Quei colloqui in sale troppo affollate Il Mattino di Padova, 26 giugno 2012 Uno degli elementi basilari della rieducazione in carcere è l’agevolazione dei rapporti con la famiglia. I contatti tra detenuti e familiari si fanno attraverso i colloqui visivi in sale affollate, dove mediamente stanno 12 - 15 detenuti e i loro familiari (al massimo tre per volta). Il tutto si svolge sotto lo sguardo degli agenti. Il numero delle ore complessive mensili è di sei per i detenuti imputati o condannati per reati comuni. Ma quelle sei ore in tanti non riescono a farle tutte, perché può capitare che il detenuto sia trasferito, magari in un carcere lontano da casa. Eppure la legge dice che chi commette reati dovrebbe essere recluso in un carcere vicino a dove vive la sua famiglia, ma la testimonianza di Antonio, che ha la famiglia in Sardegna ma è detenuto a Padova, e quella di sua sorella ci raccontano un’altra realtà. Visite in carcere sempre un sacrificio La legge penitenziaria testualmente recita: “Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari”. Ma anche se la norma dice così, non sempre ci sono le circostanze favorevoli affinché i detenuti riescano ad incontrare le loro famiglie sei ore al mese. In pratica tutti i colloqui previsti riescono a farli solo quei detenuti che sono ristretti in carceri vicine al luogo dove abita la loro famiglia. Per i familiari venire a fare colloqui è sempre comunque un sacrificio e non da poco, anche per quelli che abitano vicini. Bisogna alzarsi la mattina prestissimo per cucinare qualcosa da portare dentro, poi mettersi in viaggio per arrivare al carcere e una volta lì non è che subito ti fanno entrare, bisogna aspettare che si liberino le sale. Succede in tanti posti che i familiari si presentino davanti al carcere alle quattro del mattino e riescano a entrare nella sala del colloquio alle due o alle tre del pomeriggio. Al carcere di Napoli Poggioreale, ad esempio, questa è ordinaria amministrazione, perché tutti sperando di fare in fretta arrivano pressappoco alla stessa ora, ma solo una minima parte può entrare ai primi turni, mentre gli altri devono aspettare fino a quando non vengono chiamati. Se i problemi per quelli che abitano vicini sono questi, per quelli che abitano lontano ce ne sono anche altri. Io ho la mia famiglia in Sardegna e ho fatto fino a oggi 22 anni di carcere, buona parte dei quali in istituti fuori della Sardegna, principalmente in Toscana, Campania e qui in Veneto. Per venire a colloquio i miei familiari devono fare 150 chilometri di strada per andare all’aeroporto, prendere l’aereo e arrivare nell’aeroporto più vicino al carcere. Poi prendere il treno che porta alla città dove c’è il carcere. Arrivati lì bisogna cercare un albergo dove passare la notte e poi il giorno dopo prendere un taxi che li porta al carcere e una volta lì affrontare tutti i problemi di attese snervanti sopra descritti. Infine dopo un’ora o due di colloquio rifare tutta la strada del ritorno. Ogni volta è un sacrificio enorme che porta via almeno due giornate di tempo, senza contare le corse affannose da una parte all’altra e le spese. L’Ordinamento Penitenziario dice che nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia, in base al principio della “territorialità della pena”, il che vuol dire che i condannati dovrebbero espiare la pena nella loro regione, o nella regione più vicina e comunque a non oltre 300 chilometri di distanza dalla residenza della famiglia. Ma in realtà per un grandissimo numero di detenuti questo criterio non viene rispettato. E chi ne fa le spese non siamo solo noi detenuti che qualche colpa sicuramente ce l’abbiamo, ma sono i nostri familiari, che colpe non ne hanno, a pagare il prezzo più alto. Antonio Floris La prima volta da mio fratello La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere, mio fratello aveva 29 anni. Una vita normale da studente universitario, il sogno di diventare veterinario, lo sport sua grande ragione di vita, la montagna, la pesca, gli amici di chiassose serate. Una famiglia semplice come tante. Poi ad un certo punto la strada sbagliata, dalla quale è impossibile tornare indietro e nella quale quell’intelligenza mostrata fin da bambino diventa il peggior nemico. La nostra prima esperienza col carcere è avvenuta a Badu e Carros a Nuoro. Ma il peggio doveva ancora avvenire: il trasferimento al continente (così noi sardi chiamiamo il resto d’Italia) fu la disperazione per tutti noi. Era già difficile alzarsi all’alba per raggiungere le località della terraferma, figuriamoci varcare il mare! Il nostro paese si trova all’interno e per raggiungere qualsiasi porto si devono fare tre ore di viaggio. E si è solo al porto di partenza. Tutta la notte su una nave e poi l’intera mattina su un treno che puzza di fumo e sudore, alla fine la corsa in taxi fino al parcheggio del carcere di turno. Una lunghissima attesa, prima che da un posto di guardia leggano il nostro cognome. Dimentichi di aver fame e sete, freddo d’inverno e caldo d’estate, ma conta solo essere arrivati in tempo per il colloquio. Mentre i cancelli si chiudono dietro di noi, tutto diventa reale: le perquisizioni con i metal detector e i guanti usa e getta, le stupide discussioni per quel pane tipico che non vogliono far entrare, il formaggio, e poi c’è qualche etto in più che non si sa proprio da dove si deve togliere. L’ultimo cancello che ci separa dal resto del mondo si apre, e come in un film appaiono i primi detenuti, pallidi e in fila indiana, e tra essi noti finalmente il viso caro che ti sorride. Il muro che ci separa è alto un metro circa, e non ci permette di scambiarci un vero abbraccio. Sembra quasi normale trovarsi a parlare del più e del meno, a portare i saluti degli amici che sono rimasti, notizie sulla salute dei genitori che invecchiano e dei bambini che crescono. La voce stridula di un agente ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto. Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggio, è terminato. Quante volte avrei voluto piangere e urlare che non costava niente stare lì a chiacchierare ancora; ma quel tempo non era più nostro. Bisognava alzarsi e andare via senza voltarsi indietro per nascondere la sofferenza. Il viaggio di ritorno è il più doloroso. Le valigie vuote, leggere; il cuore troppo pesante anche per ammirare i luoghi bellissimi che di volta in volta attraversi. E così viaggio dopo viaggio il tempo passa e alle volte mi ritrovo a pensare se quella vita l’ho vissuta realmente o me l’hanno solo raccontata. Poi finalmente una mattina di primavera, una telefonata, e quella voce allegra che avevi dimenticato: “Sono fuori… ci hanno portato in gita scolastica…”. La speranza mai perduta torna a galla. Ora potrebbero esserci i primi permessi premio, le prime uscite dal carcere. Prego Dio che qualche persona di buona volontà si interessi a quella vita dimenticata. Quella persona esiste… è caparbia e convincente, tanto da permettere la realizzazione di un diritto, che a me però, piace chiamare “sogno”. La prima volta che ho abbracciato Antonio all’aria aperta, è stato all’Oasi dei Padri Mercedari di Padova, un posto splendido, accogliente e pulito proprio come le persone che lo gestiscono. Dopo tanto tempo, mi sono sentita una sorella normale come tutte le sorelle del mondo, sarà forse per il fatto che lì dentro le persone vengono chiamate per nome e nessuno giudica nessuno. Antonio ha sette anni più di me. Per tutti questi anni però io sono stata più vecchia di lui per il solo fatto che la mia vita ha continuato a scorrere e la sua ha rallentato la corsa. Sarà stupido, lo so, ma per me lui ha sempre 29 anni. Mi piace pensare che non sia mai invecchiato. Sono pronta a dimenticare tutto il dolore, tutto il tempo inutile passato aspettando una svolta e ora che questo tempo è dietro la porta, lo voglio vivere tutto. Giovanna, sorella di Antonio Giustizia: in attesa di quel “no alla tortura” da parte del Parlamento italiano La Repubblica, 26 giugno 2012 Giornata internazionale per le vittime di tortura: la Sezione Italiana di Amnesty International chiede al governo italiano di rispettare gli impegni contro la tortura. La manifestazione dei Radicali in piazza della Rotonda a Roma. L’Italia si presenta al 26 giugno, Giornata internazionale per le vittime di tortura, impreparata e in ritardo rispetto all’obbligo internazionale di prevenire e reprimere la tortura. Nel codice penale non c’è il reato di tortura, le autorità italiane non hanno mai espresso una condanna chiara delle rendition e risultano coinvolte nella sparizione forzata di Abu Omar. L’Italia tende inoltre a erodere sempre di più, e in svariati modi, le garanzie contro la tortura per le persone espulse e ha promosso azioni miranti a screditare l’assolutezza del divieto di tortura a livello internazionale. Gli impegni da far prendere al governo. Per questi motivi da domani, da domani, 26 giugno, a lunedì prossimo, i Gruppi della Sezione Italiana di Amnesty International organizzeranno iniziative in tutto il paese, chiedendo al governo italiano di rispettare i suoi impegni contro la tortura. Incontri pubblici, mostre cinematografiche e fotografiche, spettacoli teatrali e reading dal volume “Poesie da Guantánamo” sono previsti in numerose città tra cui Bologna, Foggia, Roma, Ancona, Pisa, Civitavecchia, Padova, Napoli, Perugia, Pesaro, Torino, Mestre e Venezia. In tutte le occasioni, gli attivisti raccoglieranno post-it a mò di promemoria che verranno affissi su manifesti giganti, per ricordare al governo italiano la necessità di: 1. introdurre nel codice penale il reato di tortura e ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura; 2. condannare pubblicamente le rendition, accertare il coinvolgimento dell’Italia in tali pratiche illegali, collaborare alle inchieste e ai procedimenti giudiziari in corso e alle indagini internazionali; 3. non fare affidamento sulle “assicurazioni diplomatiche” fornite da altri governi, secondo le quali le persone espulse dall’Italia non saranno torturate dopo l’arrivo; 4. rendere le norme del c. d. decreto Pisanu sulle espulsioni conformi agli standard internazionali sui diritti umani in materia di tortura e annullare le espulsioni già effettuate in assenza di tali garanzie; 5. mantenere