Provare a mettersi nei panni dei familiari che attendono una persona detenuta Il Mattino di Padova, 18 giugno 2012 Madri, figlie, donne che attendono una persona detenuta: se si provasse, per una volta almeno, a mettersi nei panni di una madre, o di una figlia di una persona detenuta, se si capisse che potrebbe capitare anche nella nostra famiglia che la vita di un figlio, di un fratello esca dai binari e ci travolga nel suo deragliamento, forse smetteremmo tutti di pensare solo a pene cattive, umilianti, poco umane come la galera, e cercheremmo soluzioni, quando possibile, diverse dal carcere. E forse smetteremmo anche di pensare che se uno commette reati è una persona diversa da noi. Non solo: sua madre, sua sorella, sua figlia sono almeno, e pure a modo loro, un po’ colpevoli. Le testimonianze di una madre e di una figlia di una persona detenuta ci raccontano anche questo, quanto è difficile farsi accettare quando in una famiglia c’è la presenza ingombrante di una persona che ha commesso un reato e che è per questo motivo detenuta. Un figlio in carcere disperazione mortale Sono la madre di un ragazzo di 26 anni che ha perso la sua libertà da sei lunghissimi anni. Proprio nel giorno del suo ventesimo compleanno. Quando poteva essere più felice, uno dei più bei giorni della sua vita, è successa una tragedia. Eravamo una famiglia unita, bella, stavamo realizzando i nostri sogni... una casa, un bel lavoro ed essere tutti insieme. Però la felicità è durata poco... la tragedia di quel maledetto giorno ci ha distrutto totalmente la vita. In un solo giorno abbiamo perso tutto, le amicizie, la gioia, la serenità, la fiducia delle persone, la fede, la casa, tutto. Non si poteva più vivere, più respirare. La disperazione era mortale: un figlio in carcere! Lacrime, grida: un figlio che fino a quel momento era un esempio, un super buono, intelligente, un lavoratore, in un attimo era diventato un omicida, un “mostro”... Tutto questo non ci stava nella mia mente... Non era possibile, era spaventoso, non era da lui, era incredibile... eppure è successo! Mi volevo vedere morta, l’unico pensiero era di prendermela con Dio. Dove era Dio, perché aveva permesso a mio figlio di fare una cosa del genere? Perché ci aveva abbandonato? Domande, domande, domande e nessuna risposta. Giorni terribili di paura e di angoscia. Televisione, radio, giornali, la gente, tutti contro di te, ti parlano alle spalle, ti perseguitano, ti minacciano, ti spaccano le finestre... di tutto e di più. E le famiglie rimangono sole, abbandonate, non c’è nessun tribunale, nessun potere che faccia qualcosa per il dramma di una famiglia, è un dolore così grande... È in questi momenti che una madre deve essere più forte che mai. Dobbiamo superare ogni ostacolo e guardare in faccia la realtà, ho sofferto tanto, ho visto l’ingiustizia, l’abbandono dei parenti più stretti e degli amici, la solitudine, la malattia, la tristezza, la morte della mia mamma, che ha sofferto molto per me e per la disgrazia di mio figlio (il suo nipote preferito). Le cose accadono, anche se non devono mai accadere, accadono nelle famiglie ricche e in quelle povere, nelle famiglie educate e meno educate, drogate e meno drogate... Accadono. E noi, le mamme, non troviamo pace tutta la vita, perché nel cuore rimane sempre l’angoscia di non aver dato abbastanza amore, di non essere stata più vicina nei momenti della sua vita in cui mio figlio aveva più bisogno di me, e ci rimane un vuoto nello stomaco. Per questo ci si aggrappa a qualsiasi cosa per poter andare avanti. E per poter superare la solitudine a volte ci si avvicina di più a Dio, si fa più carità, si diventa più buoni. e si capisce di più come è fatta la vita. È impossibile non fare colloqui in carcere, là dove trovi l’amore di tuo figlio disperso nel buio e speri con tutta l’anima di non averlo ancora perso del tutto, e ti illumini quando è là che non vede l’ora di abbracciarti, accarezzarti, e mentre abbassa gli occhi lo senti, che lui ti chiede perdono. Così ti si accende la vita e provi andare avanti con tutte le forze, bisogna andare avanti, la vita continua, anche perché ci sono persone che ti sostengono, come la chiesa, i volontari, il vostro giornale “Ristretti Orizzonti”, che io sfoglio ogni giorno. Grazie, per il vostro sostegno e il vostro contributo nella vita dei nostri figli, vittime della indifferenza, o dell’ingiustizia o del proprio destino o della pazzia... Grazie. Avrei da scrivere un libro sulla tragedia accaduta nella nostra famiglia, sul passato nero di questi sei lunghissimi anni, ma il tempo per fortuna guarisce davvero le ferite, il vento porta via i pensieri brutti, e pian pianino la vita riprende il suo percorso, lo dal profondo del cuore auguro a tutte le mamme che hanno figli in carcere di non abbandonarli mai, di essere forti per poter stare loro vicino, perché da noi dipende il loro futuro e la tranquillità della nostra società. E sono assolutamente sicura che uniti insieme nella famiglia possiamo aiutare i nostri figli a rifarsi una vita da uomini liberi. E a voi, i nostri figli, auguro di essere in pace con voi stessi e con tutti, di non tornare mai più in carcere. La madre di Igor Non ricordo la presenza di mio padre in casa Avere un genitore in carcere da così tanti anni comporta diverse conseguenze, come sentirne la mancanza in casa, i sacrifici che si devono sostenere per chi ha dei figli: per le mogli che rimangono sole non è facile riuscire a crescerli, educarli e fargli seguire la strada giusta. lo mi sento fortunata, perché mia madre è una donna seria, con dei principi, ed è grazie a lei che la nostra famiglia è ancora unita, perché ha fatto di tutto per non far andare ogni cosa per il verso sbagliato. Purtroppo molto spesso sento dire che ci sono detenuti abbandonati dalle proprie famiglie, è una cosa molto brutta e difficile per entrambe le parti, ma non spetta a me giudicarli, perché per fortuna nella mia famiglia non è successo, anzi, grazie a lui che si sta comportando bene, e grazie alle persone che lo hanno aiutato e lo stanno aiutando, si avvicina sempre di più alla libertà assoluta, ma come ho già detto anche a lui, io non ho mai perso le speranze, perché non sono un paio di muri a farmi pensare che sarebbe finito tutto così. È da quando ero molto piccola, tanto da non ricordare la presenza di mio padre in casa, che vivo in questa situazione e non è stato facile, ma ho la prova concreta che ciò che non ti uccide ti rende più forte. Quando qualcuno viene a sapere che uno dei tuoi genitori è in carcere, ti guarda in modo diverso, creandosi delle strane idee, o magari pensando che i figli faranno la stessa fine, ed è per questo motivo, e anche perché sono molto riservata, che neanche la mia migliore amica sa che mio padre è in carcere, non perché me ne vergogno, ma perché sono rare le persone a cui dispiace veramente, altre vogliono solo passare la giornata parlandone e tirando fuori tutte le loro opinioni “inutili”. Quando la gente dice che in carcere si sta meglio che fuori, mi arrabbio, dato che il carcere vuol dire non essere libero e la libertà è il bene più prezioso, per il quale gli uomini hanno sempre combattuto rimettendoci la vita, e ora si fanno certe affermazioni prive di un senso logico, lo e mio padre abbiamo un legame particolare, abbiamo atteggiamenti, pensieri, e un carattere molto simile. Tutti si pongono la stessa domanda: come facciamo ad assomigliarci così tanto senza nemmeno aver passato tanto tempo insieme? Eppure me lo chiedo anch’io, e l’unica risposta che mi sono data è che lui è mio padre ed è normale che ci assomigliamo, io sono il sangue del suo stesso sangue, lo adoro, lui è sempre paziente, giustifica ogni mia reazione, mi dimostra sempre il suo affetto e quando lo guardo i suoi occhi sembra che mi chiedano di perdonarlo, io non lo devo perdonare perché non è colpa sua se non mi è stato vicino, ma del destino e un po’ della sua poca diligenza. Suela, figlia di Dritan Giustizia: accordo tra Ministero Anci; i detenuti lavoreranno per i Comuni di Chiara Organtini L’Espresso, 18 giugno 2012 I contenuti dell’Accordo saranno illustrati nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 presso la sede Anci di Via dei Prefetti, 46 a Roma alla quale interverranno il ministro della Giustizia, Paola Severino, il presidente dell’Anci, Graziano Delrio, il Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino e il delegato Anci alla sicurezza, Flavio Zanonato. Fuori e dentro il carcere, a seconda dei casi. Quasi sempre alle dipendenze dei Comuni. Per sette euro e mezzo all’ora, con un tetto massimo di 5.000 euro l’anno. Dopo le prime sperimentazioni, parte il piano-Severino. E non mancano le polemiche. Sono andati a cucinare nelle tendopoli de L’Aquila dopo il terremoto, a spalare la neve quando la Capitale era imbiancata quest’inverno, a ripulire le aree archeologiche e, presto, arriveranno nelle zone colpite dal sisma in Emilia. Da almeno 10 anni i detenuti sono occupati nei lavori di pubblica utilità fuori dal carcere e dal prossimo 20 giugno questo impiego, fino