Giustizia: Circolare Dap; “regime aperto” per detenuti a bassa pericolosità Adnkronos, 3 giugno 3012 Un carcere a “regime aperto” che, per i detenuti a media e bassa pericolosità, potenzi gli spazi dedicati a lavoro, sport, attività ricreative e culturali, perché prevalga l’aspetto riabilitativo della pena. Il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, con una circolare inviata ai provveditori regionali, propone una serie di misure per alleggerire l’emergenza attraverso interventi, che, affiancati a quelli legislativi, abbiano come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita. Ma capovolgendo l’ottica: dal controllo e dalla costrizione al rafforzamento della responsabilità dei singoli, insieme con un modello di “vigilanza dinamica”, mettendo al centro i diritti della persona. Una scelta che possa rendere anche l’attuale situazione di sovraffollamento meno dannosa. L’intenzione del Dap è di dare ulteriore sviluppo a un percorso già avviato con una precedente circolare di novembre 2011, “Un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione”. Un obiettivo perseguibile ‘nonostante le oggettive difficoltà”, con una nuova politica penitenziaria che ha le sue premesse da una parte nelle nuove norme previste dal decreto del governo, dall’altra nelle iniziative messe in atto dal Dipartimento, sia sul fronte dell’edilizia, sia dell’immissione di nuovo personale di polizia penitenziaria. Il percorso, indicato alle varie realtà ragionali, prevede modalità di custodia meno rigide, armonizzando la sicurezza e il trattamento dei detenuti, L’intenzione è di stabilire, per la gran parte della popolazione detenuta giudicata di media pericolosità, modalità di custodia meno rigide “procedendo a modificazioni di alcune prassi sin qui seguite “ e superando, inoltre, la “dicotomia tra i concetti di sicurezza e trattamento” per pervenire alla “auspicata apertura verso modelli di detenzione più consoni alle finalità costituzionali della pena”. Il Dap individua la chiave di volta, lo snodo per la realizzazione del progetto nei Provveditorati regionali. Quindi, “se è vero che il livello del servizio va individuato in capo agli istituti, è altrettanto innegabile che il nuovo regolamento penitenziario ha previsto l’ambito regionale come macro-struttura di riferimento”. Si chiedono dunque ai Provveditori “progetti che dovranno individuare, per tutti gli istituti a media sicurezza” e in particolar modo nelle case di reclusione, soluzioni caratterizzate da un ampliamento degli spazi utilizzabili dai detenuti per frequentare corsi scolastici, di formazione professionale, attività lavorative, culturali, ricreative, sportive e, ove possibile, destinando un istituto o una sezione di questo totalmente a regime aperto”. Per aumentare il loro senso di responsabilità, i detenuti destinatari dei progetti, dovranno sottoscrivere all’atto dell’ingresso in istituto un patto con l’amministrazione con cui accettano le prescrizioni contenute. La circolare del Dap affronta poi il tema del controllo e della sicurezza, che va intesa come condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento e, dunque non affidata unicamente all’onere (e alla responsabilità) della Polizia Penitenziaria e da gestire con il contributo multidisciplinare di tutti gli altri operatori, per una visione integrata e non di certo limitata al mero controllo del detenuto. Il servizio della sicurezza, una volta abbandonata l’idea che sia necessario un controllo continuo sul detenuto, deve evolversi, in senso dinamico. Dunque dispiegarsi, diversamente, nei diversi periodi dell’anno, della settimana e/o del giorno; e fondarsi sulla valorizzazione delle risorse e dei ruoli. L’adozione di un modello di vigilanza dinamica, sottolinea il Dap, pur non canonizzato, è utile a impiegare in maniera ottimale le risorse umane, non tanto, non solo, in termini quantitativi quanto per esaltarne le potenzialità professionali e di relazione. Infine, una tale organizzazione, consentirà una più razionale distribuzione delle risorse disponibili che potranno essere allocate in relazione ai livelli di pericolosità dei ristretti, alle istanze trattamentali, alle risorse territoriali. Giustizia: la tortura per l’Onu è un crimine contro l’umanità, per l’Italia non esiste di Alessandro Graziadei www.unimondo.org, 3 giugno 3012 “L’Italia non può rimanere totalmente disinteressata al rispetto delle norme di diritto internazionale”. È questo in sintesi il cuore dell’iniziativa dell’associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale che in questi giorni ha lanciato l’appello “Chiamiamola tortura” che vuole promuovere il no alla tortura istituendone per legge il reato. “In Italia la tortura non è reato. In assenza del crimine non resta che l’impunità - si legge nel testo dell’appello pubblico - Ma la violenza di un pubblico ufficiale nei confronti di un cittadino non è una violenza privata. Riguarda tutti noi, poiché è messa in atto da colui che dovrebbe invece tutelarci, da liberi e da detenuti”. Per questo una legge generica non basta. “Il crimine di tortura ha qualcosa di particolare - ha chiarito Antigone - Innanzitutto è imprescrittibile, non è mai perseguibile a querela di parte ed infine comprende anche la violenza psichica, non solo quella fisica”. Con queste caratteristiche non si vede quale potrebbe essere la norma applicabile del nostro codice. Così quando sentiamo, spesso in modo retorico da parte di chi ha potere pubblico e istituzionale, che alcune cose si fanno perché lo ha detto l’Europa, va ricordato che sia l’Europa che le Nazioni Unite ci dicono da anni che è necessario codificare e punire specificatamente e severamente chi commette il crimine di tortura, perché è un crimine contro l’umanità. In realtà però “sono più di venticinque anni che l’Italia è inadempiente rispetto a quanto richiesto dalla Convezione contro la tortura delle Nazioni Unite, che il nostro Paese ha ratificato, e che prevedere il crimine di tortura all’interno degli ordinamenti dei singoli Paesi” ha spiegato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “La tortura è proibita dall’Onu e definita dall’Onu, ed è anche nel preambolo introduttivo del Trattato di Lisbona dell’Unione Europea, quindi è codificata già in ambito sovranazionale. L’Italia si è sempre sottratta. Ha sostenuto che la propria legislazione è sufficiente a coprire l’ipotesi delittuosa di tortura, quando invece la storia giudiziaria ci dice che così non è”. Non siamo in pochi, infatti, a ricordare i fatti avvenuti nel 2001 a