l’effetto sospensivo dell’espulsione nei casi di ricorso contro il diniego dello status di rifugiato, introdotto dalle norme sull’asilo entrate in vigore nel marzo 2008. I diritti umani non sono un ostacolo. I cinque giorni di speciale mobilitazione contro la tortura si svolgono nell’ambito della campagna “Più diritti più sicurezza” lanciata dalla Sezione Italiana di Amnesty International nel novembre 2006, per chiedere la fine delle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto della “guerra al terrore” e ribadire che, in Italia come nel mondo, i diritti umani non sono un ostacolo ma, al contrario, costituiscono il fondamento di una sicurezza autentica. Un’attesa che dura vent’anni. L’Italia aspetta ormai da quasi 20 anni l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, lacuna recentemente messa in evidenza anche dai pubblici ministeri nel processo per le violenze emerse in relazione alla permanenza a Bolzaneto di oltre 250 manifestanti durante il G8 di Genova nel 2001. Non ha inoltre ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che imporrebbe l’adozione di meccanismi di prevenzione della tortura. Inoltre, viene erosa sempre più la salvaguardia dalla tortura in caso di espulsione, attraverso interventi che da alcuni anni tendono a cancellare i meccanismi che permettono di evitare il rinvio nel suo paese di una persona che sarebbe lì sottoposta a tortura e maltrattamenti. L’iniziativa dei Radicali. In occasione della Giornata mondiale contro la tortura, i Radicali “insceneranno la tragedia dei suicidi in carcere, per denunciare le condizioni di tortura a cui sono quotidianamente sottoposte le migliaia di reclusi negli istituti di pena italiani e per ricordare ai legislatori, alla politica e all’informazione, che una norma di civiltà giuridica e sociale, l’inserimento nel nostro ordinamento di un reato di tortura, aspetta da 25 anni, da quando l’Italia nel 1988 ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura, di essere promulgata”. “Sarà - spiega una nota - una rappresentazione simbolica di questa pestilenziale realtà nazionale, a specchio e monito per le istituzioni e la società. Sarà anche l’occasione - aggiunge la nota - per ricordare alla politica il satyagraha (lo sciopero della fame) in corso, su cui da tempo come Radicali siamo impegnati”. Giustizia: ministro Severino, dica “no” alla tortura… di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 26 giugno 2012 Al via la campagna per sollecitare governo e parlamento a introdurre il reato nel codice penale. Giornata dedicata a Carlo Saturno, morto in carcere. Lo Statuto delle Nazioni Unite fu firmato a San Francisco il 26 giugno del 1945. Il 26 giugno del 1987 è entrata in vigore la Convenzione dell’Onu contro la tortura. Dal 26 giugno del 1997 per volontà delle Nazioni Unite si celebra la Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura. Quella della proibizione legale internazionale della tortura è una storia che nasce dopo le barbarie nazifasciste. La tradizione giuridica e filosofica italiana l’aveva già interiorizzata sin dai tempi di Beccaria e Verri. Un uomo non è più uomo se è degradato a cosa. Le vittime della tortura sono ridotte a mezzo per conseguire altro fine. A volte il fine consiste nell’estorsione violenta di una confessione, a volte nell’intento di umiliare e punire. La tortura ha quale bene protetto la dignità umana. Le vittime della tortura sono private della loro dignità, della loro umanità. In Italia la tortura non è un crimine previsto nel codice penale. La tortura non è vietata. Non è neanche consentita. Ma non è espressamente e democraticamente bandita dal nostro ordinamento giuridico. La campagna Chiamiamola tortura, firmata da oltre tremila persone, ha l’obiettivo di sollecitare il Parlamento a colmare questa lacuna. Oggi al cinema Politecnico Fandango si incontreranno esponenti del mondo della cultura, del cinema, della politica, della giustizia, dell’associazionismo per ribadire il no secco alla tortura. La discussione in Commissione Giustizia del Senato è finalmente iniziata. Queste le parole dette dal ministro della Giustizia Paola Severino in occasione del dibattito parlamentare: “Il reato di tortura non deve essere una norma di bandiera. La sua introduzione nel codice penale italiano deve rappresentare una connotazione in più rispetto ai reati che già esistono. Deve punire comportamenti disumani e degradanti. È un compito difficile creare ipotesi diverse rispetto a tutti i reati, dalle lesioni, al sequestro di persona, alla tratta di esseri umani, che già esistono nel nostro codice”. Dalle pagine di questo giornale rivolgiamo un appello al Governo e al Ministro della Giustizia Paola Severino affinché dica parole chiare contro la tortura, per la sua proibizione legale, per la punizione dei torturatori, per il rispetto della legalità interna e internazionale, per i diritti umani. Il crimine di tortura non è una norma di bandiera. Senza quel crimine viene meno la possibilità di punire. Il crimine di tortura non c’entra nulla con il sequestro di persona (i detenuti a differenza dei sequestrati sono custoditi legalmente), con le lesioni personali (alcune delle quali richiedono la querela di parte e comunque non comprendono le sofferenze psichiche), la tratta di esseri umani (che non c’entra nulla con le violenze subite da chi è detenuto in un carcere o in una stazione di polizia). E poi ci sono i tempi di prescrizione da cui dipende l’esito processuale. Carlo Saturno è un ragazzo di Manduria. Una decina di anni fa va a finire nel carcere minorile di Lecce. Nel 2006 un esposto di alcuni operatori racconta di violenze inaudite che avverrebbero in quel carcere a danno dei minori lì reclusi e di intimidazioni nei confronti del restante personale. Tra i ragazzi che subiscono angherie c’è anche Carlo Saturno. La procura di Lecce nel 2008 rinvia a giudizio otto agenti di polizia penitenziaria contestando loro abusi e violenze. Il processo segue ritmi sudamericani. Prosegue lento verso la sua morte. Nel frattempo Carlo Saturno si costituisce parte civile contro i presunti torturatori. È giovane. Torna in galera. Questa volta a Bari. Siamo al 2011. Si impicca nella cella di isolamento del carcere barese. Resta in coma per una settimana. In quella settimana sarebbe dovuto andare al processo per le violenze da lui subite. Carlo Saturno muore. E muore anche il processo. Viene rinviato a data successiva alla sua estinzione per prescrizione la quale viene certificata pochi giorni fa dal tribunale di Lecce. Questa storia dimostra che la norma sulla tortura non è una norma di bandiera. Se fosse stata presente nel codice e contestata agli imputati non avremmo avuto la fine indegna della prescrizione. A Carlo Saturno, vittima della tortura, dedichiamo la giornata di oggi. Giustizia: Marcenaro (Pd); Italia introduca il reato di tortura nel codice penale Ansa, 26 giugno 2012 “La tortura e i trattamenti inumani e degradanti sono ancora praticati in molte aree del mondo. Numerosi gravi episodi di tortura si sono verificati in questi anni anche nei paesi democratici, compresa l’Italia. I fatti di Genova del 2001 sui quali è attesa nei prossimi giorni la sentenza della Suprema Corte di Cassazione sono stati l’episodio più clamoroso e conosciuto. Tuttavia, nonostante abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984, l’Italia non ha introdotto nel suo codice penale il reato di tortura”. Lo ha ricordato questa mattina da Strasburgo Pietro Marcenaro, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, in occasione della Giornata mondiale contro la tortura. “I membri della Commissione, di tutti i gruppi politici - ha aggiunto Marcenaro - al termine dell’indagine sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia, hanno convenuto all’unanimità sull’importanza dell’introduzione di questo reato nel codice penale e hanno promosso, presso la Commissione giustizia del Senato, l’iter di approvazione della legge. È essenziale a questo punto dell’iter legislativo che il ministro della Giustizia, Paola Severino e il Governo sciolgano le loro riserve, contribuendo positivamente con le loro proposte alla definizione di un provvedimento che è reclamato da tutta l’opinione pubblica democratica”. “Per adeguarsi al diritto internazionale, l’Italia deve inoltre ratificare e dare esecuzione al Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni conto la tortura del 2002”, ha proseguito Marcenaro, rendendo noto che oggi, in occasione della Giornata contro la tortura, un ddl di ratifica presentato nei giorni scorsi dallo stesso senatore e fatto proprio dal gruppo del Pd del Senato è stato iscritto all’ordine del giorno della Commissione Esteri e incardinato. “La previsione del reato di tortura e la messa in opera dell’azione di prevenzione e monitoraggio sono essenziali per dare finalmente applicazione agli impegni che l’Italia ha sottoscritto e dei quali la comunità internazionale ha ripetutamente chiesto il rispetto. Essi sono altrettanto importanti per garantire che non siano violati diritti umani fondamentali e che lo stesso onore e la stessa dignità delle forze dell’ordine, che operano nel rispetto delle leggi, siano protetti dall’azione di gruppi irresponsabili o dagli ordini di vertici deviati” ha concluso il senatore. Giustizia: la demonizzazione del “drogato”… in carcere il doppio in 5 anni di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 giugno 2012 Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Marco Erittu... L’elenco dei morti uccisi in carcere o mentre erano sotto la custodia dello Stato potrebbe continuare. Erano tutti consumatori di sostanze. “Persone fragili che una certa politica intrisa di cultura muccioliniana ha individuato come nemici da colpire per rieducare, “malati sociali” da punire e salvare”. Sintetizza così, Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti e presidente di Forum droghe, il nesso tra il reato di tortura, di cui l’Italia ancora non si è dotata, e la tipologia sociale più consistente tra i carcerati: i tossicodipendenti, e più in generale coloro che hanno violato la cosiddetta Fini-Giovanardi. Erano il 28% degli ingressi in carcere nel 2006, quando la legge sulle droghe di cui il presidente della Camera