ad ora una sperimentazione, diventerà prassi. Anci, Ministero della Giustizia e il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria stanno infatti per firmare un protocollo d’intesa che permetterà a ogni ufficio comunale di dare in gestione ai carcerati alcuni interventi. Un provvedimento che ha subito generato polemiche e non poche preoccupazioni, tra cui la questione sicurezza e quella economica. Problematiche che, spiegano dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, sono state prese in considerazione. I responsabili delle carceri selezioneranno infatti solo i detenuti che presentano requisiti come esiguità della pena ancora da scontare, godimento dell’articolo 21 (la non pericolosità) e con le competenze richieste. Inoltre, spiega Luigi Pagano vice capo del Dap, in questi anni di sperimentazione non c’è stata alcuna fuga da parte dei detenuti coinvolti nel lavoro esterno e la cittadinanza ha potuto iniziare a guardare diversamente i carcerati. Gli stessi detenuti, oltre a poter abbandonare l’istituto circondariale, avranno un altro incentivo: potranno beneficiare di un pagamento per il lavoro svolto. Il salario sarà un voucher da circa 7,50 € per ogni ora di lavoro, fino a un massimo di 5.000 euro a detenuto l’anno. Non è previsto un contratto specifico ma il versamento di contributi e tasse e si sta anche pensando di trovare altri finanziamenti per il compenso; magari con il fondo sociale europeo. Lo "stipendio" fornito ai detenuti è un altro punto delicato dell’iniziativa. Vincenzo Lo Cascio, coordinatore nazionale dei lavori di pubblica utilità dei detenuti, stima tuttavia che le amministrazioni comunali potranno risparmiare fino all’80%: “anziché rivolgersi a ditte esterne in appalto il Comune potrà così dare da lavorare ai detenuti perché loro hanno il dovere, oltre che il bisogno di lavorare”. Eppure, il fatto che il protocollo venga firmato in questi mesi di crisi, in cui ditte, società e cooperative non riescono più a lavorare per il pubblico e, quando lo fanno, devono aspettare anni per il pagamento, non agevolerà l’accoglienza riservata a questa misura. “Laddove vi fossero, e ve ne saranno diverse, sacche di disoccupazione”, spiega Luigi Pagano, “è chiaro che non dovremmo metterci in concorrenza. Lo spirito del progetto è infatti quello di essere in armonia con la cittadinanza e la società, non un motivo di tensione. Occorrerà individuare quei lavori che normalmente non vengono svolti”. In seguito alla dichiarazione della Severino di coinvolgere i detenuti accanto alla Protezione civile in Emilia, sono piovute poi critiche anche dal mondo politico. L’ex ministro Roberto Calderoli ha sentenziato che sarebbe meglio recuperare i militari italiani impegnati nelle missioni all’estero. Memoria corta la sua, visto che dell’iniziativa che sarà siglata il 20 giugno si iniziò a parlare proprio nel 2004, quando il Ministro della giustizia Castelli decise di aprire l’anno giudiziario facendo riferimento proprio a questo. L’impiego dei detenuti non si limiterà tuttavia ai lavori in esterno. Il Commissario delegato al piano carceri nominato dalla Severino, il prefetto Angelo Sinesio, ha messo infatti a disposizione 2 milioni di euro per permettere agli stessi detenuti di produrre letti in ferro, comodini, armadi, lenzuola e coperte da usare all’interno delle carceri. Un lavoro vero e proprio, retribuito con la mercede, ovvero quel salvadanaio di cui può godere il detenuto una volta libero. I carcerati coinvolti nella prima fase che parte in questi giorni saranno circa 200, selezionati sulla base delle loro competenze manifatturiere e alla valutazione che, anche qui, tocca ai magistrati del tribunale di sorveglianza e ai direttori del carcere. Quegli 11mila posti previsti dal Piano Carceri del governo Monti dovranno essere coperti, per quel che riguarda suppellettili ed arredi, almeno al 50% dal lavoro dei detenuti stessi. Un'operazione risparmio ed un investimento sia per la sicurezza che per il sociale. L'operazione "arredi e suppellettili" partirà con l'invio di letti in ferro all'istituto di Augusta, arredi in legno a quelli di Noto e Lecce, e lenzuola e asciugamani al carcere di Massa Carrara. L'iniziativa viaggerà in parallelo con il progetto di edilizia carceraria previsto dal piano carceri: mano a mano che nuovi padiglioni e nuovi istituti saranno consegnati, partirà l'ordine per gli arredi agli opifici. "Con l'impiego dei detenuti all'interno delle carceri si intende lavorare sul concetto di operatività", aggiunge Pagano, "sul rilancio del ruolo della stessa amministrazione penitenziaria." E se l'intento è di far entrare in contatto la società con la comunità del carcere, sia detenuti che guardie penitenziarie, il vice capo Dap si spinge ancora più in là ipotizzando, in una prospettiva non troppo lontana, corsi di formazione all'interno degli istituti penitenziari. "Quello che questa situazione di forte crisi sembra offrirci è la comprensione da parte della società. Con il governo tecnico è venuta meno quell'azione di contrasto dei piccoli amministratori locali che forse oggi ci permette di decentrare a livello regionale il dipartimento di amministrazione penitenziaria, come cercheremo di fare nei prossimi mesi; ed ancora di pensare ad una vera riforma della polizia penitenziaria che non incarni più soltanto il ruolo di custodia ma che sviluppi al suo interno operatori professionisti". Giustizia: progetto “Soft” in otto carceri italiane, per recupero per detenuti sex offenders Adnkronos, 18 giugno 2012 Al via “Soft”, il primo programma nazionale per il recupero degli individui autori di reati sessuali. Sarà avviato nei prossimi mesi in otto carceri italiane, con un costo di circa 630mila euro. Nel “Sex offenders full treatment”, nome per esteso dell’iniziativa, di durata biennale, verranno coinvolti circa 400 detenuti di otto istituti penitenziari: Rebibbia e Cassino nel Lazio, Secondigliano e Poggioreale in Campania, Bollate, Opera e San Vittore in Lombardia e Pesaro nelle Marche. In programma consulenze psicologiche e riunioni, ma anche attività come l’educazione sessuale, lo yoga, la musicoterapia, interventi di una equipe multidisciplinare di psicologi, psichiatri, criminologi. E un ambizioso obiettivo: ridurre di un terzo la recidiva. Un risultato possibile, secondo Carla Maria Xella, psicoterapeuta responsabile del Cipm, Centro italiano promozione mediazione, di Roma, tra i responsabili del programma, visti anche gli ottimi risultati di un analogo percorso canadese. Fondamentale è considerata la prevenzione, e ‘Soft’ va proprio in questa direzione, non solo nel periodo di detenzione ma anche quando la pena è stata scontata, attraverso il presidio criminologico esterno appositamente attivato. “La volontà è quella di offrire percorsi rieducativi differenziati, facendo leva sulla personalità dei singoli autori e affrontando la specificità del singolo reato: il rischio di recidiva non è infatti uguale per tutti e anzi può oscillare molto”, spiega Arianna Specchio, responsabile del progetto. Nello specifico, si legge sul periodico del Dap ‘Le due città, il progetto ‘Soft’ si articolare in due fasi. In un primo momento gli psicologi incontreranno tutti i detenuti per un programma pre-trattamentale di motivazione, cercando di rafforzare l’autostima e sviluppare capacità sociali e di relazione dei pazienti. Alla fine del primo periodo partirà il trattamento intensificato che ha l’obiettivo di contenere gli impulsi sessuali devianti e ridurre le condotte lesive nei condannati in via definitiva per reati sessuali. Nella equipe del progetto, sarà presente anche uno psichiatra, per garantire un supporto farmacologico mirato qualora fosse necessario, e favorire i contatti con i servizi psichiatrici del territorio. Infine i dieci mesi successivi alla fine del trattamento saranno dedicati al controllo di qualità dell’intervento, tenendo conto anche delle verifiche quindicinali fatte sui detenuti durante la cura. Giustizia: Sappe; dal 25 giugno in Italia rappresentanza sindacale di Polizia Penitenziaria del Brasile Comunicato stampa, 18 giugno 2012 Proseguono proficue ed intense le relazioni diplomatiche internazionali del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe. Dopo la collaborazione con il personale di Polizia Penitenziaria tedesca aderente al Sindacato Bsbd (Bund der Strafvollzugsbediensteten Deutschlands), a seguito della quale è stato organizzato in Veneto lo scorso marzo il I Meeting bilaterale Italia - Germania di interscambio professionale, da lunedì 25 giugno sarà in visita in Italia una delegazione degli Agenti di Polizia Penitenziaria del Brasile aderenti al Sindasp-Sp (Sindicato dos Agentes de Segurança Penitenciária do Estado de São Paulo). Spiega Donato Capece, segretario generale Sappe: “La visita della delegazione brasiliana segue quella fatta nel marzo scorso dai colleghi tedeschi, a conferma dell’importanza che per il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe hanno le relazioni internazionali in materia di operatori della sicurezza penitenziaria ed esecuzione