Giustizia: Severino; ok a introduzione del reato di tortura ma non sia “norma di bandiera” Il Velino, 19 giugno 2012 L’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano “non deve essere una norma di bandiera per dire alla comunità internazionale che l’Italia ha questo reato”. Così il ministro della Giustizia Paola Severino a margine di un’audizione Senato. “Il reato - sottolinea il Guardasigilli - deve andare oltre quello che è già previsto nell’ordinamento italiano per dare il senso di un qualcosa in più e giustificarne l’introduzione. Deve punire ad esempio comportamenti disumani e degradanti”. Rileva Severino: “Non sono scettica. È un compito difficile. Il mio non è un giudizio di valore ma strettamente tecnico. Il nostro ordinamento è già ricco di fattispecie e occorre valutare il ventaglio delle alternative possibili”. Giustizia: Severino; traduzioni detenuti costano troppo, siano magistrati ad andare da loro Ansa, 19 giugno 2012 “Ridurre, per tagliare le spese, la traduzione di detenuti per udienze di convalida di arresto o fermo, salvo specifici motivi di necessità o gravi ragioni”. È l’indicazione del ministro della Giustizia Paola Severino in una lettera diretta a presidenti di Corti d’Appello, Procuratori generali presso le Corti d’Appello, Procuratore generale antimafia e capo del Dap. Nel testo il ministro afferma che su questo aspetto è doveroso e improcrastinabile sensibilizzare i magistrati. “L’udienza di convalida si svolge nel luogo ove l’arrestato o il fermato è custodito”. Questo il testo dell’art. 123 del codice di procedura penale, “confermato e espressamente rafforzato” dal recente decreto svuota-carceri, che il ministro della Giustizia, Paola Severino, richiama nella lettera con sui sollecita una riduzione delle traduzioni di detenuti ricordando che, salvo casi di necessità e gravità, deve essere il magistrato a recarsi nel luogo di detenzione. Disposizione spesso “disattese”. Giustizia: Papa (Pdl); Lusi in galera solo se condannato, immunità parlamentare va abolita Agenparl, 19 giugno 2012 “Penso che i fatti ascritti all’ex tesoriere della Margherita Lusi siano stucchevolmente gravi. E credo che essi, se riscontrati, non possano non chiamare in causa anche i vertici di quel partito che oggi si affannano ipocritamente a scaricare sul capro espiatorio Lusi ogni responsabilità”, è quanto scrive il deputato del Pdl Alfonso Papa alla vigilia del voto in Senato sulla richiesta di autorizzazione all’arresto nei confronti del senatore ed ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. “Lusi si faccia processare e se colpevole vada in galera. Ma da condannato e non da presunto non colpevole, quale è secondo Costituzione”, scrive l’onorevole Papa. Non manca una stoccata nei confronti dell’ex collega e uditore Henry John Woodcock: “A Woodcock i processi non piace celebrarli nelle aule di udienza. E tra qualche mese tutti vedranno quali sono i reali obiettivi di questo magistrato”. Il deputato Papa inoltre accenna alla proposta di legge di cui è primo firmatario e che è volta a limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere ai soli reati di sangue, mafia e terrorismo. Se questa venisse approvata, si potrebbe parallelamente abolire l’istituto dell’autorizzazione all’arresto “e i parlamentari siano trattati come tutti i cittadini”. Giustizia: al Senato esame emendamenti a Ddl su reato di tortura Asca, 19 giugno 2012 La Commissione riprende oggi l’approfondimento del Ddl 256 e sulle proposte connesse dirette ad introdurre nel Codice penale il reato di tortura. È stato dato incarico ai due relatori di predisporre un testo unificato che consenta di rimettere in moto l’iter dopo una lunga battuta di arresto. In particolare il relatore Casson (Pd) ha dichiarato che nel testo non viene inserita la proposta di un fondo in favore delle vittime per evitare problemi di copertura finanziaria. La stessa Commissione deve anche proseguire la discussione del Ddl 1219 contenente modifiche alla legge 354 del 1975 in materia di lavoro da parte dei detenuti in favore di Onlus. Nei giorni scorsi il Sottosegretario alla Giustizia Mazzamuto si è riservato di esprimere il parere su vari emendamenti presentati dalla Senatrice Allegrini (Pdl). Giustizia: “Carceri aperte. Parliamone”… la campagna di Bambinisenzasbarre www.confinionline.it, 19 giugno 2012 La campagna di sensibilizzazione di Bambinisenzasbarre e la prima petizione al Parlamento Europeo sull’impatto della detenzione dei genitori sui figli. “Carceri Aperte. Parliamone” è la campagna di sensibilizzazione che vede impegnata nel mese di giugno 2012 l’Associazione Bambinisenzasbarre, in collaborazione con la Rete Europea Eurochips, sul tema dell’impatto della detenzione dei genitori sui figli, ma è anche il momento della raccolta delle firme per la prima petizione al Parlamento Europeo per la tutela dei diritti dei bambini, figli di genitori detenuti. La petizione, che può essere firmata on line sul sito www.bambinisenzasbarre.org, chiede maggiore attenzione e informazione su questi minori che spesso sono “bambini invisibili”, a rischio di discriminazione, esclusione e interruzione dei rapporti con il genitore in carcere. Si raccomanda di migliorare le condizioni di visita dei bambini in carcere, di aumentare le ore di incontro con il loro genitore, di incrementare la consapevolezza e la formazione degli operatori penitenziari. “Spesso per la maggior parte delle persone il reato del genitore è associato al bambino che ne sopporta la condanna, in silenzio, a casa, a scuola e anche in carcere quando va a trovare il genitore” ha dichiarato Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre. Il tema “Non un mio crimine, ma una mia condanna” scelto con Eurochips per la campagna europea di informazione ben sintetizza il vissuto dei bambini che hanno un genitore in carcere. Il milione in Europa e i 100mila in Italia ci indicano la dimensione del problema. Tanto che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ha condiviso l’iniziativa e ha sollecitato tutte le Direzioni degli Istituti del territorio di competenza ad adoperarsi per l’attuazione degli eventi che si sono svolti in questi giorni”. La campagna di informazione prevede infatti una serie di iniziative che si estendono per l’intero mese di giugno: carceri aperte per feste dei bambini su tutto il territorio nazionale, spettacoli, workshop e mostre di disegni presso le scuole, aperture di nuovi “Spazi Gialli”. Bambinisenzasbarre è una Associazione onlus che si occupa dal 1997 della cura delle relazioni familiari durante la detenzione di uno o entrambi i genitori, della tutela del diritto del bambino alla continuità del legame e della sensibilizzazione della rete istituzionale di riferimento e della società civile. Fa parte del consiglio direttivo di Eurochips - European Network for Children of Imprisoned Parents, rete europea con sede a Parigi, presente in 15 paesi. È partner del Ministero della Giustizia/DAP, di Università italiane e straniere, dell’Istituto dei Diritti Umani di Copenhagen e del Gruppo CRC. Giustizia: colpito da malore sindacalista Sappe in sciopero fame da 30 giorni Ansa, 19 giugno 2012 Colto da malore e ricoverato nell’ospedale Cardarelli di Campobasso, al 30/o giorno di sciopero della fame, il consigliere nazionale del Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria (Sappe), Aldo di Giacomo. Ora è nel reparto di Medicina del nosocomio molisano. “Le sue condizioni - ha spiegato il suo medico personale - non gli consentono di proseguire nella sua protesta”. Di Giacomo aveva cominciato lo sciopero della fame il 23 maggio scorso per sensibilizzare le istituzioni sul problema del sovraffollamento delle carceri. Capece (Sappe): Di Giacomo sospende sciopero della fame dopo malore “La notizia del malore di ieri ad Aldo Di Giacomo, segretario regionale per le Marche del Sappe che per circa un mese ha adottato (d’intesa e supportato dalla Segreteria Generale del Sindacato) lo sciopero della fame quale soluzione estrema per richiamare l’attenzione delle Autorità e delle Istituzioni sulle criticità penitenziarie, ci ha preoccupato e quindi gli ho chiesto di sospendere la protesta. Ci faremo noi portatori di una serie di iniziative che abbiamo deliberato pochi minuti fa in una urgente riunione di Segreteria Generale, iniziative che illustreremo in una conferenza stampa che terremo la prossima settimana a Roma”. A dichiararlo è Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria). “Di Giacomo è ricoverato all’Ospedale Cardarelli di Campobasso ed ha convenuto sulla necessità di interrompere lo sciopero della fame” prosegue Capece. “Le proteste per richiamare l’attenzione del mondo della politica (per buona parte distratto) sui problemi penitenziari vanno avanti. Ne parleremo in una conferenza stampa che terremo la prossima settimana a Roma, ma è evidente che il sovraffollamento resta alle stelle e ciò alimenta inevitabilmente una tensione fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera quotidiane condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, che hanno bisogno urgente di rinforzi e soluzioni concrete. Come ad esempio, come succede nel resto d’Europa, di politiche che permettano ai detenuti con pene brevi di scontarle fuori dal carcere e di istituire un circuito differenziato per i tossicodipendenti presso le Comunità di Recupero. Quello che invece non serve è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come previsto da una recente nota del Capo Dap Tamburino che vorrebbe consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti. Rinnovo il mio invito alla Ministro della Giustizia Paola Severino Di Benedetto di incontrare il SAPPE per stemperare le tensioni e trovare soluzioni condivise alle criticità penitenziarie”. Giustizia: trattativa tra Stato e Mafia; il Quirinale e la mossa legittima di Carlo Federico Grosso La Stampa, 19 giugno 2012 Tutti speriamo che l’autorità giudiziaria sia messa, finalmente, nella condizione di far luce sulla trattativa che si presume intercorsa fra mafia e Stato nella primavera del 1992. Tutti confidiamo che i responsabili dei reati siano individuati e condannati. Permane d’altronde intatto lo sconcerto di fronte al fatto che tanti politici che