non si è mai pentito venne varata, inserita nelle pieghe di un decreto sulle Olimpiadi invernali. Nel 2011, a fronte in una complessiva diminuzione degli arresti, sono arrivati al 33,15%. E nello stesso periodo si è passati dai 15.133 detenuti per violazione degli articoli 73 e 74 (detenzione a fini di spaccio e associazione per spaccio) della legge, a 27.856. Sono numeri che vengono dal Dipartimento delle politiche antidroga (Dpa) e dal Viminale e sono stati raccolti dalle associazioni Antigone, Forum Droghe, Cnca e Società della Ragione nel “Terzo libro bianco sulla legge Fini-Giovanardi” presentato ieri alla sala Nassirya del Senato, alla vigilia della Giornata mondiale contro la droga che si celebra oggi e che casualmente coincide con quella dedicata alle vittime della tortura. E mentre il Dpa per questa giornata ha partorito solo uno slogan da affiggere sui monumenti d’Italia (“Liberi da tutte le droghe, Liberi da tutte le mafie. Chi compra droga finanzia le mafie, le loro violenze e il terrorismo”), per quest’anno il “Libro bianco” sarà l’unica analisi di verifica delle norme antidroga, malgrado la stessa legge imponga al governo una relazione annuale e una conferenza nazionale ogni tre anni (l’ultima, due anni fa, a Trieste). Pare che il governo non abbia avuto tempo né per l’una né per l’altra, come ha spiegato lo stesso delegato alle politiche di contrasto alle narcomafie e al trattamento dei tossicodipendenti, il ministro Andrea Riccardi, alle associazioni che lo hanno incontrato. Un peccato, perché non di sola crisi economica si nutre il tracollo di un Paese. E a spulciare tra i dati del “Libro bianco” si scopre per esempio che le richieste di programmi terapeutici per tossicodipendenti sono crollate (da 6.713 nel 2006 a 518 nel 2010) mentre sono più che raddoppiate le sanzioni verso i meri consumatori di sostanze. Crescono anche le segnalazioni al prefetto: il 74% per possesso di uno spinello. E diminuiscono le misure alternative: da 3.852 persone in affidamento nel 2006 (quando la popolazione carceraria era di 39 mila unità) a 2.816 al 30 maggio 2012 (con 66 mila detenuti). “Prima del 2006, la maggioranza dei tossicodipendenti godeva dell’affidamento dalla libertà, con la Fini-Giovanardi il rapporto si è invertito”, si legge nel rapporto. E allora che fare? Aspettando che un giudice rinvii la legge alla Corte costituzionale (per la procedura d’azione, per le tabelle inserite solo successivamente, e per la mancanza della cannabis tra le sostanze usate anche a scopo terapeutico), gli autori del “Libro bianco” chiedono di modificare la legge cominciando con l’introduzione della “lieve entità”, come reato autonomo nell’articolo 73, in modo da ridurre la pena per il consumo o il piccolo spaccio da 6 mesi a 3 anni (invece che da 1 a 6 anni). Sul tema ci sono già una proposta di legge del deputato Pd Mario Cavallaro e un ddl depositato al Senato dai democratici Della Seta e Ferrante (norme per la legalizzazione della cannabis indica). Ma gli autori del “Libro bianco” puntano il dito anche contro la ex Cirielli e chiedono il sostegno ai servizi sociali, smantellati nel frattempo, in modo da riavviare i programmi di misure alternative e terapeutiche. “La Fini-Giovanardi, insieme all’ex Cirielli e alla Bossi-Fini hanno prodotto un’emergenza umanitaria - è l’analisi di Roberto Della Seta - mi auguro che il centrosinistra, una volta al governo, cancelli questa che è l’eredità più pesante del berlusconismo”. Giustizia: Uil-Pa; sorveglianza dinamica nelle carceri, restituire dignità ai detenuti si può Il Ciriaco, 26 giugno 2012 Un carcere più umano è possibile, attraverso la sorveglianza dinamica. E Avellino, con il Progetto Irpinia, sperimenta forme alternative di detenzione. Sovraffollamento, dignità del detenuto e reinserimento sociale, questi gli ingredienti del convegno promosso dalla Uil-Pa presso l’aula magna della Casa Circondariale di Avellino, sul tema “Sorveglianza dinamica, patti di responsabilità, volontariato e territorio: il carcere possibile. Problemi comuni a tutti gli istituti penitenziari”. Le cifre snocciolate da Eugenio Sarno segretario generale della Uil-pa Penitenziari parlano chiaro: “oggi la detenzione è inumana. Abbiamo poco meno di 42mila posti a fronte di 68mila detenuti, con celle più che sovraffollate. Per questo è necessario il concorso di tutti, amministrazione penitenziaria, istituzioni e mondo del volontariato per avviare un percorso serio di inversione di rotta”. Un’ottica di cambiamento dell’intero sistema carcerario che necessita inevitabilmente di sperimentazione di nuove forme. Non ne ha dubbi Annamaria De Gruttola direttore Uepe Avellino: “Noi siamo pronti al salto di qualità, grazie all’impegno profuso da tutte le componenti del carcere per renderlo un luogo più vivibile, capace di reinserire un domani il detenuto nel tessuto sociale fuori dalle mura. Per fare ciò c’è bisogno della collaborazione di tutti, anche del mondo esterno al carcere, come avviene al tavolo permanente per l’inclusione sociale dove tutti partecipano. Di particolare valenza l’impegno profuso da Chiesa e Caritas che hanno finanziato il progetto Libertà partecipata”. Il messaggio che passa è chiaro: nessuno ha il diritto di togliere la dignità a chi vive quotidianamente il mondo all’interno delle mura carcerarie: né ai detenuti né al personale di polizia penitenziaria. Sarno denuncia infatti anche le storture del sistema e ironizza “barcamenarsi è la regola numero uno del mondo penitenziario”, anche ad Avellino. Sarno infatti racconta: “abbiamo a disposizione dieci mezzi adibiti alla traduzione dei detenuti. Di questi nove non hanno superato il collaudo. Un dato assurdo. Così come è incivile la presenza all’interno della sezione femminile di ben sei bambini, figli di detenute, che hanno come unico orizzonte un muro”. E le istituzioni portano il loro contributo, perché, sottolinea il sindaco Giuseppe Galasso “il sovraffollamento non è l’unico problema. Il Comune ha infatti firmato un protocollo d’intesa con il Tribunale per permettere ai detenuti di vivere delle ore all’aperto, impegnandosi in lavori di laboratorio. Non bisogna mai dimenticare che l’incarcerato è un cittadino che, una volta espiata la pena, deve ritornare alla società”. Dello stesso avviso il presidente Cosimo Sibilia che, nella doppia veste di inquilino di Palazzo Caracciolo e di senatore, si dice “orgoglioso del Progetto Irpinia, frutto della necessaria collaborazione istituzionale, in linea con interventi come l’informatizzazione del Tribunale, frutto di un protocollo tra Provincia e Ministero”. Progetto Irpinia trova il placet anche di Tommaso Contestabile, provveditore regionale A.P.: “ad Avellino è stato consegnato il primo padiglione attrezzato con sistemi di videosorveglianza eccellenti, con un impiego contenuto di personale, non più costretto a lavorare con la chiave, all’interno di spazi aperti dove il detenuto può trascorrere parte della misura restrittiva. Un’occasione di riabilitazione seria. Un progetto di sorveglianza dinamica strettamente legato alla responsabilizzazione del detenuto, che si rivolge a soggetti con pena definitiva, inseriti nella categoria media sicurezza”. La prima fase del reinserimento sociale avviene nell’opera di sensibilizzazione dei cittadini, ancora propensi a vedere nella casa circondariale un luogo altro. Non ne hanno dubbi Carlo Mele direttore Caritas Avellino e il vescovo Monsignor Francesco Marino. “La Caritas è impegnata, con i suoi volontari, a portare un po’ di luce in carcere, e la Cei non ha mai risparmiato risorse per progettualità alternative”. Per il vescovo Marino: “bisogna fare rete, mettendo in campo competenze e idealità. Lo spessore etico di un popolo si misura anche in questo, lavorando per non togliere a nessuno la propria dignità. Il carcere è comunità”. La sorveglianza dinamica, per essere applicata, ha bisogno dell’adozione di una regolamentazione attenta che metta a riparo gli operatori da iniziative approssimative e estemporanee. È questo il monito del Procuratore della Repubblica di Avellino Angelo Di Popolo che definisce Progetto Irpinia “un progetto pilota molto importante” e aggiunge “quella delle misure alternative di sconto della pena è una strada che il legislatore potrebbe affrontare, e che potrebbe evitare l’utilizzo eccessivo della misura detentiva in carcere”. Di Popolo annuncia anche di voler vederci chiaro sulla denuncia di Sarno in merito ai mezzi in dotazione alla polizia penitenziaria privi di collaudo. Su questo la Procura di Avellino aprirà un fascicolo. Giustizia: “un favore ai boss di tutte le mafie”… addio al 41 bis, ecco chi ne approfittò di Salvo Palazzolo La Repubblica, 26 giugno 2012 La trattativa portò benefici non soltanto ai boss di Cosa nostra, ma anche agli uomini della ‘ndrangheta, della camorra e della Sacra Corona Unita. C’è il gotha delle mafie italiane fra i 326 “41 bis” che il ministro della Giustizia Giovanni Conso non prorogò, nel novembre ‘93. “Per una scelta fatta in solitudine”, continua a ribadire lui. Ma i pm di Palermo non gli credono, lo accusano di false dichiarazioni. E nel loro atto d’accusa hanno inserito anche la lunga lista dei boss che in quei giorni di fine ‘93 tirarono un sospiro di sollievo. Gli investigatori della Dia di Caltanissetta hanno analizzato nome per nome, e hanno scoperto che fra i 326 beneficiati c’erano 45 nomi di rango, al vertice di tutte le mafie: 20 capi di Cosa nostra, 10 capi della Camorra, 9 capi della ‘ndrangheta, 6 capi della Sacra Corona Unita. Resta una vero giallo quella decisione di Conso. I magistrati hanno scoperto che cinque mesi prima, la mancata proroga dei 41 bis era stata caldeggiata al Guardasigilli da un documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, allora retto da Adalberto Capriotti e dal suo vice, Francesco Di Maggio. Ma Conso continua a parlare di “decisione presa in solitudine”. Adesso, però, lo smentisce anche il suo capo di gabinetto di allora, Livia Pomodoro, attuale presidente del tribunale di Milano. Convocata dai pm, il 15 dicembre 2011, ha detto: “Sottoposi la nota del Dap all’attenzione del ministro, mi diede la direttiva di attendere ulteriori aggiornamenti, che avrebbero dovuto essere forniti dal vice capo