Genova alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto (ricostruiti dettagliatamente dal film “Diaz”) e che ci hanno insegnato come la tortura riguardi da vicino anche le nostre “grandi” democrazie. I casi di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi o la recente sentenza del giudice Riccardo Crucioli che dovendo giudicare le violenze compiute da 5 agenti di polizia nei confronti di due detenuti è stato costretto ad assolvere i poliziotti colpevoli proprio perché “il codice penale non prevede il reato di tortura”, sono il termometro dell’urgenza di un appello al quale hanno dato il loro appoggio molti nomi illustri. Tra questi uno dei primi firmatari dell’appello di Antigone è Erri De Luca. Per lo scrittore partenopeo “La pratica della tortura e della brutalità è stata reintrodotta clandestinamente nel nostro Paese. C’è fin dai tempi delle leggi speciali, dei carceri e dei trattamenti speciali nei confronti degli incriminati per banda armata degli anni 80. E oggi viene praticata di nuovo contro i detenuti o i trattenuti in stato di fermo. È una pratica accettata, ma taciuta. Allora io dico che questo Paese deve uscire dalla sua ipocrisia: o ammette ufficialmente la tortura come sistema di trattamento speciale di detenuti e di sospetti, oppure introduce nel codice penali il reato e lo scoraggia profondamente”. Per De Luca, inoltre, in questi ultimi anni “È aumentata la licenza di torturare. Prima era uno strumento più selezionato. Ma in questi anni abbiamo anche introdotto i Cie, campi di concentramento per rinchiudere i colpevoli di viaggio, dove si pratica la tortura di massa, in condizioni di isolamento e senza la verifica di nessun organo di questo Paese. L’aumento dei suicidi e degli atti di lesionismo non sono altro che spie di questo trattamento speciale e disumano”. E non è un caso che l’Italia negli ultimi anni sia stata condannata svariate volte per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea che vieta la tortura e che proibisce sia la tortura che i maltrattamenti. “È stata condannata in relazione alle condizioni di detenzione nelle nostre carceri, ma anche per quell’abominevole pratica di deportare le persone immigrate che arrivano da noi nei paesi di provenienza dove c’è il rischio di venir sottoposti a tortura, pratica vietata non solo dalla giurisprudenza di Strasburgo, ma ribadisco - ha aggiunto Gonnella - anche dal Trattato di Lisbona. Non si può mandare indietro una persona se il luogo da dove proviene c’è rischio di tortura. E l’Italia non ha mai rispettato questa regola. E quindi abbiamo subito varie sanzioni”. Sarebbe sufficiente un’ora di lavoro per discutere e approvare una legge ad hoc, ma le preoccupazioni politiche, i timori di una parte minoritaria delle forze dell’ordine e la nostra indifferenza hanno lasciato una lacuna imperdonabile nel nostro codice penale. “Per questo chiediamo al Parlamento di approvare subito una legge che introduca il crimine di tortura nel nostro codice penale, riproducendo la stessa definizione presente nel Trattato Onu. Si tratta di una sola norma già scritta in un atto internazionale. Per approvarla ci vorrebbe molto poco”, ha concluso Antigone. “Sono passati troppi anni con questa lacuna persistente e speriamo che la presenza sotto al nostro appello di autorevoli firme del mondo della cultura, dell’accademia, dell’associazionismo, della società civile porti il legislatore a uno scatto di orgoglio democratico”. Giustizia: in carcere con la paura del sisma di Lucia Brischetto La Sicilia, 3 giugno 3012 È davvero difficile riuscire ad immaginare di non potere scappare e di non potere correre all’aperto in uno spazio grande all’aria aperta durante il sisma che smuove tutte le pareti e scuote i robusti cancelli di ferro che ti tengono relegato nel luogo della penitenza psico-fisica. È davvero difficile restare “normali” mentre si muovono le pareti, sbattono i cancelli e tu non puoi fare nulla per andare via, per salvarti? Sei chiuso in 4 metri per 4 assieme ad altri 10-15 persone e non puoi fare nulla. Sei impotente, non puoi correre, non puoi fare nulla per andare via da quella doppia prigione dello Stato e dell’evento della natura. È una sensazione spaventosa. Salvarsi la vita non è un diritto-dovere della persona in qualunque condizione sei? La Comunità Europea dei diritti dei detenuti sa bene di che cosa si tratta. l’Italia invece sembra distratta verso il dovere di umanità e sorda al grido di civiltà nelle strutture penitenziarie. Pertanto, anche dopo il considerevole tempo trascorso nel terrore di una stanza chiusa da poderose porte di ferro, si aprono i cancelli per correre nei corridoi dell’Istituto o al massimo nel cortile, non sei mai certo che ti stai salvando di sicuro, anzi hai la consapevolezza che là il pericolo del terremoto è doppio, triplo e forse di più. Sei sempre dentro un luogo chiuso, assicurato alla giustizia. E se gli agenti scappano prima di aprire le porte? E se le porte vengono lasciate aperte ci si domanda: “Ma per scappare dove? Nel cortile dell’Istituto oppure sempre dentro l’Istituto?”. In tutti gli Istituti penitenziari d’Italia non esistono luoghi ove ripararsi in caso di pericoli derivanti da terremoti. Da anni i funzionari della giustizia gridano inutilmente richieste di incolumità e di salvezza per se stessi e per i loro detenuti. In caso di eventi sismici, quando la paura fa novanta potrebbe essere naturale anche per gli agenti scappare. E nel frattempo le famiglie dei detenuti attendono notizie e telefonate. Centinaia e centinaia di telefonate che la direzione in questo caso consente di fare e di ricevere non bastano a rassicurare le parti. Non è facile in quei momenti ricevere e fare 300/400 telefonate ai familiari dei detenuti. E se gli agenti di polizia penitenziaria ti aprono il cancello e non hai il tempo materiale di raggiungere l’aria aperta (“aria aperta”), ovviamente recintata e chiusa da tutte le parti, che fai? E se ti cadono i muri addosso quando ancora e le porte non sono ancora aperte? Occorre sapere meglio cosa fare in questi casi dentro gli istituti, occorre svolgere lezioni di soccorso e sopravvivenza. Occorrono strutture idonee e soprattutto ampi spazi verdi ove collocare, in queste occasioni, gli “ospiti” di cotante strutture. Le circolari e le indicazioni ministeriali relative a tali eventi cozzano contro l’irrealizzato, il non approntato… In tutti gli Istituti penitenziari d’Europa esistono grandi spazi e spazi verdi ove allocare gli “ospiti” di cotante strutture in queste occasioni. Si