieducati e ritrovare una dignità”. Giustizia: Pagano (Dap); così i detenuti comincerebbero a restituire qualcosa alla società di Paolo Colonnello La Stampa, 5 giugno 2012 Detenuti per aiutare la ricostruzione dell’Emilia? Credo che i primi ad esserne orgogliosi sarebbero proprio i detenuti. È una buona proposta quella del ministro Severino, anche se prima bisogna sedersi e discuterne per trovare forma e modi. Ma si potrebbe fare”. Se lo dice Luigi Pagano, vice capo dell’amministrazione penitenziaria, Curriculum lunghissimo come direttore nelle carceri lombarde (San Vittore, Bollate, dipartimento regionale), bisogna credergli. Non c’è pericolo di fuga? “Rispondo con un dato statistico: la percentuale di detenuti occupati fuori dal carcere che non fa rientro in cella è inferiore all’uno per cento. Ma non è una questione di percentuali. Il lavoro per un detenuto è l’elemento fondamentale. No, credo che non fuggirebbe nessuno. Anzi, essere impiegati nei lavori di ricostruzione e in aiuto alla popolazione colpita dal sisma, avrebbe un valore simbolico altissimo”. In che senso? “Ricostruzione concreta della società e delle sue strutture è ricostruzione di se stessi: è soprattutto di questo che si ha bisogno”. C’è mai stato in Italia un esperimento del genere? “Penso all’esperienza milanese, dove abbiamo creato la “giornata della restituzione”: i detenuti uscivano e andavano a ripulire il fossato del castello, o a spalare la neve. Un giorno di restituzione alla società di ciò che come individui avevano tolto con la loro devianza. Mai scappato nessuno, è sempre stato un successo”. Un impegno anche per gli agenti. “Certo, ma non ci sarebbe un impiego massiccio come si potrebbe immaginare, basterebbero controlli random. Che i detenuti possano uscire dalle celle è il nostro sogno, fuori dal carcere evitano l’ozio, il tedio di giornate che non portano mai nulla di buono. Ed è ovviamente un modo per reinserirsi nella società. Inoltre, al di là di ogni regolamento, nelle prigioni la parola d’onore ha ancora un senso e vale molto”. Chi potrebbe essere impiegato in lavori del genere? “Non bisogna dimenticarsi che nelle carceri funzionano sistemi di monitoraggio per selezionare gli individui meno pericolosi e più pronti al reinserimento. Inoltre tutti quelli con pene inferiori ai due anni o quelli cui manca poco per uscire: insomma quelli che non avrebbero alcun interesse a scappare o a sottrarsi all’ impegno”. Forza lavoro gratis? “Non è detto. Normalmente i detenuti che lavorano fuori dal carcere vengono assunti o ricevono una forma di compenso, magari anche solo a giornata. Non sarebbe giusto fare altrimenti”. Un nuovo patto tra detenuti e società in nome della solidarietà verso i terremotati? “Sì. E si tratta di un patto che sono convinto verrebbe rispettato da tutti. Bisognerebbe solo sedersi attorno a un tavolo, magari quello del Consiglio dei Ministri e studiare la formula migliore”. Giustizia: Anastasia; si potrebbe ridurre la pena a chi lavora gratis, come in Grecia Il Messaggero, 5 giugno 2012 Stefano Anastasia insegna Filosofia e Sociologia del Diritto all’Università di Perugia. È stato tra l’altro presidente di Antigone, associazione che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Professore, che ne pensa della proposta del ministro Severino di impiegare i detenuti per aiutare la ricostruzione dell’Emilia terremotata? Non è pericoloso? “Ci sono già, tra i detenuti, persone che hanno un lavoro fuori del carcere. Che entrano e escono dall’Istituto penitenziario senza che questo abbia mai causato problemi”. Quante sono queste persone? “Non sono poche. E sono persone considerate affidabili, sia dalla magistratura che dalla stessa struttura penitenziaria, tanto che viene concesso loro di uscire dal carcere e di rientrarvi al termine del permesso. Ci sono poi molti altri detenuti che non hanno un’attività lavorativa all’esterno e quindi non accedono alle misure alternative. Io credo che se ci fosse un’offerta di lavoro (che deve peraltro venire accettata, perché nessuno può obbligarli a svolgere un’attività lavorativa) loro si presterebbero molto volentieri”. Le risulta che ci sia mai stata una proposta di lavoro, come questa della Severino, che coinvolga un numero potenzialmente così alto di detenuti? “No. Finora ci sono state esperienze di lavoro di detenuti in lavori di pubblica utilità, come le pulizie nei parchi e negli ambienti urbani. Ma si tratta di numeri non significativi”. Non ci sono rischi, secondo lei, che il detenuto si possa dare alla fuga? “No, se si sceglie di rivolgere l’offerta a detenuti che hanno già goduto di permessi premio e che hanno un percorso per cui sia l’amministrazione penitenziaria che il tribunale di sorveglianza li hanno già ritenuti meritevoli di uscire dal carcere. Si tratta solo di individuare i soggetti adatti. E poi, certo, ci vorrebbe un minimo di valutazione positiva del loro operato. Se ci fosse l’impegno del governo a retribuire le loro giornate lavorative sarebbe già qualcosa”. E se non ci fosse la retribuzione? “Potrebbe essere consentito di avere un vantaggio nella valutazione del loro percorso di trattamento. Magari la giornata lavorativa non viene retribuita ma il detenuto sa che, se si impegna, qualche sua istanza potrebbe venire presa in considerazione. Inoltre, la possibilità di fare una cosa diversa dall’ozio quotidiano in carcere e di sentirsi utili per qualcuno è, per i detenuti, molto importante. E si potrebbe sempre fare come in Grecia”. Come si fa in Grecia? “I detenuti che svolgono attività lavorativa non vengono pagati ma ogni giorno di lavoro viene loro scontato”. Un giorno di pena in meno? “Esatto. Ci vorrebbe un passaggio legislativo, ma la soluzione greca potrebbe essere praticabile anche da noi”. Giustizia: detenuti al lavoro per ricostruzione post terremoto, i commenti dei politici Agenparl, 5 giugno 2012 Favi (Pd): proposta Severino diventi misura strutturale Dichiarazione di Sandro Favi, responsabile Carceri del Partito Democratico: “Il ministro Severino coglie nel dramma del terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna la straordinaria occasione di riproporre con il lavoro e l’impegno volontario dei detenuti il tema di quelle misure alternative alla detenzione che possono concretamente promuovere il reinserimento di chi ha sbagliato nel tessuto civile e sociale delle nostre comunità. Il Pd ritiene che questa però non possa essere una mera testimonianza di una volontà politica se poi non è capace di tradursi un una legislazione strutturale che riveda i troppi limiti e vincoli che hanno finora impedito l’effettivo rilancio delle misure alternative alla detenzione. Auspichiamo che il ministro Severino abbia anche la determinazione di proporre idonei interventi nel pacchetto legislativo in discussione alla Camera, cogliendo le proposte avanzate dalle forze politiche, tra le quali ci sono quelle del Pd ripetutamente formalizzate in più occasioni in Parlamento”. Pagano (Dap): bene impiego detenuti, trovare forma e modi “È una buona proposta quella del ministro Severino, anche se prima bisogna sedersi e discutere per trovare forma e modi. Ma si potrebbe fare”. Così il vice capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, commenta l’idea, annunciata ieri dal guardasigilli Paola Severino in occasione della visita alle carceri di Bologna e Modena, di impiegare i detenuti a bassa pericolosità per la ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto. “Bisognerebbe sedersi intorno a un tavolo, magari quello del Consiglio dei Ministri, e studiare la formula migliore”, aggiunge. Il lavoro, ricorda Pagano, “per un detenuto non è uno dei tanti elementi di recupero: è l’elemento fondamentale”. Quanto al rischio di fuga, risponde con dati statistici: “la percentuale di detenuti occupati fuori dal carcere che non fa rientro in cella è inferiore all’uno per cento”. E sottolinea “il valore simbolico altissimo” che avrebbe questa esperienza: “ricostruzione concreta della società e delle sue strutture è ricostruzione di se stessi”. Nessun aggravio per il lavoro degli agenti, assicura Pagano, perché “basterebbero controlli random”. La selezione dei detenuti da impiegare, spiega ancora il numero due del Dap, riguarderebbe “gli individui meno pericolosi e più pronti al reinserimento. Inoltre quelli con pene inferiori a due anni o a cui manca poco per uscire: insomma che non avrebbero alcun interesse a scappare o sottrarsi all’impegno”. Bernardini (Radicali): appoggio idea lavoro detenuti per post-terremoto “Far lavorare i detenuti nella ricostruzione post - terremoto: una piccola idea, così l’ha definita la Ministra Severino che l’ha proposta. Un’idea che appoggio e che voglio vada subito in porto, anche se, da radicale, temo che si riduca ad un spot che fa