Di Maggio”. Sul documento c’è un’annotazione, datata 5 luglio 1993: “La scrissi io”, ha spiegato Livia Pomodoro. “Il documento del Dap fu protocollato nello stesso giorno in cui fu scritto, il 26 giugno, mentre le disposizioni del ministro risalgono al 5 luglio. Il documento sarà rimasto dunque nella disponibilità del ministro per qualche giorno, poi chiesi verosimilmente per telefono alcuni chiarimenti a Di Maggio, ma non ricordo di avere visto alcuna nota di risposta”. La dottoressa Pomodoro spiega che Conso aveva “rapporti diretti col Dap, quasi ogni sera incontrava al ministero Di Maggio e Capriotti”: “Dunque è possibile che Di Maggio abbia fornito direttamente gli aggiornamenti richiesti”, aggiunge l’ex capo di gabinetto. Il giallo dunque prosegue, e ruota tutto attorno al magistrato Francesco Di Maggio, che nell’inchiesta sulla trattativa diventa sempre di più il regista del colpo di spugna sul 41 bis. Ma per conto di chi, non è ancora chiaro. Resta un mistero anche il suo arrivo improvviso al Dap da un organismo Onu con sede a Vienna. Il ministro Conso si è limitato a dire: “L’avevo visto in televisione, mi aveva fatto una buona impressione”. Ma anche in questa occasione non ha convinto i magistrati. Livia Pomodoro ha detto di “non sapere nulla della nomina di Di Maggio”. E neanche Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli Affari penali, ha saputo dare indicazioni più precise. Però, il 25 gennaio, ha precisato ai pm: “Penso che senza il ministro Conso non si poteva fare niente, quindi Di Maggio l’avrà richiesto lui”. Di Maggio è deceduto nel 1996. Di quella convulsa stagione resta la lista delle mancate proroghe: fra i 20 capimafia siciliani che poterono lasciare il carcere duro ci sono Andrea Di Carlo, autorevole padrino di San Giuseppe Jato; Giuseppe Farinella, capo del mandamento di San Mauro Castelverde; Giuseppe Fidanzati, del clan Arenella; Giuseppe Gaeta, capo della famiglia mafiosa di Termini Imerese; Antonino Geraci, capo del mandamento di Partinico. E poi ancora altri nomi di rango: Francesco Spadaro e Vito Vitale. Mai nomi importanti sono anche di capi della ‘ndragheta: Giosuè Chindamo, Domenico Cianci, Michele Facchineri, Giovanni Ficara, Antonio Latella, Domenico Martino, Luigi Rao, Vincenzo Rositano. Seguono i capi della Camorra: Antonio Letizia e Domenico Belforte, di Marcianise; Mario Ascione, di Ercolano; Leonardo Di Martino, del clan lmparato di Castellammare; Salvatore Foria, della Nuova famiglia di Pomigliano; Clemente Perna, della Nuova camorra organizzata di Portici ed Ercolano. Non meno importanti erano i capi della Sacra Corona Unita: Antonio Capriati, Nicola De Vitis, Michele Diomede, Renato Martorana, Antonio Scarcia. E dopo quella decisione sul 41 bis, le stragi si fermarono. Giustizia: alla Camera ancora audizioni di esperti sul Ddl per depenalizzazione Asca, 26 giugno 2012 La Commissione Giustizia ha programmato da oggi il seguito della l’indagine conoscitiva condotta sul Ddl 5019, il cosiddetto “pacchetto Severino”, di delega al Governo per depenalizzazione, pene detentive non carcerarie, sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili puntando a ridurre il sovraffollamento delle carceri. Sono previste audizioni di Francesco Caprioli, ordinario di diritto processuale penale presso l’Università di Bologna, di Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, di Claudio Castelli, presidente aggiunto dell’Ufficio Gip del Tribunale di Milano, di Luciano Panzani, presidente del Tribunale di Torino, Alessandra Salvadori, giudice del Tribunale di Torino, rappresentanti di 3M Italia. La Commissione proseguira anche l’esame dello schema di decreto legislativo sulla nuova distribuzione sul territorio degli uffici del giudice di pace e avvierà la discussione dello schema di Dlgs di revisione del Codice delle leggi antimafia. Lombardia: chiudono gli Opg e la Caritas prepara il futuro dei pazienti Il Cittadino, 26 giugno 2012 “Quale sfida al nostro territorio, quale supporto dalle nostre comunità cristiane”. In riferimento alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, se ne è parlato ieri mattina a Milano nella tavola rotonda organizzata da Caritas Lombardia presso la sede di Caritas Ambrosiana, dove per la diocesi di Lodi erano presenti monsignor Giuseppe Merisi, don Alberto Curioni responsabile dell’Ufficio di pastorale della salute e Paola Arghenini vicedirettore di Caritas. Il vescovo Merisi è anche intervenuto nel momento conclusivo in quanto presidente della Consulta ecclesiale lombarda degli organismi socio assistenziali, oltre che presidente di Caritas Italiana e presidente della Commissione episcopale Cei per il servizio carità e salute. Lo scorso 25 gennaio con un emendamento del famoso “decreto carceri” il Senato ha approvato il disegno di legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (sei in tutta Italia) che avverrà entro il primo febbraio 2013, mentre entro il 31 marzo 2013 verranno dimesse le persone che lo potranno essere e per le altre saranno adottate nuove misure di sicurezza. La questione riguarda chi ha commesso reati per motivi legati alla salute mentale e così a livello sociale è necessaria una sinergia tra più ambiti da cui la comunità ecclesiale non può sentirsi esclusa. Ieri mattina dopo i saluti di don Claudio Visconti, delegato Caritas Lombardia, sono intervenuti Antonino Calogero direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, Franco Milani della Direzione generale sanità Regione Lombardia, Giorgio Cerati direttore del dipartimento di salute mentale dell’Ao Ospedale civile di Legnano e monsignor Francesco Antonio Soddu direttore di Caritas Italiana, moderati da Paola Soncini responsabile dell’Area salute mentale di Caritas Ambrosiana. Hanno poi portato la propria testimonianza un familiare e un medico psichiatra che lavora in comunità con pazienti anche dimessi dagli ospedali psichiatrici giudiziari. Infine il dibattito e l’intervento di monsignor Merisi che ha ricordato il rapporto tra solidarietà e sussidiarietà. “Non ci si è spinti ad affrontare aspetti tecnici - dichiara Paola Arghenini. Piuttosto è il momento di approfondire la conoscenza di quelle buone pratiche già esistenti, come ad esempio nel Mantovano, che tengano conto di percorsi personalizzati innanzitutto grazie ad interventi competenti sul piano della salute. Perché il reinserimento sia individualizzato e si assicuri, come ha ricordato Milani, il diritto fondamentale alla salute sancito dalla Costituzione Italiana”. Sardegna: Sdr; Tamburino a Cagliari e Nuoro segnale forte, ma occorre programmazione Agenparl, 26 giugno 2012 “La visita effettuata dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, accompagnato dal Provveditore Regionale Gianfranco Degesu, nelle Case Circondariali di Cagliari e di Nuoro è un forte segnale di attenzione verso gli Agenti della Polizia Penitenziaria, ma non basta. La situazione creatasi in Sardegna con la realizzazione di 4 nuove carceri ancora tutte da concludere, il peso delle Colonie Penali, dove i detenuti oziano piuttosto che lavorare e produrre, e lo scarso numero di operatori richiedono uno specifico protocollo”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, esprimendo sorpresa per “una visita che avrebbe meritato l’attenzione non solo dei Sindacati della Polizia Penitenziaria, ma anche della Magistratura di Sorveglianza e dei vertici della Regione”. “Il rafforzamento dell’area della sicurezza, con un consistente incremento degli Agenti della Polizia Penitenziaria è - sottolinea Caligaris - un’esigenza primaria anche per la funzione di equilibrio e condivisione umana dei bisogni che la figura professionale incarna. Di non minore peso però sono gli altri operatori come educatori e psicologi. La specificità della Sardegna, con un significativo numero di detenuti sparso per le carceri della Penisola che chiedono continuamente di essere riportati nella loro terra di origine e con realtà quali le Colonie Penali in gravi difficoltà finanziarie per l’assenza di una programmazione adeguata alle esigenze della popolazione carceraria sempre in esubero, richiedono la predisposizione di un piano condiviso”. “Il Capo del Dipartimento con i Ministri delle Infrastrutture e della Giustizia devono infine chiarire ai cittadini sardi come e quando saranno completati i lavori nelle nuove strutture a partire da quella di Uta. Il rispetto dovuto ai cittadini, che hanno visti investiti nelle opere fondi pubblici di notevole entità, non può prescindere dal portare alla luce del sole - conclude la presidente di Sdr - modalità operative e tempi certi di realizzazione. Il caldo di questi giorni sta mettendo a dura prova il livello di sopportazione degli Agenti e dei reclusi e le prossime settimane saranno ancora più infuocate. Occorre perciò almeno che siano esplicitati i programmi di attivazione delle nuove strutture”. Toscana: i detenuti malati sono più di quelli sani, l’11 ha malattie psichiatriche Il Tirreno, 26 giugno 2012 Il numero dei detenuti toscani sani è, sostanzialmente, inferiore a quelli che risultano malati. È il dato che la dice lunga sulla qualità della salute della popolazione detenuta, sulle sue modalità di vita, sul bersaglio che resta colpito dalla guerra alla criminalità e alla droga. A mettere il rilievo le patologie è Barbara Trambusti, responsabile del settore protezione sociale della Regione Toscana, in uno studio pubblicato su Toscana Medica. “Le patologie dei detenuti toscani sono, in 1.188 casi (54%) di tipo internistico, 239 (11%) con diagnosi di tipo psichiatrico, mentre 751 (34,5%) con diagnosi sia internistica che psichiatrica”, afferma Trambusti. Riepilogando, “1.939 (65%) risultano portatori di almeno una diagnosi internistica, mentre 990 (33,2%) sono stati interessati da una diagnosi psichiatrica”. E conclude per questa parte: “Nonostante la giovane età dell’intera popolazione detenuta (età media 38 anni), la forte richiesta sanitaria è caratterizzata da tre grandi temi: salute mentale, disturbi dell’apparato digerente e malattie infettive e parassitarie”. Su tutto emerge il dato dei suicidi, che in carcere è la terza causa di morte. Il rischio è più elevato per le persone in stato di detenzione rispetto alla popolazione generale fino