può consentire l’evasione per ragioni di salvezza della vita? Questa è una domanda che da sempre si pongono diversi operatori penitenziari domandandosi se, in questi casi, si deve consentire la salvezza della vita o la conservazione (anche da cadavere) dell’autore del reato. Giustizia: quegli agenti penitenziari a guardia della casa vuota di Alfano di Eleonora Bujatti Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 3012 Ancora piantonata la residenza di Palermo. Polizia anche per altri ex ministri: Fassino, Mastella e Castelli. L’argomento della scorta e della tutela a personalità dello Stato è molto delicato, e lungi da noi di suggerire chi e come debba essere protetto. Tuttavia è nostro compito raccontare i fatti, ed ecco, dunque, un fatto. Questa è la storia di un piccolo ma significativo spreco italiano. È una sineddoche, la parte per il tutto, il particolare che racconta il generale, una delle schegge che va a comporre la trave infilata nell’occhio di uno Stato che forse non sa, forse non può o forse non riesce. Questa è la storia di un appartamento vuoto in cui tempo fa abitava un ministro diventato poi ex-ministro, appartamento che viene tutt’oggi protetto e sorvegliato da due uomini della Polizia Penitenziaria in pianta stabile, con tanto di telecamere a circuito chiuso e inevitabili sbadigli. L’ex ministro in questione (ma non è questa la notizia) è l’On. Angelino Alfano, che, nonostante dal luglio 2011 sia un semplice - e ora pure afflitto - segretario di partito, mantiene la protezione degli uomini dell’Uspev (Ufficio per la Sicurezza Personale e Vigilanza della Polizia Penitenziaria), non solo presso la sua residenza a Roma, ma anche a Palermo, dove da tempo non vive più e dove pare che l’appartamento sia pure in vendita. Tutto ciò rende la vicenda Alfano ancora più singolare, ma il suo non è certo un caso isolato. Anzitutto vale la pena di ricordare che il servizio di protezione è svolto non solo dall’Uspev, ma anche da Polizia di Stato, Carabinieri, Forestale e altri corpi. Ma la Polizia Penitenziaria, in particolare, dovrebbe occuparsi di ministri, sottosegretari, dirigenti e autorità dipendenti dal ministero della Giustizia. Perché allora un segretario di partito continua ancora ad occupare uomini della Polizia Penitenziaria? La risposta è che esiste una “prassi istituzionale” che prevede che la protezione continui anche dopo il decadimento dalla carica, anche per diversi anni. E perché esiste questa prassi istituzionale? E quanti uomini sono impiegati in questo modo? Alfano è forse l’unico di cui viene protetto anche lo spirito che aleggia nelle abitazioni precedenti, ma l’anomalia, se c’è, è di più larga scala. Al servizio di Piero Passino, ex (ormai molto ex) ministro della Giustizia c’è ancora un’unità di Polizia Penitenziaria; ce ne sono due per l’ex Roberto Castelli, quattro per l’ex Clemente Mastella, dodici per l’ex Nitto Palma, quattro per gli ex sottosegretari alla Giustizia Giacomo Caliendo e Maria Elisabetta Alberti Casellati (che, si leggeva sui giornali quest’inverno, pare sia stata scortata per quindici giorni tra le nevi di Cortina). E ce ne sono sedici per l’ex ministro Angelino Alfano, che sarebbe stato accompagnato da uomini e mezzi anche nel corso dell’ultima campagna elettorale. In tutti i casi ci saranno senz’altro ottimi motivi, ma non dimentichiamo anche che le carceri sono sovraffollate, che mancano nuclei di traduzione dei detenuti e che c’è grave carenza di personale di sorveglianza. Lettere: Antigone Campania e la vicenda di Ezio Rossi Ristretti Orizzonti, 3 giugno 3012 Era il 2009 quando si rivolse ad Antigone Ezio Rossi, all’epoca internato nell’Op. di Aversa: un internato sui generis, dotato di una coscienza politica formatasi negli anni 70, quando il confine tra voglia di giustizia sociale e violenza era troppo labile. Proprio la sua consapevolezza lo portava ogni giorno ad interloquire criticamente con l’apparato penitenziario. Il successivo trasferimento a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) non ha piegato, ma ha rafforzato, la sua voglia di combattere dall’interno quell’istituzione totale che va sotto il nome di “ospedale psichiatrico giudiziario”. La voglia di libertà - dopo circa trent’anni carcere e quattro nel circuito degli Opg - era rivendicata da Ezio anche nei momenti più difficili, allorché transitava in quel luogo asettico e alieno che è l’Opg di Castiglione dello Stiviere, in provincia di Mantova: se proprio doveva rimanere in un “manicomio criminale”, Ezio voleva tornare in Sicilia, dove il dott. Gaspare Motta, il dott. Giancarlo Cavallaro e Padre Pippo lo stavano aspettando. La libertà è arrivata poi pian piano, prima in una sezione distaccata dell’Opg di Barcellona poi in un appartamento tutto suo e con un lavoro, ma ancora in libertà vigilata. Dalla scorsa settimana, Ezio è completamente libero; la misura di sicurezza è stata revocata: lo deve a sé stesso, alla sua capacità di stabilire relazioni con un foglio e una penna e alla capacità di farsi volere un gran bene. La vita è finalmente tutta tua, Ezio. Mario Barone Presidente di Antigone-Campania Parma: detenuto 33enne muore appena rientrato in cella da ora aria, probabile malore Ansa, 3 giugno 3012 Un uomo di 33 anni di origini siciliane ma residente da tempo a Parma è morto ieri sera nel carcere della città emiliana. Detenuto comune, l’uomo era appena rientrato dopo avere trascorso l’ora d’ora e si era disteso sulla sua branda. Attorno alle 19 il suo compagno di cella si è però accorto che non respirava più ed ha fatto scattare l’allarme. Subito è stato soccorso dagli agenti di servizio e poi dai medici del 118 ma per lui non c’è stato nulla da fare. Il decesso è stato causato molto probabilmente da un malore, saranno però gli esami autoptici a fare chiarezza sulle cause del decesso. Non sono infatti escluse del tutto altre ipotesi. Nel carcere di Parma sono comunque numerosi i casi di suicidio, ultimo quello di Stefano Rossi, il 27enne condannato all’ergastolo per l’omicidio di Virginia Fereoli ed Andrea Salvarani che si era tolto la vita il 23 marzo scorso con una bomboletta di gas. “Domani il ministro della Giustizia, Paola Severino, sarà in Emilia Romagna e visiterà l’istituto penitenziario di Bologna e poi quello di Castelfranco Emilia - ha detto commentando la notizia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria - Sarebbe anche opportuno che incontrasse le organizzazioni sindacali, al fine di ascoltare dalla voce dei rappresentanti del personale le problematiche che