della pena. Non a caso il Sappe aderisce ad un organismo internazionale di estrema importanza quale è il Cesi. Con questi incontri faremo conoscere ai colleghi brasiliani il sistema penitenziario nazionale e le varie modalità di esecuzione della pena. Alla data del 31 maggio scorso, peraltro, le carceri italiane ospitavano complessivamente 180 detenuti brasiliani, 149 uomini e 31 donne”. I poliziotti brasiliani incontreranno lunedì 25 giugno alle ore 10.30 a Roma i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria e, successivamente, visiteranno il carcere romano di Regina Coeli. Martedì 26 giugno si recheranno nel carcere di Rieti e, quindi, al Museo Criminologico in via del Gonfalone. Mercoledì sono in programma le visite alla Scuola di Formazione “Giovanni Falcone” di Roma, al Reparto speciale del Gruppo Operativo Mobile Gom e all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Giovedì, infine, le delegazioni visiteranno la cittadella penitenziaria di Roma Rebibbia. “L’occasione è utile” conclude il segretario generale Sappe Capece “per trovare soluzioni comuni al sovraffollamento penitenziario, che è un problema non solo italiano ma internazionale, e per mettere in campo delle sinergiche strategie di intervento sull’esecuzione della pena nei Paesi e sulle condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari nei rispettivi Stati. L’obiettivo è dare vita ad una Confederazione internazionale dei Sindacati autonomi della Polizia Penitenziaria, che abbia ascolto e rappresentanza nei consessi internazionali, presso il Consiglio europeo ed i Governi dei vari Paesi, e organizzare un Convegno mondiale sul ruolo, la professionalità e la funzione sociale delle Polizia Penitenziarie dei vari Stati”. Giustizia: trattativa Stato-mafia; Di Pietro attacca il Quirinale per lettera a difesa di Mancino di Corrado Zunino La Repubblica, 18 giugno 2012 L’inchiesta Stato-mafia. Di Pietro: indebite pressioni sui pm. Letta, Pd: basta insulti a Napolitano. La trattativa tra Stato e mafia del 1992-1993, che a vent’anni di distanza torna a infiammare le istituzioni del paese, in queste ore rimbalza sulla politica italiana corrente. Si è scoperto, come ha raccontato ieri Repubblica, che tra novembre 2011 e aprile 2012 furono ben otto le telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, messo alle strette dalle procure di Palermo e Caltanissetta, a uno dei consiglieri del presidente della Repubblica, il magistrato Loris D’Ambrosio, per segnalare il suo problema e indicare lo scarso collegamento fra le procure inquirenti (c’è anche Firenze). Solleciti che non rimasero inascoltati. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo scorso 4 aprile fece inoltrare dal segretario generale una lettera di Mancino al procuratore generale della Cassazione. E sabato, di fronte alle polemiche sollevate dalla vicenda, il Quirinale con una nota ha spiegato: “Basta con le illazioni irresponsabili, la lettera era una richiesta al pg di valutare esigenze di coordinamento fra tre diverse procure”. Di buon’ora, ieri, Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori, ha scelto di attaccare dal suo blog il capo dello Stato. Ha scritto: “Preoccupa che ci sia stata una lettera di pressioni scritta da Napolitano al procuratore generale della Cassazione. In un altro paese ci sarebbe stata un’alzata di scudi della politica, ma in Italia i riflettori rimangono spenti e le inchieste giornalistiche sono additate come irresponsabili illazioni. Qui di irresponsabile c’è solo la convinzione che per qualcuno la legge sia più uguale che per gli altri e che la verità venga dopo la necessità di difendere i potenti di oggi e di ieri”. Ancora Di Pietro: “Lo staff del presidente della Repubblica ha confermato che è prassi intervenire sulle autorità giudiziarie. Può il segretario generale della Presidenza della Repubblica informare il pg evidenziando che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato, sono “condivise da Napolitano?”. Di Pietro ha annunciato, infine, un’interrogazione al ministro della Giustizia: “La verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta”. L’attacco di Di Pietro ha scosso l’ala moderata del Partito democratico. Il vicesegretario Enrico Letta ha replicato: “Il leader dell’Idv non lesina azioni e dichiarazioni che hanno il solo scopo di terremotare il già precario equilibrio istituzionale del Paese e di rincorrere Grillo in questa folle competizione a chi la spara più grossa. Per ora ha ottenuto di tagliare definitivamente l’ultimo ormeggio che lo teneva legato al Pd”. E su Twitter ha parlato di “intollerabile a campagna denigratoria di Di Pietro contro Napolitano”. Il capogruppo del Pdl alla Camera, Maurizio Gasparri, si è infilato nel varco aperto per dire: “Se vent’anni fa ci fu una trattativa tra Stato e mafia è bene che si conoscano i responsabili, ed è bene che si sappia chi vuole mantenere quella pagina oscurata”. Giustizia: trattativa Stato-mafia; l’ex ministro Scotti: fui cacciato e su Cosa nostra si cambiò linea di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 18 giugno 2012 Vincenzo Scotti, 78 anni, è stato uno dei politici più influenti della Democrazia cristiana. Fu eletto deputato per la prima volta nel 1968 e poi, dalla fine degli anni Settanta è stato più volte sottosegretario e ministro. Fra il 2008 e il 2011 è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu ministro dell’Interno. In quegli anni la mafia iniziò la strategia stragista con l’omicidio di Salvo Lima e l’attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone. Al Viminale gli successe Nicola Mancino. A Palermo, l’8 giugno scorso, è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo sulla vicenda della presunta trattativa fra la mafia e lo Stato. “Premesso: sulla presunta trattativa Stato-mafia non dico una parola. Ci sono indagini in corso e poi io ho già detto tutto nel mio libro, “Pax mafiosa o guerra? A vent’anni dalle stragi di Palermo”. Una cosa, però, mi sento di dirla”. La prego, presidente Scotti... “Credo sia giunto il momento di aprire una riflessione politica nel Paese, per affrontare la questione della “presunta trattativa” in modo laico, cioè senza pregiudiziali ideologiche e senza fare processi in piazza. La democrazia ha bisogno di trasparenza e di chiarezza”. Chiarissimo, presidente Vincenzo Scotti, classe 1933, vecchia volpe democristiana, nel secolo scorso soprannominato “Tarzan” per la sua indiscussa abilità nel “saltare” da una corrente all’altra del partito. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu il ministro dell’Interno della Repubblica. L’attacco della mafia allo Stato era in pieno svolgimento: con la strage di Capaci e, ancora prima, l’omicidio di Salvo Lima. L’8 giugno scorso, a Palermo, Scotti è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo. Lei dice che è arrivato il momento di fare chiarezza. Ma come? “Io credo che la politica debba evitare soprattutto che negli elettori, nei cittadini, cresca la sfiducia, che si alimenti l’idea di una Patria dei misteri. E questo, a proposito della presunta trattativa, si può ottenere chiarendo, già davanti alla Commissione antimafia, che cosa realmente accadde. E perché”. Qualcuno però dovrebbe farsi avanti... “Non faccio nomi, ma sicuramente tutti i presidenti del Consiglio, i ministri dell’Interno e della Giustizia, tutti i capi delle forze dell’ordine e i responsabili della magistratura dell’epoca, diciamo tra il ‘90 e il ‘97, con un po’ di coraggio potrebbero certamente contribuire a fare chiarezza. Anche perché la partita con la mafia è ancora aperta”. Ma ci fu o no la trattativa tra lo Stato e Totò Riina per evitare altre stragi? “Non ho elementi per dirlo. Di sicuro dopo di me ci fu un cambiamento di linea, questo mi pare evidente. Lo ha detto Conso pubblicamente (Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel ‘93, ndr): lui non confermò i 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr)”. E lei invece fu fatto fuori... “Certi giudizi appartengono all’analisi storica, ma certamente mi hanno fatto fuori”. Chi? E perché? “L’analisi storica... Già nel 1991 ci fu un grosso punto di rottura con la mafia. Ricordo il decreto legge, davvero sul filo della legittimità costituzionale, con cui rimettemmo in prigione, io ero all’Interno, Martelli alla Giustizia e Andreotti premier, tutti i mafiosi del maxiprocesso tornati in libertà per una sentenza della Cassazione che dichiarava scaduti i termini della carcerazione preventiva. Cossiga, allora presidente della Repubblica, lo definì un mandato di cattura per decreto legge. Ma quello fu soltanto l’inizio. Prima delle stragi del ‘92 dichiarai in marzo lo stato d’allerta perché mi erano giunte precise informazioni, tra cui un memoriale del noto depistatore Elio Ciolini, depositato al tribunale di Bologna. In questo documento si faceva chiaramente riferimento alla mafia e a possibili stragi in arrivo. Nessuno mi credette”. E dopo Capaci lei tornò alla carica per rafforzare il 41 bis, senza aspettare l’insediamento del nuovo governo Amato. Ma il 28 giugno 1992 si ritrovò ministro degli Esteri... “Per questo dico che il problema non si può lasciare, con tutto il rispetto, alla magistratura. Il problema è politico e lo dobbiamo affrontare anche per rispetto di tutti quelli che hanno dato la vita, che hanno pagato col sangue la lotta alla mafia. Per questo è giusto farsi avanti, raccontare tutto quello che accadde, senza la paura di passare per traditori, perché comunque lo Stato la lotta alla mafia negli anni l’ha fatta bene e con ogni mezzo, non solo con la repressione ma con una legislazione modello. Però anche noi politici siamo esseri umani, non siamo robot e pur sapendo dall’inizio i rischi che corriamo ci portiamo dietro le nostre paure...”