Progetti di reinserimento dei detenuti: un confronto transnazionale a Berlino di Davide Pelanda www.articolotre.com, 17 giugno 2012 Il Consorzio italiano “Open” e “Ristretti Orizzonti” parteciperanno ai lavori conclusivi del “Policy Forum Final Conference” della rete europea ExOCoP - Ex-Offenders Community of Practice che si terrà a Berlino il 18 e 19 giugno prossimi. Costituita da più di 40 partner delle autorità pubbliche della Giustizia e del Lavoro di diversi Paesi Membri, la rete europea ExOCoP si riunirà per la conclusione dei due anni di lavoro del progetto di confronto transnazionale a cui prenderanno parte “Open” e “Ristretti Orizzonti”: per le autorità europee esse sono due presidi fortemente rappresentativi delle “comunità di pratiche” del privato sociale impegnato nel settore giustizia con azioni innovative per la riabilitazione sociale e lavorativa di persone detenute/ex detenute e per la sensibilizzazione delle comunità locali, dei giovani e dei media in particolare. Il ventaglio dei temi affrontati nel progetto transnazionale era molto ampio: si sono discusse e sperimentate iniziative/strategie l’istruzione/formazione delle persone in esecuzione penale e del personale che opera nelle strutture penitenziarie; i processi di transizione e reinserimento dal carcere alla società civile, il coinvolgimento di imprenditori e associazioni datoriali. Durante la Conferenza “Open” e “Ristretti Orizzonti” presenteranno alcuni risultati dell’attività condotta nelle carceri italiane, spesso in collaborazione con l’economia sociale: Banda Biscotti: linea di biscotti artigianali dalle carceri di Verbania e Saluzzo; Ferro &Fuoco: linea di prodotti in ferro e altri materiali di “recupero” per l’arredo di interni e di esterni dal carcere di Fossano; Manolibera laboratorio di cartiera artigianale dal carcere di Forlì; Raee in Carcere laboratori di recupero rifiuti elettrici ed elettronici dalle carceri di Bologna, Ferrara, Forlì; Bread & Bar laboratorio di panificazione e pasticceria dal carcere di Trieste; A.I.R. Acceleratore di Impresa Ristretta: valorizzare le imprese del circuito penitenziario milanese; B.E.A. interventi formativi al personale degli Istituti Penali milanesi e bresciane. Nell’appuntamento di Berlino, con il valido contributo delle italiane “Open” e “Ristretti Orizzonti”, le istituzioni pubbliche nazionali ed europee formalizzeranno le linee guida e raccomandazioni da proporre ai responsabili - presenti all’evento - della Commissione europea e degli Stati membri per la programmazione 2014/2020 del Fondo Sociale Europeo. Giustizia: le carceri scoppiano; amnistia o indulto? No… solo propaganda di Ruggero Capone Il Punto, 17 giugno 2012 Pannella riprende lo sciopero della fame contro “uno Stato che non rispetta nessuna legalità”. Dal 2001 al 2010, gli istituti sono costati alla collettività circa 29 miliardi euro. Ma il 2011-2012 passerà alla storia anche per i sacrifici che il governo tecnico sta chiedendo alla popolazione carceraria: aumento demografico nelle singole celle (in 9 in celle da 4), diminuzione dei servizi essenziali e taglio alle spese sanitarie. Belisario (Idv): “Bomba ad orologeria, svuota-carceri inutile serve una vera riforma organica”. Giacinto Pannella, per tutti Marco, fondatore del Partito radicale in Italia, non molla. Dal 7 giugno ha ripreso un debilitante sciopero della fame. Colpa dei tagli alla spesa pubblica, che nella giustizia sono in gran parte a spese dei carcerati. Ecco che Marco Pannella punta nuovamente contro se stesso l’arma autolesionistica: per protestare contro l’inerzia delle istituzioni sull’emergenza carceri. Proprio mentre la signora in nero andava a far visita ad un detenuto nel carcere di San Sebastiano, a Sassari: il recluso ha optato, come ultima protesta, per un lenzuolo attorcigliato alla sbarra del letto. Stessa scena s’è ripetuta nel penitenziario fiorentino di Sol-licciano. Sono ormai lì, come foglie sugli alberi. E che alberi, carichi come mai di dispiaceri: nelle celle per quattro ormai vi alloggiano in nove. “Il maggior problema istituzionale e sociale è quello della giustizia - ha spiegato con un filo di voce Pannella su Radio Radicale - nel senso che i problemi economici sono problemi drammatici di questi anni, che si sono aggravati da un problema che c’è da decenni, quello della giustizia, del diritto. Alla base dei problemi di oggi - ha spiegato il leader di Torre Argentina - c’è uno Stato che non ha rispettato nessuna legalità, e uno Stato che non rispetta nessuna legalità deve essere rieducato, recuperato, con l’obiettivo della legalità, della ragionevole durata dei processi, dell’amnistia”. E mentre i tanti media italiani evitano di riprendere la notizia, nel Nord Europa, dalla Svezia alla Norvegia passando per Danimarca e Olanda, gira alla velocità della luce la notizia dell’iniziativa di Pannella “per punire uno Stato che maltratta i detenuti e li spinge al suicidio”. In Italia il digiuno dell’82enne radicale appare come la solita protesta, il solito sciopero della fame. Ma questa non è altro che il naturale proseguo del percorso iniziato col referendum Tortora sulla giustizia. “Più di mezzo secolo di lotta nonviolenta contro un’associazione per delinquere - chiosa Pannella - la stessa che oggi nega l’amnistia”. La situazione Secondo il garante dei detenuti, Franco Corleone, “occorre interrompere il flusso di entrata” oltre che concedere rapidamente l’amnistia. La parlamentare radicale Rita Bernardini nel testo presentato alla Camera nella seduta del 16 dicembre 2011 riassunse che “l’efficienza del sistema giustizia è essenziale per lo sviluppo della nazione, atteso che, attualmente, esso rappresenta un costo come l’1 per cento del Pil e che l’ex Governatore della Banca d’Italia, in una sua recente relazione, individua il miglioramento dell’efficienza del nostro apparato giudiziario tra le otto priorità per favorire la ripresa economica in Italia... l’attuale situazione di profonda e devastante illegalità in cui versano il nostro sistema giudiziario e penitenziario non possono essere affrontate con misure sul fronte dell’edilizia penitenziaria o della depenalizzazione dei reati minori o del potenziamento delle misure alternative, se le stesse non saranno precedute da provvedimenti quali l’amnistia e l’indulto, i quali avrebbero il pregio di riattivare immediatamente i meccanismi giudiziari ormai prossimi al collasso...”