riguardano l’Emilia Romagna. Chiediamo al ministro e al capo del Dipartimento di valutare l’opportunità di inviare personale in missione in Emilia Romagna”. Brescia: Canton Mombello “carcere lager”, detenuti in sciopero della fame di Anita Loriana Ronchi Giornale di Brescia, 3 giugno 3012 Battono le pentole e altri oggetti contro le grate, gridano “amnistia”, la stessa parola che campeggia sopra uno striscione bianco penzolante dalle inferriate. E da lunedì annunciano uno sciopero della fame, che non cesserà finché non saranno ascoltati. I detenuti di Canton Mombello fanno sentire la loro protesta contro la “situazione disumana” in cui sono costretti a vivere: in 6, 8, fino a 18 persone, con un solo servizio igienico, entro uno spazio calpestabile dai 70 ai 100 centimetri quadrati. Assiepati “come topi nelle gabbie”, dicono i membri del “Comitato per la chiusura del carcere lager di Canton Mombello”, che si sono fatti portavoce dei loro diritti all’esterno delle mura del carcere cittadino, dove ieri pomeriggio hanno dato vita a un lungo presidio. “Siamo qui, nella festa della Repubblica, per manifestare la solidarietà ai carcerati e denunciare il vergognoso stato di detenzione - hanno spiegato Eugenia Foddai e Beppe Coriani. Vogliamo richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica distratta e delle istituzioni latitanti”. Intanto i reclusi hanno continuato per ore, instancabili, con la “battitura”, lanciando grida anche nel tentativo di comunicare con i familiari. Frasi come “Tenete duro, non vi lasceremo soli” arrivano da mamme, fidanzate, sorelle. Vari interventi si sono alternati, da quello di Nicoletta Dosio di No Tav a don Gabriele Scalmana di Pax Christi. Dal megafono, Eugenia Foddai ha letto la lettera di un gruppo di detenuti, che annuncia l’iniziativa di domani: “La situazione in cui siamo costretti a vivere è per noi arrivata a un punto non più sopportabile” scrivono. E più avanti: “La direzione, il personale medico, infermieristico e la Polizia penitenziaria compiono ogni giorno miracoli, ma non basta più. I recenti episodi di suicidi e violenze sono spia del disagio”. Nella struttura di Canton Mombello sono rinchiuse 530-540 persone (con picchi che arrivano fino a 570-580), contro una capienza regolare di 200. A metà pomeriggio una delegazione composta da Umberto Gobbi, Beppe Coriani, Luigino Beltrami, Attilio Zinelli è stata ricevuta dalla direttrice del penitenziario, Francesca Gioieni, alla presenza del garante Emilio Quaranta e del comandante delle guardie Bertini. “Pur riconoscendo la gravità della situazione, non riportiamo purtroppo novità positive - ha dichiarato Gobbi dopo l’incontro. Abbiamo sottoposto la questione dell’aumento di apertura delle celle, ora con 6 ore d’aria giornaliere. Ci è stato risposto che bisogna attendere una direttiva del Provveditorato carceri, attesa a breve. Abbiamo chiesto ogni quanto un detenuto può vedere un educatore, e non ci sono state indicazioni precise. Quanto alla possibilità di accedere a misure alternative, ci è stato detto che dipende dalla Magistratura di sorveglianza”. La direttrice di Canton Mombello, ha riferito Gobbi, “rispetterà comunque la protesta e concede ai detenuti anche di costituire un comitato interno”. Teramo: detenuto aggredito dal compagno di cella con macchinetta caffè Il Centro, 3 giugno 3012 Aggredisce il compagno di cella con una macchinetta per il caffè, accanendosi sul viso. Gli agenti di polizia penitenziaria intervengono e vengono a contatto con il sangue del detenuto. Per cui si devono sottoporre a una serie di analisi, sperando di un aver contratto alcuna malattia. È accaduto ieri in carcere, e non è tutto. Poco dopo le 7, ieri, un detenuto della sezione “protetti” chiede a gran voce di essere spostato perché ha avuto un litigio con il compagno di cella. Gli agenti fanno appena in tempo ad avvicinarsi alle sbarre e a cercare di mettere pace, quando il compagno di cella si scaglia contro chi aveva chiesto aiuto. E si accanisce sul suo volto con una macchinetta del caffè. A quel punto agli agenti di polizia penitenziaria intervengono per salvare l’aggredito, che oramai è ridotto a una maschera di sangue. Il ferito, S.M., viene trasportato in ospedale dove gli diagnosticano una frattura delle ossa nasali e un ematoma a un’orbita. L’aggressione ha avuto uno strascico: un agente si è sporcato con il sangue del ferito. Da qui la presa di posizione della Fns Cisl. “Al personale non vengono forniti guanti, né mascherine, né occhiali per evitare il contatto con il sangue”, spiega Paolo Chiarini, segretario della Fns Cisl, “e fatti del genere non sono rari. La fornitura l’abbiamo chiesta più volte, senza esito. Questo si traduce in un rischio in più”. L’agente dovrà ripetere l’esame del sangue nei prossimi mesi per verificare se non è stato contagiato. Gli agenti non sanno chi ha malattie contagiose, dall’Aids all’epatite. “Noi non veniamo tutelati, non abbiamo un’attrezzatura idonea a portata di mano”, incalza Chiarini, “d’altronde non possiamo non intervenire. Il personale svolge sempre ore di lavoro in più, fa sacrifici, ma a fine anno quando si fa la classifica sui comportamenti, le valutazioni vengono pure abbassate. Quest’anno è accaduto al 90% del personale. Pare che non si tenga conto conto di quanto succede: basta vedere solo quanti aspiranti suicidi sono stati salvati, più di una quindicina in un anno”. Ma la situazione ora potrebbe diventare esplosiva. La carenza di personale, è un dato ormai assodato, è grave al carcere di Teramo. Che però è stato scelto per una sperimentazione dal ministero, che dovrebbe partire a giorni, e che prevede che vengano aperte le porte delle celle. “Per raggiungere il livello massimo di sicurezza dovremmo essere 270 agenti”, spiega il sindacalista, “ne siamo a malapena 178, visto che in questa cifra consideriamo ispettori e commissari, che hanno funzioni direttive, e che sono la metà. Per fortuna l’aggressione non è avvenuta di notte: ci sono solo 7 agenti per controllare quattro sezioni di 100 detenuti per piano. Di fronte a questa situazione nessuno si muove per colmare almeno parte delle carenze. E non vogliamo pensare a che cosa accadrà con le nuove disposizioni del ministero: Teramo sarà un carcere con “sorveglianza dinamica”: i detenuti andranno in giro da soli nella sezione, con le porte delle celle aperte. Facile prevedere litigi e risse. Ora in media siamo due agenti per piano e non sappiamo come gestiremo la situazione”. Trento: arte dietro le mura… una rete creativa trasforma il carcere