. Paure, misteri, veleni. Il suo successore all’Interno, nel 1992, Nicola Mancino, in questi giorni è diventato un caso per aver chiesto aiuto al Colle in diverse telefonate... “Non so valutare la sua reazione: di Mancino nel mio libro si parla bene, un uomo e un politico di grande livello, già presidente del Senato, sulla soglia del Quirinale... Certo tutte queste tensioni non aiutano la chiarificazione nel Paese”. E il presidente Napolitano ha fatto bene o male a intervenire sulla vicenda con la lettera inviata al Pg della Cassazione? “Il presidente della Repubblica, per favore, lasciamolo stare. Lasciamolo lavorare tranquillo per il bene del Paese, perché la situazione è grave, c’è la crisi, la patria è in pericolo. Scherziamo con i fanti ma...”. Giustizia: Cassazione; anche il carcere per chi fa attività di spamming di Dario Ferrara Italia Oggi, 18 giugno 2012 Basta con lo spamming. Rischia grosso, perfino il carcere, il gestore del server che interrompe unilateralmente il contratto con il cliente per il quale curava la diffusione dei messaggi promozionali di posta elettronica, salvo poi “riciclare” gran parte della mailing list appartenente all’ex partner per recapitare a tappeto una sua newsletter alla quale i destinatari sì trovano iscritti d’autorità, senza averlo affatto richiesto. È quanto emerge dalla sentenza 23798/12, pubblicata il 15 giugno dalla terza sezione penale della Cassazione. Caduta l’accusa di frode informatica, la condanna per l’illecito trattamento dei dati personali risulta confermata (contro le conclusioni del pm, che chiedeva l’incompetenza territoriale, laddove invece il corretto radicamento del procedimento è garantito dalle originarie contestazioni). E la condanna va a colpire l’amministratore della società che gestisce i server informatici e il responsabile del trattamento dei dati personali dell’azienda (la pena è nove mesi, poco sopra il minimo edittale che è di sei mesi di reclusione). Inutile per i dirigenti della società, provider di servizi informatici, contestare la configurabilità dell’illecito penale, sul mero rilievo che la ricezione di mail indesiderata non integrerebbe il “nocumento” richiesto dal codice della privacy per l’irrogazione della sanzione penale. “Nocumento”, osservano i giudici, non significa altro che evento dannoso. E tale deve essere considerato il fastidio di dover cancellare mail indesiderate, senza dimenticare il rischio di poter finire sulle black list di internet. Il messaggio di benvenuto “welcome” non vale a escludere l’illecito trattamento di dati personali: impossibile rovesciare sull’utente l’onere di cancellarsi. Lettere: a Lecce come nelle carceri speciali di Belfast di Valentino Castriota L’Unità, 18 giugno 2012 A Lecce un detenuto è morto perché ha fatto lo sciopero della fame per un caso di malagiustizia. Non vorrei che questa notizia passasse inosservata dando sempre le priorità ad altri suicidi per la questione della crisi. Il sovraffollamento carcerario e la malagiustizia hanno portato questo povero uomo a privarsi del cibo perché voleva che un magistrato lo ascoltasse. Risponde Luigi Cancrini psichiatra e psicoterapeuta Hunger, il bel film di Steve McQueen, è ancora nelle sale ed è davvero terribile l’idea del ripetersi, nell’Italia del 2012, di uno sciopero della fame come quello di Bobby Sands, il patriota irlandese che combatteva nelle carceri di Belfast, insieme ad altri 25 detenuti, una battaglia storica contro l’ottusità dell’Inghilterra “colonialista” di Margaret Thatcher. Durissimo nel realismo della sua descrizione, Hunger ci racconta con una violenza, disumana quanto quella subita dai patrioti dell’Ira nel carcere di Belfast, il decorso straziante del disfacimento cui il corpo di Bobby Sands andò incontro nel corso di quelle 5 settimane di digiuno ma dà conto anche, in modo estremamente efficace dell’importanza che quelle sofferenze hanno avuto nel riconoscimento dei diritti civili e politici degli irlandesi. Ora che qualcosa di così simile è accaduto a Lecce nel silenzio di stampa e tv, quello di cui ci sarebbe bisogno per dare senso al sacrificio del giovane detenuto di Lecce, sarebbe forse un film come Hunger che lo racconti perché le vicende umane esistono e hanno senso solo nella misura in cui vengono raccontate e ricordate e perché ricordare e dare senso a ciò che è accaduto è l’unico mondo che abbiamo di apprendere dall’esperienza. Nella speranza che non ci sia più necessità per nessuno di morire di inedia in carcere per protestare i propri diritti o la propria innocenza. Lazio: il Garante; detenuti in continuo aumento, sono quasi 7mila nelle carceri regionali Asna, 18 giugno 2012 Se in tutta Italia cominciano a vedersi i primi benefici del decreto svuota carceri, nel Lazio, in netta controtendenza rispetto al resto della nazione, i detenuti continuano a crescere in maniera inarrestabile. La denuncia è del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, secondo cui, nelle 14 carceri della Regione, si è ormai prossimi alla soglia delle settemila presenze, oltre duemila in più rispetto alla capienza regolamentare. Secondo i dati diffusi dal Dap, infatti, il 12 giugno i reclusi nel Lazio erano 6.922 (6.482 uomini e 440 donne), quasi 100 in più rispetto solo ad un mese fa, quando i detenuti erano 6.837. Dall’inizio del 2012, il numero dei detenuti nelle carceri del Lazio è in costante aumento. L’incremento di presenze dell’ultimo mese sarebbe da attribuire al trasferimento, nel Lazio, di numerosi detenuti provenienti dalla carceri dell’ Emilia, a rischio dopo il grave sisma e le ripetute scosse si assestamento delle scorso settimane. In provincia, situazioni difficoltose si registrano nelle carceri di Velletri, Frosinone e Civitavecchia, Viterbo, tutte ben oltre le 500 presenze, nonostante la capienza regolamentare sia di gran lunga inferiore. In particolare, gli istituti di Civitavecchia e Viterbo superano abbondantemente le settecento presenze, A Roma, il sovraffollamento crea gravi disservizi a Rebibbia Nuovo Complesso, a Regina Coeli e a Rebibbia Femminile. “Prima una legislazione che produce troppo carcere, poi il decreto svuota carceri che non funziona come dovrebbe e un giro di vite sulle misure alternative, adesso anche gli effetti collaterali del tragico terremoto dell’ Emilia. Tutto - ha detto il Garante dei detenuti Marroni - contribuisce ad aggravare una situazione già estremamente delicata all’interno delle carceri del Lazio. Uno dei momenti più difficili da passare in carcere è proprio l’estate, quando il caldo ed il ridursi delle attività trattamentali e di svago, rendono insopportabili le celle. Speravamo di arrivare all’inizio dell’estate con un carico di detenuti più contenuto. Purtroppo così non è stato; ora ci prepariamo ad affrontare settimane davvero calde sotto tutti i punti di vista”. Lombardia: i detenuti sono il 53% in più del consentito, 9.500 contro una capienza di 5.540 Dire, 18 giugno 2012 Il 53% in più di detenuti rispetto ai posti disposizione nelle carceri lombarde. È questo il dato emerso nel corso dell’incontro con la Commissione speciale sul sistema carcerario, presieduta da Stefano Carugo (Pdl) con il Provveditore regionale del Dipartimento di amministrazione Penitenziaria (Dap) Aldo Fabozzi. Nelle carceri lombarde ci sono circa 9.500 detenuti contro una capienza di 5.540. Di questi 9.500, 2.657 sono tossicodipendenti e oltre 4.000 stranieri. Circa 1600 lavorano all’interno dell’amministrazione penitenziaria con occupazioni di tipo domestico (pulizia e cucina), mentre oltre 600 (quasi la metà a Bollate) già operano in aziende e imprese con le quali sono state stipulate convenzioni e nelle quali i detenuti cominciano maturare una professionalità. Gli istituiti più colpiti dal fenomeno del sovraffollamento sono Milano (con 1.677 detenuti, quindi quasi 1.000 persone in più rispetto al limite di tollerabilità), Brescia (245 in più) seguite da Bergamo e Monza. Quest’ultima, con una popolazione carceraria totale che supera il limite di tollerabilità ed è quasi il doppio della capienza regolamentare (747 contro 420 posti). “Lo spirito di questa Commissione - ha detto il Presidente Carugo - è quello di ragionare su alcuni dati per dare il nostro contributo con proposte da avanzare perché è necessario intervenire per rendere più tollerabile la detenzione e più probabile il ravvedimento successivo. A