sapevano siano rimasti per tanti anni silenti e che, soltanto ora, fra reticenze e sussurri, qualcuno cominci a raccontare. La vicenda, com’era inevitabile, a causa della sua enorme rilevanza politica e criminale (Borsellino sarebbe stato assassinato proprio per la sua opposizione alla trattativa; le stragi di Firenze e Roma sarebbero state la reazione alle incertezze dello Stato), non poteva non lasciare dietro di sé, ad ogni passaggio, sciami di polemiche e di veleni. Da ieri l’altro la polemica sembra lambire il Capo dello Stato a causa di una lettera che egli ha fatto inviare il 4 aprile 2012 dal segretario generale della Presidenza al procuratore generale presso la Cassazione, concernente una doglianza, ricevuta dell’onorevole Mancino, sul fatto che non fossero state, fino ad allora, adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari. Che cosa scriveva in quella lettera il segretario generale? Trasmettendo la lettera a sua volta inviata a Napolitano da Mancino, egli precisava che “conformemente a quanto da ultimo sostenuto nella Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato auspica che possano essere adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure sulla base degli strumenti previsti dal nostro ordinamento, al fine di dissipare le perplessità che possono derivare da gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”. In termini burocratici, si sollecitava dunque, semplicemente, il procuratore generale della Cassazione ad assicurare, per quanto possibile, l’opportuno coordinamento delle indagini, allo scopo di evitare che iniziative discordanti potessero danneggiarle. Ed allora, che c’è di strano? Il Capo dello Stato, nella prospettiva di una proficua collaborazione istituzionale, ha sollecitato, semplicemente, il procuratore generale presso la Cassazione ad esercitare con tempestività ed efficienza i suoi poteri di controllo in una materia particolarmente incandescente quali sono le indagini sulla trattativa mafia-Stato. Si badi che l’esercizio dei poteri di sorveglianza sollecitati al procuratore generale della Cassazione sono specificamente riconosciuti dalla legge. L’art. 106 del d.lgs. n. 106/2006 dispone che “il procuratore generale presso la Corte di Appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, ed invia al procuratore generale presso la Cassazione una relazione annuale” (ovviamente per consentirgli un’adeguata sorveglianza); l’art. 104 del d.lgs. n. 159/2011, sotto il titolo “attribuzioni del procuratore generale della Cassazione in relazione alla attività di coordinamento investigativo”, dispone a sua volta che “il procuratore generale presso la corte di Cassazione esercita la sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia”. Il procuratore nazionale antimafia ha sicuramente il potere di dirigere e coordinare le attività investigative delle Direzioni distrettuali antimafia; egli è tuttavia soggetto, a sua volta, a specifica sorveglianza da parte del procuratore generale presso la Cassazione, la massima autorità requirente del Paese. Il Capo dello Stato, nei suoi interventi in materia di giustizia, aveva d’altronde manifestato più volte preoccupazione sul fatto che indagini collegate potessero avere sviluppi non adeguatamente coordinati; e già altre volte aveva opportunamente allertato il procuratore generale in questo senso (si può ad esempio ricordare il suo intervento nel momento in cui era scoppiato un grave conflitto fra le procure generali di Catanzaro e Salerno). È pertanto naturale che anche questa volta abbia potuto, in piena legittimità, rivolgersi alla massima autorità giudiziaria competente a sorvegliare il funzionamento delle procure per sollecitare interventi funzionali al miglior esercizio possibile dell’attività giudiziaria. Dato il tenore della lettera, non è d’altronde vero che si siano verificate indebite pressioni sul procuratore generale, non è vero che sia stato scavalcato il Capo della Dna, nulla, nella lettera, fa lontanamente pensare che essa tendesse a salvare in qualche modo i politici. Che su questa vicenda si sia imbastita una polemica di tal fatta, è segno tristissimo della crisi in cui annaspa il nostro Paese. Giustizia: G8 Scuola Diaz; gruppo di poliziotti “ribelli” a consegna del silenzio Dire, 19 giugno 2012 “Non ci possono vietare di esprimere la nostra opinione e il nostro pensiero, sennò che fine fa la democrazia? Questa circolare del ministero dell’Interno ci provoca sdegno e vogliamo parlarne pubblicamente con altri poliziotti e con i cittadini. A noi piace la trasparenza, invece ultimamente ci sono segnali che non ci piacciono e ci hanno invogliato a organizzare questo dibattito”. A parlare così è un gruppo di poliziotti che lavora a Bologna a cui non è andata giù la circolare interna partita dal Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno il 15 marzo scorso, in coincidenza con l’uscita al cinema del film “Diaz”, la pellicola di Daniele Vicari che rievoca l’invasione e le violenze della Polizia alla scuola Diaz, sede del Genoa social forum, nel corso del G8 di Genova del 2001. Contro questa circolare, che già nei mesi scorsi aveva suscitato polemiche anche sui giornali, alcuni poliziotti di Bologna ora hanno deciso di prendere posizione e di farlo pubblicamente, invitando a parlarne con loro anche il regista Vicari, in un dibattito che si intitola “La democrazia nella Polizia”. L’iniziativa si svolgerà al centro Croce coperta di via Papini giovedì alle 18 ed è stato presentato oggi in Comune. Ad aiutare gli agenti pro-democrazia ad organizzare l’evento, ci ha pensato l’associazione “Solidarietà vittime dell’illegalità”, di cui gli agenti fanno parte, che nacque a Bologna ai tempi della Uno bianca e da un paio d’anni è di nuovo attiva. È vicina al Siulp, a cui molti agenti soci dell’associazione sono iscritti, ma agisce in modo autonomo dal sindacato. “Il film Diaz, così come “È stato morto un ragazzo” su Federico Aldrovandi, è una pellicola coraggiosa che cerca di portare la verità, proprio quella che un poliziotto dovrebbe avere sempre come bandiera”, dice Maurizio Matrone, ex poliziotto e scrittore. Per i poliziotti che insorgono contro la circolare ministeriale che vuole imporre il silenzio a chi porta la divisa, “fatti come Genova non devono mai più esistere e questo film può aiutare a ricostruire cosa è accaduto, perché sono state dette tante bugie e perché chi le ha raccontate l’ha fatto franca o la farà franca”, prosegue Matrone, ricordando che la sentenza definitiva della Corte di Cassazione è stata rimandata al 5 luglio. E prosegue: “L’accusa più grave, per un poliziotto, è quella di falso ideologico. Un poliziotto non può dire bugie, altrimenti non merita di essere un poliziotto. La Polizia deve essere trasparente”. L’obiettivo dell’iniziativa, spiega Matrone e con lui Santo Triolo, che lavora alla sezione Antidroga della Squadra mobile di Bologna ed è tra i promotori, è “avvicinare i cittadini e recuperare il rapporto tra cittadinanza e Polizia”, a maggior ragione in un momento in cui “la politica latita e affida la gestione della sicurezza a dei tecnici mentre dovrebbe riappropriarsene”, sottolinea l’ex segretario nazionale del Siulp, Luigi Notari, oggi a Bologna per presentare l’iniziativa. La circolare ministeriale non è piaciuta, spiega Triolo. “Mi ha toccato, a me come ad altri. Penso che nessuno possa vietare di esprimere il proprio pensiero a ciascun poliziotto, altrimenti diventa un poliziotto frustrato le cui frustrazioni possono riversarsi sui cittadini. I cittadini hanno bisogno di una polizia democratica”. Nell’ambiente della Polizia com’è stato preso il film? “Qui a Bologna, come in tante altre città, ci sono tanti ambienti, tante Polizie. Potete immaginare come sia stato preso nel Reparto mobile”, risponde Triolo. Eppure, sottolinea Matrone, “Bologna è una città fortunata, ci sono altri ambienti dove si preferisce far finta di non vedere”. Di fatto, però, quello che ha spinto il gruppo di poliziotti a organizzare il dibattito è il fatto che pochi si siano scomposti più di tanto dopo la circolare. “È chiaro che se ci fosse stata attenzione e un dibattito, non avremmo deciso di organizzare un’iniziativa”, afferma Notari. La sfida, ora, è di riuscire a portare al dibattito di giovedì sera “anche tanti poliziotti, oltre che tanti cittadini”. Per Notari è importante perché “occorre recuperare un rapporto franco fra cittadini e Polizia”, ancor più in un momento in cui “si sta diffondendo sempre più una cultura militarista e la politica non sta facendo nulla per impedirlo”. Del resto, anche tra gli stessi cittadini “capita a volte che ci sia chi tende a essere d’accordo con certi metodi, a non farci caso, finché non capita a lui. È la stessa società che preferisce una Polizia militare”, dice Notari, ricordando il rischio che si torni alla militarizzazione (dopo la conquista del 1981 quando il corpo venne appunto smilitarizzato). “Ormai il reclutamento per concorso è quasi scomparso, viene fatto quasi tutto dalla caserme. Di certo è gente preparata, ma proviene comunque da un certo ambiente, dove è abituata a ordini, a silenzi, magari arrivano dall’Afghanistan - ragiona Matrone - tutto questo non aiuta alla partecipazione democratica dei cittadini alla Polizia, non si crea un ambiente di polizia civile e democratica”. Per Notari quello della nuova militarizzazione è un rischio: “Sembra che certi apparati vogliano rimilitarizzarla per renderla silente e obbediente”. Al dibattito di giovedì, oltre a Vicari, ci saranno il giudice Claudio Nunziata, il deputato Salvatore Vassallo (Pd) e anche il giornalista scrittore Gianni Flamini, di cui verrà presentato il libro “Lo scambio”. Toscana: Garante; situazione preoccupante per affollamento e poca manutenzione carceri Agenparl, 19 giugno 2012 Il sovraffollamento, la scarsa manutenzione degli edifici, la sempre maggiore carenza di risorse con le conseguenti difficoltà organizzative sono i problemi più scottanti delle carceri toscane e la situazione è destinata ad aggravarsi ulteriormente. I dati preoccupanti sono emersi in commissione Affari istituzionali, presieduta da Marco Manneschi (Idv), dalla relazione sull’attività svolta nel 2011 dal Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Alessandro