molta pubblicità a chi lo promuove ma che - anche qualora fosse realizzata la piccola idea - non sposta di un millimetro la necessità immediata di un intervento di amnistia e di indulto per rimuovere l’illegalità delle carceri italiane dove vengono praticati - da anni! - trattamenti disumani e degradanti sia nei confronti dei detenuti che del personale che vi lavora. Per non parlare del debito giudiziario - di cui il carcere è l’ultima appendice - degli oltre dieci milioni di procedimenti penali e civili pendenti come un macigno sulla vita del Paese. Mi auguro che si dia la possibilità immediata di lavoro a quei detenuti senza reato che si ritrovano nelle case di lavoro di Castelfranco Emilia e di Saliceta San Giuliano che hanno la non secondaria caratteristica di essere delle vere e proprie prigioni… dove il lavoro non c’è e dove chi vi è recluso - in Emilia parliamo di quasi duecento persone - è ancora oggi vittima del Codice Rocco. Si tratta, infatti, di persone che hanno già scontato interamente la loro pena che vengono però sottoposte a misure di sicurezza detentive che possono durare all’infinito tanto che sono state appropriatamente ribattezzate ‘ergastoli bianchì. Alla Camera dei deputati è depositata in materia una proposta di legge redatta insieme all’Associazione Il Detenuto Ignoto”. Lo dichiara in una nota Rita Bernardini, deputata Radicale membro della Commissione Giustizia. Desi Bruno (Garante regionale): sì all’impiego dei detenuti nella ricostruzione A seguito della visita alle carceri di Bologna e Modena del ministro di Giustizia, Paola Severino, per verificare la situazione determinata dal terremoto, la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, dichiara: “L’impiego di persone detenute in lavori socialmente utili in aiuto alla popolazione colpita dagli eventi sismici o comunque nella ricostruzione delle zone terremotate è un’indicazione importante a considerare i detenuti come una risorsa sociale e non sempre e soltanto come portatori di problemi per la sicurezza dei cittadini. Certamente questo è un modo per avvicinare la collettività al tema del carcere e a creare un collegamento positivo tra il “dentro” e il “fuori”. Va peraltro ricordato che nella regione Emilia - Romagna già la Direzione del carcere e il Comune di Ravenna da tempo impiegano, attraverso il lavoro esterno, persone detenute che si offrono volontariamente per la pulizia delle spiagge con l’ausilio del volontariato e con ottimi risultati, ed anche quest’anno l’esperienza verrà replicata. Lo strumento più adatto per questo tipo di iniziativa è, appunto, quella del lavoro esterno, che consente alle direzioni di individuare nel minor tempo possibile le persone da avviare ai lavori socialmente utili, salva poi l’approvazione del magistrato di sorveglianza. Positiva anche la decisione di ridurre il sovraffollamento carcerario a Bologna, attraverso il trasferimento di molti detenuti in altre sedi di carcere purché ciò avvenga questa volta con la massima attenzione al principio di territorialità della pena, e quindi si tenga conto dei criteri indicati dall’ordinamento penitenziario, cioè vicinanza alle famiglie, ai luoghi di studio e lavoro e, comunque, attenzione a non interrompere, laddove intrapresi, percorsi trattamentali, che dovrebbero essere ripresi da capo in caso di trasferimenti. La richiesta è che ciò avvenga attraverso un ponderato esame di ogni singolo caso”. Marroni (Garante Lazio): si all'impiego dei detenuti, ma in un quadro di regole certe Giudico positivamente la proposta del ministro Severino di impiegare i detenuti nella ricostruzione post terremoto, ma a condizione che questo avvenga all'interno di un quadro chiaro di regole. È questo il commento del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni alla proposta di utilizzare i detenuti in alcune attività di supporto alle popolazioni terremotate dell'Emilia. L'utilizzo lavorativo dei detenuti in situazioni di emergenza - ha detto Marroni - non è una novità, come dimostrano i reclusi utilizzati durante l'ultima emergenza neve. Stavolta, però , è un fatto diverso soprattutto per la portata dell'evento e per la grande dimostrazione di fiducia verso i detenuti mostrata dal ministro, dal capo del Dap, dalla magistratura di sorveglianza e dalle istituzioni locali. Secondo il garante, quella che ieri poteva sembrare solo una boutade oggi ha concrete possibilità di essere realizzata, anche per dare ai detenuti un'opportunità di tornare da protagonisti nella società. Ma - ha concluso Marroni - occorre che tutto ciò avvenga in un quadro di regole certe: non basta solo individuare chi, ma anche quali detenuti, di quali carceri, per quanto tempo, per quali lavori e quali benefici, superando anche gli ostacoli della legge Cirielli sulla recidiva. Polverini (Lazio): bene proposta Severino, importante come segnale di solidarietà “Sono d’accordo con la proposta del ministro e sono stata io stessa a dire al direttore del Dipartimento di aver ricevuto una lettera di alcuni detenuti di Civitavecchia che chiedevano che mi attivassi per poter mettere a disposizioni il loro impegno a favore delle persone colpite dal terremoto”. Così il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, a margine di una conferenza, ha risposto a chi le chiedeva un commento sulla proposta del ministro della Giustizia, Paola Severino, di utilizzare i detenuti per ricostruire i territori colpiti dal terremoto. “Naturalmente con la dovuta attenzione e guardando ai detenuti che non abbiano caratteristiche che non consentano di uscire - ha aggiunto. Mi pare importante come segnale di solidarietà da parte di chi sicuramente ha commesso un errore, lo sta pagando e quindi soffre, verso persone che per altri motivi stanno vivendo un momento molto delicato. Quindi sono contenta, spero che la decisione del ministro sia stata suggerita anche da questa nostra indicazione. Può essere un modo per farli uscire dalla monotonia per farli sentire utili e imparare qualcosa che gli possa servire quando usciranno”. Pegorari (Garante detenuti Roma): sosteniamo proposta ministro Severino “Chi ha distrutto può ricostruire. Sosteniamo la proposta del Ministro della Giustizia Paola Severino di accettare l’aiuto dei detenuti volontari per la ricostruzione dei territori dell’Emilia Romagna colpiti dal terremoto”, lo ha dichiarato l’Avvocato Filippo Pegorari Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Ricordando come anche in occasione del terremoto dell’Aquila dei detenuti del carcere romano di Rebibbia partirono come volontari per il capoluogo Abruzzese. “È sicuramente un fatto - continua l’Avvocato Pegorari - che dimostrerà come anche i detenuti possono contribuire attivamente allo sviluppo della società civile”. Papa (Pdl): detenuti per ricostruire? si chiamano “lavori forzati” “Il ministro Severino propone di impiegare i detenuti per la ricostruzione delle zone terremotate. Segnalo al ministro che il nome più appropriato a una tale idea è uno soltanto: lavori forzati”. Lo afferma il deputato Pdl Alfonso Papa. “Sorprende - aggiunge - che l’attenzione per il lavoro in carcere, notoriamente carente, si risvegli nella forma autoritaria e coattiva del lavoro forzato in una zona ad elevato rischio sismico. Fa ribrezzo, non c’è altro da aggiungere”. Cusani e Segio: idea Severino diventi strutturale, scontare pena in lavori pubblica utilità Sono molto favorevoli alla proposta del ministro Severino di impiegare anche persone detenute per la ricostruzione dell’Emilia colpita dal terremoto, ma auspicano che ‘questa misura sia la premessa di un piano più articolato e strutturale che ampli e rilanci le possibilità di scontare la pena sul territorio, in forme socialmente utili, attraverso misure alternative e di pubblica utilità’. Così Sergio Cusani, ex manager finito in prigione per le tangenti Enimont ai tempi di Tangentopoli, e Sergio Segio, ex leader di Prima Linea che dopo aver scontato oltre 22 anni di reclusione oggi è libero, intervengono nel dibattito sollevato dalla proposta del Guardasigilli. Secondo Cusani e Segio, entrambi oggi impegnati nel volontariato penitenziario, l’idea dal ministro della Giustizia Paola Severino, “sarebbe invece scarsamente efficace e non condivisibile se prevedesse il coinvolgimento nei lavori di ricostruzione dei soli reclusi già ammessi alla semilibertà: sia perché sono un numero decisamente basso (sui 66.487 detenuti al 31 maggio scorso, quelli ammessi alla semilibertà erano solo 877), sia perché occorre pensare a misure innovative, in grado di valorizzare l’opera di detenuti, magari appositamente formati in carcere; misure non meramente simboliche ma capaci di incidere davvero in senso deflativo rispetto all’ipertrofia penitenziaria che vede ormai l’Italia ai primi posti a livello