livello regionale le priorità sono agire nell’ambito sanitario, per prevenire malattie psichiatriche e suicidi, e sul piano della formazione e del lavoro. Importante sarebbe anche sollecitare attività sportive che alleggeriscono la permanenza in cella”. Fabozzi ha poi annunciato la costruzione di una nuova casa circondariale a Brescia per sostituire quella di Canton Mombello, “superato dal punto di vista strutturale ed edilizio” e il completamento dei lavori di ampliamento degli istituti di Pavia e Voghera. “Lavoriamo - ha detto Fabozzi - anche per alleggerire le ristrettezze offrendo spazi quotidiani che però hanno bisogno di contenuti. Non possiamo lasciare sole queste persone che hanno bisogno di un accompagnamento e del giusto recupero. In questo la Regione può contribuire a definire gli indirizzi”. Diversi i consiglieri intervenuti: Fabio Pizzul (Pd), Chiara Cremonesi (Sel), Fabrizio Santantonio (Pd), Arianna Cavicchioli (Pd). Prima di chiudere la Commissione, che ha anche incontrato il Difensore Regionale in qualità di Garante dei diritti dei detenuti, Donato Giordano, il Presidente ha anticipato che alla prossima seduta saranno presenti l’Assessore al Lavoro Gianni Rossoni e alla Formazione professionale, Valentina Aprea. Confermato inoltre l’appuntamento del 3 luglio al carcere bresciano di Canton Mombello (Bs), cui si aggiungerà la visita all’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Castiglione delle Stiviere (Mn) che, secondo il Difensore regionale, è modello di integrazione e di recupero importante a cui non rinunciare, nonostante la prevista chiusura nel 2013. Lombardia: “Dimettere dismettere accogliere”, domani al via iniziativa Comitato Stop Opg Regione Asca, 18 giugno 2012 Domani, a Milano, dalle 9 alle 13, presso l’auditorium della Società umanitaria, si terrà l’iniziativa del Comitato regionale lombardo di Stop Opg “Dimettere dismettere accogliere. Oltre l’ospedale psichiatrico giudiziario. A che punto siamo in Lombardia”. In Lombardia è attivo l’opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova) che, come fissato dalla legge 9/2012, dovrà essere chiuso, insieme agli altri sul territorio (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Napoli, Reggio Emilia), entro il 31 marzo 2013, data entro cui ciascuna Regione dovrà accogliere i propri pazienti qui internati in strutture residenziali ospedaliere di piccole dimensioni. ‘Se il passaggio è in sè significativo - afferma Alberto Villa, del Comitato lombardo Stop Opg - il rischio è ora che queste nuove strutture si riducano, di fatto, a essere dei mini manicomi e non luoghi di cura e di riabilitazione alternativi, dove queste persone possano essere seguite in base alle esigenze individuali. Un passaggio che è in salita già nella nostra regione per le molte resistenze e paure, il velato disinteresse che si traduce in allarmismi su un tema così delicato e di civiltà’. ForMattArt porterà un suo contributo con interventi narrativi. Sassari: dopo 141 anni il carcere di “San Sebastiano” verrà chiuso… le voci dei detenuti La Nuova Sardegna, 18 giugno 2012 “Il tempo è una cosa preziosa”, ha scritto un detenuto arabo nella sua bella grafia. La frase è incorniciata, affissa poco prima della porta blindata, barriera posta alla fine di un corridoio dalle pareti rosa che conduce al primo cortile interno. Si arriva così al cuore del malato che tutti sperano di abbandonare dopo l’estate, l’ultima dal 1871. Il via libera alla visita a San Sebastiano arriva quattro mesi dopo una richiesta al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È come un saluto al moribondo: questo penitenziario mai ristrutturato in 141 anni non arriverà a fine anno. Basta entrare nel panopticon per rendersene conto. Nella rotonda da dove partono i nove bracci, ci sono paletti posizionati su quattro, cinque tombini. Meglio non passarci sopra per non sollecitare un pavimento che rischia di cedere. Al centro della rotonda sono vietati assembramenti: la pendenza è percepibile, e troppe persone raccolte come per Pasqua potrebbero sprofondarci. L’ultima messa è stata celebrata per turni. A destra, si entra nel II braccio attraverso un ingresso basso, che apre sulla fila di celle. In alto corrono fili elettrici e tubi dell’acqua, le pareti incrostate di muffa e pezzi di intonaco che cadono dal soffitto sono parte dell’arredamento, a San Sebastiano. Dal corridoio luminoso delle 2 del pomeriggio è difficile guardare tra le sbarre delle “camere di detenzione”: non si vede nulla. Nei cubicoli, come li chiamano qui, l’oscurità è totale, sembra impossibile che qualcuno possa addirittura viverci. Poi l’occhio si abitua e si vedono due, tre brande, una sull’altra, in uno spazio misurato in quattro passi di donna. Oltre i letti, verso la parete opposta sulla destra, due muretti non più alti di un metro dividono la zona notte, per così dire, dai servizi: c’è la turca e di fronte, sul lato opposto, un lavandino, dove tutti conservano confezioni di detergenti in quantità sorprendente. L’odore delle celle è coperto da un profumo dolciastro di detersivo scadente. Saranno anche le t-shirt e i pantaloni stesi sui fili tra una parete e quella opposta, che i detenuti lavano da sé con acqua gelida. Le pareti sono infestate di seni nudi e volti di Madonna, imbrattati con scritte oppure dall’umidità, tanto che molti usano le buste dell’immondizia come carta da parati di una stanza nera. Qualcuno si fa una sigaretta, molti sono stesi sulle brande o guardano fuori, verso la luce. “Direttore, ci dia qualche mobiletto in più, solo un comodino”, supplica congiungendo le mani un recluso dal forte accento campano. È appena finita la mattina di “socialità”, il momento in cui possono uscire dal cubicolo per passeggiare nel corridoio. La stessa cosa si può fare nel Centro clinico, in confronto al resto una vera beauty farm. Fondi permettendo, il direttore spera di destinare una saletta ai contatti personali, dove poter giocare a carte o guardare la Tv assieme, magari tirare a stecca. Ci si accontenta di 3 frigoriferi e 4 docce in più per i 210 carcerati di San Sebastiano; ora le docce sono 8. Al II braccio, la numero 17 è una stanza ricoperta di mattonelle di un colore indecifrabile e un solo bocchettone doccia. Al famigerato braccio vicino, invece, ci si lava a intermittenza sperando che lo scaldabagno, quel giorno, funzioni. L’acqua è mancata spesso con i distacchi di Abbanoa non comunicati. Poi è intervenuto il prefetto e ora almeno le emergenze potranno essere gestite. Su questo corridoio affacciano le celle peggiori, con 4, 5, 6 letti a castello: dalle due bocche di lupo non filtra nemmeno un raggio, passa più luce dalle tre fessure che servono a tenere i detenuti sotto controllo. In qualsiasi momento, quando incontrano direttore e comandante chiedono “lavoro, più lavoro”. Oppure di partecipare ai progetti come quello sulla digitalizzazione che assistenti sociali e psicologi portano avanti con i pochi spiccioli che arrivano. I soldi servono a mettere toppe al sistema idrico al collasso, ai danni che aumentano col passare del tempo. Si rinuncia a interventi impegnativi, come ristrutturare la passerella sul muro di cinta, dove gli agenti rischiano di cadere. Il moribondo è in agonia. Leonardo, 54 anni: è il peggiore di tutti gli istituti che ho visto “Questo non è un carcere, è un luogo di cura dove gli agenti spesso sono chiamati a fare gli infermieri. C’è un pour pourri di gente, ma per la gran parte è il luogo meno adatto in cui stare”. Leonardo Zinchiri, 54 anni, ex ufficiale della Marina, la prima cella che ha visto era a San Vittore, Milano. Non da criminale comune, ma per un reato politico: era militante del gruppo neofascista Squadra d’Azione Mussolini, e fu arrestato durante una retata, nel 1978. Oggi è il cuoco di San Sebastiano, una colonna portante del carcere e ne è consapevole. Traspare dalla sicurezza del suo sguardo un po’ torvo, ma anche dalla voce bassa e profonda, di chi parla dopo aver messo in funzione il cervello. Di storie da raccontare ne ha molte, ma più che l’estremismo nero i guai veri gliel’hanno portati la droga: un colpo grazie al quale sperava di tenere aperto il suo ristorante. Ma che l’ha portato in carcere. Qui non perde il contatto col mondo esterno: segue i Radicali, legge Panorama, guarda in Tv i programmi sulle carceri e i problemi della detenzione. Vive in una cella con 6 detenuti, di 19 metri quadri calpestabili. “Questo luogo - dice calmo - non ha ragione di esistere, è una punizione nella punizione”, dice riferendosi al penitenziario di via Roma. Ne ha visti tanti di istituti: Busto Arsizio, Forlì, Fossombrone, Cassino, Rebibbia. “Questo è il peggiore”. Anche se “quando sono tornato da fuori, ho baciato terra”. Ormai è come casa, e le facce familiari contano anche dentro. Ce l’ha col sistema, non con il carcere. “Ci lasciano qui come in una discarica sociale. Avete sbagliato, dicono, e non gliene frega nulla di noi”. Del disagio che lo circonda, dei tossicodipendenti che secondo lui devono essere curati e non detenuti, a infastidirlo di più è “lo scarso