ad essere anche 15-18 volte più frequente. Il tasso annuo di suicidi nella popolazione su 10mila cittadini è pari allo 0,7 mentre su 10mila detenuti è pari a 13. Il direttore del Centro regionale per la salute in carcere, Francesco Ceraudo ne traccia un identikit. “Sono individui sconvolti, scossi, disperati - dice -. Si uccidono più gli italiani che gli stranieri. I tossicodipendenti rappresentano il 31% dei casi di suicidio. Ed i periodi di maggior rischio sono subito dopo la carcerazione(3-10 giorni), dopo 2 mesi e durante pene lunghe”. Ragusa: 60enne, ai domiciliari in attesa di processo, si impicca in casa Ansa, 26 giugno 2012 Era agli arresti domiciliari perché accusato di aver bruciato il portone di casa del giornalista Rosario Cannizzaro, e ieri Carlo Assì, 60 anni, ha deciso di impiccarsi nella sua abitazione di Modica, lasciando una lettera per spiegare il suo gesto. L’uomo, detenuto dal 15 settembre, era preoccupato per l’esito del processo, dopo che il suo complice, Giorgio Benzi, era stato condannato a due anni. A scoprire il corpo privo di vita è stata la Polizia durante uno dei controlli di routine. Ferrara: il Garante dei detenuti dice “no” all’ampliamento del carcere www.estense.com, 26 giugno 2012 Presentata la relazione annuale al Consiglio comunale: “Occorre un sistema differenziato di detenzione orientato al minor sacrificio della libertà delle persone”. Ha presentato la sua relazione annuale in apertura del Consiglio comunale, dopo il minuto di silenzio osservato dall’assemblea per commemorare la memoria di Emanuele Braj, il carabiniere italiano rimasto vittima ieri mattina in Afghanistan di un attentato che ha provocato anche il ferimento di altri due colleghi. E lo ha fatto a un anno dalla nomina a Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, una figura meglio conosciuta come garante dei detenuti. Marcello Marighelli ha fornito un dettagliato resoconto dell’attività svolta, con particolare attenzione all’esigenza giudicata prioritaria, quella cioé di “organizzare e sviluppare la cooperazione tra i diversi soggetti istituzionali che a diverso titolo si occupano del carcere e dei detenuti”. Marighelli, nelle sue visite al carcere di via Arginone, ha rilevato una serie di annose esigenze della struttura già sottolineate in precedenti relazioni, come l’adeguamento dei locali doccia delle sezioni che risultano insufficienti, la manutenzione dei locali delle cucine e la revisione della copertura degli edifici che in qualche punto presenta segni di infiltrazione di umidità. Ambienti che comunque “si presentano in condizioni dignitose”. “Nell’anno di attività trascorso - ha riferito il Garante - la popolazione detenuta è stata costantemente vicina al numero di 500 unità”. Alcune modifiche legislative in materia di convalida dell’arresto e giudizio direttissimo hanno avviato un processo di riduzione del flusso in entrata e in uscita, con riduzione del numero di detenuti. Al 7 giugno 2012 i detenuti presenti nel carcere di Ferrara erano 444 di cui 307 con condanna definitiva e 53 in attesa di primo giudizio, i detenuti nell’apposita sezione per collaboratori della giustizia 32 e i detenuti in semilibertà 5. Dei 444 detenuti 218 sono i cittadini stranieri. “La capienza regolamentare - ha precisato il Garante - è di 235 unità, quella cosiddetta tollerabile di 446?. Sui recenti eventi sismici, Marighelli ha spiegato che nei giorni 20 e 29 maggio sono state eseguite le procedure previste con l’evacuazione delle celle verso le aree esterne di sicurezza, “con ordine e senza inconvenienti”, e anche la struttura, dopo i sopralluoghi tecnici, “non ha rilevato situazioni particolari”. “Per disposizioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - ha aggiunto - è stato avviato un programma di “sfollamento” che ha ridotto il numero di detenuti a 272 alla data del 12 giugno 2012. La situazione è quindi prossima alla capienza regolamentare prevista per il nostro carcere di 235 unità”. Tra le attività del Garante vi è anche quella di ascolto dei detenuti del carcere, rispetto alle quali si è attivato verificato con le autorità preposte la presenza dei requisiti, ad esempio, per ottenere il trasferimento o misure cautelari alternative, come la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere (in diversi casi assicurata per le persone senza domicilio dall’Associazione Viale K). Numerose poi le attività promosse e curate dai vari soggetti che operano all’interno del carcere: attività sportive, di istruzione, di lettura (presente la biblioteca) con corsi di alfabetizzazione per stranieri, di formazione professionale, ma anche di pratiche curate dai patronati per le istanze dei detenuti (la maggior parte domande di disoccupazione) che, essendo numerose, hanno portato lo stesso Garante e porsi come prospettiva lo studio sulla fattibilità dell’invio diretto dal carcere, per via telematica, della documentazione avente per destinatario l’Inps. Non secondaria l’attività del Mediatore Culturale, presente da oltre un decennio all’Arginone per quattro giorni la settimana. Sul versante della salute in carcere, il percorso avviato già nel 1999 di riordino della medicina penitenziaria, chiuso nel 2010 con il Programma Azienda Usl di Ferrara per la salute negli Istituti penitenziari, fa ritenere il Garante di trovarci ora “oltre la transizione e pienamente nel nuovo modello organizzativo che si può ritenere realizzato, per quanto riguarda l’attuazione di misure di prevenzione e lo svolgimento delle prestazioni di diagnosi e cura, ma in maniera assai limitata per quanto riguarda le prestazioni riabilitative per la popolazione tossicodipendente che, va sottolineato, è costantemente vicina al numero di 100 unità”. “Il malessere della popolazione detenuta tossicodipendente - ha sostenuto Marighelli - è diffuso per la scarsità di percorsi in affidamento alle comunità terapeutiche”. “Tra le criticità riscontrate - ha denunciato - va doverosamente segnalato il totale disimpegno dei Comuni di provenienza dei detenuti e dei relativi servizi sociali. Tra le positività si deve dare atto delle pronte risposte ricevute per gravi ed urgenti esigenze di accoglienza di detenuti, anche gravemente ammalati, da parte dell’Associazione Viale K”. Dopo essersi soffermato a lungo sulle iniziative di sensibilizzazione verso l’esterno, il Garante ha concluso la relazione parlando di prospettive e ipotesi di lavoro per i prossimi mesi, richiamando il principio costituzionale della pena tesa alla rieducazione del condannato e la riforma del 1975 sulle misure alternative. “A oltre trent’anni da quel momento riformatore - ha commentato - la questione carceraria si pone nuovamente in tutta la sua urgenza e drammaticità, valgano per tutte le parole del Capo dello Stato. Le inadempienze legislative, governative e amministrative permangono determinando un progressivo peggioramento della vita di tutti, detenuti e personale, all’interno delle carceri del nostro Paese. Finalmente con i vertici dell’Amministrazione penitenziaria nominati dal Ministro Severino, è stata posta come centrale la necessità di una “buona” attività amministrativa, ritenendo che essa sia praticabile e “si possa iniziare ad agire, con gli strumenti normativi a disposizione, per superare la logica dell’emergenza ponendo a idea guida della propria azione la centralità e i diritti della persona”.” “La Circolare del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 28 maggio 2012 - ha aggiunto Marighelli - detta un percorso chiaro e preciso, teso a migliorare le condizioni di vita detentive con particolare riguardo alla gestione dei detenuti di media sicurezza, che vengono giustamente riconosciuti come la fascia di utenza oggi maggiormente penalizzata. La disposizione vuole “ridisegnare l’architettura dei circuiti detentivi… abbandonando modus operandi fondati su prassi anacronistiche ed inefficienti”. Lo strumento operativo individuato è la realizzazione di circuiti detentivi regionali ex art. 115 d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 (Regolamento penitenziario) dando il via alla predisposizione di un progetto regionale ispirato a un “sistema integrato di istituti differenziato per le varie tipologie detentive”, ad esempio, assicurando la separazione degli imputati dai condannati, dei giovani dagli adulti, “evitando negative influenze ed ampliando gli spazi per le iniziative educative e lavorative e i rapporti con la comunità esterna”. È sulla realizzazione di questi obiettivi nella nostra regione e a Ferrara “che va posto l’impegno nei prossimi mesi, segnalando subito che il progetto di realizzazione di un nuovo padiglione detentivo per 200 posti “presso”, cioè dentro l’attuale perimetro dell’istituto penitenziario di Ferrara, con il passaggio della popolazione detenuta da 475 a 675, è in contrasto con il nuovo corso dettato dai massimi vertici dell’Amministrazione penitenziaria”. Marighelli si dice dunque contrario all’ampliamento del carcere di Ferrara, dato che “così come è stato pensato riduce, non amplia gli spazi utilizzabili”. “Tutte le perplessità espresse nella delibera di Giunta del 26 settembre 2011 - ha concluso il Garante - sono rese oggi ancor più valide”. La conclusione è conseguente al ragionamento espresso: “La prospettiva di realizzazione di un sistema detentivo differenziato concretamente orientato al minor sacrificio possibile della libertà delle persone, alla loro riabilitazione nella società, rispettoso del dettato Costituzionale e del vigente Ordinamento penitenziario, impone a mio parere la sospensione del progetto di ampliamento e la richiesta di un confronto con l’Amministrazione penitenziaria”. Vicenza: Fp-Cgil; emergenza caldo in carcere, attendiamo una risposta entro giovedì Vicenza Today, 26 giugno 2012 Non si tratta solo del sovraffollamento della struttura che, oggi, conta 357 detenuti a fronte di una capienza di 145 unità e di una tollerabilità di 292. In questo periodo, a preoccupare è soprattutto il caldo. È durato oltre due ore, ieri, l’incontro tra Daniele Giordano, Segretario Generale Fp Cgil Veneto, Giampietro Pegoraro, Coordinatore regionale Fp Cgil Penitenziari, Giancarlo Puggioni, Segretario Generale della Fp Cgil di Vicenza, e il direttore del carcere berico