Margara. All’audizione era presente l’assessore al welfare Salvatore Allocca. Il Garante ha sottolineato che precise scelte legislative hanno trasformato i penitenziari in luoghi di “contenzione”, invece che di “rieducazione”, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione. L’utilizzo delle misure alternative appare più orientato a garantire esigenze di sicurezza, che a favorire il reinserimento sociale, nonostante i dati mostrino che tali misure riducano in maniera significativa (dal 67% al 18%) la recidiva. L’istruzione, primaria e secondaria, è tradizionalmente di buon livello, ma deve fare i conti con il taglio delle risorse, che incide pesantemente soprattutto sulle opportunità di lavoro retribuito per i detenuti. Margara ha fatto una panoramica sulla situazione dei singoli penitenziari della regione, in molti casi costretti a chiudere alcune sezioni perché non idonee, e sulla complessa attuazione della riforma sanitaria, con il passaggio dal servizio sanitario penitenziario al servizio sanitario nazionale. “Visitando le carceri con particolare riferimento alla parte sanitaria non sembra di essere in Toscana - ha osservato Marco Ruggeri (Pd). È necessario sviluppare una riflessione. Quanto previsto dal piano sociale e sanitario non è sufficiente. Forse dobbiamo creare una struttura a livello regionale”. “La Toscana partiva da un livello altissimo di civiltà. Il crimine era quasi sconosciuto - ha affermato Dario Locci (gruppo Misto) - Oggi la situazione è preoccupante e le carceri sono solo l’ultimo anello di una società disgregata, attraversata dalle dipendenze e da certe forme deleterie di immigrazione”. “La relazione non consente a nessuno di far finta di niente: ci deve far vergognare - ha aggiunto Marco Spinelli (Pd) - Ci sono problemi strutturali, non è solo una questione di diritti individuali. Sono necessarie maggiori risorse. Il piano sociale e sanitario va rivisto”. All’unanimità la commissione ha approvato una risoluzione, che esprime apprezzamento per l’attività svolta dal Garante nel corso del 2011 e ribadisce l’impegno per assicurare la finalità rieducativa della pena ed il reinserimento sociale dei condannati e, più in generale, l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali all’interno delle strutture penitenziarie. La risoluzione sarà all’esame del Consiglio regionale nella prossima seduta. Lo comunica il Consiglio regionale in una nota. Sardegna: il Consigliere Tocco; carceri in situazione degradante, no a nuovi arrivi detenuti Redattore Sociale, 19 giugno 2012 Il consigliere Tocco: “Ogni istituto di pena sta vivendo il dramma del sovraffollamento a cui fa il paio l’insufficienza del personale addetto, sia civile, sia militare, costretto a turni massacranti e a fronteggiare le emergenze quasi quotidiane”. “Non è solo un problema legato alle nuove carceri che si stanno faticosamente costruendo, ma la vivibilità all’interno degli istituti di pena dell’isola è di quanto più degradante per la dignità umana si possa vedere”. L’allarme arriva dalla Commissione diritti civili e politiche comunitarie del Consiglio regionale, per voce del consigliere Edoardo Tocco. “Ogni istituto di pena, in Sardegna, sta vivendo il dramma del sovraffollamento a cui fa il paio l’insufficienza del personale addetto, sia civile, sia militare, costretto a turni massacranti e a fronteggiare le emergenze quasi quotidiani. Ora le nostre carceri sarebbero anche state ulteriormente occupate da altri detenuti provenienti dalla penisola, senza che si sia provveduto ad incrementare il personale”. A preoccupare anche la notizia che nell’Isola potrebbero arrivare anche i detenuti soggetti al 41bis, il regime di carcere duro previsto per i mafiosi più pericolosi. “Fin dall’inizio di questa legislatura - ha aggiunto Tocco - la Commissione ha tenuto alto il dibattito sulle gravi problematiche nelle carceri sarde, producendo leggi, risoluzioni e interventi tendenti a migliorare la vivibilità negli istituti di pena, compreso il trasferimento dei tanti agenti penitenziari sardi che potrebbero svolgere il loro lavoro nell’isola, ma anche altrettanti detenuti per cui si chiede la territorializzazione della pena e avvicinarli alle rispettive famiglie. Le carceri, compreso il fatiscente Buoncammino di Cagliari, hanno la necessità di essere rimodernati anche prevedendo la possibilità di lavoro al loro interno che possa essere l’inizio di un reinserimento sociale finita di scontare la pena”. Taranto: Osapp; il carcere manca acqua, per servizi igienici utilizzate bottiglie “minerale” Ansa, 19 giugno 2012 Risse tra detenuti si sarebbero verificate nella giornata di ieri nei cortili passeggio nel carcere di Taranto a causa del gran caldo e della mancanza di acqua in alcune fasce orarie. Lo rende noto il vicesegretario generale nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli. Nel carcere di Taranto sono rinchiuse 640 persone contro una capienza regolamentare di 315 (di cui 20 donne). Secondo l’Osapp, in questi giorni di gran caldo e a causa della mancanza di acqua, per i servizi igienici viene utilizzata acqua minerale, acquistata nel bar dell’istituto di pena da poliziotti penitenziari e detenuti. Nell’istituto penitenziario, quindi, secondo l’Osapp, si verificano “fibrillazioni, proteste, momenti di alta rissosità tra detenuti delle diverse tipologie criminali e delinquenziali lasciati alla sorveglianza di soli 290 poliziotti penitenziari che di dividono per far fronte ai turni di ferie estive su turni di otto e dodici ore continuative”. Massa: Migliori (Pdl); detenuti affamati, le cucine preparano 175 pasti per 260 persone Ansa, 19 giugno 2012 “I detenuti del carcere di Massa hanno fame”: lo ha detto l’onorevole Riccardo Migliori, coordinatore vicario del Pdl della Toscana, in visita al carcere di Massa, insieme al gruppo consiliare della città. Migliori ha incontrato, oltre alla dirigenza e ai sindacati di polizia, anche alcuni rappresentanti dei detenuti che avrebbero lamentato porzioni dei pasti troppo piccole. “Sembra che - ha spiegato Migliori - i pasti vengano forniti in base al numero di detenuti previsti dalla struttura e non in base al numero effettivo di ospiti. In pratica vengono cucinati 175 pasti per sfamare in realtà 260 persone. Siamo al limite della decenza umana”. L’on Migliori ha chiesto un incontro anche con prefetto e questore per affrontare anche le questioni della sicurezza del carcere, soprattutto in vista dell’arrivo di cento nuovi detenuti, che dovranno sistemarsi in una sezione che ne prevede soltanto 88. “Ho visitato anche l’ambulatorio da 13 posti - ha sottolineato Migliori - che ne vede invece ricoverati 28 e visto celle con ammassati 7-8 detenuti. Con l’arrivo dei nuovi 100 detenuti gli agenti, 120 unità operative, si troveranno quasi in ostaggio”. Modena: Casa lavoro Saliceta evacuata per terremoto, occasione per accelerare chiusura Dire, 19 giugno 2012 Dichiarata inagibile dai Vigili del Fuoco in seguito alle attività sismiche dei giorni scorsi, la Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano (Mo) è stata evacuata per ragioni di sicurezza: 65 le persone detenute trasferite, 30 alla Casa di reclusione di Parma, le altre 35 al carcere di Padova. La Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno, ha espresso la seguente posizione. “Nelle Case lavoro - quattro su tutto il territorio italiano - sono internate le persone che pur avendo scontato la pena detentiva per intero hanno avuto un’ulteriore misura di sicurezza, applicata dal magistrato, perché considerate socialmente pericolose. Misure di sicurezza che hanno come obbligo il lavoro per arrivare al reinserimento sociale, ma nella realtà mancano i progetti, motivo per cui la misura può essere prorogata fino a che il giudice di sorveglianza non ritenga cessata la pericolosità sociale. Poiché nella realtà le finalità delle misure di sicurezza detentive non si raggiungono, non assicurando né il lavoro, né il reinserimento sociale, l’evacuazione della casa lavoro di Saliceta può essere l’occasione da cogliere per la sua chiusura definitiva, destinando le risorse dedicate a reali progetti di reinserimento per le persone internate, tenendo conto anche della vicinanza di altra struttura, Castelfranco Emilia, dedicata in parte a persone in misura di sicurezza detentiva e che, per ampiezza e per presenza di officine dismesse, vasti terreni e attività in corso da potenziare, sarebbe meglio utilizzabile con un razionale progetto di sfruttamento di una risorsa quasi sconosciuta. A ciò si aggiunge la necessità che riprenda l’iter legislativo per l’abolizione delle misure di sicurezza detentive, retaggio di un passato normativo che giustifica per lo più l’allontanamento di persone già condannate da territori di provenienza, e questo spiega che nella regione Emilia-Romagna la maggior parte degli internati provenga dalla Lombardia e dalla Campania. In ogni caso, è necessario, laddove possibile, che le persone internate trasferite vengano collocate in istituti penitenziari che tengano conto del principio di territorialità, a questo punto applicabile anche alle misure di sicurezza detentive, avvicinando gli internati ai luoghi di provenienza, di residenza e dove hanno legami familiari, favorendo in questo modo un effettivo reinserimento sociale, e in ogni caso a trovare con urgenza una adeguata collocazione per le stesse, assicurando un regime di vita che tenga conto della peculiarità della situazione giuridica e del percorso già svolto nella casa lavoro di Saliceta nonché del regime “ aperto” in cui gli stessi hanno vissuto. In questo senso desta preoccupazione la situazione degli internati di Parma, che lamentano una significativa riduzione degli spazi nella sezione in cui sono attualmente collocati”. Interrogazione dei Radicali Quella fornita dal terremoto potrebbe essere l’occasione giusta per chiudere definitivamente la casa lavoro di Saliceta San Giuliano, in provincia di Modena, dove i 63 internati sono stati evacuati a causa del sisma. A sottoporre la questione al ministro della Giustizia, Paola Severino, attraverso un’interrogazione parlamentare, sono i deputati della Rosa nel pugno, Marco Beltrandi, Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci, Maurizio