internazionale per il sovraffollamento delle celle”. “Al 31 dicembre scorso - ricordano - i reclusi presenti in carcere che avevano meno di un anno di pena residua da scontare erano oltre 10.430. Altri 7.667 avevano da scontare ancora una pena compresa tra uno e due anni. Si tratta dunque di persone che a breve comunque usciranno e, di conseguenza, per evitare il rischio della recidiva, distruttiva per tutti, bisogna costruire occasioni concrete per reinserirli in modo regolare nel tessuto sociale e produttivo”. È necessario, dunque, aggiungono “un intervento più articolato, che preveda anche il coinvolgimento delle strutture associative, cooperative, comunità terapeutiche e di volontariato, quale quello che proponemmo anni addietro, denominato Piccolo piano Marshall per le carceri, tuttora valido e attualizzabile”. Inoltre, secondo Cusani e Segio “tante altre potrebbero essere le misure immaginabili per impiegare utilmente il tempo della pena. Anche il detenuto può e deve essere messo in grado di esercitare opera di volontariato, di testimoniare solidarietà nei confronti di tragedie che colpiscono tanta parte della popolazione, come ora in Emilia”. “Per questo - dicono - proponiamo al ministro l’istituzione con il mondo dell’associazionismo di un tavolo di confronto e di elaborazione di proposte improntate alla concretezza per mettere finalmente e davvero mano agli annosi problemi che affliggono le carceri, per dare risposte strutturali a costo zero e con beneficio pubblico, e, al tempo stesso, per ripensare il senso e i modi dell’esecuzione penale”. Lussana (Lega): noi primi a presentare pdl impegno detenuti “È stata la Lega Nord la prima a presentare una Proposta di Legge che prevede l’impegno dei detenuti socialmente non pericolosi per attività di lavoro esterno senza retribuzione”. A dichiararlo è il Vice Presidente del Gruppo della Lega Nord alla Camera Carolina Lussana, che sottolinea: “Peccato che quando feci questa proposta, forse perché veniva dalla Lega, nessuno dei commentatori che oggi plaudono al Ministro Severino oppure la criticano volle aprire un dibattito e si limitarono a bollare questa proposta come “lavori forzati”, nonostante la mancata retribuzione della giornata lavorativa venisse compensata con la possibilità dello sconto di giorni di detenzione, così come per altro avviene in Grecia”. “Chiederò - prosegue Lussana - la calendarizzazione della mia Proposta di Legge e a questo punto vedremo se il Ministro Severino fa sul serio o solo propaganda. Rimango fermamente convinta che il lavoro possa essere la miglior forma per riabilitare i detenuti tutti e non solo i tossico dipendenti o gli extracomunitari come vorrebbe il Ministro Severino e permettere loro di pagare il debito contratto con la società. Vedremo - conclude Lussana - se si entrerà nel merito della discussione e se il Ministro è veramente d’accordo o se la sua è stata solamente una uscita estemporanea e propagandistica visto che era in visita nelle zone colpite dai terremoti, che di tutto hanno bisogno tranne che si faccia pubblicità a spese loro”. Papillon: favorevoli al progetto del ministro, il problema è come Riportare i detenuti in società sarebbe uno degli effetti positivi della proposta del ministro della Giustizia, Paola Severino, di farli lavorare per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. A parlare è Valerio Guizzardi, responsabile per l’Emilia-Romagna dell’associazione Papillon - Rebbibia. “Siamo favorevoli al progetto - dice. È molto interessante dal punto di vista della riduzione del pregiudizio sociale: il problema è come fare?”. Guizzardi pone innanzitutto un problema di tipo “burocratico” ricordando che per far lavorare i detenuti è necessario farli accedere alle misure alternative, di competenza della Magistratura di sorveglianza. “Il dubbio è che sapendo che a Bologna e in regione è più orientata per la chiusura che per l’apertura - continua - questa proposta, per quanto buona, non riesca ad avere il seguito che merita”. L’altro problema riguarda il compenso. “Ho sentito parlare di lavoro, se non gratis a basso costo, e su questo posso dire che siamo contrari: i detenuti sono portatori di diritti come tutti e hanno diritti a essere retribuiti in modo adeguato”. Sui trasferimenti di detenuti dalla Dozza ad altre carceri della regione, ipotesi avanzata sempre dal ministro, Guizzardi dice: “Come tentativo deflattivo in un momento di emergenza va bene, ma non è uno strumento per affrontare il sovraffollamento: per quello vanno abrogate le leggi carcerogene”. Senza dimenticare, continua, “che per i detenuti il trasferimento è spesso un dramma perché magari sono iscritti all’università, stanno seguendo un corso di alfabetizzazione o hanno relazioni sul territorio che un trasferimento può spezzare nel caso in cui la famiglia non possa spostarsi”. La preoccupazione espressa da Guizzardi è quella che “la burocrazia possa in qualche modo mettere i bastoni tra le ruote al progetto, come spesso accade in Italia”. Il riferimento è alla “mancata” o “parziale” applicazione della Legge Gozzini (sulle misure alternative) da parte della Magistratura di sorveglianza. “Sono circa 540 i detenuti che hanno i requisiti per andare in misura alternativa - segnala il responsabile di Papillon - Rebibbia - ma stanno aspettando e, a volte, capita che nell’attesa la pena finisce e loro l’hanno scontata tutta dietro le sbarre ben sapendo quali effetti ha questo fatto sulla recidiva”. Guizzardi è anche presidente di Croce Servizi, una cooperativa sociale tra detenuti che su incarico del Comune di Casalecchio di Reno si occupa di servizi per disabili, anziani e di consegna pasti per persone in carico al comune che non possono spostarsi da casa. “Quando ci capita di chiedere all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna 1 o 2 detenuti per alcuni lavori ci sentiamo rispondere che non ne hanno disponibili - racconta - Il motivo è che non ce ne sono perché il Tribunale di sorveglianza non li fa uscire”. E invece, continua, “sarebbe importante che i detenuti iniziassero un percorso di integrazione sociale perché le misure alternative abbassano la recidiva: ma se non si dà la possibilità al detenuto di imparare un lavoro o di rientrare in società quando uscirà dal carcere tornerà a mettersi nei guai”. Anche la direttrice della Dozza, Ione Toccafondi, è favorevole alla proposta del ministro. “Dovremmo trovare qualche ente o associazione che li faccia lavorare con loro in quelle zone. Saremmo contenti se ce lo chiedessero - ha detto ieri in occasione della visita della Severino - Potenzialmente, stiamo parlando di 450 persone, ma bisogna fare alcune valutazioni”. La direttrice escluderebbe, infatti, i condannati per violenza sessuale o traffico internazionale e ricorda che “bisogna tener conto della buona condotta e del percorso di rieducazione: alla fine potrebbero essere un centinaio”. Il ministro ha fatto riferimento ai detenuti tossicodipendenti (246) e agli extracomunitari (57%), ha escluso le persone in attesa di giudizio e chi si trova nella sezione di alta sicurezza (101). Giustizia: in Italia lavora un detenuto su cinque e solo 1 su 30 lo fa per ditte esterne Redattore Sociale, 5 giugno 2012 Dopo la proposta del ministro Severino di far lavorare i detenuti alla ricostruzione delle zone colpite dal terremoto, ecco la situazione. Sono 13.765 i detenuti lavoranti, il 20,42% della popolazione carceraria. La maggior parte dei lavori sono interni Il ministro Severino, in visita ieri al carcere della Dozza, lo aveva proposto: far lavorare i detenuti alla ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Una proposta subito accolta, nel corso della serata, dal Tribunale di sorveglianza del’Emilia - Romagna. Ma quanti sono oggi in Italia i detenuti che lavorano? I dati. In Italia un detenuto su 5 svolge un’attività lavorativa. Al 30 giugno 2011 sono 13.765 i detenuti lavoranti, ossia il 20,42% della popolazione carceraria. Il dato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è stabile rispetto al 2010, ma in calo rispetto agli anni precedenti: nel 2009 lavorava il 21,1% dei detenuti, nel 2008 il 24,4%, nel 2007 il 28,7%. Nel 2011 l’83,6% dei detenuti lavoranti (11.508 reclusi) opera internamente alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre il restante 16,4% (2.257 detenuti) lavora alle dipendenze di cooperative sociali o imprese, dentro al carcere o all’esterno, in regime di semilibertà. Facendo una proporzione con il totale dei detenuti (quasi 67 mila), ecco che solo 1 su 30 lavora fuori dal carcere. Lavori interni. La maggior parte dei lavori sono interni, alle dipendenze dell’amministrazione: si tratta delle attività necessarie per la gestione quotidiana delle carceri, come servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria, che