Fabrizio Cacciabue. I segretari hanno chiesto alla direzione che entro giovedì vengano fornite delle risposte concrete circa la gravità di alcune problematiche che si protraggono oramai da troppo tempo all’interno dell’istituto penitenziario. Non si tratta solo del sovraffollamento della struttura che, oggi, conta 357 detenuti a fronte di una capienza di 145 unità e di una tollerabilità di 292. In questo periodo, a preoccupare è soprattutto il caldo. In molti locali ci sono condizionatori che non funzionano perché manca ancora l’autorizzazione per caricarli del gas che li faccia funzionare. In altre stanze, invece, gli impianti di climatizzazione non compaiono neppure. Il personale è costretto a lavorare per più ore consecutive in locali molto piccoli e davanti ad apparecchiature che già di per se stesse sono fonte continua di calore. L’unico rimedio, attualmente, è quello di tenere aperte le finestrelle per favorire un minimo ricircolo dell’aria. Ai detenuti, invece, è stato consentito di beneficiare di un’ora d’aria in più alla sera, oltre alle quattro ore totali già previste nel corso della giornata. Durante la notte, inoltre, i blindi vengono lasciati aperti. Una situazione altrettanto grave si è verificata durante l’inverno precedente, quando a non funzionare era il riscaldamento. Ancora oggi, a distanza di qualche mese dalla fine della stagione più fredda, la caldaia non è ancora stata sistemata e i lavori di riparazione procedono a rilento. Le lentezze della burocrazia e la riduzione dei fondi a disposizione dell’istituto penitenziario non consentono di procedere diversamente. I 25 mila euro annui, stanziati per il carcere vicentino, non sono sufficienti per provvedere a tutte le manutenzioni necessarie alla struttura. “Ci sono, inoltre, alcune aree dell’istituto che dovrebbero essere ammodernate - afferma Giancarlo Puggioni. In particolare la caserma e le sale operative. Il personale è davvero stressato. Pensiamo che, almeno per quanto riguarda il sistema di climatizzazione, sia possibile agire in tempi rapidi per risollevare la situazione. Il direttore ci ha dato delle garanzie, ma vorremmo che questa volta si trattasse di fatti concreti e non di mere rassicurazioni. Sulla sicurezza non si può perdere tempo”. Caldo e sovraffollamento generano scontri tra i detenuti. È proprio di questa mattina l’ultima rissa tra romeni e nigeriani. Gli agenti sono intervenuti prontamente, ma garantire la sicurezza sta diventando sempre più difficile. Mentre il numero di detenuti aumenta, infatti, l’organico è sottoposto ad un ridimensionamento. Ci sono 40 unità in meno (vale a dire 145 agenti) rispetto alla dotazione organica prevista, che si aggira intorno alle 190-200 unità. Spesso, il personale non è ben addestrato a cogliere le diversità tra le etnie che si ritrovano a convivere nella stessa cella. Così, “la Cgil, in collaborazione con l’Università di Padova - dichiara Giampietro Pegoraro -, ha realizzato un progetto che consenta agli operatori di polizia penitenziaria di diventare anche operatori one. Ciò significa creare e formare il personale tenendo conto della distinzione tra etnie, per essere poi in grado di agire nel modo più corretto”. Per attenuare il malessere dei detenuti e tenere sotto controllo la situazione di sovraffollamento negli istituti penitenziari, l’Anci ha sottoscritto un protocollo con l’amministrazione penitenziaria, per affidare ai carcerati dei lavori socialmente utili. Ma finora il protocollo non è stato ancora attuato. Massa: Migliori (Pdl); detenuti alla fame, fornitura dei pasti è insufficiente per tutti Il Tirreno, 26 giugno 2012 Dalla cucina vengono sfornati 175 pasti. Che vanno a “sfamare” ben 260 carcerati, a cui si aggiungono gli altri cento della nuova contestata sezione detentiva B della Casa di reclusione di Massa. “I detenuti del carcere di Massa hanno fame”. A denunciare la situazione è l’onorevole Riccardo Migliori, coordinatore vicario del Pdl della Toscana. “Sembra che i pasti vengano forniti in base al numero di detenuti previsti dalla struttura, ovvero 175 ospiti, e non in base al numero effettivo di detenuti”. Stanno, infatti, proprio nei numeri le criticità dell’istituto penitenziario di via Pellegrini, a quanto descritto da Migliori. Che snocciola i dati reali: 120 guardie per 260 carcerati a cui si aggiungono i nuovi del “B”. Numeri che fanno a botte con quelli “sulla carta” che vorrebbero dietro le sbarre 189 agenti per 175 detenuti. La novità del settore “B” scatena anche le proteste della politica: la capogruppo Idv in consiglio regionale, Marta Gazzarri, ha presentato un’interrogazione urgente alla giunta per chiedere se intende spingere il governo a rimandare l’apertura del nuovo reparto. Denunce anche da parte della funzione pubblica di Cgil e Cisl e dalla rappresentanza sindacale unitaria della casa di reclusione di Massa. Caso analogo, ma epilogo differente nel carcere fiorentino di Sollicciano dove nel programma edilizio sarebbe stato previsto un nuovo padiglione, per aumentarne capienza e problemi. Progetto poi abbandonato. Taranto: in cella senza luce né acqua, esplode la protesta dei detenuti Agi, 26 giugno 2012 Momenti di tensione la notte scorsa nel carcere di Taranto a causa del sovraffollamento, del caldo torrido e soprattutto della mancanza di acqua e di energia elettrica. Lo denuncia Giuseppe Moretti, che parla di “violenti disordini a causa dell’assenza di acqua e luce che hanno richiesto anche l’ausilio esterno delle altre Forze di Polizia inviate dal prefetto”. Non ci sono stati però feriti. “I detenuti - spiega Moretti - che già soffrivano da tempo di interruzioni nella fornitura dell’acqua, quando si è verificato anche un blackout elettrico si sono ribellati, appiccando il fuoco ad alcune bombolette di gas usate per scaldare il cibo che hanno gettato nei corridoio delle sezioni e nei cortili”. Diversi detenuti e agenti si sono sentiti male a causa del fumo. “Una situazione drammatica - prosegue Moretti - che poteva essere evitata: il problema dell’erogazione dell’acqua è noto e persistente, sia nel carcere di Taranto che in altre strutture penitenziarie, ma non è mai stato fatto nulla di concreto per risolverlo”. Interviene sul caso anche la Cisl che segnala che la mancanza di acqua nel carcere è un problema avvertito da oltre una settimana e che questo si aggiunge alla situazione di sovraffollamento della casa circondariale di Taranto, “una struttura che potrebbe contenere 250 reclusi e dove, però, oggi se ne contano più del doppio”. E quindi, dice la Cisl, “la tensione rimane palpabile e non è detto che potrà stemperarsi nelle prossime ore in assenza di novità”. “Prendiamo atto - dice ancora la Cisl - delle rassicurazioni dell’Aqp quando parla di regolare erogazione dell’acqua e, al contempo, delle difficoltà finora riscontrate da parte di ingegneri convocati dalla direzione del carcere nell’individuare i guasti nella rete idrica che sono causa delle privazioni e delle tensioni sopra richiamate, ma è necessario fare presto ripristinando la normalità”. Moretti (Ugl): grazie ad agenti è stato evitato il peggio “Solo grazie al tempestivo intervento degli agenti di Polizia Penitenziaria, molti dei quali richiamati in servizio, si è evitato il peggio”. Così il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta quanto accaduto stanotte alla Casa Circondariale di Taranto, dove si sono verificati violenti disordini a causa dell’assenza di acqua e luce che hanno richiesto anche l’ausilio esterno delle altre Forze di Polizia inviate dal Prefetto. “I detenuti - spiega Moretti -, che già soffrivano da tempo di interruzioni nella fornitura dell’acqua, quando si è verificato anche un black out elettrico si sono ribellati, appiccando il fuoco ad alcune bombolette di gas usate per scaldare il cibo che hanno gettato nei corridoio delle sezioni e nei cortili. Diversi detenuti e agenti si sono sentiti male a causa del fumo”. “Una situazione drammatica - prosegue Moretti - che poteva essere evitata: il problema dell’erogazione dell’acqua è noto e persistente, sia nel carcere di Taranto che in altre strutture penitenziarie, ma non è mai stato fatto nulla di concreto per risolverlo. Così come è verosimile che il corto circuito sia stato provocato dal sovraccarico degli impianti, inadeguati a sostenere il fabbisogno di una struttura così sovraffollata come quella pugliese”. “Quanto accaduto a Taranto - prosegue - è anche il risultato di oltre tre anni di riduzione nell’erogazione dei fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture penitenziarie e della distrazione di enormi somme di denaro per la realizzazione del fantomatico Piano carceri, sulla base del quale in concreto sono stati realizzati solo 2 dei 13 nuovi penitenziari, annunciati ormai tre anni fa”. “Per la sicurezza degli agenti e dei detenuti di Taranto - conclude il sindacalista, e di tutta Italia, l’Ugl Polizia Penitenziaria ha avviato una mobilitazione nazionale annunciando manifestazioni davanti a tutte le strutture carcerarie e nei siti destinati a nuovi edifici. Chiediamo al ministro della Giustizia, Paola Severino, di passare subito dalla fase di studio a provvedimenti concreti, abbandonando idee pericolose come quella della cosiddetta vigilanza dinamica che altro non significa che un’ulteriore riduzione dei livelli di sicurezza e maggiori carichi di lavoro per la Polizia Penitenziaria. Bisogna attivarsi, invece, per dotare le strutture esistenti di impianti tecnologici adeguati, anche ricorrendo a sistemi innovativi come l’energia solare, che potrebbe soddisfare il fabbisogno energetico delle carceri con costi facilmente recuperabili”. Castiglione delle Stiviere (Mn): omicida in fuga dall’Opg, indagata un’infermiera di Giancarlo Oliani La Gazzetta di Mantova, 26 giugno 2012 Lo avrebbe aiutato a fuggire dall’Opg di Castiglione delle Stiviere per amore e adesso è indagata per procurata evasione. Lei è una dipendente della struttura psichiatrica, lui Jacopo Merani, 22 anni, condannato per l’omicidio di un 17enne ucciso a coltellate e quindi seppellito in giardino. Ad accusare la donna è stato lo stesso evaso. È indagata per procurata evasione la dipendente dell’Opg di Castiglione delle Stiviere che avrebbe aiutato a fuggire dalla struttura