Turco e Elisabetta Zamparutti. “Le case lavoro hanno fallito nel loro intento e il terremoto, proprio perché ha sgomberato quegli ambienti, può ora permettere di pensare alla definitiva chiusura della struttura di Saliceta San Giuliano e a un cambiamento di programma- osserva Bernardini- la chiusura renderebbe anche più leggero il lavoro dell’ufficio esecuzione penale modenese e alleggerirebbe i compiti del personale”. I deputati sottolineano anche come la garante regionale per i diritti dei detenuti, Desi Bruno, abbia chiesto la chiusura della casa lavoro: una struttura che gli stessi internati hanno definito “girone dei miserabili dimenticati”. Il problema principale è che in assenza di risorse, la casa non può svolgere la sua funzione di reinserimento nella società degli ex carcerati, e si trasforma in un luogo di prolungamento della pena a tempo indeterminato. “La garante è recentemente tornata a chiedere la chiusura della casa lavoro di Saliceta atteso che nei fatti il reinserimento sociale degli internati è difficile da raggiungere - spiegano i deputati radicali- i detenuti, infatti, sono lontani dalle loro famiglie e non ci sono spesso neppure progetti di sostegno per inserirli nel mondo del lavoro dopo la detenzione”. La domanda al ministro, dunque, è “se non intenda provvedere alla immediata chiusura della casa di lavoro, o quanto meno, prendere le opportune iniziative per rivedere la sua organizzazione e funzionalità, considerata, allo stato, l’inefficacia risocializzante delle misure di sicurezza personali detentive a cui sono sottoposti gli internati”. Viterbo: troppe persone in carcere, la detenzione dev’essere l’extrema ratio di Marco Rasicci (Lisiapp) Viterbo News, 19 giugno 2012 La soluzione al problema del sovraffollamento non sta solo nell’edilizia penitenziaria, ma anche nell’applicazione e rafforzamento delle misure alternative al carcere, nella depenalizzazione di alcune condotte illecite minori, nel ridurre al minimo l’uso della custodia cautelare, nel prevedere un ampliamento delle sanzioni alternative al carcere immaginando pene diversificate già in sentenza, nell’introduzione nel nostro ordinamento della messa alla prova anche per gli imputati adulti. Come organizzazione sindacale della polizia penitenziaria riteniamo che misure alternative al carcere diminuiscano di molto le tensioni interne tra detenuti e poliziotti penitenziari come l’episodio grave che ha visto nella struttura viterbese l’aggressione di tre agenti intervenuti per sedare una violenta lite tra due detenuti e che, sono stati presi a pugni e calci. I tre poliziotti sono stati trasportati al pronto soccorso e hanno avuto prognosi di 25 e 20 giorni. Uno di tre, il più grave, ha ricevuto una testata allo zigomo, che gli ha procurato un ampio taglio. Un altro ha riportato la lussazione di un gomito, causata da un violentissimo calcio. Il terzo ha ricevuto un pugno al volto. Tutto questo è inaccettabile, c’è bisogno che l’amministrazione Dap cominci a schierarsi come parte civile al fianco degli operatori nel processo contro questi vigliacchi che si rendono protagonisti di vili e gratuite aggressioni invece, i poliziotti vengono lasciati soli come se questi episodi non siano riconducibili al compito istituzionale. Quello di Viterbo non è nuovo ad episodi di aggressioni e tra l’altro il Mammagialla detiene il record negativo regionale per quanto riguarda la media tra detenuti presenti e personale in servizio. Va ricordato al legislatore che il carcere deve essere una extrema ratio e non una discarica sociale dove si dimentica spesso chi vi lavora come gli uomini e donne della polizia penitenziaria e che detto lavoro è utile alla società poiché crea sicurezza. Basterebbe applicarle solo le leggi esistenti conclude il sindacalista. Rimini: stanziati 600mila euro per la ristrutturazione della seconda sezione del carcere Dire, 19 giugno 2012 Si torna a discutere in Parlamento del carcere di Rimini, a sua volta alle prese con sovraffollamenti e tagli ai contributi regionali decisi da Roma. Rispondendo giovedì scorso in aula ad un’interrogazione del deputato Radicale Rita Bernardini (gruppo Pd), che due domeniche fa ha fatto visita al Casetti e ha segnalato “detenuti ristretti 20 ore su 24 nelle loro celle”, il sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto ha fatto il quadro della situazione dal punto di vista del Governo. “Non risponde al vero - sottolinea il sottosegretario nella sua risposta alla Camera - che i detenuti siano ristretti nelle loro celle 20 ore su 24, in quanto esistono diverse attività socializzanti e la possibilità di consumare il pranzo e la cena nelle celle di proprio gradimento”. Così come “non è veritiera nemmeno l’affermazione secondo la quale il campo sportivo riservato al personale sarebbe rimosso per far posto alla costruzione di un padiglione, in ragione del fatto che l’istituto di Rimini non è tra quelli oggetto di ampliamento”, precisa Mazzamuto. Per quanto riguarda le singole lamentele presentate dai detenuti, il sottosegretario premette che “alcune delle situazioni riportate dai detenuti non sono rispondenti al vero, così come la dichiarazione relativa allo sciopero della fame fatto per 42 giorni al fine di parlare con un operatore del Ser.T.” e che “vale la pena evidenziare che la maggior parte delle doglianze sono riconducibili ai disagi legati alla detenzione e sono necessariamente inconciliabili, anche per fattori contingenti, con gli auspici del singolo soggetto e le reali potenzialità dell’organizzazione”. Organizzazione che, conferma l’esponente del Governo, presenta qualche affanno dato che l’amministrazione penitenziaria non ha potuto proseguire nella programmata attività di recupero della struttura carceraria riminese. In ogni caso, ricorda Mazzamuto, per cercare di migliorare le condizioni strutturali, igienico-sanitarie e di sicurezza degli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, è stata disposta di recente l’assegnazione di 3,3 milioni di euro a favore del provveditorato regionale di Bologna. Dell’intera somma stanziata, 600 mila euro sono stati destinati per la ristrutturazione della seconda sezione del Casetti, chiusa dal 2006 a causa della rottura dell’impianto idrico delle acque chiare e scure. Inoltre, nel programma di edilizia penitenziaria 2013-2014, per l’istituto di Rimini sono stati inseriti altri interventi edilizi riguardanti la prima e la sesta sezione, nonché ulteriori lavori riguardanti la manutenzione straordinaria delle coperture piane delle sezioni detentive per infiltrazioni di acque piovane, oltre a lavori per la messa in sicurezza della cinta muraria e per il rifacimento delle garitte. Il tutto per un importo complessivo pari a circa un milione di euro. Per quanto riguarda, invece, il sovraffollamento e la carenza di organico dell’istituto riminese, “non può negarsi che il problema riflette, purtroppo, una situazione comune a diversi istituti penitenziari del Paese, ma rispetto alla quale l’attenzione risulta essere sempre massima e continua”, aggiunge il sottosegretario alla Giustizia. Al 7 giugno scorso risultavano presenti 196 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 169 posti ed una tollerabile di 215. Con riguardo alla forza di polizia penitenziaria a Rimini, Mazzamuto rileva “una presenza di 117 unità, con una carenza di 31 unità rispetto alla previsione indicata in normativa”. Brescia: Commissione carceri, presto un sopralluogo a Canton Mombello www.bresciatoday.it, 19 giugno 2012 La commissione speciale sul sistema carcerario in Lombardia si prepara a far visita al carcere cittadino - dove è in corso uno sciopero contro il sovraffollamento - e all’ospedale psichiatrico di Castiglione. Proseguono i lavori della commissione speciale sul sistema carcerario in Lombardia, riunita con l’obiettivo di raccogliere dati sulla condizioni degli istituti di pena e “avanzare proposte per rendere più tollerabile la detenzione”. È in programma per venerdì un’audizione con l’assessore regionale all’Istruzione Valentina Aprea e con l’assessore all’Occupazione e alle politiche del lavoro Gianni Rossoni, anche in vista di un sopralluogo dei consiglieri nel carcere di Canton Mombello - dove i detenuti hanno portato avanti nei giorni scorsi uno sciopero della fame per protestare contro il sovraffollamento - e nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Nella scorsa seduta il provveditore regionale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Aldo Fabozzi ha presentato davanti alla commissione presieduta da Stefano Carugo (Pdl) dati che dipingono una situazione di sovraffollamento, con il 53% dei detenuti in più rispetto ai posti a disposizione in Lombardia. Vicenza: Sappe; tbc in carcere, servono un’adeguata profilassi e dei “kit di protezione” Comunicato stampa, 19 giugno 2012 “I recenti casi di tubercolosi che si sono manifestati nel carcere di Vicenza e in altri Istituti del Nord Italia ripropongono con forza la necessità da parte dell’Amministrazione di avviare una indagine epidemiologica, con l’ausilio delle Asl di riferimento, a largo spettro sull’intera popolazione detenuta, rispetto a patologie contagiose che si ritenevano debellate, nonché di mettere in atto adeguate misure di prevenzione e di contrasto a salvaguardia dei personale operante.” A sostenerlo è Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), che in una nota diretta alla Ministro della Giustizia Paola Severino ed ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria parte dagli episodi accaduti nel carcere di Vicenza per sollecitare opportuni ed adeguati provvedimenti. “Le molteplici situazioni a rischio alle quali può essere esposto il poliziotto penitenziario non consentono l’adozione di specifiche misure di prevenzione nei confronti di un determinato agente biologico, pertanto deve ritenersi prioritario l’adozione di “precauzioni a carattere generale” in tutti i casi in cui possano configurarsi situazioni a rischio di trasmissione di agenti biologici/patogeni. Il modello di riferimento per tali “precauzioni universali” è quello delineato in numerose linee guida elaborate dal Ministero della Salute, il cui criterio ispiratore, rapportato al nostro settore, è