prevedono una turnazione molto forte. Dal 2006 al 2011 il budget per la remunerazione dei lavoranti è diminuito di circa 21.735.793 euro, arrivando a uno stanziamento nel 2011 di 49.664.207, nonostante i detenuti siano aumentati di oltre 15 mila unità (rapporto Antigone “Carceri nella illegalità, la torrida estate 2011”). Lavori esterni. Il numero dei detenuti, che lavorano dentro e fuori dal carcere per ditte o cooperative esterne, è passato dai 1.798 del 2009 ai 2.257 del 2011. Significative le esperienze in corso negli istituti di Padova, Milano Bollate, Torino, Monza e Massa, dove alcuni imprenditori hanno assunto un significativo numero di detenuti, per attività da svolgere all’interno del carcere. I lavori più frequenti sono quelli artigianali: falegnameria; lavorazione di ferro, vetro e metalli; sartoria; panificazione; pasticceria e produzione agricola. A giugno 2010 erano attivi, ad esempio, 34 laboratori di falegnameria, 21 di sartoria, 26 tra vivai, serre, allevamenti e attività agricole, 8 legatorie, 12 lavanderie. Secondo un’indagine della Camera di commercio di Monza e Brianza, se tutti i detenuti lavorassero produrrebbero una ricchezza pari a oltre 700 milioni di euro, mentre attualmente è pari a 300 milioni. In Lombardia il valore economico prodotto dal lavoro dei detenuti è pari a 44 milioni di euro. Giustizia: Papa (Pdl); carcere preventivo solo per reati di sangue, presenterò proposta Ansa, 5 giugno 2012 “Nei prossimi giorni depositerò una proposta di legge volta a limitare la carcerazione preventiva ai soli reati di sangue, prevedendo una serie di garanzie per le persone in attesa di giudizio. Non è una battaglia né di destra né di sinistra. È una battaglia di civiltà ed è arrivato il momento che la classe politica si decida ad agire”. Così, in una nota, il deputato del Pdl Alfonso Papa che giovedì visiterà il carcere fiorentino di Sollicciano e terrà poi una conferenza stampa insieme al garante dei detenuti del Comune di Firenze Franco Corleone e all’esponente radicale Annalisa Chirico. Papa dal 26 maggio è in sciopero della fame “contro i suicidi di Stato. Ho avviato la lotta nonviolenta - afferma - in seguito all’ennesimo suicidio passato sotto silenzio nel carcere di Sollicciano dove la capienza effettiva è il doppio di quella regolamentare. Solo nel 2011 ci sono stati 66 suicidi accertati tra i detenuti nelle galere italiane. Oltre il 42% della popolazione detenuta si trova in custodia cautelare, si tratta cioè di presunti non colpevoli che nella metà dei casi andranno incontro a sentenze di assoluzione”. “Il sovraffollamento carcerario - afferma Chirico - è il risultato a valle della bancarotta giudiziaria che gravemente pregiudica l’economia italiana. Secondo la Banca d’Italia l’inefficienza della giustizia ci costa un punto di Pil. Oltre 9 milioni di procedimenti pendenti e 180mila prescrizioni nel 2011 significano giustizia denegata. È già in atto un’amnistia strisciante, ed è per questo che noi Radicali ne chiediamo una legale tesa ad azzerare l’esistente e ad interrompere la flagranza di reato a carico dello Stato italiano”. Giustizia: Gruppo Crc; inapplicata la legge a tutela dei bambini di madri detenute Public Policy, 5 giugno 2012 A un anno dall’entrata in vigore della nuova legge a tutela del rapporto tra i minori e le madri, le associazioni del Gruppo Crc (Convention on the rigts of the child) ritengono che “la situazione dei bambini detenuti in carcere con le mamme non è cambiata di molto”. La Lombardia è l’unica regione dove è presente l’Istituto per la custodia attenuata madri (Icam). Dal 2007 al 2011, le madri presenti all’interno dell’Icam sono 167 e i bambini 176. Inoltre, l’età media delle donne è di 28,5 e la loro provenienza è l’Est Europa. La permanenza media è di 8 mesi, con un massimo di 26 e un minimo di 3. Quest’anno, secondo il ministero della Giustizia, dovrebbe essere inaugurato l’Icam di Venezia, mentre a Roma e Firenze sono già stati individuati nuovi immobili da ristrutturare. Inoltre, nel loro rapporto 2011 - 2012, le associazioni Crc sostengono che la questione dei bambini che vivono con il genitore libero o nelle comunità famiglia “deve continuare ad essere presa in considerazione”. Da “Carcere alla prova dei bambini, i figli dei genitori detenuti un gruppo vulnerabile”, prima ricerca europea sull’impatto della detenzione dei genitori sui figli (2011), risulta che solo il 35% degli istituti ha una sala per i colloqui con i bambini e che mancano gli accessi riservati a loro. Un altro dato emerso da questa ricerca riguarda il personale penitenziario di cui l’80% dichiara di essere impreparato ad assolvere a questo compito. Nelle loro conclusioni le associazioni fanno riferimento al principio “secondo cui l’interesse del bambino deve avere una considerazione preminente in qualunque decisione lo coinvolga”. Qualora questo principio fosse applicato, l’intero iter della giustizia penale dovrebbe essere rivisto per rispettare il diritto del bambino. Brescia: class-action dei detenuti; documento con 500 firme per la Corte di Strasburgo Corriere della Sera, 5 giugno 2012 Una class action dei detenuti di Canton Mombello contro lo Stato italiano. Il documento è firmato da circa 500 “ospiti” ed è nella mani di Emilio Quaranta, garante dei detenuti, che lo dovrà inviare alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. È la nuova mossa dei carcerati per denunciare le “condizioni disumane” della casa di reclusione cittadina. Quaranta lo ha spiegato ieri durante la commissione “Servizi alla persona” di palazzo Loggia nella giornata in cui i detenuti hanno dato vita a un nuovo sciopero della fame. La fotografia di cosa sia Canton Mombello è nei numeri: la capienza del carcere è di 200 persone, si può arrivare a 250, come “limite di tolleranza” ammesso dal ministero. Ad oggi gli ospiti sono 531, più del doppio, il 70% stranieri. Certi giorni si toccano picchi di 580 ospiti, quasi il triplo della capienza. Ciascuno avrebbe diritto a 7 mq; a Brescia stanno in 18 in una cella di 24 metri quadrati. Fate voi i conti. “Ormai non si può più parlare di emergenza, è una questione endemica” ha spiegato il garante. La buona volontà degli operatori e la generosità di cittadini e associazioni consentono di mettere in campo piccole migliorie, materassi nuovi, libri per la biblioteca, una palestra dove fare un po’ di attività fisica. Ma sono palliativi di fronte a uno “Stato inadempiente e latitante” e a una “violazione costante dei diritti fondamentali della persona”. Nel 2010, ha spiegato Quaranta, “siamo stati condannati dal comitato europeo per la prevenzione della tortura. Perché? Perché il sovraffollamento di Canton Mombello implica una tortura psicofisica”. I detenuti devono restare chiusi in cella, seduti o sdraiati perché non c’è spazio. Gli educatori sono solo tre, la presenza dello psicologo è stata tagliata; per formazione e laboratori non ci sono spazi e risorse. Ecco perché chi sconta la pena dal primo all’ultimo giorno in carcere, “non esce certo rieducato”, come prescriverebbe la costituzione. La soluzione? C’è l’ipotesi nuovo carcere, quella di un’amnistia. Ma per Quaranta andrebbe soprattutto riformato il sistema delle pene, agevolando forme alternative alla reclusione, progetti per l’inserimento lavorativo, l’affidamento ai servizi sociali. “Serve un salto di mentalità. Abbiamo gli scantinati pieni di braccialetti elettronici, mai usati. Scontiamo la lentezza della magistratura di sorveglianza nel concedere i benefici. E poi servirebbe una riforma legislativa”. Per discutere di questi temi il garante sta organizzando un convegno per il prossimo ottobre - dal titolo Punizione e recupero - con i ministri Cancellieri e Severino. L’obiettivo? “Rendere i detenuti reclusi, ma non esclusi”. Presidio per una settimana a difesa dei diritti dei reclusi Picchiano le pentole sulle grate, come a dire “Siamo qua”. Sono i detenuti, che protestano contro le “condizioni disumane” in cui sono costretti a vivere: in sei, otto, fino al doppio, dentro a un metro quadrato. Sotto, gli attivisti del comitato per la chiusura del “carcere lager” che, davanti all’ingresso di Canton Mombello, ci resteranno per tutta la settimana, dalle 9 alle 19, portavoce dei diritti dei detenuti all’esterno delle mura. E per chiedere “la chiusura immediata” di una delle case circondariali più affollate d’Italia, che conta 530 reclusi (con picchi che sfiorano i 580), rispetto a una capienza regolare di 200 persone. Così, “suonando” con le stoviglie e altri oggetti contro le grate, i detenuti cercano di attirare l’attenzione della città e delle istituzioni. “Rispetto” per la protesta è stato manifestato anche dalla direzione del carcere, che ha consentito ai detenuti di costituire un comitato