grado di istruzione”. “Faccio il cuoco da anni. Ma sembra che nessuno abbia voglia di imparare, di lavorare, anche se poi abbiamo bisogno del lavoro. C’è una fame di mestieri, esattamente come lì fuori: questo è lo specchio della società”. Come gli altri detenuti, chiede solo di poter occupare il tempo in modo costruttivo, perché è inevitabile vivere protesi, idealmente, verso il momento della libertà. “Ammetto di non pensarci al fine pena, anche se ho progetti per il futuro”. Eppure una volta, nel 2003, aveva diritto ad uscire per andare al funerale del padre, un maestro di Sorso, ma non lo fece. “Vede, ero sotto processo a Milano per l’omicidio di un neofascista traditore. Ero innocente, tanto che mi hanno assolto. Ma non volevo andare al funerale di mio padre per non farmi vedere così dalla mia gente”. Lorenzo, 58 anni: ho conosciuto queste sbarre quando avevo appena 15 anni “Sa, ogni volta che vado in bagno ancora ci rimango male. Non mi sono abituato ad andarci davanti al mio compagno di cella”. Lorenzo Spano, 58 anni, è entrato per la prima volta a San Sebastiano 43 anni fa. “Avevo 15 anni, e mi divoravano le pulci”, racconta nella sala colloqui. “Allora gli agenti li chiamavamo “superiori”. Non ci dicevano nemmeno buongiorno. Oggi fanno anche gli “psicologi”, c’è molta più umanità”. Nel suo cubicolo, come si chiamano le celle da queste parti, rimarrà per molto: deve scontare una condanna per omicidio. “Non penso a quando uscirò, così si rischia d’impazzire. Penso solo a cosa posso fare qui”. Prima si devono fare i conti col proprio corpo. Col buio, che è la prima barriera. “L’occhio si abitua a non andare mai oltre i 40 metri di visibilità”. E poi le mani, che diventano ghiaccio “quando lavi i panni con l’acqua fredda”. E il cervello, che “ti può fregare, ti manda fuori e ti fa diventare cattivo”. Allora devi fare qualcosa, anche quello che non avresti mai immaginato, come catalogare documenti, diventare un topo da biblioteca. Lo racconta con sguardo incredulo. “Mi hanno inserito nel corso di digitalizzazione: prendiamo i fascicoli del vecchio carcere di Tramariglio e li puliamo. Mi affascina, perché scopro le storie dei detenuti del passato”. Il passato che finge di dimenticare, sebbene tema possa condizionare il suo futuro di uomo libero. “Se uno esce da qui più cattivo di prima è un uomo sconfitto. Però - ammette spegnendo il sorriso - una volta che esci dalla galera, anche se sei assolto, solo per il fatto che ci sei stato sei già colpevole. A me è capitato così, tanto tempo fa. Ero stato assolto (prima del delitto, ndr), ma ormai avevo già preso un’altra strada. E poi inizi a farti congetture su quello che pensano gli altri e a isolarti nel tuo mondo, anche se sei fuori. E sei fregato”. Antonella, 55 anni: voglio la mia dignità, gli altri si dimenticano di noi Antonella Crasta ha 55 anni, fine pena 2020, da libera era una tossicodipendente, da reclusa è una poetessa. Da quando è nella sezione femminile di San Sebastiano scrive pagine e pagine, e un componimento l’è valso il II premio - ricorda con orgoglio - in un concorso nazionale dedicato ai detenuti. Al ministro Paola Severino, nel consegnare il libro realizzato qui con le fotografie in bianco e nero di Sassari, aveva detto: “Con questi progetti usciamo da qui almeno con la mente”. “Di cosa abbiamo bisogno qui? Abbiamo bisogno di lavoro, di più spazi per la socialità. So che questa direzione e l’area trattamentale fa tanto per noi, ma mi rendo conto che a volte siamo come recluse al 41-bis”. Capelli rosso fuoco, occhi vispi, sul viso ha i segni di un’esistenza vissuta alla ricerca della droga, in quella che chiama “la città oscura”. “Una vita disgraziata, è stata tutta un grande vuoto, a parte i miei figli”. In questo purgatorio ci è entrata per la prima volta nel 1979. “Eppure non ho mai visto questo carcere in una tale decadenza. È sempre peggio. È vero che gli agenti sono diventati molto più umani, che il personale prova ad ascoltarci, ma noi non viviamo: sopravviviamo”. Lei la mette sul filosofico, perché in fondo non è il degrado strutturale che la preoccupa, ma quello esistenziale. “A volte ci manca l’acqua per lavarci, altre persino la carta igienica. Io voglio la mia dignità, perché la gente lì fuori ci dimentica, non si occupa di noi. Anche noi facciamo parte della società civile”. Tenace, ha vissuto grandi depressioni, ha pensato di uccidersi, poi ha scoperto la scrittura. La prima grande conquista da quando è dietro le sbarre è stata la prima uscita per frequentare un corso. “Sono rimasta incantata dal palazzo decorato, in via Roma, appena ristrutturato. Guardavo i ragazzini per mano, il cielo. Era bellissimo”. Mai pensato di fuggire? “No, in fondo è qui che mi sono resa conto degli errori che ho fatto”. Bologna: Gozi (Pd) visita senza preavviso il carcere della Dozza Agenparl, 18 giugno 2012 Visita oggi senza preavviso al carcere circondariale di Bologna La Dozza dell’on. Sandro Gozi (Pd) e di Silvia Ventrucci e Filippo Maltese di “Insieme per il Pd” di Bologna. “Nel carcere ci sono 937 detenuti, ben oltre la capienza regolamentare di 460 e anche di quella tollerabile di circa 600. Nella maggior parte delle celle del settore giudiziario i detenuti hanno poco meno di 3 metri quadri di spazio effettivo a testa. In Italia applichiamo le norme europee per dare lo spazio sufficiente a polli di allevamento e maiali ma facciamo solo finta di rispettare quelle per gli esseri umani detenuti”, ha commentato il deputato all’uscita. Per Gozi “in generale il sovraffollamento è dovuto soprattutto ai detenuti in attesa di giudizio ed al ricorso eccessivo alla custodia cautelare. Per questo sostengo con forza la proposta di legge sulla custodia cautelare presentata da Rita Bernardini alla Camera”. “La situazione del personale penitenziario è assolutamente carente - continua Gozi - 398 agenti in servizio sui 537 in dotazione organica, con inevitabile sovraccarico di lavoro per gli agenti. Inoltre ci sono solo 6 educatori per una dotazione organica di 13 educatori e solo 4 psicologi per 52 ore mensili”. Nella visita “è emerso con forza il ruolo fondamentale che svolgono le associazioni di volontariato, di supporto morale e psicologico dei detenuti, fornendo beni di prima necessità ed assistendo e facilitando i rapporti tra detenuti e famigliari. Bene la nuova officina metal-meccanica che dal 25 giungo farà lavorare 12 detenuti formati come operai. Tuttavia è necessaria una presenza più forte del Comune a cui chiederemo di prestare assistenza per alcune attività specifiche a cui il carcere non riesce a far fronte”, conclude il parlamentare. Sassari: Sdr; detenuto in sciopero fame e sete, indispensabile il dialogo Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2012 “Un gesto di autolesionismo estremo quale il rifiuto di cibo e di acqua, in particolare da parte di un detenuto, non può lasciare indifferenti. Non servono irrigidimenti ma è indispensabile il dialogo. C’è il serio rischio che le Istituzioni perdano di vista il loro ruolo e il sistema collassi”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” avendo appreso che “Pasquale Concas, 44 anni, originario di Tortolì, recluso a San Sebastiano, ha perso quasi 10 chili poiché da 8 giorni si astiene da cibo e acqua per protesta essendogli stata rigettata, in quanto ritenuta inammissibile dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, la richiesta di semilibertà a un anno di distanza dalla revoca della misura”. “L’interpretazione dei Magistrati di Sorveglianza rispetto ai tre anni necessari per ripresentare la domanda di semilibertà - sottolinea Caligaris - appare decisamente restrittiva considerando che il detenuto ha trascorso in carcere 18 anni, senza alcuna nota negativa di comportamento e che nel 2015 finirà di pagare il suo debito con la società. È anche evidente che la risocializzazione e/o la rieducazione di Concas non possono risultare del tutto negative altrimenti ciò significherebbe che le strutture penitenziarie, in cui ha trascorso oltre tre lustri, hanno fallito nello svolgimento del loro lavoro”. “È più facile invece ritenere che - evidenzia la presidente di Sdr - nel periodo in cui il detenuto era in semilibertà si sia, per diverse ragioni, affievolita la relazione umana con i diversi operatori. La conseguenza negativa della sospensione del provvedimento ma la revoca non può essere considerata di per se una punizione senza alcuna possibilità di revisione se non dopo altri tre anni di detenzione. È palese che il cittadino privato della libertà ha commesso degli errori, ma è altresì evidente, se si accetta la logica esclusivamente punitiva della detenzione, che il carcere non è riuscito in 18 anni a recuperare il recluso. C’è quindi da chiedersi cosa accadrà quando Pasquale Concas tra poco più di 2 anni lascerà l’Istituto. Quale genere di reinserimento potrà fare e in che modo potrà ristabilire un corretto rapporto con la società se non gli verrà concesso di rimediare agli errori commessi in un periodo di semilibertà. È fondamentale quindi - conclude Caligaris - che il detenuto