basalo sul principio che tutti i soggetti “detenuti” siano portatori di agenti biologici potenzialmente trasmissibili non essendo possibile disporre di metodiche in grado di identificare con certezza i soggetti inietti o portatori di microrganismi patogeni. Il Sappe sottolinea che questo “non può costituire un alibi per l’Amministrazione e giustificare l’assenza di un “programma di prevenzione” che preveda momenti formativi ed informativi sui rischi di contagio, affinché si evitino ingiustificati allarmismi, con la sottoposizione periodica degli operatori penitenziari a vaccinazioni, la dotazione degli istituti di kit di protezione ai rischi biologici da utilizzare nei casi di possibile trasmissione, quali immobilizzazioni, colluttazioni, perquisizioni personali ed ambientali, interventi occasionali da gesti anti conservativi, l’impiego della forza per resistere ad una violenza o per respingere un’aggressione e situazioni similari, l’indicazione di una scrupolosa profilassi da eseguire, soprattutto per i nuovi giunti, anche in relazione al periodo di incubazione dei vari agenti patogeni/biologici.” “La necessità di uno screening su scala nazionale” conclude il Sappe, che auspica un intervento ragionato e proiettato nel tempo da parte dell’Amministrazione penitenziaria “risulta quanto più utile ed opportuno in considerazione dell’alto tasso di detenuti stranieri provenienti da Paesi ove patologie, che in Italia sono da. tempo state debellate, sono assai radicate e diffuse, anche in considerazione che il sovraffollamento favorisce, e non poco, la possibilità di contagio. A Vicenza, ad esempio, è altissima la percentuale di stranieri detenuti: sono il 65% dei presenti” Roma: l’Assessore regionale Cangemi; a Rebibbia giornata di prevenzione e salute Il Velino, 19 giugno 2012 “Parallelamente e a completamento del progetto salute nelle carceri che abbiamo finanziato con lo stanziamento di 130 mila euro per promuovere la salute e il benessere dei detenuti della nostra regione, abbiamo condotto, con l’ausilio tecnico del professor Morrone che ringrazio, una campagna di promozione della salute in carcere destinata agli operatori di polizia penitenziaria che, al pari dei detenuti, vivono quotidianamente, per lavoro, il mondo penitenziario”. Così l’assessore ai rapporti con gli enti locali e politiche per la sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, presenziando oggi, nella casa circondariale di Rebibbia nuovo complesso, alla giornata per la prevenzione e la salute, promossa dalla Regione Lazio, e finalizzata alla prevenzione e cura sanitaria per gli operatori di polizia penitenziaria del Lazio. “Il professor Morrone - ha aggiunto Cangemi che ha portato a tutti i presenti il saluto della presidente della Regione Lazio, Renata Polverini - si è reso immediatamente disponibile ad effettuare personalmente le visite e gli screening specialistici agli operatori di polizia penitenziaria di Rebibbia. Questa giornata di prevenzione e salute, vista anche la risposta degli operatori di polizia, verrà sicuramente ripetuta, tra qualche mese, e toccherà anche gli altri istituti carcerari del Lazio”. Presente il direttore della casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, Carmelo Cantone, anch’egli molto ben disposto verso l’iniziativa, già nelle prime ore della giornata di prevenzione oltre 60 operatori di polizia penitenziaria avevano prenotato una visita svolta personalmente dal professor Aldo Morrone, direttore generale del San Camillo Forlanini. Altri operatori erano in procinto di farsi visitare. Le visite continueranno fino a sera. “Sono soddisfatto della risposta degli operatori di polizia penitenziaria alla nostra iniziativa - ha aggiunto Cangemi. La Regione Lazio ha a cuore la salute dei cittadini e di tutti coloro che, per motivi diversi, ruotano intorno al mondo carcerario. Non bisogna dimenticare che il professor Morrone sta svolgendo, personalmente, le visite mediche: abbiamo affidato, perciò, gli operatori di polizia penitenziaria in buonissime mani”. Cuneo: tensione nel carcere di Saluzzo, rissa tra detenuti e contusi 5 poliziotti Comunicato stampa, 19 giugno 2012 Clima teso nel carcere di Saluzzo. “Nel pomeriggio di ieri è scoppiata una rissa tra alcuni detenuti marocchini: c’è stato un contatto e solo il pronto intervento del personale di Polizia Penitenziaria addetto alla sorveglianza ha evitato conseguenze più gravi. Successivamente, i detenuti si sono scagliati contro gli Agenti e 5 unità hanno subito prognosi varie dai 3 ai 20 giorni”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria). “Cos’altro dovrà accadere o dovrà subire il nostro Personale di Polizia Penitenziaria perché ci si decida ad intervenire concretamente sulle criticità di Saluzzo? La carenza di personale di Polizia Penitenziaria - circa 70 Agenti in meno negli organici, il pesante sovraffollamento (erano circa 390 i detenuti presenti a Saluzzo il 31 maggio scorso, dei quali il 50% circa gli stranieri, rispetto ai 260 posti letto regolamentari), con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate e soprattutto di coloro che in quelle sezioni detentive svolge un duro, difficile e delicato lavorato, come quello svolto dai poliziotti penitenziari.” Il SAPPE evidenzia come “il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità) favorisce l’ozio in carcere e l’acuirsi delle tensioni. Ricordo a me stesso che, secondo le leggi ed il regolamento penitenziario, il lavoro è elemento cardine del trattamento penitenziario e “strumento privilegiato” diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società. In realtà, su questo argomento c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti, con ciò alimentandosi una tensione detentiva nelle sovraffollate celle italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Altro che pensare a carceri autogestite e a patti di responsabilità con i detenuti”. Torino: alle Vallette detenuto devasta la sua cella e aggredisce gli agenti Ansa, 19 giugno 2012 L’uomo, in carcere per concorso in omicidio, ha aggredito alcuni agenti di polizia penitenziaria. Leo Beneduci (Osapp): “Disagio derivante dall’arrivo della calura estiva” Un uomo di nazionalità marocchina, di 32 anni, detenuto al carcere delle Vallette di Torino per concorso in omicidio, ha devastato la sua cella ed ha aggredito alcuni agenti di polizia penitenziaria danneggiandone le uniformi e provocando loro contusioni nella giornata di ieri. I poliziotti sono riusciti non senza difficoltà a riportare la situazione alla calma. “Quanto è accaduto - commenta Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - è segno, oltre che del disagio derivante dall’arrivo della calura estiva, anche dell’assenza dei provvedimenti governativi che inevitabilmente ricadono sulla polizia penitenziaria e sui contribuenti, costretti a ripagare con le tasse le spese dei danni alle infrastrutture penitenziarie”. Venezia: il Cappellano; aiutateci, non ci sono soldi per sostenere le famiglie dei detenuti La Nuova Venezia, 19 giugno 2012 Numerose sono le problematiche all’interno del carcere circondariale maschile di Santa Maria Maggiore, dalle carenze di organico a quelle di fondi, dalla convivenza difficile tra etnie e religioni al sovraffollamento. Il 31% della popolazione reclusa è italiana, il 69% straniera. Attualmente i detenuti sono 311, il triplo della capienza teorica, solo 68 hanno un’opportunità di occupazione. Ieri il patriarca Francesco Moraglia ha posto l’accento sulla mancanza del lavoro e sull’attuale crisi: “Quella finanziaria è anche economica e sociale”. Il cappellano don Antonio Biancotto nonché parroco dell’unità pastorale San Casiano-San Silvestro e vicario foraneo di San Polo-Santa Croce-Dorsoduro, lancia un grido d’allarme: “Ora mi preoccupano molto di più le emergenze esterne all’istituto penitenziario. La crisi economica ha peggiorato le cose lasciando intere famiglie sul lastrico. Ha ristretto le loro possibilità incitando a delinquere”. Ogni giorno don Antonio è in prima linea, nel carcere di Santa Maria Maggiore è presente 18 ore la settimana. Con preoccupazione spiega: “Da due anni stiamo aiutando le famiglie dei detenuti ma abbiamo esaurito il fondo delle donazioni. A luglio saremo al verde, non sappiamo come muoverci”. Il sacerdote continua: “Qui siamo in frontiera. Abbiamo dovuto attivare questo fondo perché avevamo il timore che mogli o conviventi in difficoltà potessero intraprendere scelte sbagliate. Tra queste la prostituzione”. La spesa per sostenere le famiglie dei reclusi è continua e il fondo pari ad una somma di euro seimila, messo a disposizione dall’Arciconfraternita di San Rocco, è ridotto a una manciata di denaro. “Aiutateci”. Infine sul codice penale don Antonio commenta: “Bisogna rivederlo. I primi due articoli sono bellissimi. Parlano del recupero della persona. È là, sull’uomo, che bisogna spendersi. Il carcere è una scuola severa. So che comporta fatica per noi e per chi lavora con i detenuti. Ma bisogna farlo, ne vale la pena”. Il Patriarca ai detenuti “dovete avere fiducia” Francesco Moraglia ieri mattina per la prima volta a Santa Maria Maggiore “Incontriamoci ancora, cercate di dare un senso a questo periodo della vita”. “Sono a Venezia da tre mesi e sto facendo tanti incontri belli, alcuni sono migliori. Questo con voi lo metterei sul podio come medaglia d’oro, o d’argento o di bronzo. D’ora in poi, ogni sera, mi impegnerò a pregare per voi, anche voi però mettete sempre nelle vostre preghiere il Patriarca”. È stato carico di umanità e di emozione il primo incontro del nuovo patriarca Francesco Moraglia nel carcere circondariale maschile di Santa Maria Maggiore. Da giorni i detenuti ne attendevano la visita. Di recente gli avevano scritto: “Siamo fantasmi. Le ore più difficili sono tra le 17,30 e le 8 del mattino”. Sono quelle che passano nella branda. E, lui, il patriarca Francesco, è rimasto vicino ai detenuti tutta la mattinata. Ha ascoltato le loro sofferenze, la lontananza dalle famiglie; anche le loro paure, l’inserimento nella società. A tutti ha rivolto uno sguardo fraterno e a tutti ha teso la mano. Un dialogo diretto, il suo, concluso con una promessa: “Incontriamoci ancora. I nostri scambi saranno costanti”. Alle 