interno. E i detenuti hanno annunciato l’intenzione di avviare uno sciopero della fame. Via al conto alla rovescia per Verziano bis Il sindaco Adriano Paroli è prudente. Troppo delicato e complesso il tema per lasciarsi andare a facili ottimismi. Da almeno trent’anni Brescia aspetta una risposta al problema carcere. Eppure ora sembra che si sia imboccata la strada giusta. Nelle scorse settimane si sono ripetuti incontri e sopralluoghi con tecnici e funzionari del ministero. Già a marzo, anche in seguito alla clamorosa evasione di metà febbraio, vi era stata la visita in città del direttore generale delle Risorse materiali dell’Amministrazione penitenziaria, Alfonso Sabella. Poi nuove riunioni con planimetrie, carte e documenti. “Posso solo dire che aver individuato un’area nel Piano di Governo del Territorio dove realizzare il nuovo istituto di pena ha destato finalmente un interesse non formale da parte delle istituzioni preposte” spiega Paroli. “Per questo credo che il lavoro che già si stava conducendo sia un lavoro che può portare risultati”. Finora, infatti, Brescia è sempre rimasta tagliata fuori dai piani carcere ministeriali e dall’elargizione di risorse proprio perché nei suoi strumenti urbanistici non era localizzato il “nuovo Canton Mombello”. Negli scorsi mesi, durante l’elaborazione del Pgt, la Loggia ha finalmente individuato l’area (120mila metri quadrati) dove dovrebbe essere realizzata la nuova struttura, ovvero Verziano. Si tratterebbe di un prolungamento dell’attuale istituto di pena che sorge in via Flero. “Oltre a individuare l’area - precisa Paroli - abbiamo previsto la possibilità di acquisirla come Comune in cambio di diritti edificatori concessi ai privati”. Ma c’è di più. Perché quello che si sta tentando di fare è una triangolazione che coinvolga anche Canton Mombello. L’ipotesi è quella di una permuta con i privati che concederanno l’area. “Mi piacerebbe che venisse messo in gioco - si limita a dire Paroli - in modo da recuperare un immobile al servizio del centro storico”. Magari per farci anche un albergo, ipotesi cara al primo cittadino. “Di certo - spiega l’assessore ai Lavori Pubblici Mario Labolani - stiamo lavorando per dare una risposta a un problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Speriamo di riuscire a chiudere questa partita, tutt’altro che semplice”. Sia chiaro, stiamo parlando di qualcosa che se andrà in porto, ci andrà nel prossimo (eventuale) mandato. “Ma il primo deciso passo è stato fatto”. Cosa che conferma anche il garante dei detenuti Emilio Quaranta: “Era necessario individuare un’area. Ora potrebbero arrivare i finanziamenti per la costruzione. I rapporti con il ministero sono continui. Il ministro Severino ha annunciato che nel Bilancio ci sono 58 milioni per i nuovi istituti”. Una partita in cui dovrebbe rientrare anche Brescia, “ripescata” nei mesi scorsi proprio dopo l’evasione e l’approvazione del Pgt. Il Verziano bis dovrebbe essere una struttura modulare, così come tutte le nuove carceri, il cui costo dovrebbe oscillare tra i 20 e i 30 milioni. L’importante ora è “tenere pressato il ministero”. Qualche dubbio in più dall’opposizione. “L’emergenza di Canton Mombello richiede una risposta immediata - spiega Claudio Bragaglio - Anche perché l’ipotesi di un nuovo carcere è il risultato di un percorso articolato, collegato a una complessa operazione di carattere immobiliare. Una situazione per la quale non è possibile ipotizzare la realizzazione della struttura in tempi brevi”. Girelli (Pd): parli la direttrice di Canton Mombello Urge fare il punto sulle condizioni di vita dei detenuti nel carcere di Canton Mombello, in provincia di Brescia, definite disumane dai reclusi costretti a vivere anche in 18 persone in uno spazio grande 100 centimetri, con un solo servizio igienico a disposizione. Proprio per questo motivo oggi il consigliere regionale del Pd Gian Antonio Girelli ha inviato una lettera al presidente della Commissione Speciale Carceri Stefano Carugo chiedendo che vengano auditi nella prossima seduta la direttrice della casa circondariale di Canton Mombello Francesca Gioieni ed Emilio Quarta, garante dei detenuti di Brescia. “E’ giunto il momento che alle dichiarazioni spotsul tema delle carceri facciano seguito delle azioni concrete”, ha dichiarato Girelli, unico bresciano all’interno della Commissione speciale. Serve che il nuovo carcere di Brescia sia inserito al più presto nel Piano Carceri nazionale. Il nuovo piano di Governo del Territorio prevede un’area dedicata, ora si tratta di intercettare le risorse ministeriali”. Secondo l’esponente del Pd “è necessario che ci sia una regia di tutte quelle iniziative che diversamente rischiano di suscitare solo emozioni invece di decisioni titolari a prendervi parte: consiglieri comunali, provinciali, regionali e i parlamentari. Per queste ragioni ho intenzione di fare richiesta formale affinché la seduta della commissione speciale si riunisca presso il carcere di Canton Mombello”. Vicenza: al carcere San Pio X nuovi posti per i detenuti, ma a scapito di spazi d’aria Giornale di Vicenza, 5 giugno 2012 Oggi Vicenza ospita un incontro nazionale verranno sottratti spazi esterni con i garanti dei detenuti di alcuni Comuni italiani. Hanno accolto l’invito, oltre al garante dei detenuti di Vicenza, Federica Berti, i garanti dei detenuti dei Comuni di Firenze, onorevole Franco Corleone, di Verona, Margherita Forestan, di Ferrara, Marcello Marighelli, di Rovigo, Livio Ferrari, di Pisa, Andrea Callaioli. Questa mattina alle 11 i partecipanti, riuniti in sala giunta a palazzo Trissino, hanno avuto modo di ascoltare la presentazione del piano triennale della città per le persone in esecuzione penale, tra i primi in Italia, da parte dell’assessore alla famiglia e alla pace Giovanni Giuliari; successivamente è stata loro illustrata la situazione della casa circondariale di Vicenza a cura della garante dei detenuti di Vicenza, Federica Berti. “Il carcere di Vicenza ad oggi ospita 330 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 146 e di una capienza tollerabile di 292, con un evidente sovraffollamento - dichiara la garante dei detenuti del Comune di Vicenza, Federica Berti. Il governo ha stabilito che il carcere verrà ampliato con la costruzione di nuovi padiglioni per la capienza complessiva di 200 posti, suddivisi in 64 camere da 3 posti con la possibilità di ospitare se necessario fino a 5 detenuti. Una situazione che non andrà certo a migliorare l’attuale visto che verranno sottratte aree all’aria aperta dedicate ai detenuti, poiché i nuovi padiglioni sorgeranno all’interno dell’area del carcere. È mia intenzione approfondire il tema per cercare di capire se le nuove celle siano sufficientemente spaziose visto che le attuali misurano 12 metri quadrati e ospitano da due a 3 detenuti che lì trascorrono la maggior parte della giornata”. “In questa zona d’Italia ci sono molti garanti dei detenuti e il mondo del volontariato che gravita attorno alle carceri è appassionato - interviene il coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti onorevole Franco Corleone. Purtroppo il problema del sovraffollamento colpisce anche questo territorio ritengo per un motivo fondamentale: numerosi ingressi sono determinati dal reato di detenzione e spaccio. E questo accade anche a Vicenza dove su 330 detenuti 153 sono entrati proprio per questo motivo. Il carcere di Vicenza non avrebbe bisogno di un ampliamento se si pensasse a rimpatriare i detenuti stranieri. In ogni caso mi auguro che nelle nuove costruzioni siano rispettati i diritti delle persone. È importante, inoltre, che il carcere non sia separato dalla città”. Lo scorso anno Vicenza, tra le prime in Italia, si è dotata di un piano triennale della città per le persone in esecuzione penale, un vero e proprio impegno che la città si assume nei confronti del carcere. Inoltre da alcuni mesi è stata istituita la figura del garante dei detenuti che a titolo volontario assume un ruolo di mediazione tra le diverse figure afferenti al carcere. I garanti in Italia (non esiste una legge che disciplina la figura a livello nazionale) ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli articoli 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (novellati dalla legge n. 14/2009). Le regioni che hanno istituito la figura del garante sono: la Campania, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, le Marche, il Piemonte, la Puglia, la Sicilia, la Toscana e l’Umbria. I garanti provinciali sono stati istituiti a Enna, Ferrara, Lodi, Milano, Padova e Trapani. Sono, infine, stati istituti quelli Comunali a Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Ferrara, Firenze, Livorno, Nuoro, Pescara, Piacenza, Pisa, Reggio Calabria, Roma, Rovigo, San