sospenda immediatamente lo sciopero della fame e della sete anche per evitare conseguenze imprevedibili. Rivolgiamo quindi un appello al Direttore dell’Istituto che saprà con la sua esperienza e sensibilità individuare l’approccio più utile per superare questo momento di grave difficoltà anche in attesa dell’esito del ricorso avverso al rigetto dell’istanza”. Ferrara: visita del Garante regionale alla Casa Circondariale di via Arginone Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2012 Nei giorni scorsi, la Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno, ha visitato la Casa Circondariale di Ferrara, in via Arginone 327; era accompagnata dal Direttore Francesco Cacciola, dal Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Ferrara Marcello Marighelli, e dal Comandante Paolo Teducci. Ecco alcuni dati. Nell’istituto sono attualmente rinchiusi 444 detenuti, tutti uomini (all’inizio dell’anno, i detenuti erano 520); 307 detenuti risultano condannati in via definitiva, 53 in attesa di giudizio; gli stranieri (218) sfiorano il 50%. La Casa Circondariale di Ferrara non vive una situazione di grave sovraffollamento, e sono in corso i trasferimenti di un centinaio di detenuti in seguito ai recenti eventi sismici. La Garante ha sottolineato la necessità per l’Amministrazione penitenziaria di valutare con attenzione quali detenuti trasferire, salvaguardando per quanto possibile i legami familiari e il principio di territorialità della pena. La Direzione ha assicurato che sta valutando con un’apposita équipe la situazione dei detenuti da trasferire. Quanto al personale della polizia penitenziaria, la pianta organica prevede 232 unità, ma sono 188 quelli effettivamente in servizio. L’istituto ha due storiche specificità: la presenza di una sezione riservata ai collaboratori di giustizia (32 alla data dell’8 giugno) e di un’altra sezione problematica, quella riservata a chi ha compiuto crimini sessuali (circa 50 persone). In entrambi i casi, si tratta di soggetti che necessitano di particolari forme di sorveglianza; a differenza di quanto accade in altri istituti penitenziari, non ci sono per ora risorse dedicate al trattamento medico e al recupero dei cosiddetti sex offenders. È in corso di assegnazione l’appalto per la costruzione di un nuovo padiglione, che potrà ospitare circa 200 detenuti; ci si aspetta l’apertura nella seconda metà del 2013. Nella visita, è stata riscontrata una buona qualità dell’assistenza medica (anche odontoiatrica), garantita su tutto l’arco delle 24 ore e anche per particolari patologie. Sul piano dell’avviamento al lavoro, sono in corso numerose, apprezzabili iniziative. Prosegue la storica esperienza del laboratorio teatrale (Ferrara è capofila in Emilia-Romagna), con spettacoli dentro le mura e una rappresentazione annuale all’esterno. Prosegue anche il laboratorio Raee, per lo smaltimento corretto di componenti elettrici ed elettronici (vi sono impegnati 2 detenuti con contratto a tempo determinato, 6 borse-lavoro, 10 in corso di formazione). Sia il laboratorio di serigrafia che i nuovi laboratori di ceramica (recuperando la particolare tradizione ferrarese) si fondano su corsi di formazione e sono pensati per consentire la commercializzazione dei prodotti all’esterno della Casa. Nell’istituto viene prodotto un giornale (Astrolabio), funziona il prestito bibliotecario (in collaborazione con il Comune), e si svolgono corsi di alfabetizzazione e di scuola superiore. Ai volontari è affidata la gestione di un piccolo emporio per la distribuzione dell’abbigliamento ai detenuti indigenti. Le forti scosse telluriche hanno messo alla prova il piano di evacuazione, e il risultato è stato descritto come molto positivo dalle autorità che dirigono la Casa Circondariale. La Direzione ha altresì espresso un giudizio positivo sull’idea di far partecipare i detenuti ad eventuali squadre per la ricostruzione delle vicine zone terremotate, prevedendo il rientro in serata, come proposto dal Ministro Severino. Avellino: Capo del Dap Tamburino visita nuovo padiglione del carcere Adnkronos, 18 giugno 2012 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, dopo aver presenziato questa mattinata alla celebrazione regionale del 161° Annuale del Corpo di Polizia Penitenziaria, tenutasi ad Aversa, ha fatto visita al nuovo padiglione del carcere di Avellino. Accompagnato dal Provveditore Regionale Tommaso Contestabile, Tamburino ha prima effettuato una visita alla struttura di recente edificazione, dove sono ristretti 50 detenuti, e successivamente si è intrattenuto con il personale in servizio ad Avellino. “Ho personalmente partecipato all’incontro - fa sapere Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari - ed ho colto il calore con cui Tamburino ha voluto personalmente testimoniare l’apprezzamento per l’impegno e i primi risultati positivi che si riscontrano presso il nuovo padiglione dove i colleghi, coordinati dall’ispettore Giuseppe Testa, svolgono il servizio attraverso una nuova forma di sorveglianza a distanza (ovvero attraverso una rete di telecamere). Non è propriamente quella che in gergo si definisce la sorveglianza dinamica, ma è comunque un esperimento da apprezzare - rimarca Sarno - perché ottimizza l’impiego delle risorse umane in un quadro di sofferenza organica e permette l’affermazione di un percorso rieducativo dei detenuti basato sull’osservanza delle regole della comune convivenza”. Proprio sulla sorveglianza dinamica e sui patti di responsabilità, lunedì prossimo, alle 15.30, nell’Aula Magna dell’Istituto penitenziario di Contrada Sant’Oronzo, la Uil ha organizzato un convegno che vedrà la partecipazione del vice capo del Dap, Luigi Pagano, e del sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano. Sappe: personale da incrementare Il Presidente Giovanni Tamburino, ha visitato questa mattina la struttura penitenziaria di Avellino, in particolare soffermandosi presso il nuovo Padiglione che da pochi giorni è in funzione. Accompagnato dal Provveditore Regionale della Campania A.P. Dr. Tommaso Contestabile, ha trovato ad accoglierlo l’equipe dei Magistrati di Sorveglianza di Avellino, oltre che il Direttore della Casa Circondariale, Cristina Mallardo, il Comandante del Reparto, il Commissario Attilio Napolitano. “Il Presidente dopo aver visitato la nuova ala dell’Istituto ha incontrato il personale di Avellino, per rappresentare la sua vicinanza a tutti coloro che hanno reso possibile l’apertura del padiglione in così breve tempo. Occasione questa che gli ha consentito di fare il punto della situazione attuale, a seguito dell’apertura del nuovo padiglione, circa la necessità di “incrementare gli inadeguati organici esistenti della Polizia Penitenziaria, nonché di intitolare la nuova struttura detentiva alla memoria del collega De Vivo Salvatore deceduto durante il turno di servizio notturno, sul muro di cinta, con il mitra tra le mani, a pochi metri da dove oggi sorge la nuova struttura. Il Presidente ha garantito il suo personale interessamento presso l’ufficio del cerimoniale competente del Dap per l’intitolazione del reparto in questione. Ha garantito inoltre l’assegnazione di ulteriore personale da destinare presso la Casa Circondariale di Avellino, riconoscendo l’impegno profuso dal personale in servizio per la conduzione dell’intera Casa Circondariale. Inoltre il Capo del Dipartimento, Presidente Tamburino, nell’apprezzare il lavoro svolto - rivolgendosi ad Attilio Russo - che ha reso possibile l’apertura del nuovo padiglione, nel quale vige il regime sperimentale di “Sorveglianza Dinamica” non ha escluso la possibilità di una visita del Ministro della Giustizia Severino. Modena: Costi e Vecchi (Pd); chiudere per sempre Casa di lavoro Saliceta San Giuliano La Gazzetta di Modena, 18 giugno 2012 Chiudere la casa di lavoro di Saliceta San Giuliano, oggi inagibile, e utilizzare i fondi stanziati prima del sisma per la sua ristrutturazione per progetti di reinserimento davvero utili. La proposta viene rilanciata dai consiglieri regionali Palma Costi e Luciano Vecchi, riprendendo la posizione espressa dal Garante regionale Desi Bruno. Nelle Case di lavoro sono recluse persone che hanno finito di scontare la pena, ma per le quali è prescritto un periodo di reinserimento lavorativo prima del ritorno in libertà. Questa attività lavorativa, però, non viene quasi mai svolta. Per questo è stata presentata da tempo in Parlamento una proposta di legge per chiuderle. “La struttura di Saliceta - spiegano Costi e Vecchi - risale all’Ottocento e aveva bisogno di interventi di ristrutturazione, già finanziati. Con il terremoto è diventata inagibile e i 65 internati sono stati spostati a Parma e Padova. È l’occasione giusta per chiuderla. Con quei fondi potrebbero essere realizzati progetti di reinserimento lavorativo, capaci di aiutare davvero gli ex detenuti e di ridurne la pericolosità, con un beneficio per tutta la società. I 40 agenti oggi a Saliceta potrebbero essere trasferiti al Sant’Anna”. Lecce: aggressione nel reparto per detenuti dell’ospedale, due agenti feriti