Il Trentino, 3 giugno 3012 Il progetto “Donne dentro” con i suoi “percorsi dietro le mura” è spunto per diverse riflessioni emerse durante il confronto della serata conclusiva. Riflessioni proposte dal pubblico che ha partecipato attivamente all’incontro. È cronaca di questi giorni il dibattito sulle carceri, il sovraffollamento, le condizioni di vita e allo stesso tempo le dichiarazioni della dottoressa Forgione, ex direttore della Casa Circondariale di Trento, che denuncia il disinteresse e tutti i pregiudizi nei confronti di carcere e carcerati da parte di quasi la totalità dell’opinione pubblica. “A Trento è microcriminalità-riporta l’avvocato Matteo Sevastano- che fa sorridere, ma che se lasciata nelle mura del carcere, senza un vero confronto e una crescita esterna con il mondo a cui dovrebbero tornare, non fa che autoalimentarsi in un circolo vizioso che segnerà una vita soprattutto nel caso dei minorenni”. Va bene la poesia dunque e anche la filosofia, ma sono i gesti concreti e le occasioni che, come sempre, fanno la differenza. di Katja Casagranda Al Teatro delle Garberie di Pergine l’altra sera si è parlato di carcere gli occhi di chi ha incrociato questa realtà il tempo di un laboratorio o di un’esperienza. E che ne rimanda i frutti con una creazione artistica o solo con una testimonianza. “Percorsi dietro le mura” si iscrive come momento di confronto aperto al pubblico voluto da Ariateatro, compagnia teatrale stabile di Pergine, a conclusione di un breve laboratorio di teatro nella Casa Circondariale di Trento in collaborazione con Politiche Pari Opportunità. “Lo scopo della serata-racconta Denis Fontanari responsabile di Ariateatro-è stato quello di creare un dibattito conclusivo con coloro che abbiamo incontrato mentre portavano avanti un percorso di laboratorio creativo simile al nostro, sia per sensibilizzare sulla tematica del carcere, che per confrontarsi e crescere, magari facendo rete, in vista di un possibile ripetersi dell’esperienza” Una serata di bilanci quindi e di confronto di esperienze che incontrano ma allo stesso tempo si scontrano con tutte le problematiche del caso, anche solo la situazione stessa della breve permanenza dei reclusi, essendo la Casa Circondariale luogo di detenzione per piccola criminalità e quindi per pene brevi e minime, nemmeno il tempo, a volte, di un laboratorio formativo e culturale. Alla serata partecipa una rappresentanza degli studenti del Liceo Scientifico Da Vinci di Trento che racconta dello spettacolo da poco presentato al Teatro Cuminetti “You are my Sister” realizzato appunto con la sezione femminile della Casa Circondariale. Il progetto nato da un’indagine sul tema della libertà svolto in classe e partito dalla domanda di indagine interiore dei ragazzi su cosa sia il carcere, è poi uscito, paradossalmente per entrare davvero in carcere con il laboratorio teatrale “Oltre le sbarre”. Sul palco, attraverso la sensibilità dei ragazzi, e coordinati dall’educatrice teatrale Ilaria Andaloro, prendono forma suggestioni, racconti ed emozioni delle detenute. Ma se l’analisi dell’insegnante con una visione romantica non riempie di significato il teatro del gesto salvifico, quanto gli vuole dare il valore di veicolo con cui aprire la mente e permettere ai detenuti di sentirsi liberi con un atto di creatività e fantasia, questo forzato esercizio di intellettuale elevazione dal giudizio si scontra poi con il commento del direttore amministrativo alla Procura e tribunale dei Minorenni Matteo Savastano che riporta la realtà alla sua fisicità di detenzione. Se quindi il valore dei laboratori in carcere deve dare un’occasione, anche solo di formazione intellettuale, allora questa dovrebbe dare la possibilità, soprattutto per i minorenni, di incontrarsi e confrontarsi con il mondo esterno per ricostruirsi una vita fuori da queste mura. Sono infatti i laboratori formativi quelli più gettonati e frequentato come emerge dal racconto del professor Marco Patton che in carcere tiene laboratori di estetica e taglio gestiti dall’Istituto di Formazione professionale “Sandro Pertini”. Lo spiraglio è quello di intravedere la possibilità di una futura occupazione che rende meno un miraggio assicurarsi un permesso di soggiorno, visto che a Spini di Gardolo i reclusi sono principalmente extracomunitari clandestini il cui unico futuro è quello di estradizione o clandestinità estrema una volta scontata la pena. Così, spiega Michele Larentis Presidente della Conferenza regionale Volontariato Giustizia, i detenuti si appigliano alla falsa speranza che trovando un lavoro automaticamente si riceve il permesso di soggiorno. Ma l’iter non è questo. Positiva l’esperienza invece musicale dei laboratori tenuti da Enrico Merlin. Il musicista, compositore e teorico di storia della musica, racconta dell’incontro profondo che il linguaggio musicale può suscitare. E, se la musica fa parte della vita ed è vita, basterebbe pensare a quanto sia sonoro il mondo protetto del ventre materno durante la gestazione di ogni figlio, proprio la musica permette il superamento delle barriere culturali nel momento in cui si scoprono affinità, origini comuni, linguaggi ritmici o sonori condivisi. Un’esperienza tanto positiva da far incontrare veri talenti musicali che avrebbero solo bisogno di un’occasione per poter essere coltivati, occasione che un permesso di soggiorno potrebbe fare l’unica differenza. Testimonianza di come la fisicità espressiva sia forte in carcere è data dai murales dei detenuti guidati dai laboratori di Denise Bernabè con il progetto “Una stanza a colori” organizzato dal Mart di Rovereto. Esperimento che non solo da frutti ma rimane a decoro delle mura della Casa Circondariale con elaborazioni ideate e poi realizzate su Klimt, Mirò e Depero. E se quindi ne esce un “Albero della vita” su ispirazione dell’originale di Klimt, allo stesso tempo le detenute si sbizzarriscono poi con temi tratti dai cartoni Disney oppure creando un acquario di pesci colorati e fondali marini per le stanze che accoglieranno i momenti di incontro e cura dei figli, indirettamente in carcere con loro. “L’occasione - conclude Fontanari - sembra quella di fornire la possibilità di fare rete fra chi propone laboratori in un contesto da una parte difficile, ma dall’altra molto reattiva e stimolante”. Roma: il 12 giugno assemblea Comitato Nazionale e Comitati Regionali di “Stop Opg” Ristretti Orizzonti, 3 giugno 3012 Confermiamo l’Assemblea (aperta) del Comitato Nazionale e dei Comitati Regionali Stop Opg il 12 giugno prossimo a