. In 10 anni il sistema penitenziario italiano è costato 29 miliardi di euro. Dal 2007 al 2010 le spese sono state ridotte del 10%, ma in modo diseguale: il personale ha rinunciato al 5% del budget, i detenuti e le strutture penitenziarie hanno avuto il 31% in meno di fondi. È lampante il caso della casa circondariale di Viterbo (il Mammagialla) che, non pagando le bollette dell’acqua, ha subito il taglio dell’utenza da parte della struttura acque-dottistica del locale consorzio di bonifica: per quasi una settimana i detenuti hanno avuto l’acqua corrente per meno di un’ora al giorno. A livello nazionale il costo medio giornaliero per ogni detenuto è ormai al minimo storico, per l’effetto concomitante dell’aumento della popolazione detenuta e della diminuzione delle risorse. Dal 2000 ad oggi il costo medio annuo del Dap è stato di 2 miliardi e mezzo di euro. E negli ultimi 10 anni il sistema carcerario italiano è costato alle casse dello stato oltre 28 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti gli stanziamenti per il “Piano straordinario di edilizia penitenziaria” (finora circa 600 milioni euro) e la spesa per l’assistenza sanitaria ai detenuti, che dal 2008 è sostenuta dal ministero della Salute per un importo medio annuo di 90 milioni euro. La spesa Complessivamente, dal 2001 al 2010, le carceri sono costate alla collettività circa 29 miliardi euro. Nel 2007 la spesa, pari a 3 miliardi e 95 milioni euro, ha segnato il massimo storico. Nel 2010, per effetto dei tagli imposti dalle ultime Leggi Finanziarie, la spesa è risultata essere di 2 miliari e 770 milioni euro, in calo di circa il 10% rispetto al 2007. Ma il biennio 2011 -2012 passerà alla storia anche per i sacrifici che il governo tecnico sta chiedendo alla popolazione carceraria: aumento demografico nelle singole celle (in 9 in celle da 4), diminuzione dei servizi essenziali e taglio alle spese sanitarie. Così ad ogni singolo detenuto viene comminata una doppia condanna, e perché oltre alla detenzione il 50% dei reclusi contrae patologie da soggiorno carcerario. Il 79,2% dei costi nel decennio appena trascorso sono stati assorbiti dai circa 48mila dipendenti del Dap (polizia penitenziaria, amministrativi, dirigenti, educatori, etc.), il 13% dal mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale, etc.), il 4,4% dalla manutenzione delle carceri e il 3,4% dal loro funzionamento (energia elettrica, acqua, etc). L’incidenza del costo relativo al personale negli ultimi 4 anni è aumentata di ben 5 punti percentuali (dal 79,3 del 2007 all’84,3% del 2010), quindi i “sacrifici” non si sono scaricati equamente sui diversi capitoli di spesa, ed i detenuti (obtorto collo) devono subire. Così mentre il sovraffollamento ha raggiunto livelli mai visti (in 30 mesi i detenuti sono aumentati di quasi 30 mila unità: dai 39.005 dell’1 gennaio 2007 ai 67.961 del 31 dicembre 2010) e nel 2012 lo “svuota car-ceri” non ha diminuito che di appena una decina d’unità il numero dei reclusi. Ecco che i tagli riguarderebbero proprio i costi di funzionamento delle carceri: acqua, luce, energia elettrica, gas e telefoni, pulizia locali, riscaldamento... Tagli che hanno come conseguenza sporcizia e l’incuria, logicamente passa in secondo piano la cosiddetta “rieducazione”. I dati che abbiamo esaminato ci rivengono dal Centro Studi Ristretti Orizzonti, che ha riassunto i costi carcerari dalla Ragioneria Generale dello Stato, dalla Corte dei Conti e dal ministero della Giustizia (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). I tagli, il rigore di Monti, impone la riduzione di “manutenzione, riparazione, adattamento, ristrutturazione, completamento ed ampliamento degli immobili carcerari e dei relativi impianti”. Nonché il dimezzamento delle “spese per il pagamento dei canoni acqua, luce, energia elettrica, gas e telefoni, conversazioni telefoniche nonché per la pulizia, il riscaldamento ed il condizionamento delle infrastrutture carcerarie”. Le posizioni Una situazione che ha allarmato Felice Belisario, presidente dei Senatori dell’Italia dei Valori, che ha ribattuto al monito del capo dello Stato Giorgio Napolitano. “Intanto, i luoghi di detenzione sono diventati una bomba ad orologeria pronta ad esplodere ogni giorno - afferma Belisario. Purtroppo, la riforma carceraria è stata sempre annunciata, ma mai realizzata. Lo svuota-carceri - insiste - è stato solo un provvedimento inutile, un compromesso al ribasso che non ha risolto nulla. Chi oggi invoca amnistia o indulto fa solo mera propaganda. La realtà è che per risolvere, almeno parzialmente, il problema della popolazione dei detenuti si deve procedere con l’apertura dei nuovi padiglioni, già realizzati, assumendo nel contempo nuovo personale”. Di diverso avviso la deputata radicale Rita Bernardini. “L’amnistia è la sola risposta all’illegalità - afferma la Bernardini -. La situazione che il Presidente Napolitano oggi definisce insostenibile era tale anche a luglio dello scorso anno, quando prese parte al convegno Giustizia: in nome della legge e del popolo sovrano che si tenne presso il Senato. Oggi usa la parola insostenibile e invoca misure straordinarie e strutturali, ma dietro queste parole può esserci di tutto. Il cosiddetto “svuota carceri”, come avevamo previsto, non ha svuotato alcunché, si è anzi registrato un aumento di 500 detenuti in una sola settimana, come fa sapere l’Osapp. Urge la riforma sulla custodia cautelare in carcere, visto che il 42 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio e la metà sarà riconosciuta innocente”. Intanto a metà 