9, accompagnato dalla neo direttrice Immacolata Mannarella, ha oltrepassato i portoni blindati. Sorridente ha salutato e stretto le mani agli agenti. La cappella del carcere ha potuto ospitare solo un centinaio di reclusi su 311. Qui il presule ha presieduto la messa concelebrata con il cappellano don Antonio Biancotto, il direttore della Caritas diocesana monsignor Dino Pistolato e i diaconi Gianfranco Fiorin e Giuseppe Pistolato. Semplice e solenne la cerimonia, profonda e toccante l’omelia. “La condizione umana è segnata anche da momenti di sofferenza. La sofferenza sta anche fuori di queste mura, la vostra è particolarissima. Nessuno sottovaluta questo momento difficile. Dobbiamo trovare un significato alle nostre giornate, non dobbiamo subire il tempo che noi trascorriamo ma investire e preparare il futuro. Ogni giorno si può iniziare una vita nuova”. Si è spinto oltre il patriarca: “Occorre dare un senso ad un periodo della vostra vita che potrebbe essere affrontato come un tempo che non ha senso. Se non avete la possibilità di lavorare investite sulla cultura, sulla spiritualità. Conoscere 10 parole in più dal vocabolario è ricchezza, libertà”. Ha consolato e dato fiducia: “Recuperate le relazioni umane, abbiate un progetto di vita”. E sul carcere che è società il presule ha sottolineato: “L’impegno della nostra società deve essere quello di creare le condizioni di un’espiazione, di un cammino, di una presa di coscienza. Penso che la cosa fondamentale sia dare a questi nostri fratelli e sorelle dei motivi di vita quotidiana proiettati sul tipo di espiazione che debbono percorrere”. Poi è arrivato il momento dei doni realizzati da alcuni detenuti della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, da 18 anni presente con tre laboratori nell’istituto penitenziario (xerigrafia, taglio del mosaico, stampa di manifesti in pvc). E dei saluti: “Oggi il Patriarca ci ha fatto sentire importanti”. Firenze: parte prima la rassegna nazionale di teatro in carcere Redattore Sociale, 19 giugno 2012 Dal 20 al 23 giugno in Toscana in diverse “location”: cinema, teatri, istituti penitenziari. Ricchissimo il programma, con oltre trenta appuntamenti tra spettacoli, video, mostre e convegni Qual è il senso del teatro in carcere, nell’Italia dei luoghi di detenzione sovraffollati, della carenza di personale, dei suicidi e della crescita esponenziale di detenuti stranieri e giovani? È possibile rispondere all’emarginazione e all’isolamento con la fantasia e l’immaginazione? A queste e altre domande risponde “Destini Incrociati”la prima edizione della rassegna nazionale di Teatro in Carcere, che si terrà dal 20 al 23 giugno in Toscana in diverse “location”: le case circondariali di Sollicciano e Prato, il Teatro delle Arti di Lastra a Signa e il cinema Odeon di Firenze. L’iniziativa è realizzata dal Coordinamento nazionale Teatro in Carcere, (nato ad Urbania nel 2011 e raccoglie trentacinque compagnie della penisola) e dal Teatro Popolare d’Arte col sostegno della Regione Toscana, che da circa quindici anni investe su questo tipo di esperienze. Ricchissimo il programma, con oltre trenta appuntamenti tra spettacoli, video, mostre e convegni, tutti ad ingresso gratuito. Ha il patrocinio dei ministeri della Giustizia e e dei Beni Culturali e si avvale della collaborazione di Fondazione sistema Toscana. “Ci sembrava giusto documentare le esperienze di teatro in carcere che, da almeno trent’anni, hanno trovato cittadinanza negli istituti di pena italiani, con creazioni spesso originali e che intrecciano vite, persone, istituzioni”, ricorda Vito Minoia, presidente del Coordinamento e direttore artistico della rassegna insieme ai critici teatrali Valeria Ottolenghi e Gianfranco Capitta, oltre al filosofo Sergio Givone, neo Assessore alla Cultura del Comune di Firenze. È un’occasione per raccontare dal vero quei “destini incrociati” che l’arte scenica riesce a collegare, quasi con casualità, come nel romanzo di Italo Calvino, creando occasioni di recupero alla socialità, di redenzione e vera e propria “rinascita” per giovani e anziani reclusi. Tra gli spettacoli in programma, da segnalare sicuramente il Teatro Libero di Rebibbia di Roma (già protagonista del film dei Fratelli Taviani “Cesare deve morire”) e l’Accademia della Follia di Trieste, due tra le esperienze più longeve a livello nazionale. Nella sezione video, invece, i lavori provenienti dal carcere minorile Malaspina di Palermo e dal Beccaria di Milano. In Italia carcere su due ha una compagnia teatrale Sono infatti 106 su un totale di 206 istituti penitenziari. Ma sopravvivono con grandi difficoltà economiche. Minonia, Coordinamento nazionale teatro in carcere: “Circa ottanta trovano finanziamenti solo grazie agli enti locali”. In Italia un carcere su due può vantare una compagnia teatrale o un gruppo musicale composto da detenuti. Sono infatti 106 su un totale di 206 istituti penitenziari. Teatro e musica dietro le sbarre esistono almeno da trent’anni e sono sempre di più gli operatori e gli esperti che riconoscono la validità di questa esperienza che fonde valori sociali, artisti ed umani. Nel 2011 è nato il “Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere” e quest’anno si tiene la prima rassegna nazionale “Destini Incrociati”, dal 20 al 23 giugno in Toscana. Un fenomeno ampio, unico nella realtà europea per la sua diffusione, eppure allo stesso tempo poco visibile alla società civile. Espressione di quella visione che crede anche attraverso il sostegno al teatro ad un carcere rieducativo e non meramente esecutivo della pena. “Circa ottanta compagnie teatrali trovano finanziamenti solo grazie agli enti locali”, afferma Vito Minonia, presidente del Coordinamento-. Lavorano su progetti socio-culturali legati al territorio, basandosi soprattutto sul volontariato”. Le compagnie teatrali in carcere sopravvivono con grandi difficoltà di ordine economico, sia per i continui tagli ai bilanci di Stato e amministrazioni locali sia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane. A cui si aggiungono gli imprevisti giornalieri di un attività teatrale “fuori dagli schemi” che pur sostenuta dal Ministero della Giustizia, cozza con le norme di sicurezza che, a volte, impediscono l’uscita degli attori-detenuti all’esterno. Regole che valgono anche per il pubblico, che deve mettere in conto, per tempo, prenotazioni e accurati controlli documenti per vedere uno spettacolo dietro le sbarre “Per questo, durante “Destini Incrociati” oltre la visione all’interno delle Case Circondariali, abbiamo voluto creare un ponte tra dentro e fuori il carcere, appoggiandoci al Teatro delle Arti di Lastra a Signa, almeno per le compagnie che hanno ottenuto i permessi di uscita dal giudice di sorveglianza di turno”. Da ragazzo della malavita a attore… in scena Sasà Striano Si apre con “Genet a Nisida” della compagnia romana del Teatro Libero di Rebibbia la prima rassegna nazionale di teatro in carcere. Spettacolo scritto e diretto da Fabio Cavalli, drammaturgo e regista che guida la compagnia da oltre 10 anni. Si apre con un spettacolo particolarmente significativo la prima Rassegna nazionale di Teatro in Carcere “Destini Incrociati”. Quello di “Genet a Nisida” della compagnia romana del Teatro Libero di Rebibbia. Protagonista in scena, Sasà Striano, classe 1974, colui che nell’ultimo film “Cesare deve morire” dei Fratelli Taviani, (già Orso d’Oro al Festival Cinematografico di Berlino),impersonava il complesso e sofferto Bruto, cospiratore e assassino in nome della libertà. Oggi attore acclamato, ieri ragazzo della malavita. “Genet a Nisida” è diretto e scritto da Fabio Cavalli,drammaturgo e regista che guida la compagnia all’interno del carcere romano da oltre dieci anni e che della stessa pellicola dei noti registi toscani, oltre a impersonare sé stesso, è stato coautore e coproduttore. “Al festival presentiamo questa perfomance, dove Sasà rappresenta la rielaborazione di un testo scritto da Jean Jenet nel 1948, per la radio francese “Il criminale bambino” (L’enfant criminel) - racconta Cavalli -disvelando ciò che accade nell’animo di un ragazzino nato nei Quartieri Spagnoli, destinato ad una vita da guappo di camorra”. Un racconto che diventa autobiografico in quei luoghi dove lo Stato aveva cercato di strappare Striano dalla microcriminalità, a Nisida, là dove si trova il carcere minorile di Napoli. Una storia che nella vita reale ha avuto un lieto fine, proprio grazie all’incontro, in carcere, dell’uomo con l’arte e il teatro. “L’intento è quello di far riflettere il pubblico sul destino segnato di quei giovani ragazzi che sposano paradossalmente il mito del carcere - precisa Cavalli. Carcere che però, diviene davvero una gabbia senza uscita per chi ha scoperto la libertà, proprio attraverso la parola dei poeti e di autori come Shakespeare e Dante”. Un lavoro intenso a cui seguirà il corto “Giulio Cesare” che svelerà il “dietro le quinte” dell’opera di Shakespeare rappresentata dagli attori-detenuti di Rebibbia e da cui è stato ispirato appunto il film “Cesare deve morire”. “Un modo per conoscere, oltre la finzione cinematografica, la complessità e la fatica dell’incontro tra cultura e sofferenza e far conoscere un teatro che ha accolto, al quinto anno di attività, oltre 23 mila spettatori”. Immigrazione: algerino dal carcere al Cie, i paradossi della “Bossi-Fini” di Andrea Onori www.dirittodicritica.com, 19 giugno 2012 Pensava di tornare a vivere il mondo, dopo aver scontato quattro anni e sette mesi di detenzione nella Casa di reclusione di Spoleto. Invece, un algerino di 31 anni condannato per droga, uscito dal penitenziario è stato accompagnato a un Cie dagli agenti dell’ufficio immigrazione della Questura di Perugia. A causa della sua identificazione ed espulsione, l’uomo dovrà passare ancora lunghi giorni o mesi dentro una cella senza aver commesso alcun crimine. Era stato arrestato in flagranza di reato nel 2007 a Sassuolo. Da allora ha girato vari carceri italiani prima di arrivare a Spoleto. La Casa di reclusione della città umbra è stata ideata e realizzata per detenuti a regime di alta e altissima sicurezza. Ma ora, a causa dell’aumento della popolazione carceraria in tutto il territorio nazionale, molti