psichiatrica Jacopo Merani, il ventiduenne condannato a vent’anni di carcere, insieme a un complice, per l’omicidio di un 17enne, poi sepolto nel giardino della sua abitazione. Il giovane, nei giorni scorsi, si è costituito davanti al carcere di Bollate e ha accusato la donna, che ha qualche anno più di lui, d’avergli fornito il passe-partout per fuggire. Ad occuparsi dell’indagine è il sostituto procuratore Giulio Tamburini che ha delegato l’interrogatorio del giovane ai carabinieri di Bollate e quello dell’ausiliaria dell’Opg ai militari di Castiglione delle Stiviere. Che la donna si sia presa a cuore la sorte del giovanissimo omicida non c’è dubbio. Ma, a quanto pare, non per un istinto materno, bensì per un’attrazione fisica. È stata infatti rinvenuta una lettera scritta da lei che non lascerebbe dubbi in proposito, anche se Merani ha già dato due diverse versioni dei fatti. In un primo momento aveva detto di essere fuggito da una porta antincendio, successivamente d’aver usato la chiave consegnatagli dalla dipendente. Merani, a quanto pare, avrebbe espresso il desiderio di tornare in carcere, perché insofferente di un medico dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Per l’evasione verrà processato il 16 luglio. Jacopo Merani era stato condannato nel febbraio 2011 a vent’anni di carcere con l’amico complice Andrea Bacchetta. Nel 2009 attirarono in una trappola l’amico Dean Catic, 17 anni, e lo uccisero a coltellate, seppellendo il corpo nel giardino della casa dello stesso Merani, a Varese. Il piano fu portato a termine da entrambi, dalle prime coltellate, fino al colpo finale in giardino. Secondo l’accusa, i due ragazzi, con il cadavere ancora in giardino, ricevettero in casa degli amici, a cui vendettero droga, vantandosi di aver fatto fuori un rivale. I tempi sono documentati dai cellulari. L’agonia di Dean durò quattro ore, come evidenziò l’orario dell’ sms inviato da un testimone a Bacchetta, fino alla chiamata con cui Merani, da casa, contattò il suo cellulare che aveva perso mentre impacchettava, in garage, il corpo della vittima nel cellophane. Dean poteva essere salvato. Nessuna ferita, fino ai colpi di grazia sferrati in giardino con un piccone, fu mortale, anche perché il ragazzino aveva indosso due felpe e un giaccone pesante. Merani sostenne anche d’aver proposto al complice un trasporto in ospedale della vittima: Dean era stato ferito più volte con un coltello e caricato in macchina ed era ancora vivo. Ma i giudici non gli hanno creduto. Merani sarebbe affetto da schizofrenia aggressiva Jacopo Merani tornerà all’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Giovedì mattina è comparso davanti al tribunale a Milano, per la direttissima in ordine al reato di evasione. Il giudice ha convalidato l’arresto, ma ha rinviato al 16 luglio l’udienza. Il Tribunale si è anche riservato di acquisire una relazione psichiatrica sullo stato di salute del ventiduenne. Il giovane si trovava all’Opg perché il giudice che lo aveva condannato a 20 anni e 6 mesi, aveva disposto che avesse delle cure dedicate, sulla base di due diverse relazioni mediche che avevano ravvisato in lui sintomi della paranoia e della schizofrenia aggressiva. Secondo il giudice, Merani in carcere è potenzialmente pericoloso per sé e per gli altri: nel carcere di Monza aveva tentato il suicidio e aveva aggredito un altro detenuto con uno sgabello. Catania: detenuto tenta suicidio, salvato dagli agenti… penzolava con le stringhe al collo La Sicilia, 26 giugno 2012 Sabato mattina (ma la notizia si è appresa ieri) un detenuto catanese di circa 40 anni è stato salvato in extremis da un tentativo di suicidio dalla polizia penitenziaria nel carcere di Bicocca. L’uomo, presunto affiliato alla mafia, condannato per traffico di droga, stava per essere trasferito a Trapani, in un carcere, dunque, lontano da casa e dove ai suoi familiari sarebbe stato più complicato incontrarlo a colloquio. Sabato, in attesa di essere prelevato per il trasferimento, era stato rinchiuso provvisoriamente in una piccola cella. Ritrovandosi solo e scoraggiato l’uomo ha cercato di impiccarsi unendo i lacci delle scarpe. A dare la notizia è stato Mimmo Nicotra, vicepresidente del sindacato Osapp, il quale ha precisato che gli agenti della scorta del nucleo traduzioni e del piantonamento hanno trovato il detenuto penzolante attaccato alla finestra con le stringhe al collo. “Ogni giorno - spiega Nicotra lamentando i tagli nel suo comparto - - dentro le carceri è una lotta costante contro il tempo. Senza risorse e con una grave carenza di personale, gli agenti in questi mesi hanno salvato in silenzio decine ristretti dalla morte”. Fleres: penitenziari ormai al collasso Il Sen. Fleres, Garante dei diritti dei detenuti ha inoltrato una lettera alla Direzione per congratularsi con il corpo di Polizia Penitenziaria presente presso la C.C. di Catania Bicocca che è prontamente intervenuto salvando la vita ad un recluso che aveva tentato il suicidio. I fatti risalgono al 23 giugno scorso quando un detenuto, in attesa di trasferimento presso altro istituto, ha tentato di togliersi la vita. Grazie alla tempestività dell’intervento è stato evitato il peggio. “La situazione dei penitenziari siciliani - ha dichiarato il Sen. Fleres - è ormai al collasso e di tale situazione ne risentono sia i reclusi, sia il personale di Polizia Penitenziaria ma anche quanti, a qualsiasi titolo, prestano servizio all’interno delle carceri. La carenza di risorse umane e finanziarie, la vetustà delle strutture insieme ad un eccessivo affollamento determinano situazioni di disagio che spesso sfociano in atti di protesta, di autolesionismo o, peggio, in suicidio, che per il 2012 ammontano già a 26 nel territorio nazionale. In diverse circostanze, ha proseguito il Sen. Fleres, ho evidenziato l’esigenza di un maggior ricorso alle pene alternative, ad un minor uso della carcerazione preventiva, spesso applicata in assenza di quei parametri normativi che la rendono necessaria, insieme ad altri interventi in materia di aumento dell’organico di Polizia Penitenziaria, di psicologi, di educatori ed altri. Mi auguro, ha concluso il Sen. Fleres, che il Parlamento affronti tali argomenti in tempi brevi anche perché, nel corso della stagione estiva tutte le problematiche si amplificano arrecando maggiori disagi ai detenuti ed alla Polizia Penitenziaria. Di questo ed altro parlerò giovedì con il Direttore Generale del DAP insieme agli altri Garanti dei detenuti che da anni si battono per un carcere più dignitoso”. Bologna: detenuto della Dozza detenuto finge malore e aggredisce un poliziotto Bologna Today, 26 giugno 2012 Ha chiesto di essere portato in infermeria e quando l’agente ha aperto la cella, gli ha sferrato un pugno in faccia, per poi continuare a infierire. Nuova aggressione per un agente di polizia penitenziaria. È successo questa mattina al carcere della Dozza, a Bologna, dove un detenuto, fingendo un malore, ha chiesto di essere portato in infermeria. Quando il poliziotto in servizio ha aperto cella, il carcerato gli ha sferrato un pugno in faccia, per poi continuare a infierire con colpi in tutto il corpo. A denunciare l’episodio violento è il Sappe - sindacato degli agenti: “Chiediamo che vengano assunti immediati e duri provvedimenti contro l’aggressore - commenta il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante - perché non è tollerabile che gli agenti debbano subire anche le aggressioni di delinquenti come quello che oggi ha aggredito il nostro collega”. Nel corso del 2011, ricorda il Sappe, “in Italia ci sono stati 734 ferimenti, dei quali 405 posti in essere da detenuti stranieri, 3455 colluttazioni, 1907 di stranieri, 5693 atti di autolesionismo, di cui 3499 posti in essere da detenuti stranieri, 1003 tentati suicidi, 471 di stranieri, 63 suicidi, 27 di stranieri, 102 decessi per cause naturali, 12 di stranieri”. In Emilia-Romagna “ci sono stati 556 atti di autolesionismo, 75 tentati suicidi, 6 suicidi, 7 decessi per cause naturali, 49 ferimenti, 238 colluttazioni, 21 atti di danneggiamento a beni dell’amministrazione”. A Bologna, in particolare, 34 atti di autolesionismo, 14 tentati suicidi, due suicidi e due decessi per cause naturali. Nei giorni scorsi - sottolinea Durante - “è terminato lo sfollamento in Emilia-Romagna di circa 350 detenuti, a seguito del terremoto, ma da Bologna ne sono stati allontanati circa 80, davvero pochi per l’alta percentuale di sovraffollamento esistente nella struttura, dove ci sono ancora oltre 1000 detenuti, per una capienza di circa 450 posti”. Trieste: detenuto a colloquio con prof figlio su Skype, grazie all’Associazione Auxilia Agi, 26 giugno 2012 La Direzione penitenziaria di Trieste e la Magistratura di sorveglianza hanno autorizzato - per la prima volta nella storia della realtà penitenziaria italiana - che T.M., detenuto nella casa circondariale di Trieste, avesse un video colloquio con gli insegnanti del figlio minore che risiede in un comune della provincia di Udine. L’assistenza al detenuto è stata offerta dall’associazione onlus “Auxilia” attraverso i suoi volontari, utilizzando Skype e attrezzandosi con due diverse postazioni informatiche. Per conseguire il risultato di questo progetto sperimentale finanziato dalla regione Fvg - precisa il direttore del carcere di Trieste Enrico Sbriglia - è stata necessaria la collaborazione della scuola, giunta puntuale dalla dirigenza e dai docenti interessati. Di questa esperienza che scongiura che gli effetti derivanti da una pena coinvolgano anche altre persone innocenti (coniuge, convivente, figli, genitori) se ne parlerà domani in un incontro con alcuni dei protagonisti e di quanti hanno collaborato al successo del progetto. Napoli: la Comunità di Sant’Egidio porta in gita al mare i detenuti dell’Opg Il Mattino, 26 giugno 2012 Una gita al mare potrebbe sembrare una notizia banale, ma quella organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio con 15 detenuti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli è un caso un pò unico in Italia. Come unica è stata l’emozione di Gennaro nel rivedere il mare dopo sedici anni passati reclusi nell’Ospedale: “È un’emozione stupenda, vorrei restare per sempre qui”, dice quando lo rivede. Così