2012 il costo della giustizia è lievitato all’1,7 del Pil nazionale. Giustizia: il “problema carceri” continua a far discutere, ma non si trovano soluzioni L’Indro, 17 giugno 2012 Il “problema carceri” è un argomento che continua a far discutere ma al quale non si trovano soluzioni, e lo hanno evidenziato anche all’estero. Lo hanno trovato senza vita nella cella del carcere di Parma dov’era detenuto. Giuseppe Del Monaco, 33 anni è stato trovato senza vita dal suo compagno di cella. I genitori di Giuseppe dopo aver visto la salma hanno sporto una denuncia affermando di aver notato delle macchie sul suo volto. A un primo esame il corpo non presentava segni di violenza. All’esame autoptico è emerso che i segni sul volto sono macchie ipostatiche post-mortem che possono comparire alcune ore dopo il decesso, e non sono quindi in alcun modo riconducibili a condotte violente. Escluso quindi l’omicidio; e anche l’autolesionismo, come l’auto impiccagione. Qui però la faccenda si fa intricata: il medico legale non ha riscontrato neppure i segni di una morte naturale per malore, come il cuore danneggiato dall’infarto o un’emorragia cerebrale. E allora, di cosa è morto Giuseppe? Mistero. Si sa bene, invece, di cosa è morto Maurizio Foresi, 55 anni, autotrasportatore di Civitanova Marche, che il 14 gennaio scorso ha ucciso la moglie polacca Grazia Tarkowska a colpi di pistola; si è ucciso impiccandosi a un termosifone del carcere di Montacuto ad Ancona, dov’era detenuto. Foresi era rinchiuso in una cella della sezione filtro, assieme ad altri tre compagni. Fenomeno senza soste, quello dei suicidi in carcere. Il 2011 si è chiuso con un bollettino nero: 66 suicidi, uno ogni cinque giorni. Il 23 maggio scorso il quotidiano inglese The Guardian, si è chiesto com’è possibile che “nel giro di dieci anni, dal 2002 al 2012, siano morti nelle carceri italiane oltre 2.000 detenuti”. Una situazione che si incancrenisce giorno dopo giorno: nel 2005 il numero dei detenuti era quindi di 60.000 unità oggi superiamo i 66.000. Nel 2005 il numero dei detenuti in attesa di giudizio era del 30 per cento, oggi superiamo il 43,8 per cento. Nel 2005 la sanità carceraria dipendeva dal Sistema Sanitario Penitenziario, nel 2008 è passata al Servizio Sanitario Nazionale portando come da stesse dichiarazioni del personale addetto innumerevoli mancanze di tutela e salvaguardia della salute dei detenuti. Dal 2005 ad oggi migliaia di reati e processi andati in fumo grazie alla prescrizione e veniamo continuamente condannati dalla Corte Europea per la lunghezza dei nostri processi e per la violazione dei diritti umani. Una recente denuncia della Uil svela la crisi che attraversa lo stesso dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Il Dap è sull’orlo del fallimento con un debito di 150 milioni che mette a rischio l’acquisto del vitto per i detenuti. E che costringe direttori e provveditori a mediare con i creditori per garantire l’erogazione di acqua, luce e riscaldamento”. Dal 2005 ad oggi abbiamo continuato a pagare migliaia di soldi pubblici per risarcimenti per ingiusta detenzione, (dopo aver rovinato la vita a migliaia di cittadini). Solo nel 2011 c’è stato un esborso pubblico di 46 milioni di euro. Quasi un anno fa - era il 28 luglio - nella cornice di Palazzo Madama, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano denunciava l’esistenza di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita”. Tre mesi dopo, il 1 ottobre 2011 in visita al carcere napoletano di Nisida, il Capo dello Stato incontra i reclusi del carcere minorile. Alcuni di loro invocano l’amnistia. “Ce ne sono state 24 dal 1945”, risponde Napolitano. “Per farne un’altra ci vuole un accordo politico che allo stato attuale non c’è, non so se si creeranno le condizioni. Il sovraffollamento delle carceri è una vergogna per l’Italia: non sono degne di esseri umani”. 18 maggio 2012: Napolitano lamenta “l’insostenibile” situazione delle carceri italiane. “L’attenzione che Parlamento e Governo pongono ai problemi del carcere induce a confidare che il punto critico insostenibile cui essi sono giunti possa essere superato anche attraverso l’adozione di nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali che coinvolgano tutti gli operatori del settore e in particolare la Polizia Penitenziaria”. Qualche giorno dopo interviene il Ministro della Giustizia Paola Severino: “Le innegabili difficoltà, dice a Montecitorio, non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate”. Sono ormai migliaia le voci di persone autorevoli, che vivono il carcere, dai direttori di penitenziario agli psicologi alle associazioni di volontariato, alle camere penali fino ai famosi giuristi che a gran voce aderiscono alla proposta di Marco Pannella di amnistia. Autorevoli denunce, cui è seguito uno sconcertante nulla: da parte del Governo; da parte delle istituzioni; nulla neppure dallo stesso Presidente della Repubblica: che dopo l’iniziale mossa non è stato conseguente, e anzi autorizza il sospetto di essersi come pentito per quella sua coraggiosa voce dal sen fuggita. Eppure la “prepotente urgenza” di dare sbocco e soluzione alla questione giustizia continua a far discutere. L’ultimo in ordine di tempo ad averla evidenziata è il Wall Street Journal. Nella sua impietosa, ma sostanzialmente esatta e corretta, radiografia dello stato di cose italiane, dei problemi che sono sull’agenda di Mario Monti e del suo governo, il quotidiano statunitense cita la irragionevole lunghezza dei processi: che costituiscono una paralizzante palla al piede, che impedisce - certo non solo, ma anche - il necessario sviluppo e scoraggiano gli investimenti: quelli nazionali che emigrano altrove; e soprattutto quelli esteri, che non nutrono (come dar loro torto?) fiducia nel nostro sistema. Non è una novità, piuttosto una conferma: di quanto sia diffusa consapevolezza, da Seattle a Hong Kong, che uno dei nostri maggiori problemi sia appunto “l’irragionevole durata dei processi” con