reclusi comuni sono stati trasferiti in quell’istituto. Non sono bastati i lunghissimi anni di detenzione per mettere le “carte in regola” all’algerino. Forse, ci voleva troppo tempo e spreco di energie per consultare il paese di provenienza del 31enne e risolvere la questione direttamente dal penitenziario di Spoleto. Così, ieri pomeriggio, appena uscito dal carcere, gli è stato notificato un decreto di espulsione. L’algerino, residente in provincia di Modena dal 2003, è finito in un Cie per un’insensata legge. Il caso del 31enne non è stato il primo e non sarà l’ultimo, fino a che non si sbroglia il gomitolo di lana attorcigliato in malo modo e confuso. Ci sono migranti che continuano ad entrare e uscire dal Cie con estrema tranquillità, come se tutto fosse normale. Associazioni, politici, movimenti e giornalisti si mobilitano costantemente per la chiusura di questi luoghi di detenzione. I Cie hanno già dimostrato di essere inefficaci e controproducenti, ma purtroppo, sono ancora duri a morire. Per colpa di una legge, la cosiddetta “Bossi-Fini”, si cerca di risolvere il problema dell’immigrazione irregolare rinchiudendo senza alcun motivo esseri umani in quelle gabbie. Una questione mai risolta. Un’accozzaglia di leggi e decreti che mescolano migranti, rifugiati, apolidi e richiedenti asilo. Senza distinguere meticolosamente le esigenze di chi arriva nel territorio nazionale. Questa situazione, è una miscela che crea malumore e sofferenza agli autoctoni e agli stessi migranti. I Cie sono sempre più infuocati. Ogni giorno proteste e rivolte divampano all’interno di questi centri. L’ultima ribellione è avvenuta domenica notte al Centro di identificazione ed espulsione di Torino di Corso Brunelleschi. Intorno alle 3 alcuni “ospiti”, così vengono chiamati, hanno dato fuoco, a scopo dimostrativo, ad alcuni materassi e sono saliti sul tetto. A volte un filo sottile distingue un rifugiato da un migrante, considerato “volontario”. Non è facile distinguere un rifugiato da un’altra qualsiasi persona che arriva per motivi economici, anche perché quella persona molto probabilmente durante il viaggio potrebbe aver subito violenze fisiche e/o psicologiche. Non siamo più ai tempi dei due blocchi, quando il rifugiato arrivava sulla frontiera con la valigetta in mano chiedendo asilo politico. Il mondo è cambiato. Oggi, non ci vuole poi molto a finire in clandestinità sia per il richiedente silo che per il migrante economico. La commissione che sceglie chi può avere lo status di rifugiato e chi no, spesso non trova il richiedente asilo con i documenti in mano. L’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, spiega che nel 2011 si è registrato il record delle persone costrette a fuggire dal proprio paese. Il rapporto annuale, “2011 Global Trends”, dichiara che sono 800 mila quelli che hanno attraversato i confini nazionali diventando rifugiati, la cifra più alta dal 2000. Se consideriamo quelli che non lo sono diventati la cifra si alza notevolmente. Alla fine del 2011 in tutto il mondo vi erano 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,4 milioni), sfollati interni (26,4 milioni) o persone in attesa di una risposta in merito alla loro domanda d’asilo (895.000). Droghe: il ministro Riccardi; sconfiggerle attraverso cooperazione internazionale Redattore Sociale, 19 giugno 2012 Questa mattina incontro sulle strategie nazionali in materia di droga nel Mediterraneo, in collaborazione con la rete Mednet. Serpelloni: “Dare il via a un approccio integrato globale che metta al primo posto la prevenzione e il recupero delle persone” “Nessuno Stato può risolvere da solo i problemi legati alla droga senza la cooperazione internazionale”. È quanto affermato questa mattina dal Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, Andrea Riccardi, nel corso dell’incontro sulle strategie nazionali in materia di droga nel Mediterraneo, realizzato in collaborazione con la rete Mednet del Gruppo Pompidou del Consiglio d’Europa. Nel corso dell’incontro, Riccardi ha anche sottolineato agli Stati presenti la necessità, come già fatto in Italia, di aggiornare la cultura e l’approccio generale al problema al fine di evitare l’errore di criminalizzare il comportamento di usare droghe e quindi le persone tossicodipendenti in quanto tali. “Costoro - ha aggiunto Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento Politiche Antidroga - vanno sostenuti e supportati nelle loro scelte di salute con un’offerta attiva di percorsi di cura e riabilitazione precoci ed efficaci evitando così che possano, in relazione al loro stato di malattia, commettere anche azioni illegali che li espone a rischi di carcerazione”. Durante il meeting, sono state presentate le principali attività antidroga portate avanti dal GruppoPompidou, dalla rete Mednete dall’Osservatorio Europeo. I rappresentanti di Egitto,Grecia, Italia, Francia Libano, Malta, Marocco, Portogallo e Tunisia hanno evidenziato, ognuno per la propria esperienza, la situazione del fenomeno droga nei Paesi appartenenti alla rete Mednet. Presenti anche Ucraina, Turchia, Kuwait, Qatar e Stati Uniti in qualità dipaesi osservatori. Nel corso dell’incontro è stato anche posto l’accento sulla necessità di creare degli Osservatori nazionali e regionali che possano monitorare la situazione del fenomeno droga attraverso una imprescindibile raccolta dei dati, indici essenziali per orientare le strategie politiche di ogni Paese per combattere il fenomeno. “Secondo noi - ha affermato Giovanni Serpelloni, capo del Dpa - la cooperazione internazionale è la base per strutturare interventi sempre più efficaci contro la droga, che colpisce tutti i Paesi. È essenziale a questo punto che ogni Paese adotti un piano di azione nazionale che deve essere articolato proprio in base ad una raccolta dei dati concreti, per dare il via così a un approccio integrato globale che metta al primo posto la prevenzione e il recupero delle persone, ma che non dimentichi gli interventi coordinati per il contrasto al traffico e allo spaccio di droga”. “Non dobbiamo dimenticare che nella lotta alle dipendenze - ha concluso il ministro Riccardi- esiste necessariamente un aspetto normativo repressivo, ma c’è soprattutto la scelta per una battaglia di tipo culturale e professionale. Occorre investire di più sulla formazione e sulla prevenzione. Dietro la droga ci sono le mafie, ma dietro alla lotta alla droga ci sono le reti positive e intelligenti e a queste reti la vittoria è assicurata nello spirito della cooperazione”. Droghe: cannabis terapeutica; iiniziativa radicale nonviolenta di disobbedienza civile Notizie Radicali, 19 giugno 2012 18 giugno, ore 11.30: la canapa torna alla Camera dei Deputati. Nella Sala stampa di Montecitorio si è tenuta una Conferenza stampa per il riconoscimento del diritto dei pazienti di curarsi con i derivati della Cannabis, durante la quale Rita Bernardini (deputata radicale) ha operato un atto di disobbedienza civile piantando alcuni semi di cannabis sativa in altrettanti vasetti. Oltre alla deputata radicale erano presenti Mina Welby e Andrea Trisciuoglio (rispettivamente co-presidente e membro del consiglio generale dell’Associazione Luca Coscioni), Claudia Sterzi (segretaria dell’Associazione Radicale Antiproibizionisti) e pazienti affetti da sclerosi multipla e da altre patologie i cui effetti degenerativi potrebbero essere in parte leniti dai derivati naturali o di sintesi della cannabis. A chiudere la conferenza sono state le conclusioni di Marco Pannella. Si tratta - hanno dichiarato i promotori - di chiedere al Parlamento di affrontare il problema della legalizzazione ad uso terapeutico dei derivati della cannabis, regolamentando la materia in modo da poter soddisfare le necessità dei pazienti in un contesto di legalità e sicurezza, senza arroccarsi in sterili contrapposizioni. In Italia il cammino dei malati affetti da patologie che possono essere curate con la cannabis è invece un percorso ad ostacoli che a volte diviene un vero calvario che trova ragione solo nella follia proibizionista che intende sanzionare con la prigione comportamenti sicuramente incolpevoli. La regione Toscana, la Provincia di Bolzano, alcune ASL consentono ai malati - spesso solo teoricamente - di accedere a farmaci a base di cannabinoidi. Con la nostra “affermazione di coscienza” vogliamo ricordare che al Senato giace da anni un progetto di legge presentato dai radicali (a prima firma Donatella Poretti) il quale introduce la possibilità per persone affette da alcune gravi patologie di accedere sia alla cannabis in forma naturale, sia ai farmaci derivati da estratti di cannabis, mentre alla Camera, in Commissione Giustizia, è stata da poco calendarizzata la proposta di legge (a prima firma Rita Bernardini) che si propone di depenalizzare la coltivazione domestica della marijuana. L’obiettivo è quello di sollecitare gli esponenti politici degli altri partiti ad adoperarsi per garantire un rapido iter parlamentare di questi progetti di legge, con ciò approvando misure concrete che non costringano i cittadini e i pazienti, spesso affetti da gravissime patologie, a rivolgersi al mercato nero delle mafie e delle camorre. Stati Uniti: Centro privato di riabilitazione detenuti low cost, ma è “un inferno” Ansa, 19 giugno 2012 Il Centro di riabilitazione “Bo Robinson” a Trenton, New Jersey, dovrebbe preparare i detenuti al loro reinserimento nella società, ma sopraffazioni, aggressioni, abusi sessuali, rapine e una vasta diffusione di droghe di tutti i generi lo rendono piuttosto “un inferno”, tanto che molti dei suoi “ospiti” chiedono frequentemente di poter tornare in prigione, dove si sentono più al sicuro. È quanto emerge da una indagine condotta nell’arco di dieci mesi dal New York Times sul Centro, che è gestito da privati e dovrebbe rappresentare un nuovo, più economico approccio alla gestione dei detenuti. Per risparmiare, lo stato del New Jersey infatti rilascia con un certo anticipo dalle prigioni i condannati, affinché trascorrano un periodo di riabilitazione in centri come il “Bo Robinson”, al costo di circa 70 dollari al giorno invece dei circa 140 di una normale prigione. Nel Centro ‘Bo Robinson’i detenuti, fino a 900, non sono ospitati in celle, ma