Roma. Sede e programma di lavoro saranno indicati a breve. Lo stato preoccupante, ma non sorprendente, di attuazione del processo di “superamento” degli Opg e l’approvazione in Commissione Affari Sociali alla Camera (Lega nord e Pdl) del testo del Disegno di Legge “anti180” (relatore on. Ciccioli), rendono particolarmente importante l’appuntamento del 12 giugno. L’orario, dalle ore 10,30 alle ore 16,30, ci sembra possa permettere arrivi e partenze “accettabili” e, se siamo puntuali, di avere sei ore a disposizione per discutere. Valuteremo insieme l’esperienza e come proseguire la campagna di stop Opg a livello nazionale (quale profilo dare all’iniziativa, prossime scadenze, ecc.). Ma soprattutto prevediamo interventi dei Comitati Regionali per comunicazioni sulla situazione e sui programmi a livello territoriale: con “ un volto, un nome” abbiamo deciso di impegnare Stop Opg nel territorio, dove sappiamo si gioca, a partire dal ruolo di Regioni, Asl e Dsm, gran parte delle possibilità di costruire l’alternativa al modello manicomiale, e quindi anche all’Opg. E la nascita dei comitati in 15 regioni è un segno certamente positivo, che, riprendendo un impegno per la salute mentale e sul welfare locale (in piena crisi economica !) propone un “modello sociale” inclusivo e più giusto. Vi sarà anche una comunicazione su un’ipotesi di lavoro relativa a “tutela legale e advocacy”, che Stop Opg potrebbe offrire grazie a Cittadinanzattiva e ad Antigone (da precisare con successiva riunione operativa il 3 luglio). L’attacco frontale alla legge 180 non può essere fronteggiato solo con comunicati stampa (pure importanti), per questo il 12 giugno non vorremmo fare una riunione “ristretta” quanto piuttosto un’assemblea, che diventa anche un gesto di mobilitazione: ma questo dipende dalle presenze ! Perciò vi invitiamo: a confermare personalmente la presenza, ad allargare l’invito e a segnalarci la presenza di quanti intendono partecipare (anche per decidere le dimensioni della sala). Bollate: sul palcoscenico nella Casa di reclusione, undici attori detenuti di Monza di Gianfelice Facchetti Corriere della Sera, 3 giugno 3012 Mettete una sera a teatro per sentire raccontare di vacanze e reclusione, cercando di comprendere che fine abbia fatto il nostro tempo libero per eccellenza, le ferie. È ciò che è successo l’altra sera sul palcoscenico del teatro nella casa di reclusione di Bollate, su cui si sono esibiti undici attori detenuti provenienti dal carcere di Monza. Quello che abbiamo portato in scena è stato l’esito di un laboratorio teatrale di pochi mesi che abbiamo intitolato, “Ultima spiaggia”. È la storia di un gruppo di villeggianti uomini che arrivati in riva al mare si ritrovano in uno dei tanti lidi delimitati da recinzioni di giorno e videosorvegliati di notte, un luogo in cui spazio, tempo e corpo sono disciplinati per ovviare al problema del sovraffollamento. Delle spiagge? Delle carceri? A un certo punto della rappresentazione il bagnino, una specie di kapò, domanda ai suoi clienti: “Volete la certezza della vacanza? Io ve la do, al fresco, in cabina!”. In quel metro quadro angusto, egli stesso lascerà svolgere le poche attività capaci di schivare i divieti che potrebbero mettere a repentaglio l’ordine. Unica chance, mettersi nei ranghi e prendere il sole bene. Al massimo, azzardarsi a costruire castelli da mostrare alle ragazze quando si degneranno di andare a trovare quei “vacanzieri” soli da tanto tempo. Costruzioni di sabbia destinate a crollare alla prima onda lunga, quando salirà la marea e l’acqua arriverà al collo. Gli spettatori hanno partecipato divertiti, commossi, e guardando gli attori in azione avranno forse rivisto il nostro umano arrabattarci per la conquista di un ombrellone in prima fila, dove il vento soffia più forte, con la certezza che il mondo sia diviso tra chi va al mare e chi in montagna, che il bene sia vicino a noi e il male dietro il muro di una galera. C’è gente che al “mare” ci è finita per caso, per sbaglio, semplicemente perché non conosceva un posto migliore. L’estate che si affaccia col primo caldo è anche loro. Buon vento, gente di mare! Como: gli “omicidi in corsia” in un libro, esce romanzo su Sonya Caleffi di Anna Campaniello Corriere di Como, 3 giugno 3012 La drammatica inchiesta sull’infermiera che uccise cinque persone, tra cronaca nera e letteratura Lo ha scritto il suo legale, Claudio Rea: “Lei mi ha dato l’assenso”. Un serial killer donna, delitti in corsia difficili da scoprire, la mano che dovrebbe curare che si trasforma in strumento di morte. Un clamoroso caso di cronaca che dall’inizio è sembrato la perfetta sceneggiatura di un thriller, dalla drammatica realtà si sposta ora nella letteratura. Sonya Caleffi, l’infermiera di Tavernerio condannata per aver ucciso cinque pazienti, diventa la protagonista di un romanzo, una storia ispirata alla realtà. A narrarla, un osservatore speciale della vicenda, Claudio Rea, legale difensore della 42enne. “Difesa d’ufficio” - edito da Dalai, nelle librerie di tutta Italia dal prossimo 19 giugno - è il romanzo d’esordio dell’avvocato lecchese che ha assistito sin dall’inizio l’infermiera comasca, attualmente detenuta nel carcere di Bollate, dove sta scontando una condanna definitiva a 20 anni di carcere per il delitto di cinque pazienti e il tentato omicidio di ulteriori due malati. Tutti i reati sono stati commessi all’ospedale Manzoni di Lecco, dove la professionista ha lavorato. Alle sue vittime, Sonya praticava letali iniezioni di aria nelle vene. Dopo l’arresto, l’infermiera ha spiegato come il suo intento non fosse di uccidere, bensì di provocare una situazione di grave emergenza e poi di risolverla, per mostrare ai colleghi le sue capacità. Sonya Caleffi è stata arrestata nel dicembre del 2004. Nell’ottobre del 2008, la Cassazione ha poi confermato e reso definitiva la condanna a 20 anni di reclusione per i cinque omicidi e anche per i due tentati omicidi. “Alla fine del processo ho cominciato a pensare all’ipotesi di scrivere un libro - dice Claudio Rea - Quello di Sonya Caleffi è un caso clamoroso sotto tanti punti di vista e ho voluto, con questo romanzo, storicizzare un fatto eclatante per i profili giuridico, medico-legale e psichiatrico. Il testo è in tutto e per tutto ispirato ai drammatici fatti accaduti. I nomi dei personaggi sono stati modificati, ma nel complesso quella che viene narrata è la verità dei fatti, dagli omicidi al processo”. Nomi inventati e dettagli modificati, senza però andare a cambiare la drammatica realtà dei