tutto quello che ne consegue: sia dal punto di vista umano e individuale, di migliaia di persone che devono penare per anni per ottenere giustizia; e dal punto di vista più generale, dello sviluppo che non c’è, che resta al palo. Giustizia: scuola Diaz, la sentenza slitta a luglio di Alessandra Fava Il Manifesto, 17 giugno 2012 G8 La decisione della Cassazione. Il processo dura ormai da 11 anni. Protesta del Comitato: “È una vergogna”. Esultano i poliziotti condannati: “È un buon segnale”. I legali delle vittime: “Rinvio esagerato”. È passato da poco mezzogiorno ed Enrica Bartesaghi, presidente del comitato “Verità e giustizia”, parla al telefonino concitata andando avanti e indietro sui gradini dello scalone, cercando di raggiungere un ragazzo in arrivo a Roma: “La sentenza è stata rinviata al 5 luglio. Non serve a niente venire”. Mark Covell il mediattivista e giornalista inglese finito in coma dopo esser stato massacrato fuori della scuola Diaz pochi minuti prima dell’assalto dentro l’edificio, anche lui al telefonino dice che il presidio delle 20,30 è rimandato a nuova data. Ai giornalisti spiega che, a differenza degli altri manifestanti, lui non ha ancora ricevuto nessun risarcimento per le lesioni ricevute e ora dovrà attendere altro tempo. Davanti al palazzo della Cassazione, enorme e incombente nel suo marmo travertino, ci sono poche vittime dell’assalto alla scuola Diaz avvenuto la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001 a Genova quando il G8 e le proteste erano praticamente finite. Gli avvocati escono alla spicciolata. Quelli dei poliziotti, 25 su 28 furono condannati in appello, non nascondono un certo compiacimento. “Se la corte si prende del tempo per rivedere le carte vuol dire che la sentenza non è scritta”, dice dopo tre ore di arringa Silvio Romanelli, il legale di Vincenzo Canterini, il capo del settimo nucleo, dei capisquadra e di Massimo Nucera, l’agente che sostiene di essere stato accoltellato nella scuola ma condannato per falso in appello. È dopo le tre ore di Romanelli che la presidente Giuliana Ferrua, una piemontese a Roma, ha deciso di sospendere l’udienza e rimandare a dopo l’arringa dell’avvocato Biondi, quella dell’avvocato di Giovanni Luperi, Carlo Di Bugno, al cinque luglio. Covell non si capacita della scelta: “Sono undici anni che sono successi i fatti, hanno avuto mesi per leggere gli atti. Proprio non capisco perché rinviare”. Dopo il colpo di scena del rinvio le incognite si moltiplicano: da un lato i legali della polizia dicono che raramente si percepisce in Cassazione una conoscenza così approfondita degli atti da parte dei magistrati, dall’altra il rinvio appare sospetto ai manifestanti. “Che si voglia abbinare la sentenza della Diaz a quella dei dieci manifestanti accusati di devastazione e saccheggio e magari dare un colpo di spugna a tutto?”, si chiede qualcuno. La speranza degli avvocati della difesa è che i magistrati rivedano le posizioni di alcuni imputati. La legge Pecorella prevede infatti anche che in Cassazione si entri nel merito del processo dei due gradi antecedenti grazie al cosiddetto “travisamento della prova”. “Ad esempio per Nucera la corte d’appello ha scritto che è impossibile la dinamica del fatto interpretando male le parole di Nucera che non si trovava davanti al manifestante ma di lato”, articola Romanelli. Così la corte potrebbe non giudicare solo su aspetti procedurali. Anche se, argomenta un altro legale, il pg chiedendo la conferma delle pene di appello, più di 85 anni per i 25 poliziotti, ha dato un segnale forte alla corte. “Il procuratore generale - spiega l’avvocato di parte civile Emanuele Tambuscio - è stato molto deciso e preciso nel chiedere la conferma della sentenza d’appello. È impossibile fare pronostici perché in primo grado abbiamo avuto una sentenza di un tipo, in appello di un altro ma mi aspetto la conferma delle condanne perché ci sono tutti i presupposti. Se conosco questo Paese - aggiunge Tambuscio- le scuse non arriveranno mai perché avrebbero dovuto arrivare quando i manifestanti sono usciti in barella e il gip non ne ha convalidato gli arresti”. Quanto ai reati l’unico non ancora prescritto è il falso che va a scadenza nel 2014. A questo punto la corte si trova davanti al dilemma se condannare i vertici della polizia e quindi automaticamente comminare la pena accessoria dei cinque anni di sospensione dagli incarichi pubblici - clamoroso visto le carriere folgoranti e in continua ascensione di alcuni - o rimandare gli atti all’appello. Potrebbero anche assolvere Luperi e Gratteri che non firmano materialmente i verbali e condannare gli altri. Oppure tornare alla sentenza di primo grado e condannare Canterini e i quattro capisquadra. Giustizia: trattativa Stato-mafia; scontro tra magistrati per le accuse a Conso di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 giugno 2012 Quando ha saputo dell’accusa mossa all’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso di aver mentito ai magistrati palermitani che indagano sulla cosiddetta trattativa fra Stato emafia, è rimasto “incredulo e preoccupato”. Ci ha pensato un po’, poi ha deciso di diffondere un comunicato per affermare: “Conosco Conso solo per quanto ha fatto nelle sue attività di studioso, per l’esemplare rettitudine con cui ha interpretato, in momenti drammatici, i diversi ruoli istituzionali che gli sono stati assegnati”. Quanto basta per concludere che “queste caratteristiche testimoniate nel corso di una vita al servizio della Repubblica” gli sembrano “assolutamente inconciliabili tanto con la menzogna quanto con l’accettazione di compromessi dettati da una vera o presunta ragion di Stato”. A parlare in questi termini non è un esponente politico, o un amico del novantenne Conso. È il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, pubblico ministero come quelli che hanno inquisito l’ex ministro per “false dichiarazioni”. Rossi è anche un leader storico di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, nelle