Severo, Sassari, Sondrio, Sulmona (Aq), Torino, Verona e Vicenza. Oristano: primi traslochi in nuovo carcere, mancano allacciamenti per acqua e fognature di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 5 giugno 2012 Sono iniziati i primi traslochi nel nuovo carcere di Massama. Dallo scorso venerdì la direzione della Casa circondariale ha fatto scattare i lavori che consentiranno di rendere funzionali la parte delle celle, i locali per il personale e gli uffici dell’amministrazione. L’obiettivo è di portare la struttura a una condizione di efficienza al momento in cui il ministero delle infrastrutture consegnerà il nuovo carcere al Ministero della giustizia. Ci vorranno una quindicina di giorni per ultimare questo primo trasferimento. I tempi saranno certamente più lunghi per ultimare tutta l’operazione, se si considera che dovranno essere sgomberati tutti i locali dell’attuale Casa circondariale, in attività da oltre 80 anni. Questo primo intervento è dunque una goccia d’acqua nel mare ma che almeno ha smosso qualche cosa. Dalla Casa circondariale non ci sono dichiarazioni ufficiali ma solo la conferma che gli addetti di una impresa, insieme ai responsabili del diversi settori hanno avviato i traslochi per rendere fruibile una parte della struttura. Infatti si stanno allestendo le celle, i relativi arredi e gli uffici che dovranno accogliere una parte del personale e degli uffici della direzione del carcere. In due settimane saranno ultimati questi primi lavori. Per il resto, tutto sembra fermo alle dichiarazioni del ministro Paola Severino. Nel recente viaggio in Sardegna il Guardasigilli aveva annunciato l’apertura dei tre carceri già ultimate: Sassari, Uta e Massama. Mancava solo il passaggio burocratico e le carceri sarebbero state aperte subito per ospitare i primi detenuti. Una prima risposta da parte del Governo Monti alla emergenza del pianeta carceri. Ad un mese dalla visita del Ministro si è mosso ben poco. Basta vedere che non sono stati predisposti neppure i lavori degli allacci idrici e fognari. Non solo, il Ministero non avrebbe, almeno per Massama, predisposto neppure il relativo bando di gara. Iter burocratico, ad esempio che è stato approvato nel mese di febbraio per le carceri di Bancali e di Uta. Di questo passo, prima di poter rendere agibile la struttura di Oristano occorreranno almeno altri 4 mesi. La direzione della casa circondariale il primo passo lo ha già fatto, ora il resto tocca al Ministero. Rimane, infine, da risolvere il problema legato al personale militare. Il nuovo carcere di Massama, per poter essere operativo al cento per cento, avrebbe bisogno almeno di 140 agenti della polizia penitenziaria. Attualmente nella struttura di piazza Manno, gli agenti disponibili sono una novantina. Un aumento dell’organico è stato più volte sollecitato dalle organizzazioni sindacali. Bologna: Cgil; carcere minorile senza uscite di emergenza, detenuti e personale a rischio Redattore Sociale, 5 giugno 2012 L’allarme lanciato dalla Cgil. All’istituto del Pratello non ci sono le uscite di emergenza e le guardie non conoscono il piano di evacuazione. Minori e personale a rischio. Al carcere minorile del Pratello, a Bologna, mancano le uscite di emergenza e gli agenti di guardia non conoscono l’eventuale piano di evacuazione in caso di emergenza. Lo denuncia la Cgil Funzione pubblica in una lettera inviata a tutte le autorità della Giustizia minorile (nazionali e locali), preoccupata per la situazione del penitenziario minorile a fronte del sisma che ha colpito l’Emilia - Romagna e che ancora continua a produrre forti scosse. Quella del 20 maggio, la prima, “è stata avvertita dall’intera popolazione detenuta e dal personale che prestava servizio quella - scrive Maurizio Serra della Cgil - fortunatamente non vi sono state conseguenze, al di là di una naturale paura, sia tra gli addetti ai lavori che nei minori ristretti”. Ora, però, visto che il sisma prosegue, la Cgil ritiene “doveroso” segnalare la situazione: “Allo stato attuale, presso l’istituto il personale di Polizia penitenziaria non è a conoscenza dell’eventuale piano di evacuazione in situazione di emergenza”. Questa circostanza tra l’altro, ricorda Serra, era già stata segnalata nel novembre del 2009, dopo che il carcere minorile era stato visitato dal coordinatore nazionale della Funzione pubblica Cgil, Francesco Quinti, che “aveva già evidenziato l’assenza di uscite di emergenza” per “evacuare i locali impegnati” in caso di situazioni di emergenza come terremoti o altre calamità. Questa situazione, prosegue Serra, “mette tutt’oggi a serio rischio sia l’incolumità dei minori detenuti che del personale che opera all’interno dell’istituto”. Serra chiede alle autorità di studiare “nel più breve tempo possibile tutti i provvedimenti necessari, per porre rimedio” a questa situazione, che espone a rischi sia i minori ristretti che “tutti gli operatori della struttura”. Torino: l’Ipm “Ferrante Aporti” sovraffollato, ragazzo deve dormire in terra La Repubblica, 5 giugno 2012 Niente di paragonabile a quanto avviene nelle carceri normali, ma anche al Ferrante Aporti occorre fare i conti con il sovraffollamento. A farne le spese è stato un ragazzo che qualche notte fa ha dovuto dormire per terra, coricato su due materassi. “Un letto in più materialmente non entrava nella stanza - conferma la direttrice dell’istituto penale per minorenni di Torino, Gabriella Picco - ma è stata una situazione limitata a un solo ragazzo e per una sola notte”. La capienza della struttura di via Berruti e Ferrero è di 29 posti, ma l’altro giorno i detenuti erano 35. Un problema, quello del sovraffollamento, che si presenta soprattutto d’estate. In questo periodo, infatti, aumentano gli arresti in città anche di ragazzi che vivono altrove, ma che si spostano per varie ragioni verso il capoluogo. In effetti già il giorno dopo alcuni ragazzi erano stati trasferiti in strutture più vicine a casa. “Ho voluto personalmente rendermi conto della situazione che si era verificata al Ferrante Aporti - spiega Antonio Pappalardo, dirigente del Centro giustizia minorile di Torino - Al momento ci sono 33 giovani detenuti e tutti hanno un letto. Quello che si è verificato l’altro giorno, ovvero che non c’era spazio per un letto in più, è frutto di una precisa impostazione: le stanze sono piccole perché per la maggior parte del tempo i ragazzi sono impegnati in varie attività in altre parti dell’edificio”. Viterbo: quaranta nuovi cuochi a Mammagialla, terminato corso svolto da Provincia e Ctp New Tuscia, 5 giugno 2012 Si è appena concluso il secondo Corso aiuto cuochi ospitato nella Casa circondariale di Viterbo. Nato grazie ad un protocollo di intesa siglato nell’anno scolastico 2010/2011 dal 37° Centro territoriale permanente per l’educazione degli adulti (ospitato nell’istituto Pietro Vanni) dal Centro di formazione professionale scuola alberghiera della Provincia di Viterbo e dall’Asa circondariale di Viterbo, ha visto coinvolti più di 40 detenuti. “L’ accordo stipulato - ha specificato l’assessore provinciale con delega alla Scuola Alberghiera, Andrea Danti - è previsto dalla ex legge 455/97. Tale norma configura i Centri territoriali permanenti come luoghi di orientamento, coordinamento e progettazione di percorsi finalizzati ad integrare istruzione scolastica e formazione professionale, avvalendosi dell’apporto di tutti i soggetti pubblici presenti sul territorio che si occupano di formazione. In questo caso la Provincia di Viterbo ha partecipato attivamente mettendo a disposizione la propria Scuola alberghiera”. Due i corsi portati a termine, strutturati in settori diversi. Il tutto con l’obiettivo di offrire supporto alla formazione professionale di personale da impiegare, nell’immediato, nelle cucine del carcere stesso. “I risultati raggiunti, grazie alla assidua frequenza degli iscritti - ha aggiunto Danti - sono stati ottimi per un buon numero di corsisti che si sono trasformati in vera e propria Brigata di cucina. Inoltre, rompendo la monotonia della reclusione e impegnando la mente in contenuti che esulano da quel mondo, i detenuti hanno avuto l’opportunità di ricoprire un nuovo ruolo, di provare a rapportarsi in modo diverso con chi li circonda, valorizzando le proprie peculiarità e qualità. Tutto ciò con l’auspicio che possano mostrare a loro stessi, prima, ed agli altri poi, di essersi finalmente riscattati”. Volterra: Aniello Arena; Mercuzio sono io, il teatro mi ha salvato di Francesca Suggi Il Tirreno, 5 giugno 2012 Due volte resuscitato. Prima il teatro, poi il cinema ripuliscono quello specchio per troppo tempo muto e scuro. Macchiato di sangue e sofferenza. Dove, solo da qualche anno, riesce a vedersi. A guardare avanti e immaginare un futuro oltre quelle sbarre, con lui dentro, protagonista. “Possibilmente attore”, esclama con il suo piglio partenopeo Aniello Arena. Si guarda indietro il detenuto più star della storia italiana recente: da quel 1992 in cui entra in carcere per scontare l’ergastolo per la strage di Barra ad oggi , di strada e di emozioni contrastanti ne ha macinate. Tappe di una vita nell’ombra che nel 2001, nel Maschio di Volterra, incontra una rivoluzione chiamata Armando Punzo. Compagnia della Fortezza. Spettacoli teatrali in giro per l’Italia. Fino ad arrivare a quel ruolo principale, nei panni del pescivendolo napoletano, nel film Reality di Matteo Garrone che ha conquistato il Grand Prix di Cannes nei giorni scorsi. Un delirio, proprio come quel Mercuzio in versione napulè che Arena interpreterà a fine luglio all’interno del carcere, per l’edizione 2012 di VolterraTeatro. Che vita sarebbe stata la tua senza il teatro? “Tante volte mi son chiesto, “ma che vita facevo prima?”