fatti. “Non solo Sonya era a conoscenza della mia decisione di scrivere un libro - spiega il suo legale - Mi ha anche dato il via libera. Non avrei mai pubblicato il romanzo senza il suo assenso pieno e incondizionato. Appena l’ho avuto ho iniziato a scrivere. Le ho già fatto avere una copia del libro che presto sarà nelle librerie, anche se non mi ha ancora fatto alcun commento”. Dopo un periodo di detenzione nel carcere di San Vittore, l’infermiera è attualmente rinchiusa nel penitenziario di Bollate. Prima dell’arresto, Sonya aveva alle spalle un breve matrimonio fallito. Due anni fa, in carcere, si è risposata con rito civile con un altro detenuto. Nello stesso periodo, aveva suscitato scalpore l’ipotesi che la donna potesse già usufruire di permessi per brevi uscite dalla prigione. Un beneficio del quale, almeno fino a questo momento, la donna, oggi 42enne, non ha ancora goduto. “Non solo non ha avuto permessi - precisa Claudio Rea - ma non li ha nemmeno chiesti anche se potrebbe farlo da tempo perché ha superato la metà della pena. Siamo convinti che sia ancora prematuro. Finché è stata a San Vittore, Sonya non voleva neppure uscire, non si sentiva ancora pronta. Ora la situazione sta cambiando e sicuramente valuterà l’ipotesi di fare richiesta, anche se è prematuro ora dire in che tempi”. Calcolando i 3 anni di condono e i 2 della liberazione anticipata, Sonya Caleffi ha davanti a sé ancora sette anni circa di detenzione, senza contare la probabile ulteriore riduzione per buona condotta. “La carcerazione sta continuando in modo impeccabile - sottolinea Claudio Rea - Sonya partecipa a numerose attività rieducative e il suo percorso riabilitativo sta proseguendo in modo costante, assiduo e continuo. Ha sempre lavorato e continua a farlo. Vicino a lei sono da sempre i suoi familiari, anche se sulla sua vita privata non intendo dare alcuna informazione. Riguarda solo Sonya”. Due anni fa, il matrimonio in carcere aveva sollevato nuovamente i riflettori sull’infermiera killer e aveva scatenato inevitabili polemiche. Sonya aveva pronunciato il fatidico “sì” senza i suoi genitori, che non avevano voluto “benedire” quell’amore nato dietro le sbarre. Entrambi i coniugi al momento sono ancora detenuti nello stesso penitenziario, dove possono comunque incontrarsi solo quattro ore al mese, nello spazio destinato ai colloqui con i familiari. Mondo: da Saddam a Milosevic; dittatori alla sbarra, pene esemplari per gli ex tiranni Ansa, 3 giugno 3012 Saddam, Fujimori, Ceausescu: sono diversi i dittatori che hanno terminato la propria parabola al cospetto di un giudice, condannati da quelle stesse nazioni che avevano governato con il pugno di ferro. L’elenco è lungo e con la condanna all’ergastolo comminata oggi all’egiziano Hosni Mubarak si arricchisce di un nuovo, celebre tiranno che ha segnato la seconda metà del XX secolo. Eppure, non sempre i popoli dei quattro angoli del globo sono riusciti a riscattare il proprio oscuro passato. A volte, come per il tunisino Ben Ali, i dittatori hanno imboccato in tempo la via dell’esilio. Altre volte, come è accaduto al rais libico Gheddafi, sono stati invece travolti dalla furia omicida dei loro ex sudditi. Destò certamente scalpore la condanna a morte inflitta nel dicembre del 2006 a Saddam Hussein. E, il video della sua impiccagione, con il rais che attende, a volto scoperto, l’aprirsi della botola sotto i suoi piedi, infiammò l’opinione pubblica ancora divisa sulla giusta sorte da riservare al dittatore. Mentre, 17 anni prima, un’altra celebre esecuzione veniva in buona parte filmata e trasmessa sulle tv di tutto il mondo: quella di Nicolae Ceausescu, deposto nel 1989 e caduto, assieme alla moglie, sotto i 100 colpi di un plotone rumeno, dopo che un tribunale militare “volante” aveva decretato in soli 55 minuti la fine del Conducator. Come per l’Iraq, anche per l’epilogo del panamense Manuel Antonio Noriega fu decisivo l’intervento degli Usa che, nel 1989, invasero lo Stato centroamericano certificando così la fine dell’appoggio per anni riservato al loro fedele dittatore. Condannato negli Usa per traffico di droga, Noriega, dopo 22 anni di carcere tra Miami e Parigi, nel dicembre scorso è stato estradato a Panama dove sconterà una condanna a tre pene di 20 anni ciascuna per violazione di diritti umani e per l’uccisione degli oppositori. Sempre in America Latina, è attualmente detenuto in un carcere di massima sicurezza Alberto Fujimori, che dal 1990 al 2000 governò il Perù macchiandosi di diversi abusi e cancellando ogni forma di democrazia. Dopo una fuga in Giappone (Paese originario dei suoi genitori), fu catturato nel 2005 a Santiago del Cile e condannato a 25 anni nel 2009. Mentre poco più a Sud, Augusto Pinochet, dal 1974 al 1990 a capo del Cile post-Allende, sebbene diverse volte costretto ai domiciliari, riuscì ad evitare un processo vero e proprio fino alla morte, nel dicembre del 2006. In Africa, provvidenziale fu invece la fuga in Zimbabwe per Mènghistu Hailè Mariàm, detto il Negus Rosso, feroce dittatore dell’Etiopia dal 1974 al 1991, condannato a morte in contumacia nel 2008. Mentre nella Repubblica Centrafricana, Jean-Bedel Bokassa, moriva, da libero, nella sua villa di Bangui nel 1996 dopo aver usufruito di una contestata amnistia: dal 1966 al 1976 aveva infatti governato nel sangue il suo Paese, torturando i suoi oppositori e - pare - macchiandosi perfino di cannibalismo. È destinato invece a morire in cella Charles Taylor, padre-padrone della Liberia dal 1997 al 2003 e protagonista della guerra civile che negli stessi anni sconvolse la vicina Sierra Leone. Il 30 maggio, una Corte internazionale speciale lo ha condannato all’Aja a 50 anni di carcere per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. E, sempre nella città olandese, davanti alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia, giunse nel 2001 Slobodan Milosevic. Ma il processo fu interrotto 5 anni dopo a causa della morte dell’ex presidente jugoslavo. Che davanti ai giudici aveva giocato la carta del patriottismo contro le accuse di crimini contro l’umanità e genocidio, mostrando quella spregiudicatezza che, fino alla fine, non ha mani abbandonato i dittatori del Pianeta. India: concessa libertà su cauzione ai due marò italiani La Presse, 3 giugno 3012 I due marò italiani detenuti in India, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, usciranno stasera o domani dalla Borstal School. Lo si apprende dal legale Carlo Sica, dell’avvocatura di Stato, che segue la vicenda dei due militari. Il