anche per gli altri è stato come riprendere a respirare un’aria che si era dimenticata, espresso bene nelle parole di Nunzio: “La libertà è un sogno. Questo mare mi entra nei polmoni e nella testa, lo porterò con me quando sarò dentro”. La meta scelta per il permesso premio è una località molto suggestiva, Sorrento. Un piccolo tratto di spiaggia bruciato dal sole con alle spalle la costa rocciosa ricoperta di macchia mediterranea. Di fronte il mare. Calmo, azzurro intenso. Intervistato da campanianotizie.com , il direttore dell’Opg, Stefano Martone ha dichiarato: “Facciamo respirare loro un po’ di libertà. Un passo importante nel loro percorso di riabilitazione dei detenuti, un modo per accelerare il loro reinserimento in società”. La natura in stato di grazia sembra quasi voler abbracciare queste quindici anime dannate. Quindici uomini che nella loro vita hanno sbagliato, che si sono macchiati di delitti anche particolarmente efferati e che ora stanno pagando. Il sole dell’estate napoletana, del resto, è impietoso sulle mura dell’Opg, toglie il fiato di giorno e di notte. E allora anche poche ore su un triangolo di spiaggia possono restituire il respiro. E così, un caffè e una sigaretta a riva e poi il bagno tutti assieme, come un qualsiasi gruppo di amici in gita. Con due bracciate si può raggiungere un gozzo e trasformarlo in trampolino per i tuffi. Una situazione di normalità. Sulla carta, con la prossima chiusura degli Opg, dovrebbe essere così per tutti gli ex detenuti. Per i 106 della struttura napoletana, per i 200 di Aversa, in provincia di Caserta, e per quelli di tutta Italia. “La riforma è sacrosanta - dice il portavoce della Comunità, Antonio Mattone - ma è un dato di fatto che il nostro sistema sanitario non è ancora pronto. Il carcere produce malattia mentale, è un serbatoio continuo di pazienti che poi finiscono negli Opg. Allo stesso tempo c’è il problema delle dimissioni dei pazienti che una volta usciti non sanno dove andare. Le famiglie non vogliono più riprenderseli e le strutture territoriali praticamente non esistono”. Dal mare al ristorante. La comitiva si sposta a tavola e basta una bottiglia di Coca cola per fare festa. Si brinda, tutti insieme, “a tutti noi, che siamo l’uno per l’altro la nostra famiglia”. Qualcuno intona i versi di una canzone napoletana. Lo fa a voce bassa, “così non disturbiamo nessuno, così non ci dicono che siamo matti”. Nel primo pomeriggio arriva anche il saluto dell’arcivescovo di Sorrento e Castellammare, Francesco Alfano, “per la Chiesa è importante accogliere queste persone” dice. Poi, a fine giornata tocca ai saluti. Qualcuno resta in silenzio, qualcun altro si commuove. Per i quindici detenuti è tempo di tornare. Si risale sul bus, destinazione Secondigliano. Si ritorna dentro. Immigrati: Cie Modena cambia gestione, la Garante regionale detenuti rilancia l’allarme Dire, 26 giugno 2012 In qualità di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione, Desi Bruno ha indirizzato una lettera al Prefetto di Modena, Benedetto Basile, per chiedere aggiornamenti in merito al subentro dell’associazione “Oasi” alla “Misericordia” nella gestione del Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione per migranti) di Modena. Ciò dovrebbe avvenire dall’1 luglio 2012, con fondate previsioni di “tagli” al personale attualmente in servizio. La Garante torna a esprimere forte preoccupazione “per il possibile peggioramento delle condizioni di vita delle persone trattenute, anche in ragione della perdita delle professionalità che in questi anni hanno comunque lavorato all’interno della struttura”. Segnala, inoltre, al Prefetto di Modena l’opportunità di attivare, analogamente al Cie di Bologna, “lo sportello informativo rivolto ai trattenuti, come ausilio ad una maggiore consapevolezza della normativa in materia di immigrazione e come contributo ad una permanenza meno conflittuale possibile”. Nello scorso mese di marzo, la Garante ha effettuato una visita all’interno della struttura, riscontrando la seguente situazione. Nel corso del 2011 si sono alternate 594 persone rinchiuse, quasi la metà (282) provenienti dalla Tunisia, quasi un quarto (142) dal Marocco. Di queste, 116 in passato hanno avuto il permesso di soggiorno, 32 provenivano dal carcere, 384 hanno ricevuto un decreto di espulsione, 36 hanno richiesto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, 40 hanno chiesto asilo. Il tempo medio di permanenza è di 35 giorni, la media delle presenze giornaliere di 56 persone, tutti uomini, a fronte di una capienza massima di 60. Era in corso la gara al massimo ribasso per rinnovare l’affidamento della gestione, con base d’asta di 30 euro a persona. Il timore, già espresso all’epoca “è che una cifra così contenuta possa far saltare qualcuno dei servizi indispensabili come quelli medico infermieristici, di assistenza psicologica e mediazione culturale attualmente assicurati con un peggioramento della qualità della vita per i trattenuti. Nella considerazione che si tratta di persone che vivono in uno stato di reclusione la cui dignità va tutelata, abbiamo invece chiesto un incremento dei servizi con l’entrata del volontariato per attività ricreative, culturali e di sostegno oltre ad uno sportello per le informazioni legali per le persone trattenute”. Alla visita aveva fatto seguito una lettera di Desi Bruno al ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, nella quale venivano evidenziate le seguenti criticità: elevata incidenza sulla popolazione ospite di persone provenienti dal carcere; ricorrente presenza di stranieri presenti in Italia da molti anni, che hanno perso il permesso di soggiorno insieme al lavoro; notevole presenza di tossicodipendenti o affetti da patologie incompatibili con la detenzione. Ci sono persone che non vengono identificate perché il paese di provenienza non le riconosce, e restano al Cie per poi uscire e rientrare, in un girone infernale che le rende prive di qualunque riferimento. A ciò si aggiunge che la permanenza fino a 18 mesi ha aumentato la conflittualità, i gesti di autolesionismo, i danneggiamenti. Gran Bretagna: necessario migliorare cure a detenuti con problemi di salute mentale Agi, 26 giugno 2012 È necessario un miglioramento delle cure disponibili per i criminali con problemi di salute mentale. È quanto sostiene un nuovo studio della Plymouth University in Gran Bretagna, il primo del suo genere a esaminare lo stato dell’assistenza sanitaria per i detenuti di carceri e istituti di recupero che hanno problemi di salute mentale. I risultati dello studio sono stati resi pubblici sul report Cocoa (Care for Offenders: Continuity of Access). “Abbiamo intervistato e esaminato 200 criminali in stazioni di polizia e prigioni, per verificare le loro necessità di salute e il loro accesso a assistenza per problemi mentali” ha spiegato Richard Byng. “L’accesso a questo tipo di assistenza è fondamentale per un buon recupero, ma dalla nostra indagine è risultato molto limitato, in particolare per quei casi di individui con dipendenze da sostanze. Pochi criminali si fidano del sistema sanitario pubblico o vogliono ammettere di avere un problema mentale”. Kosovo: Osce; le condizioni delle carceri non soddisfano i requisiti minimi Nova, 26 giugno 2012 Le condizioni delle carceri e degli istituti di correzione in Kosovo non soddisfano i requisiti minimi. I detenuti non dispongono di lenzuola adeguate, di servizi igienici decenti e di cure mediche sufficienti. È quanto stato sottolineato alla tavola rotonda organizzata a Pristina in occasione della Giornata internazionale contro la tortura. “Incoraggio le istituzioni del Kosovo ad assicurare l’attuazione delle raccomandazioni formulate da questo gruppo di lavoro. Le normative nazionali dovrebbero riflettere la sospensione totale della tortura, come stabilito dalla Convenzione europea e delle Nazioni Unite sui diritti umani”, ha dichiarato Hjortur Sverrison, direttore per i dritti umani della missione dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). “Possiamo dire che la situazione generale non cambiata molto rispetto all’anno scorso. Le condizioni strutturali insufficienti rimangono motivo di preoccupazione in quasi tutti gli istituti penitenziari. In questa occasione vorrei ricordare che nel pi grande istituto correzionale del Kosovo, il Centro di Dubrava, i padiglioni 1, 3 e 5 non soddisfano le condizioni minime. Anche se alcuni lavori di ristrutturazione sono stati fatti, questi sono principalmente di scarsa qualità. La vita dei prigionieri e dei membri dello staff resta difficile”, ha detto Feride Rushiti, del Centro di riabilitazione per le vittime della tortura del Kosovo (Krct). “Allo stesso tempo, in quasi tutti i centri di detenzione correzionale, le cucine sono danneggiate, comprese quelle di Dubrava, il centro di correzione e quello di detenzione di Lipjan, cos come i centri di detenzione di Gjilan e Pristina”, ha aggiunto Rushiti. La tavola rotonda stata organizzata dal difensore civico e dalla missione Osce in Kosovo. Iran: Arabia Saudita deve rendere conto per connazionali giustiziati Aki, 26 giugno 2012 L’Arabia Saudita deve rendere conto per la recente esecuzione di cittadini iraniani. Lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehmanparast, nel suo incontro settimanale con la stampa. Per il portavoce, l’Iran non può ignorare la questione delle esecuzioni, perché “nessun paese, né l’Arabia Saudita né alcun altro stato, ha il diritto di trattare i suoi cittadini in questo modo. È una questione molto grave e la affronteremo a livello legale e internazionale”. Mehmanparast, citato da PressTv, ha quindi annunciato che invierà in Arabia Saudita una delegazione di diplomatici e avvocati, che affiancheranno i legali dei cittadini iraniani detenuti nel paese arabo. “Il governo saudita deve rispondere delle sue azioni”, ha aggiunto. Lo scorso 18 aprile, PressTv riportava la notizia di otto marinai iraniani giustiziati tre giorni prima nella città saudita di Dammam senza processo. Altri 10 sarebbero stati giustiziati il 30 maggio. Per Mehmanparast si tratta di un gesto “disumano” che viola il diritto internazionale. Altri cittadini iraniani sarebbero detenuti nelle carceri saudite in attesa di esecuzione.