in grandi camerate, che hanno fino ad un massimo di 170 letti. Il risparmio è notevole. Di notte le camerate sono controllate da un paio di guardiani, che a volte, per paura, si rifiutano di spingersi oltre i corridoi. È come un grande penitenziario pieno di detenuti, anche violenti, ma senza la supervisione di personale adeguatamente addestrato, scrive il giornale, che tra le varie vicende racconta ad esempio quella di una detenuta che è stata violentata per settimane da una guardia di alto livello, la quale, quando la vicenda è infine venuta alla luce è stata licenziata, ma non ha subito alcuna conseguenza giudiziaria. Il giornale riferisce anche di gang che imperversano nel Centro e anche che in diverse occasioni sono stati compiuti test antidroga, in cui fino al 73 per cento dei detenuti sono risultati positivi. Robert Mackey, vice presidente della società che gestisce il Centro “Bo Robinson” e diversi altri, ha riconosciuto che “ci sono state cose sbagliate”, ma ha anche affermato che “concentrarsi su alcuni eventi o rapporti di alcuni dipendenti che, secondo me, non sono rappresentativi di centinaia di dipendenti è, io credo, fuorviante”. Israele: un appello per liberare il calciatore palestinese Mahmoud Sarsak www.dazebaonews.it, 19 giugno 2012 Alla regione Lazio i consiglieri Ivano Peduzzi e Fabio Nobile (Fds) presentano una mozione per la liberazione dello sportivo palestinese detenuto nelle carceri israeliane. “Abbiamo presentato una mozione per la liberazione del calciatore 25enne della nazionale palestinese Mahmoud Sarsak, da tre mesi in sciopero della fame nel carcere israeliano nel quale è illegalmente detenuto”. È quanto si legge in una nota del capogruppo e il consigliere della Federazione della Sinistra alla regione Lazio, Ivano Peduzzi e Fabio Nobile. “Mahmoud Sarsak - spiegano Peduzzi e Nobile - è stato arrestato il 22 luglio 2009 senza alcuna accusa, mentre si trovava al valico di Eretz, passaggio obbligato per chi deve entrare nei Territori Occupati da Gaza. Venne tradotto nel carcere di Ashkelon per trenta giorni, interrogato e torturato, per poi essere trasferito nel carcere di Ramleh, dove tuttora è detenuto. “Recentemente - continuano - il Presidente della Fifa Joseph Sepp Blatter, ha chiesto la sua immediata liberazione affermando, tra l’altro, che ‘diversi calciatori palestinesi sono detenuti in violazione dei diritti umani e della loro integrità, senza processo ed in maniera illegale, dalle autorità israeliane”. Anche calciatori di fama mondiale come Eric Cantona e i giocatori della nazionale spagnole hanno unito la loro voce per chiedere la scarcerazione di Mahmoud. “La mozione impegna la Giunta regionale del Lazio a chiedere alle autorità israeliane l’immediata liberazione di Mahmoud Sarsak e degli sportivi palestinesi illegalmente detenuti in base a leggi speciali di guerra; a chiedere alla Federazione Italiana Gioco Calcio una presa di posizione formale e pubblica per la scarcerazione del calciatore e a chiedere un impegno in tal senso del Governo italiano nei confronti del governo israeliano. Chiediamo infine alla Giunta - concludono i due consiglieri - di inviare questa mozione all’Ambasciatore d’Israele in Italia, al rappresentante dell’Autorità Nazionale Palestinese in Italia, al presidente della Figc, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli Esteri. Ricordiamo che le condizioni di Mahmoud Sarsak sono serie. Il giovane pesa solo 50 chilogrammi e con ogni probabilità non potrà mai più tornare ad essere l’atleta che era, poiché molti dei suoi organi risultano compromessi per sempre. E lo scorrere del tempo non fa che peggiorare la situazione. Potrebbe essere questione di giorni, forse di ore. Mahmoud con il suo sciopero della fame sta giocando la sua partita più importante: la partita per la libertà. La sua libertà di sportivo e di uomo. Ucraina: tribunale Kiev verso incriminazione ex premier Yulia Tymoshenko per omicidio Adnkronos, 19 giugno 2012 Il tribunale di Kiev sta per incriminare l’ex premier Yulia Tymoshenko di omicidio per l’assassinio dell’oligarca ed esponente politico Evgheny Shcherban all’aeroporto di Donetsk nel 1996. Il procuratore Renat Kouzmin, ha annunciato, in una intervista al quotidiano ucraino Kommersant, di aver raccolto prove sufficienti per formalizzare l’accusa. La vittima, ha spiegato, aveva un conflitto di interessi con Tymoshenko, responsabile in quel momento della distribuzione di gas russo in Ucraina, e impegnata a convincere le imprese della regione di Donetsk ad acquistare gas dalla sua società forte del sostegno del premier di allora, Pavel Lazarenko (che ora è detenuto negli Stati Uniti per riciclaggio di denaro). Il partito della Madrepatria di Tymoshenko denuncia che a ordinare la formalizzazione della nuova accusa è stato il presidente Viktor Yanukovich. Tymoshenko, sconta in carcere una condanna a sette anni per abuso di potere. Corea del Nord: più di 200mila persone rinchiuse nel “campi di lavoro” di Joseph Yun Li-sun Asia News, 19 giugno 2012 Secondo la testimonianza di Jo Chung-Hee, ex membro del Partito, convertito al cristianesimo, nei 6 campi di lavoro sparsi per il Paese lavorano leader religiosi (per la maggior parte cristiani) e detenuti politici. Nel 2008 i detenuti erano almeno 900mila, ma la carestia li ha decimati. Almeno 200mila persone sono rinchiuse nei campi di lavoro del regime della Corea del Nord. Di questi, circa il 20 % è di fede cristiana e vive nei campi da più di un decennio. Inoltre, molti dei detenuti non hanno alcuna speranza di uscire vivi da questa situazione, dato che secondo l’ideologia coreana un criminale rimane tale “per almeno 3 generazioni”. È quanto emerge dalla testimonianza di Jo Chung-Hee, ex membro del Partito comunista coreano fuggito in Occidente e convertito al cristianesimo. Secondo i dati in suo possesso, nel Paese sono in attività 6 campi di lavoro. Di questi il più temibile è il Campo 14, conosciuto come Distretto di controllo totale: da questo posto, dove vivono come schiavi almeno 50mila prigionieri, non si può uscire vivi. Esiste poi il Campo 22, di un’estensione pari a quella di Los Angeles, dove si praticano esperimenti sui prigionieri. Anche qui, i detenuti sono circa 50mila. Infine c’è il Campo 25, gestito dalla polizia segreta, dove sono imprigionati leader religiosi e presunte spie occidentali. Sono pochissimi, secondo Jo, i nordcoreani che sono sopravvissuti a questi campi. La media delle sentenze imposte ai prigionieri è pari a 15 anni, ma il carico di lavoro e le torture contro i detenuti abbassano la media dell’aspettativa di vita a 7 anni. Nei Campi a volte vengono rinchiuse intere famiglie, che di fatto il regime usa come schiavi per la produzione industriale pesante e per l’estrazione di carbone. Dopo la Guerra coreana (1950-1953), Kim Il-sung - primo presidente e “padre della patria” nordcoreana - ha deciso l’apertura dei campi di lavoro per tenere sotto controllo, sfruttandoli dal punto di vista lavorativo, i soldati del Sud arrestati nel corso del conflitto. Nel giro di 5 anni, però, i Campi hanno iniziato a riempirsi di dissidenti politici e contestatori: i più colpiti sono stati i leader religiosi e i fedeli, soprattutto cristiani, che si opponevano al regime. Secondo alcuni dati pubblicati nel 2008, nei Campi erano imprigionate circa 900mila persone. Il calo drastico del numero deriva dal fatto che la carestia del 2009 ha decimato la popolazione carceraria, del tutto ignorata dal punto di vista umanitario dal regime comunista. Libia: staff del Tpi sarà liberato se la Corte dell’Aia si scuserà con Tripoli Aki, 19 giugno 2012 Il team del Tribunale penale internazionale (Tpi) detenuto in Libia potrebbe essere rilasciato se la Corte dell’Aia si scuserà con Tripoli per le “consultazioni inadeguate”. Lo ha riferito il ministro degli Esteri australiano Bob Carr, giunto in Libia ieri per trattare la liberazione dell’avvocato Melinda Taylor. L’arresto dello staff del Tribunale è avvenuto a Zintan il 7 giugno dopo un incontro tra gli avvocati e Seif al-Islam, il figlio del colonnello Muammar Gheddafi. Il Tribunale penale internazionale intende processare il delfino di Gheddafi, 39 anni, per crimini contro l’umanità. Tripoli, invece, insiste che l’uomo sia processato in patria. Carr ha detto che lo staff del Tpi potrebbe essere rilasciato nel caso la Corte dell’Aja “comprendesse i timori delle autorità libiche e si scusasse per l’inadeguata consultazione sulle procedure e sul protocollò avviati. Sono fiducioso che il governo libico e le autorità di Zintan rilasceranno i quattro detenuti”, ha detto Carr all’Abc. “E sono abbastanza fiducioso che con parole appropriate la Corte penale internazionale risponderà il più presto possibile”, ha aggiunto. Cina: arrestato dissidente, amico dell’attivista trovato morto impiccato Ansa, 19 giugno 2012 Zhu Chengzhi, un attivista amico di Li Wangyang, l’attivista per i diritti umani condannato a oltre dieci anni di carcere e morto in ospedale per cause che rimangono misteriose, è stato trasferito in un centro detentivo. Lo riferiscono fonti di organizzazioni che si battono per i diritti civili. Era stato proprio Zhu a dare la notizia della morte sospetta dell’amico, trovato impiccato ma con i piedi ben posati in terra. Subito dopo, Zhu Chengzhi era stato arrestato e doveva essere rilasciato ieri dopo dieci giorni di detenzione, invece è stato trasferito in un centro detentivo di maggiore sicurezza per maggiori informazioni. Le autorità cinesi gli imputano di aver rivelato la notizia e di aver parlato con i media stranieri. La stessa sorte di Zhi è stata riservata a vari parenti e amici di Li Wangyang, portati in luoghi di detenzione dagli agenti cinesi. Li Wangyang aveva partecipato attivamente alle dimostrazioni di piazza Tiananmen del 1989, a seguito delle quali fu arrestato e condannato a 13 anni di carcere. Rilasciato nel 2000 per motivi di salute, Li continuò a protestare contro il governo, e fece tra l’altro un lungo sciopero della fame. Arrestato nuovamente nel 2001 per incitamento e sovversione dei poteri di stato, fu condannato a 10 anni. Era stato rilasciato nel maggio del 2011 e si trovava da alcuni mesi in ospedale per le sue difficili condizioni di salute.