cui file fu eletto al Csm, ed è stato segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati. Persona non sospettabile di accondiscendenza verso il potere, insomma, titolare di inchieste delicate e importanti come quella sulla Ior. Che non ha esitato a criticare i suoi colleghi (alcuni anch’essi aderenti alla corrente di Md) con un’iniziativa inedita e per certi versi clamorosa. L’ha fatto per evitare, spiega, che “tacendo sui motivi di allarme e di dissenso generati da vicende giudiziarie in corso”, nella sua categoria “rinasca lo spirito di corporazione del passato, contro il quale mi sono sempre battuto”. Di certo è anomalo che un magistrato (peraltro con un ruolo di punta come Rossi) critichi le scelte investigative e processuali di altri magistrati a procedimenti in corso, “senza conoscere le carte”, come si dice. In realtà di quell’indagine si sa tutto o quasi, perché i giornali hanno pubblicato ampi stralci di atti non più segreti; e di fronte all’ipotesi di ingerenza Rossi ricorda che “Magistratura democratica è nata proprio sulle ingerenze”, cioè sul dissenso pubblico rispetto a iniziative giudiziarie giudicate sbagliate. Né lo preoccupano le possibili strumentalizzazioni della sua iniziativa, perché “altrimenti si resta prigionieri del silenzio”, col rischio di avallare qualunque cosa. Ma al di là delle questioni di opportunità, l’intervento di Rossi è destinato a riaccendere divisioni e polemiche su un procedimento che ha messo il naso sui rapporti tra la mafia e la politica, dalle cui conclusioni s’è già dissociato uno dei pubblici ministeri titolari, e del quale il procuratore non ha voluto sottoscrivere l’atto finale. Tra gli inquisiti, per il reato di falsa testimonianza, c’è pure l’ex ministro dell’Interno ed ex vice-presidente del Csm Nicola Mancino, che ancora ieri ha rivendicato la propria correttezza. Agli atti dell’indagine ci sono alcune sue telefonate intercettate negli ultimi mesi, che potrebbero provocare ulteriori diatribe e imbarazzi. Tra i colloqui registrati ce ne sarebbero alcuni in cui Mancino avrebbe sollecitato gli uffici del Quirinale a prendere iniziative a seguito dei contrasti emersi tra le Procure di Palermo e Caltanissetta. Altre conversazioni ci furono con il procuratore generale della Cassazione dell’epoca, titolare dell’azione disciplinare verso i magistrati; lo stesso che, dopo le conclusioni dell’inchiesta-bis sulla strage di via D’Amelio che conteneva giudizi poco lusinghieri sui politici dell’epoca, tra cui Mancino, chiese a Caltanissetta gli atti per esercitare la propria “attività di vigilanza “. Suscitando, anche in quel caso, incredulità e preoccupazione. Gasparri: Ciampi e Mancino dicano verità su cancellazione 41 bis “Le dichiarazioni del consigliere giuridico del Quirinale D’ambrosio non hanno chiarito, ma semmai hanno confuso la situazione. A che titolo Nicola Mancino ha chiesto sostegno per sé e per Scalfaro alla presidenza della Repubblica? La vicenda del carcere duro cancellato nel 1993 e nel 1994 è uno dei capitoli più inquietanti della storia della repubblica. Ho sollevato da tempo il problema. Ma non si vuole fare luce su una storia i cui responsabili a mio avviso sono ben noti. Rinnovo l’appello a Napolitano affinché condivida quell’ansia di verità che tanti esprimono. E Ciampi e Mancino dicano finalmente la verità che ormai emerge dai fatti. La storiella di Conso che fece tutto da solo è una offesa agli italiani”. Lo ha dichiarato il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri. Lazio: la Giunta regionale approva schema accordo per superamento Opg Agi, 17 giugno 2012 Prosegue l’impegno della Regione Lazio per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. La Giunta presieduta da Renata Polverini ha approvato lo schema di accordo tra l’assessorato alla Salute della Regione Lazio e il Ministero di Giustizia, ovvero il Dap-Provveditorato regionale del Lazio, per l’attivazione presso alcuni istituti penitenziari del territorio di una specifica sezione per la tutela della salute mentale dei detenuti, ai fini dell’implementazione della tutela intramuraria. Lo schema d’intesa dà attuazione all’accordo adottato in Conferenza unificata “sull’Integrazione agli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e le Case di Cura e Custodia (Ccc) del 13 ottobre 2011”, già recepito dalla Giunta regionale del Lazio. “Con questo provvedimento - ha spiegato la presidente Renata Polverini - la nostra Regione, già attiva da tempo sul tema, dà seguito al percorso per il superamento degli Opg e per la presa in carico dei nostri residenti, avendo riguardo alla tutela della salute mentale dei detenuti”. La Regione provvederà ad avviare in alcuni istituti penitenziari del Lazio una sezione per la tutela della salute mentale dei detenuti. In base al piano regionale tutte le Asl contribuiranno al processo di chiusura degli Opg e quelle aventi nel loro territorio le case circondariali individuate per l’istituzione delle sezioni saranno coinvolte direttamente, provvedendo all’avvio delle stesse, affinché a partire dal 1 luglio vengano assicurate le osservazioni per l’accertamento dell’infermità psichica. Lo schema di accordo individua in maniera provvisoria e sperimentale il fabbisogno dei posti di osservazione psichiatrica e le sedi degli Istituti penitenziari del Lazio in cui attivarli. Presso la Casa circondariale Nuovo Complesso di Civitavecchia ci saranno 3 nuovi posti dedicati alle donne, alla Casa Circondariale Nuovo Complesso di Rebibbia 6 nuovi posti. Alla Casa circondariale Regina Coeli saranno invece attivati 2 nuovi posti dedicati anche al 41 bis mentre 8 nuovi posti saranno operativi presso la Casa circondariale di Velletri. Vengono infine confermati i 18 posti per minorati psichici alla Casa di reclusione Rebibbia per i minorati psichici. Sardegna: Pili (Pdl); 100 detenuti trasferiti nottetempo nelle carceri affollate della regione Adnkronos, 17 giugno 2012 “Tra ieri sera e stamane oltre 100 detenuti