. Fino a 23 anni quando mi hanno messo dentro vedevo solo quello a cui volevo credere, ero molto impulsivo e pieno di pregiudizi. Nel ‘99 sono venuto nel carcere di Volterra, nel 2001 ho incontrato Punzo, mi sono avvicinato alla Compagnia della Fortezza e cominciare a fare teatro e scoprire una nuova vita è stato un attimo”. Paragoni il palco a un fuoco che ti è entrato dentro e non ti ha più lasciato. “Mi ha permesso di vedermi, di guardare avanti con una prospettiva, senza pregiudizi, chiedendomi sempre il perché e il senso delle cose”. Considerato il tuo percorso, il modo con cui sei cresciuto a Napoli, ti sei avvicinato alla Compagnia con diffidenza e pregiudizi? “Non era una cosa che mai aveva fatto parte della mia vita, le uniche volte che ero entrato in un teatro era con mia madre e mia sorella per vedere le commedie di Eduardo e Merola. L’incontro con Punzo mi incuriosì, tanto che con una grande timidezza mi buttai. Nel primo spettacolo del 2001, era L’opera da 3 soldi di Brecht, mi nascosi dietro al guardaroba perché non volevo andare in scena. Venne Armando a dirmi “beh, allora che vogliamo fare?” E io ci dissi (l’accento fa colore) non ce la faccio, poi tutto andò bene”. Nella commedia di Shakespeare Mercuzio è il poeta di Romeo e Giulietta, il primo a morire che, nel progetto di Punzo prova a riscattarsi da questo destino e cerca di fermare il tempo con la cultura. Un po’ come è capitato a te. “Io vivo l’incontro prima con Punzo e con Garrone come un riscatto, sono nato 2 volte”. L’uomo che non sogna più è finito. Sei d’accordo? “Io sogno un futuro da attore, riuscire un giorno a fare un one man show all’interno di quel progetto di Teatro Stabile che spero diventi realtà, all’interno del carcere di Volterra. Gli spazi ci sono già. Sognare mi ha ridato speranze e prospettive”. Immigrazione: viaggio nel Cie di Milo (Trapani)… un incubo senza fine L’Unità, 5 giugno 2012 Come si può passare dal carcere al Cie e poi dal Cie al carcere, per anni, senza via di uscita? Essere straniero in posizione irregolare in Italia. Trapani, Cie di Milo. Una scatola di sbarre alte e gialle, quasi tecnologiche, estranea all’ambiente, su una strada periferica vicino Trapani; un illegale carcere per migranti, che i cittadini fanno finta di non vedere: di non sapere. Il 30 maggio scorso una delegazione di giornalisti guidata dal Presidente della Fnsi, Roberto Natale, ha invece potuto varcare il cancello, anche se l’accesso è stato garantito a un unico “settore” della struttura, che può detenere fino a circa 204 uomini (ma con massimi di 270). La maggioranza dei detenuti è di nazionalità magrebina: solo pochi gli sbarcati, mentre la grande maggioranza, circa il 90%, sono ex-carcerati, con il particolare di aver già scontato la loro pena in carcere; ma a fine pena, invece di tornare in libertà o di venire rimpatriati, sono trattenuti di nuovo, fino a 18 mesi, nel Cie. Si chiama “detenzione amministrativa”: ma significa privazione della libertà personale senza accusa né processo; per un unico reato, quello di avere il permesso di soggiorno scaduto. Peggio del carcere, senza le garanzie assicurate dal sistema penale: zero privacy né assistenza legale, niente libri né matite, persone isolate dal mondo esterno, cui il diritto alle cure e alla socialità viene negato: uomini ridotti a numeri e deportati da un Cie all’altro, per mezza Italia. Mera prassi discrezionale del potere. Anche se alcuni immigrati vivono in Italia e hanno pagato le tasse per anni, sono sposati o convivono e hanno figli italiani; come Jamel, allenatore di cavalli, che in perfetto dialetto siculo racconta di vivere nella penisola da più di 33 anni e di avere una figlia nata e sposata con un italiano, mentre lui era chiuso lì; o Mohamed che dichiara che “qua non esiste mai la fine della pena, solo angoscia” e preferirebbe persino essere rimpatriato. A Milo, però, per causa di precedenti penali (soprattutto per spaccio e traffico di stupefacenti), nessuno li vuole e il consolato del proprio paese di origine non agevola il rimpatrio (che avviene soltanto per meno della metà dei detenuti). Qua in terra trapanese “finiscono i casi più complicati, i casi limite”, riconosce Tommaso Mondello, responsabile Immigrazione della Prefettura. Indesiderati tra due Stati: relitti del sistema. A comprovare la totale inutilità del trattenimento nei Cie, allo scadere dei 18 mesi, a volte anche prima, il detenuto viene semplicemente “rimesso in libertà” con convalida del Giudice di pace, con l’ordine di lasciare il territorio nazionale. Ovviamente, in assenza di documenti e con l’assurda normativa del “reato di clandestinità”, finiscono di nuovo in prigione. “Nel corso degli anni vediamo tornare le stesse persone”, osserva Edoardo Menghi, responsabile Immigrazione della Questura. Un folle, costoso e disumano circuito chiuso, senza alcuna utilità nel contrasto all’immigrazione irregolare. Perfino le forze dell’ordine impiegate nel Cie di Milo sono a disagio; nel suo ennesimo comunicato, la Segreteria Nazionale del Siulp chiede d’urgenza di “incrementare il personale da impiegare, perché fare meramente sopravvivere una struttura indispensabile alle procedure finalizzate alla identificazione e alla espulsione degli extracomunitari significa soltanto uno spreco di energie, di uomini e di mezzi, senza pensare al mancato soddisfacimento della primaria esigenza di sicurezza”. Intanto, a marcire dietro muri, recinzioni, cordoni, ci sono persone internate sulla base di ciò che sono: “stranieri”, “migranti”, “non bianchi”. Le sbarre di sei metri, da carcere di massima sicurezza peggio di quelle per la mafia, la sorveglianza 24 ore su 24 dalle forze dell’ordine, dicono l’evidenza: è mera reclusione sociale di soggetti presunti “pericolosi”, da tenere chiusi come bestie, criminalizzare, piegare a quello che si vuole fare di loro. Un nulla. Salta la nuda verità alla coscienza: il Cie è la mera spazializzazione di un’ideologia razzista, perché solo un pensiero che nega l’umanità a questi uomini, li rende oggetti, può spiegare una tale volontaria privazione della loro libertà, una tale distruzione arbitraria della loro mente, vita e sogni. Nessuno si degna di comunicare le “ragioni”, ove ce ne fossero, ma almeno la durata della detenzione. E quel limbo senza senso, che toglie la dignità, produce solo autolesionismo (“mensilmente almeno 15 casi”, spiega Giovanna Ottoveggio, medico della struttura), somministrazione di psicofarmaci, violenze, fughe (come i 130 scappati nei giorni scorsi). Come racconta un detenuto con le braccia e i polsi pieni di cicatrici e vistosi lividi: “la fuga è la nostra unica salvezza, per non impazzire”. Immigrazione: Cie di Bari, prigione degli innocenti. Intervista all’avvocato Luigi Paccione di Flore Murard - Yovanovitch Agenzia Radicale, 5 giugno 2012 Il Centro di Identificazione e Espulsione (Cie) di Bari è un carcere extra ordinem, non dichiarato, in cui numerosi cittadini provenienti da paesi extraeuropei sono detenuti senza aver mai commesso reati punibili con la reclusione. Più di un anno fa l’associazione di giuristi democratici “Class action procedimentale” ha avviato un’azione legale per chiedere il rispetto dei diritti umani all’interno del Cie. “Il Tribunale civile di Bari ordini l’immediata chiusura del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) del capoluogo pugliese, per accertata violazione dei diritti dell’uomo”. È quanto chiedeva l’atto di citazione del 28 marzo 2012. Di seguito l’intervista all’avvocato Luigi Paccione, portavoce dell’associazione giuristi democratici “Class Action Procedimentale”, sugli ultimi sviluppi della prima azione legale contro la Presidenza del consiglio dei ministri e il Ministro dell’Interno, per violazione dei diritti umani. Avvocato Paccione, come si definisce un Cie a livello giuridico? Il Cie è un carcere “extra ordinem”, totalmente illegittimo, dove le condizioni di detenzione non rispettano neppure i parametri normativi vigenti per gli Istituti penitenziari statali; ai detenuti, isolati in vari settori, è negato anche il diritto alla sociabilità e alla comunicazione. Le Linee guida dell’istituzione Cie non sono una fonte normativa e questa gestione illegale da parte del Governo ci inquieta; come giuristi democratici abbiamo “reagito” portando la questione in tribunale, usando uno strumento giuridico del nostro ordinamento chiamato “azione popolare”, che consente ai singoli cittadini di sostituirsi al Comune di cui sono residenti, per esercitare i diritti non esercitati dall’ente locale. Il Cie è quindi un’aberrazione giuridica: quali violazioni dei diritti vi si riscontrano? Esiste nel nostro Paese un grave digiuno di regole democratiche e analfabetismo sugli strumenti di difesa dei diritti fondamentali e credo che la battaglia legale di Bari sarà il termometro dello stato di diritto e dell’odierno paesaggio politico e giuridico, dichiaratamente razzista. L’istituzione Cie, come tutte le misure estreme di aggressione alla dignità umana, finisce per azzerare persino la capacità reattiva del detenuto che non conosce e non può conoscere i suoi diritti anche perché gli si nega lo status di detenuto, definendolo “ospite”. Una grossolana forma di repressione che manipola lo stesso vocabolario della lingua italiana, alterando il significato delle parole. Formalmente esiste la tutela giuridica del migrante, ma in realtà, giudici di pace e vari avvocati d’ufficio non fanno che verificare e convalidare la legittimità o meno dell’ingresso nel Cie: nessuno sembra voler immaginare, nemmeno i detenuti, che il vero fatto giuridico è l’illegittimità dello stato di detenzione che si traduce, di fatto, in un sequestro di esseri umani. “Stranieri”, “migranti” e “neri”? In assenza di “reato”, questi centri recludono migranti sulla base non di cosa hanno fatto, ma sulla base di ciò che sono? L’impianto culturale che presiede l’istituzione dei Cie sembra voler negare l’identità di esseri umani, titolari dei diritti fondamentali, dei migranti senza permesso. La realtà carceraria per migranti esprime una cultura razzista, il profilarsi di un nuovo volto repressivo mal mascherato da abito democratico; tutto ciò deriva dalla spinta all’autoconservazione di un sistema occidentale capitalista che, per conservare privilegi, sprigiona meccanismi culturalmente fascisti. Secondo lei, l’esercizio della democrazia diretta, come dimostra il caso di Bari, potrebbe essere la via per ripristinare lo Stato di diritto in Italia? Essendo fondata su un’azione popolare, la Class Action Procedimentale barese, è replicabile ovunque sul territorio nazionale. È inoltre indicativo che vi abbiano aderito sia il Comune di Bari sia la Regione Puglia: contro l’illegalità governativa reagisce la legalità territoriale. L’odierna crisi di rappresentanze tradizionali non significa, infatti, il “disarmo” di democrazia ma può aprire nuove forme di protagonismi dei saperi, delle intelligenze, e della sovranità della cittadinanza sociale. Unica in grado di difendere i principi democratici, minacciati dall’esistenza di strutture carcerarie fuori dalla legalità come sono i Cie, vero e inquietante attentato alla convivenza civile e alle regole della democrazia. Un simile quadro impone alla società civile di reagire. Appunto quello che stiamo facendo qui a Bari. Guinea Bissau: la non vita nelle celle costruite dall’Onu… senza acqua ed energia elettrica Il Velino, 5 giugno 2012 La Stampa dedica oggi un reportage ai detenuti che vivono in condizioni disumane nelle prigioni costruite dalle Nazioni Unite, in Guinea Bissau. I tecnici che hanno costruito queste carceri, denuncia il quotidiano diretto da Mario Calabresi, hanno dimenticato di realizzare un pozzo e un generatore e così le persone che vi sono rinchiuse sono costrette a vivere senza corrente elettrica e con l’acqua razionata, in condizioni igieniche pessime. “Tredici persone in quindici metri quadrati. Poco più di un metro quadrato a testa. È questo lo spazio che hanno a disposizione Ibrahim e i suoi compagni di cella. Mangiano, dormono, fanno i loro bisogni per terra. Uno di fianco all’altro. La puzza è asfissiante, il caldo di quelli che mozzano il respiro. La stagione delle piogge sta per arrivare, e fuori, per le strade di Gabò, polverosa cittadina dell’Est della Guinea Bissau, il sole inizia ad essere rovente, rendendo incandescenti le buie stanze della cella di detenzione. Una cella nella quale i reclusi potrebbero stare al massimo 72 ore ma nella quale finiscono per passare settimane, mesi, in attesa di un giudizio che tarda ad arrivare. Settimane senza mangiare, lottando per un sorso d’acqua. Di umano non c’è nulla tra questi muri scrostati, sporchi, carichi di umidità. I detenuti sono privati di qualsiasi diritto, anche di quello alla difesa. Formalmente avrebbero diritto ad avere un avvocato, ma in pratica sono abbandonati a se stessi, in balia di un sistema giudiziario lento e corrotto. Tutto questo non fa notizia in uno dei paesi più piccoli e poveri dell’Africa, tormentato fin dal giorno dell’indipendenza dal Portogallo, datata 1974, da colpi di stato che si susseguono uno dopo l’altro, senza sosta. È il caso, per esempio, dell’Onu. Dalle stanze rinfrescate dall’aria condizionata, in un paese nel quale, per lo più, la corrente elettrica non esiste, l’Unodc (United Nations Office on Drug and Crime) ha in mano la riforma del sistema carcerario del paese. Nessuno del dipartimento ha però mai messo piede nella cella di detenzione di Gabò. Hanno invece inaugurato in pompa magna nel giugno 2011 due nuove carceri, a Bafata e Mansoa, per la ristrutturazione delle quali l’Onu, per mezzo dell’Unodc, ha investito circa 900mila dollari. Le celle sono più spaziose, le condizioni igieniche decisamente migliori, l’aria respirabile. Ma i tecnici si siano dimenticati di due elementi di certo non marginali: il pozzo ed il generatore. 900mila dollari di ristrutturazione e, sia a Bafata che a Mansoa, i detenuti non hanno acqua né luce. A cercare di tamponare le falle di questo sistema ci stanno provando due cooperanti torinesi, Fabio Iannuzzelli e Matteo Ghiglione, dell’ong Mani Tese, ed un padre francescano, Michael Daniels. Parlano con i detenuti, offrono loro sia assistenza giuridica che sanitaria. Perché l’Onu, oltre ad aver dimenticato pozzi e generatori, non ha nemmeno previsto un servizio di cure mediche. Chiedono l’aiuto di un medico, di un infermiere. Sanno che non ce l’avranno mai. Hanno sete, ma di acqua, per loro, nemmeno una goccia. Un ragazzo, che dice di avere quindici anni, sta seduto all’ombra. Il viso da bambino, le mani di chi ha iniziato molto presto a lavorare. Dice che non dovrebbe trovarsi qui, che la sua è una detenzione irregolare, che a quindici anni non si può stare dietro le sbarre. Nessuno lo ascolta. Egitto: avvocato di Mubarak; ex presidente rischia di morire in carcere Nova, 5 giugno 2012 L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak si trova in pessime condizioni di salute e rischia di morire in prigione: lo ha detto uno degli avvocati difensori dell’ex ras, Yasser Abdel Razek, citato dal quotidiano “Al Quds al Arabi”. Razek ha dichiarato che oggi chieder al Dipartimento degli istituti carcerari del ministero degli Interni il trasferimento di Mubarak dall’ospedale del carcere ad un’altra struttura meglio attrezzata. La direzione del carcere dove attualmente detenuto l’ex presidente ha rifiutato più volte le richieste di riservargli un trattamento medico specializzato. Iran: Marcenaro (Pd); appello per un atto di clemenza per avvocato Narges Mohammadi Asca, 5 giugno 2012 Il presidente della commissione Diritti Umani del Senato, Pietro Marcenaro, ha incontrato questa mattina Mohammad Alì Hosseini, Ambasciatore iraniano a Roma. Nell’incontro, protrattosi per oltre due ore, Marcenaro, raccogliendo l’appello della Fondazione Langer sottoscritto da molti cittadini e da numerosi parlamentari, ha sottolineato a nome della commissione Diritti Umani del Senato l’urgenza di un provvedimento di clemenza per motivi umanitari a favore Narges Mohammadi, avvocato e attivista iraniana dei diritti umani rinchiusa dallo scorso 21 aprile prima nel carcera di Teheran con una condanna definitiva a sei anni con l’accusa di “appartenere a organizzazioni che mettono a rischio la sicurezza dello stato”. Mohammadi, già arrestata 2 anni fa, si era ammalata in carcere di una rara forma di distrofia muscolare e le stesse autorità iraniane avevano allora concesso gli arresti domiciliari dietro pagamento di una cauzione. L’Ambasciatore ha preso atto della richiesta e si è impegnato a inoltrarla alle autorità competenti in Iran.