tribunale di Kollam ha concesso la libertà su cauzione. “I due marò - fa sapere il legale - hanno anche avuto il visto necessario per poter soggiornare sul territorio indiano dopo la fine della loro detenzione”. La prossima udienza per il processo che li vede coinvolti per la morte di due pescatori indiani è prevista il 18 giugno. Monti: soddisfazione, ma vogliamo ritorno in Italia “Esprimo la viva soddisfazione del Governo e mia personale per la liberazione, avvenuta oggi su cauzione, dei nostri marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti da oltre tre mesi nel Kerala (India) a seguito di un incidente avvenuto in acque internazionali”. Così, in una nota, il presidente del Consiglio Mario Monti. “Ho porto telefonicamente i sentimenti di gioia del popolo italiano al maresciallo Latorre e al Secondo Capo Girone e ho potuto constatare la loro forza e fierezza, malgrado la dura esperienza di questi mesi. Un obiettivo importante della nostra azione - ha aggiunto - è stato così raggiunto. Ma la conclusione finale che vogliamo, per la quale abbiamo lavorato fin dal primo giorno con determinazione nei confronti delle autorità indiane di ogni livello, è il ritorno in Italia dei nostri militari. Il risultato oggi conseguito, è frutto dell’incessante impegno dei ministri della Difesa, degli Esteri, della Giustizia e delle rispettive Amministrazioni, nonché dello stretto coordinamento al quale abbiamo improntato l’intera operazione, rivolta ad una finalità così rilevante non solo per i due militari, ma anche per la dignità nazionale dell’Italia, profondamente sentita dall’opinione pubblica e dalle forze politiche. Trovo significativo - conclude Monti - che la liberazione sia avvenuta proprio nel giorno della festa della Repubblica e all’indomani di un altro risultato significativo: la rapida liberazione di Modesto Di Girolamo, sequestrato in Nigeria lunedì scorso. Anche per questo evento esprimo la soddisfazione del Governo e l’apprezzamento per tutti coloro che vi hanno contribuito”. Egitto: ergastolo per Mubarak, riconosciuto colpevole morte di 850 manifestanti Agi, 3 giugno 2012 Nel processo per omicidio plurimo e corruzione a carico di Hosni Mubarak, la Corte Penale del Cairo ha condannato all’ergastolo l’84enne ex presidente egiziano, riconoscendolo colpevole della morte di oltre 850 manifestanti, durante l’insurrezione che l’11 febbraio 2011 lo costrinse infine a cedere il potere, per aver ordinato alle forze di sicurezza di aprire il fuoco sulla folla. Il carcere a vita è stato altresì inflitto a Habib al-Hadly, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno. Mubarak rifiuta di entrare in carcere, 30 minuti per convincerlo L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, condannato oggi all’ergastolo dal Tribunale penale del Cairo, si è rifiutato di lasciare l’elicottero militare che lo aveva trasportato al carcere di massima sicurezza di Tora, dove il giudice Ahmed Refaat lo aveva destinato. Lo riferiscono fonti della sicurezza egiziana, affermando che sono stati necessari una trentina di minuti per convincere Mubarak a lasciare il velivolo e a entrare nell’ospedale del carcere al sud del Cairo, dove sono detenuti altri esponenti di spicco del deposto regime. Nello stesso carcere si trovano anche i figli dell’ex rais, Alaa e Gamal. Fino ad oggi, Mubarak era detenuto nel Centro medico internazionale appena fuori dal Cairo, dove alloggiava in una doppia suite di 250 metri l’una. I medici avevano sempre detto che l’ex presidente doveva restare in questa struttura di élite per le sue precarie condizioni di salute, dovute anche dal suo rifiuto a mangiare. I medici avevano anche diagnosticato a Mubarak una severa depressione. Liberia: colpevole di crimini contro l’umanità, Taylor condannato a 50 anni di carcere La Repubblica, 3 giugno 3012 Una condanna a cinquant’anni di prigione, quando se ne sono già compiuti 64 di età, equivale a una condanna a vita. Fine pena mai: questa è la sorte che aspetta Charles Taylor, già presidente della Liberia, ritenuto colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità “estremamente gravi per ampiezza e brutalità”, come ha detto il giudice nell’annunciare la pena. Ad emettere questa sentenza della quale non si ricordano precedenti, è stato il Tribunale speciale per la Sierra Leone, una delle Corti create dalla giustizia internazionale. Sebbene il Tribunale abbia sede a Freetown, il processo Taylor si è celebrato all’Aia. Ed è lì, in un’aula grigia e ovattata, indossando una delle sue tante cravatta tinta unita - questa volta gialla - e senza apparentemente battere ciglio, che Charles Taylor ha ascoltato il verdetto ieri mattina poco dopo le 11. La sua sorte non è definitiva: certamente egli ricorrerà in appello e fra una cosa e l’altra, stimano gli esperti, ci vorranno almeno altri sei mesi per raggiungere il secondo grado di giudizio. Dopodiché, se l’esito del primo grado non verrà completamente ribaltato - possibilità che appare al momento davvero remota - si spalancheranno per lui le porte di una cella di massima sicurezza in una prigione britannica. L’Olanda accettò infatti di ospitare il dibattimento solo se un altro Stato si fosse offerto di far scontare l’eventuale pena a un condannato così in vista; l’unico a farsi avanti è stato il Regno Unito. Comunque vada a finire l’appello, il processo Taylor sta facendo ampiamente storia. Se si esclude il precedente davvero eccezionale di Norimberga, dove vennero portati alla sbarra i gerarchi nazisti sopravvissuti all’indomani della Seconda guerra mondiale, nessun capo di Stato era mai stato giudicato dalla giustizia internazionale, tantomeno per crimini così orrendi; e tantomeno era stato condannato a una pena così pesante. Il serbo Slobodan Milosevic morì in prigione all’Aia mentre il suo processo era in corso. E quello dell’ivoriano Laurent Gbagbo, anch’egli detenuto nella città olandese, non è ancora cominciato. I fatti per i quali Taylor è stato giudicato avvennero nel corso della guerra civile della Sierra Leone mentre egli era presidente della Liberia (1997 - 2003). Taylor armò e guidò da lontano una milizia che in Sierra Leone commise delitti spaventosi - stragi, mutilazioni, stupri, inenarrabili violenze collettive - e instaurò un regno del terrore allo scopo di prendere il controllo della regione diamantifera del Paese. Controllati da un esercito di bambini soldato, migliaia di minatori-schiavi estraevano le pietre preziose per conto dell’uomo che ieri ha dovuto ascoltare, in piedi, la sua raggelante condanna.