sono stati trasferiti nelle carceri sarde dal resto d’Italia”. La denuncia è del deputato Mauro Pili (Pdl), leader di Unidos, i club delle libertà sardi. “Nessun nuovo carcere è stato aperto e nessun nuovo agente in organico. La situazione è sull’orlo del collasso” dice Pili, che stamane alle 11 ha compiuto una visita ispettiva al carcere di Alghero dove, riferisce, “tra gli altri sbarcati in Sardegna nottetempo, sono stati trasferiti 25 nuovi detenuti”. “Tra ieri sera e stamane oltre 100 detenuti sono stati trasferiti nelle carceri sarde dal resto d’Italia”. La denuncia è del deputato Mauro Pili (Pdl), leader di Unidos, i club delle libertà sardi. “Nessun nuovo carcere è stato aperto e nessun nuovo agente in organico. La situazione è sull’orlo del collasso” dice Pili, che stamane alle 11 ha compiuto una visita ispettiva al carcere di Alghero dove, riferisce, “tra gli altri sbarcati in Sardegna nottetempo, sono stati trasferiti 25 nuovi detenuti”. "La situazione è di allarme generale in Sardegna, perché tra ieri ed oggi sno arrivati nell'isola 100 nuovi detenuti e non c'è stato l'incremento neppure di un agente nella carceri dove sono stati dislocati i detenuti, ovvero ad Alghero 25, 30 ad Is Arenas, in comune di Arbus, e gli altri nel cagliaritano, spiega all'Adnkronos il deputato sardo Mauro Pili (Pdl). "Aggiungo che di tutti gli spostamenti di personale, sardo in particolare, che doveva essere effettuato dai penitenziari del Nord Italia all'isola, non è stato fatto assolutamente niente. E nessun carcere nuovo - prosegue Pili - che il ministro Paola Severino si era impegnata ad aprire, dopo la sua vista, non solo non è stato aperto, ma ha, ben lungi dall'essere risolto, il problema del personale. Tutto il personale che doveva essere spostato in Sardegna dal nord Italia, soprattutto agenti sardi, non è stato spostato. Nessun carcere nuovo - prosegue Pili - che il ministro si era impegnato ad aprire, tre giorni dopo la sua visita in Sardegna, non solo non è stato aperto, ovvero Nuchis a Tempio e Massama ad Oristano. Per fare un carcere nuovo servono anni, per aprirlo - prosegue Pili - servono dipendenti, agenti, personale di polizia, che si mette a disposizione con decreti". E secondo Pili "sono centinaia gli agenti sardi, dislocati nelle carceri del nord Italia, che da decenni attendono di essere trasferiti in Sardegna. La negligenza nella gestione di questa partita - conclude Pili - sta condizionando, in primis, il funzionamento delle strutture carcerarie e vietando poi il trasferimento di questi agenti in Sardegna". Alghero: l’ex Sindaco Tedde preoccupato per la situazione del carcere www.algheronotizie.it, 17 giugno 2012 L’ex sindaco di Alghero, Marco Tedde interviene in merito alla situazione del carcere di Alghero. Per Tedde emergenza affollamento con l’invio del ministero di altri 25 detenuti e la necessità di rafforzamento organico. “Per decenni la casa di pena di Alghero ha rappresentato un esempio virtuoso per l’intero sistema carcerario isolano e non solo, potendo vantare professionalità ed impegno non comuni che hanno fatto del “San Giovanni” un carcere modello”. “Oggi - scrive Tedde - tutto questo rischia seriamente di essere perduto e disperso a causa delle condizioni letteralmente disumane nelle quali gli agenti operano con orari di lavoro massacranti che non consentono la regolare fruizione di ferie e riposi, ed una pressione psicologica difficile da gestire i cui negativi effetti riverberano inevitabilmente anche sulla popolazione carceraria”. “Siamo alla vera e propria emergenza. Il problema del sovraffollamento e dell’organico asfittico - prosegue ancora - rappresentano una triste e pericolosa realtà. Circostanze, queste, denunciate più volte con forza dai Sindacati della Polizia Penitenziaria”. “Ebbene, oggi queste tristi condizioni rischiano di aggravarsi ulteriormente in quanto saranno trasferiti sabato 25 detenuti provenienti dall’Emilia. Per gravi disagi causati dal terremoto è stato disposto un piano di alleggerimento degli istituti penitenziari nelle zone colpite. “Un atto di solidarietà dovuto - tiene a sottolineare Marco Tedde - ma che la struttura carceraria algherese non può affrontare in quanto aumenta a dismisura la popolazione carceraria già eccessiva senza che, nel contempo, venga aumentato l’organico e vengano approntati locali idonei”. “Ciò peggiorerà in modo esponenziale le condizioni lavorative del personale, che già oggi è costretto a lavorare in condizioni di sicurezza di gran lunga lontane da quelle ideali e con un clima che affligge ed appesantisce ulteriormente la sofferenza di chi vive la reclusione”. “Sempre secondo Tedde “è indispensabile che nelle more dell’elezione del nuovo Sindaco il Commissario Ing. Casula invochi un risolutivo intervento del Ministero finalizzato ad un consistente irrobustimento dell’organico impiegato che consenta alla struttura carceraria algherese di continuare a funzionare con i consueti livelli di eccellenza e secondo le capacità, le potenzialità e le professionalità che ancora oggi possiede”. “Diversamente si correrà il rischio che questa situazione emergenziale sfoci in vere e proprie tragedie, con gravissime responsabilità a carico del Ministero che pur conoscendo nel dettaglio la problematica ha omesso negligentemente di intervenire” - chiude la nota. Sassari: visita al nuovo mega-carcere a un passo dalla città, ospiterà 650 detenuti di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 17 giugno 2012 Varcare le alte mura del secondo perimetro è come entrare in una cittadella fortificata. Sebbene i colori terra e il verde che rifiniscono gli edifici siano stati scelti - sembra su indicazione di un magistrato - per ingentilire l’Alcatraz che verrà. Dall’esterno la gru che ancora svetta sul lato sinistro, e poi i tubi, i fili, i sacchi di cemento, i cumuli di polvere sparsi qua e là per gran parte dei 15 ettari dell’area, ingannano. Da fuori, i palazzi che si scorgono oltre il muro di cinta potrebbero sembrare