www.lecceprima.it, 18 giugno 2012 Il sindacato Osapp denuncia un episodio avvenuto ieri nell’ospedale civile, durante il piantonamento di due detenuti. Uno di loro avrebbe iniziato a dare in escandescenza. Gli agenti hanno riportato prognosi di 10 e 15 giorni. Due agenti di polizia penitenziaria sono rimasti feriti, nel tardo pomeriggio di ieri, ed hanno riportato prognosi di dieci e quindici giorni ciascuno, a causa dell’aggressione subita da un detenuto che, per motivi non ancora del tutto chiari, avrebbe dato in escandescenza, mentre si trovava ricoverato nel reparto speciale dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce. La notizia è stata diffusa dal sindacato di polizia penitenziaria Osapp, il quale denuncia, tramite il segretario generale nazionale Domenico Mastrulli, il fatto che “purtroppo si continuano a registrare nelle periferie continui episodi di aggressioni gratuite nei confronti della polizia penitenziaria, rendendo abbastanza evidente la grave situazione di carenza di personale che fa da contraltare al sovraffollamento nelle carceri”. Mastrulli, nell’esprimere solidarietà ai due agenti, sollecita “i vertici dipartimentali a prendere urgenti soluzioni volte a risolvere i gravi problemi di sicurezza che oramai attanagliano la casa circondariale di Lecce, ma anche i restanti penitenziari pugliesi, a quota 4mila e 500 detenuti, rispetto a quella regolare di 2mila e 450 posti letto”. “L’istituto penitenziario di Borgo San Nicola - ricorda il segretario del sindacato - a Lecce ospita mille e 375 detenuti contro una capienza regolamentare di 650 posti letto”. Per quanto riguarda l’episodio di ieri, i due agenti stavano piantonando la stanza in cui sono ricoverati altrettanti detenuti, quando, all’improvviso, uno di loro avrebbe iniziato a urlare e a rompere suppellettili. Intervenuti all’interno, nel tentativo di bloccarlo e calmarlo, hanno riportato varie lesioni. “Il personale di polizia penitenziaria, sebbene in sotto organico - scrive ancora l’Osapp - svolge con abnegazione, sacrificio istituzionale e senso del dovere le proprie mansioni Istituzionali”. Problemi come questo nascerebbero dal fatto che “il nucleo traduzioni e piantonamenti, oltre a registrare una carenza di circa quaranta unità rispetto alla sua costituzione, poiché ne erano previste 150 ma attualmente sono circa 110, lavora con mezzi obsoleti e logorati, non degni di un corpo di polizia”. “L’episodio accorso nel reparto speciale dell’ospedale civile di Lecce ieri sera, riguardante l’aggressione da parte di uno dei due detenuti ricoverati e piantonati a carico degli agenti accorsi alle grida, stigmatizza la scarsa disponibilità di un’amministrazione che dovrebbe disporre, secondo norma, ogni singolo detenuto almeno tre agenti di scorta”, denuncia Mastrulli. Il quale così conclude: “Siamo pronti a non firmare responsabilmente per quello che accade e per la scarsa qualità della vita nei penitenziari il protocollo d’Intesa locale che riguarderà la piattaforma contrattuale dei 640 baschi azzurri di Borgo San Nicola di Lecce, finché non ci saranno concrete garanzie contrattuali e rispetto per la vita dei poliziotti”. Viterbo: tre agenti aggrediti, erano intervenuti per sedare rissa tra detenuti Adnkronos, 18 giugno 2012 Tre agenti penitenziari in servizio nel carcere del capoluogo sono rimasti feriti durante una lite avvenuta poco dopo le 23 di sabato 16 giugno. Gli agenti sono intervenuti per sedare una lite scoppiata tra due detenuti, un campano e un romano proveniente dal quartiere di Tor Bella Monaca rinchiusi, appunto, a Mammagialla. A quel punto gli agenti del penitenziario sono stati presi di mira dai due detenuti. Dopo l’intervento di alcuni colleghi i due sono stati fermati e portati nelle camere di sicurezza. Gli agenti sono stati portati al pronto soccorso di Belcolle per curare le ferite riportate durante la lite. Le lesioni, comunque, non sono particolarmente gravi. Firenze: nasce in Toscana la prima rassegna nazionale di testro-carcere Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2012 "Destini incrociati", prima rassegna nazionale di teatro in carcere, si svolgerà tra Firenze, Prato e Lastra a Signa dal 20 al 23 giugno. E’ la prima iniziativa pubblica del coordinamento nazionale Teatro in carcere, nato nel 2011 per creare occasioni di confronto e di qualificazione del movimento teatrale sorto all’interno delle carceri negli ultimi decenni. Del coordinamento fanno parte più di trenta gruppi - tra cui molte giovani compagnie - distribuiti su tutto il territorio nazionale; da qui la scelta itinerante della rassegna che, dopo questa prima edizione, approderà ogni anno in una diversa città e regione. L’iniziativa è realizzata dal coordinamento nazionale Teatro in carcere e dal Teatro Popolare d’Arte col sostegno della Regione Toscana - che da circa quindici anni investe su questo tipo di esperienze -, il patrocinio del Ministero della Giustizia e del Ministero dei Beni Culturali, e si avvale della collaborazione di Fondazione Sistema Toscana-intoscana.it e del Comune di Lastra a Signa. Della direzione artistica fanno parte: Gianfranco Capitta, Sergio Givone, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi. L’iniziativa sarà illustrata nel corso di una conferenza stampa mercoledì 20 giugno. alle ore 12:30, a Palazzo Strozzi Sacrati in Piazza del Duomo 10. Parteciperanno con l’assessore regionale alla cultura Cristina Scaletti, Gianfranco Pedullà, Teatro Popolare d’Arte e direttore organizzativo della rassegna Destini Incrociati, e Vito Minoia, coordinamento nazionale Teatro in Carcere. Nel corso della conferenza stampa, sarà proiettata una clip del documentario girato tra il carcere di Ferrar e quello di Sollicciano Oggi voglio parlare, presentato al cinema Odeon alle 18 del 20 giugno alla presenza dell’assessore Scaletti e dal neo assessore alla cultura del Comune di Firenze Sergio Givone. Diretto da Gianmarco D’Agostino e scritto a quattro mani con Marco Vichi, il film è stato realizzato nell’ambito del Progetto inter-regionale Teatro Carcere Toscana, in parallelo al laboratorio teatrale condotto da Elisa Taddei e Massimo Altomare. Roma: oggi a Rebibbia in scena gli attori di “Cesare deve morire” 9Colonne, 18 giugno 2012 Sarà in scena oggi al teatro del carcere di Rebibbia, “Giulio Cesare a Rebibbia”, una prova aperta del Giulio Cesare di Shakespeare, con l’adattamento e la regia di Fabio Cavalli ed i detenuti-attori della Sezione G12 Alta Sicurezza del carcere romano protagonisti di “Cesare deve morire”. Dopo il successo del film di Paolo e Vittorio Taviani - una docu-fiction che segue i laboratori teatrali realizzati dentro il carcere di Rebibbia dal regista Fabio Cavalli, autore di versioni di classici shakespeariani interpretate dai detenuti - torna in scena lo spettacolo da cui tutto ha avuto inizio, proprio nel teatro di Rebibbia, divenuto ormai un teatro aperto alla città. Nella sala da 350 posti oltre 22.000 spettatori hanno applaudito spettacoli che hanno rivoluzionato l’immagine stereotipata del luogo di pena infernale e dei suoi dolorosi ospiti. La Tempesta, Amleto, l’opera di Dante, Giordano Bruno, Eduardo, tanto per citarne alcuni, hanno appassionato prima di tutto i detenuti-attori che si avvicendano sulle tavole di un palcoscenico inconsueto e, forse per questo, ancora più affascinante. Sotto la guida di Fabio Cavalli, i reclusi della Sezione Alta Sicurezza hanno accettato la sfida lanciata dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani: portare in scena e al cinema il Giulio Cesare di Shakespeare. Così è nato il film italiano più premiato dell’anno. Giustizia e Vendetta, Lealtà, Congiura, Tradimento, Libertà: questi i temi dell’opera shakespeariana che Cavalli e i suoi 25 protagonisti restituiscono al pubblico attraverso una versione dialettale insieme popolare e colta. Libia: Amnesty denuncia; con accordo su immigrazione diritti umani a rischio Ansa, 18 giugno 2012 “Un accordo sul contrasto dell’immigrazione illegale con la Libia comporta rischi di gravi violazioni dei diritti umani”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commenta così il testo dell’accordo tra Italia e Libia. Uno dei punti critici dell’accordo è “la mancanza di garanzie per i richiedenti asilo”: “Sembra che anche il governo italiano pensi che in Libia non ci siano persone bisognose dì protezione internazionale”. Lacune ma anche errori da contrastare. A proposito di Kufra e delle iniziative umanitarie in cantiere, Riccardo Noury è durissimo: “Kufra non è mai stato un centro sanitario né tantomeno d’accoglienza ma un centro di detenzione durissimo e disumano. I cosiddetti centri d’accoglienza di cui si sollecita il ripristino hanno a loro volta funzionato come centri di detenzione, veri e propri luoghi di tortura”. “L’Italia chiede alla Libia di prevenire le partenze - riflette Noury - e, come scritto alla fine del processo verbale - si impegna a collaborare a questo scopo. Ciò, nella situazione attuale, significa che l’Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle persone che si trovano in Libia”.