brutti esempi di edilizia popolare. Ma le sbarre alle finestre tradiscono la loro destinazione. Siamo all’interno del cantiere dove entro ottobre - assicurano da Roma Guardasigilli e impresa - apre i battenti il nuovo carcere di Bancali: forte di cemento armato issato per la detenzione di almeno 650 reclusi, 145 dei quali in regime di carcere duro. Numeri che possono oscillare in base alle esigenze, in un range che va dalla capienza regolamentare a quella “tollerabile”. Per avere un’idea di quanto Bancali inciderà sulla cartina giudiziaria dell’isola, basti pensare che al 31 maggio i 12 istituti isolani ospitavano 2.070 detenuti. Il giro all’interno dei cantiere secretato, come tutti i progetti ministeriali che si riferiscono a snodi sensibili per la sicurezza dello Stato, avviene poco prima della visita del ministro della Giustizia Paola Severino, sabato 19 maggio. Nel carcere. A proteggere il complesso e il suo punto nevralgico - il braccio del 41-bis - c’è una doppia barriera, la prima, esterna, circonda anche edifici destinati al personale, direttore e comandanti della polizia penitenziaria. Due palazzine bianche e color mattone, con gli alloggi che ora è il quartier generale della direzione dei lavori, i geometri della “Carceri Sassari Scarl”, società consortile 70% Anemone (quello del G8 di La Maddalena), 30% Igit Impianti di Roma. È qui che planimetrie alla mano si dà impulso alla macchina per far sì che il cantiere venga consegnato al ministero della Giustizia (da quello delle Infrastrutture) quantomeno entro ottobre. Superato il primo livello di protezione - una grata molto fitta - si arriva alla parete di cemento alta quasi cinque metri. L’entrata ufficiale sorge sul lato sud del perimetro, dove ad accogliere i visitatori c’è, sulla sinistra, un blocco basso riservato ai semiliberi, al centro il grande portone con diverse postazioni per i controlli. Attraverso un corridoio coperto si passa dall’ingresso all’area comune, il gigantesco cortile dove affacciano tutti i settori che compongono il penitenziario. A destra, nella palazzina alta due piani, color crema con rifiniture, porte e finestre verde acqua, c’è il settore femminile, praticamente pronto. Sulla stessa direttrice, verso nord, si scorge un caseggiato basso, sembra incassato nella terra. 41-bis. Si vede solo uno scheletro in cemento armato, bucato da aperture senza infissi. Si scorgono i pontili interni: è facile intuire che sia lungi dall’aprire i battenti. Ma è l’opera più complessa di tutto il progetto: 9mila metri quadrati suddivisi in blocchi-alveare: stanze a prova di bomba dotate di sofisticati sistemi di controllo - tutti collegati al cervellone centrale, una specie di stanza dei bottoni circolare dove pochi agenti allungheranno lo sguardo su tutto l’istituto. Ogni detenuto dell’Alta sicurezza vivrà in simil-box realizzati come bunker in miniatura: niente finestre, nessun corridoio o spazi per l’aria in comune, ovviamente. Davanti a ogni alloggio - posti in diverse file - c’è un piccolo cortile coperto, stile villette a schiera. All’epoca in cui il ministro visita Bancali è in fase talmente arretrata da convincere la Severino a sollecitare di andare avanti nei lavori e aprire il carcere senza il 41-bis. L’orientamento sembra proprio essere questo. Lo conferma il segretario regionale Fenea-Uil, Marco Foddai: “Se non sarà aumentato il numero degli operai al lavoro, sarà impossibile completare il 41-bis: servono altre maestranze che possono essere impiegate in quel reparto”, spiega in riferimento ai 60 operai che oggi sono al lavoro. Camere di detenzione. Non celle, ma camere di detenzione. In teoria, le stanze per i reclusi sono tali anche nelle vecchie carceri, solo che un minimo di realismo impedisce di chiamarle così. Nel palazzo a forma di “T” rovesciata che sarà destinato ai detenuti ordinari, sul lato opposto rispetto al 41-bis, il versante nord-ovest, ci sono gli alloggi per i detenuti ordinari. Stanze ampie circa 14 metri quadrati con due letti ciascuna, angolo cottura, bagno con doccia. Manca ancora gran parte degli spartani arredi, ma non dovrebbe essere un problema. Dietro si estendono gli spazi per l’aria e il campo da calcetto. Teatro e chiesa. Tra il reparto “ordinari” e quello destinato ai mafiosi c’è una palazzina bassa, divisa in due. Sulla destra, ha il tetto spiovente e un piccolo portico: è il teatro per i detenuti. Accanto, a sinistra, la chiesetta ha forma circolare e finestre-feritoie. In questi giorni stanno scegliendo statue di santi e Madonne. C’è bisogno di qualcuno cui votarsi per fare in tempo, e consegnare il carcere entro l’autunno. Padova: spunta l’ipotesi di un carcere modello nell’ex seminario di Selvazzano di Marco Ceoletta Il Mattino di Padova, 17 giugno 2012 L’Accademia Galileiana lancia la proposta, con illustri consensi, per il complesso di Tencarola: realizzare una nuovissima “casa di pena”. Si è svolto ieri mattina a Padova, Palazzo Moroni, l’incontro organizzato dalla prestigiosa Accademia Galileiana sul tema “Una nuovissima Casa di pena. Riconversione del seminario minore di Tencarola a fini di recupero dei detenuti”. L’Accademia Galileiana interviene per creare un movimento d’opinione a sostegno della proposta già appoggiata da illustri nomi come Paolo Pavan, presidente del Forum per l’architettura contemporanea, che ha ripercorso la storia del complesso, e Letizia Panajotti, membro dell’Istituto nazionale di bioarchitettura. “Il complesso progettato dall’architetto Oscar De Marchi negli anni 70 è da considerarsi una vera e propria opera d’arte contemporanea”, spiega Pavan. “Il progetto ha caratteristiche uniche dal punto di vista strutturale ed estetico. Pareti perimetrali asimmetriche che rendono l’enorme struttura più armonica e sinuosa, colonne binate di sostegno che s’inseriscono senza appesantire esteticamente la facciate e un disegno simmetrico ma molto alternato delle facciate sono solo alcuni dei particolari degni di nota in quest’opera. Assolutamente da preservare per il suo valore architettonico”. Il progetto comporta il mantenimento degli edifici esistenti, ma si contrappone a quello presentato dall’immobiliare Trifoglio, e ora all’esame dell’amministrazione comunale di Selvazzano, che prevede l’abbattimento dell’ex seminario e la realizzazione di componenti abitative, dirigenziali, commerciali, ricreative e scolastiche. Giuliano Bastianello, ex assessore a Selvazzano e tra i promotori dell’iniziativa, afferma che, grazie al piano carceri, il ministero potrebbe riacquistare dalla Trifoglio l’ex Seminario e con 40 milioni di euro, 10 dei quali all’immobiliare, realizzare un carcere modello per 1000 detenuti con gli stessi costi di quello veneziano adatto a 500 carcerati. Scettico sul progetto della Trifoglio anche l’ex sovrintendente alle Belle Arti Guglielmo Monti: “I lavori previsti per la rivalutazione dell’area dovranno tenere conto dei vincoli ambientali previsti per tutte le opere edili che si realizzino a meno di 150 metri dall’ansa di un fiume. Come in questo caso”. Il professor Ronconi dell’Università di Padova infine ha ricordato che nel carcere Due Palazzi è già attivo un polo universitario che da anni prepara i detenuti, ma anche che l’università ha vincoli precisi in termini di investimenti su costruzioni edili e dunque non può intervenire nella realizzazione di questo progetto. Venezia: arriva da Belluno, la nuova direttrice del carcere maschile La Nuova Venezia, 17 giugno 2012 Dal carcere circondariale maschile di Belluno a quello di Venezia. Immacolata Mannarella, è la neo direttrice dell’istituto penitenziario di Santa Maria Maggiore. Mannarella, di origine lucana, conosce già la realtà penitenziaria lagunare: “Per me è un ritorno. Vent’anni fa svolgevo servizio in qualità di vice direttrice nei tre penitenziari veneziani. All’epoca ricopriva il mio stesso incarico anche Gabriella Straffi, ora alla guida del carcere femminile della Giudecca”. La neo direttrice continua: “A Venezia ho lavorato un anno e mezzo, successivamente sono stata destinata ad altri incarichi in istituti penitenziari”. Numerose sono le problematiche del mondo carcerario, dal sovraffollamento alle carenze di organico e di fondi. Mannarella pone in evidenza l’aspetto umano: “Per definizione il carcere porta un’immagine dura. In realtà la professione che facciamo, in prima linea, ha una dimensione soprattutto umana. Questo contatto quotidiano tra agente e detenuto, che rappresenta l’anima del carcere, spesso viene misconosciuto”. E conclude: “Domenica attendiamo la visita del patriarca Moraglia”. Sassari: detenuto in sciopero della fame, chiede riammissione alla semilibertà La nuova Sardegna, 17 giugno 2012 Un detenuto di 45 anni, Pasquale Concas, ha iniziato lo sciopero della fame e della sete: da lunedì scorso ha perso 5 chili. La protesta attuata dal recluso di San Sebastiano, originario di Tortolì e in carcere per un omicidio risalente al 1994, è stata intrapresa dopo la decisione del tribunale di Sorveglianza di dichiarare inammissibile la sua richiesta di tornare in semilibertà, che gli era stata revocata nel giugno 2011. I giudici della Sorveglianza hanno stabilito che è insuperabile il limite dei tre anni che secondo l’Ordinamento penitenziario devono trascorrere tra la revoca del beneficio e la nuova richiesta. Il difensore del detenuto, Giuseppe Onorato, nell’udienza di fine maggio ha prodotto una sentenza della Corte Costituzionale che chiarisce come la valutazione debba essere fatta caso per caso, non sulla base di automatismi. A questo proposito i giudici di sorveglianza hanno rilevato che Concas non ha “raggiunto un minimo livello di socializzazione”. Concas era in semilibertà da due anni e mezzo (a partire dal 2008): aveva aperto una pizzeria assieme alla fidanzata, con il sostegno finanziario di un conoscente che però aveva precedenti penali. Rapporto che invece era proibito a un detenuto del suo status. Gli assistenti sociali avevano poi rilevato altre violazioni, confluite poi in un rapporto che aveva portato alla revoca della semilibertà, esattamente un anno fa, il 16 giugno 2011. Ma Concas è certo di non aver mai commesso gli errori che gli sono stati attribuiti, ha spiegato al difensore. E la sua compagna, una criminologa che lo aveva conosciuto nel 2005 proprio in carcere, durante un tirocinio, sottolinea come in tanti anni di detenzione lui si sia comportato sempre secondo le regole. L’equipe interna al carcere aveva dato parere positivo alla semilibertà. A dicembre gli era stato concesso di incontrare il suo cane, ma sembra che poi lui ci abbia rinunciato. Ragusa: progetto “Rompete le righe”, per il ritorno del detenuto in società La Sicilia, 17 giugno 2012 Si chiama “Sprigioniamo sapori” ed è una impresa sociale davvero particolare. Ne fanno parte, infatti, anche alcuni detenuti protagonisti del progetto di inclusione sociale “Rompete le righe”. A loro è toccato il compito di arricchire la mensa imbandita nel chiostro di Santa Maria del Gesù a Modica Alta per il momento conclusivo del progetto finanziato dal fondo Sociale europeo e che ha avuto come ente capofila il Consorzio “La Città solidale”. Ma prima di raggiungere Modica, il programma ha previsto un seminario nella sala riunioni della Provincia di Ragusa. Pietro Fina, funzionario dell’Assessorato Regionale della Famiglia, sottolinea la buona riuscita del progetto. “Non sono qui per stilare una classifica - spiega - ma “Rompete le righe” rappresenta uno dei percorsi migliori in Sicilia perché il vero scopo è l’inclusione sociale ed il reinserimento lavorativo dei detenuti”. “Questo progetto - conferma la dottoressa Giovanna Maltese, responsabile della struttura di Modica - ha fornito ai detenuti una competenza e una qualifica che gli potrà consentire di trovare lavoro all’esterno. Attraverso il loro impegno, inoltre, hanno contribuito a migliorare con impianti di riscaldamento e di docce, anche la loro vita in carcere”. “Il progetto - conclude Aurelio Guccione, presidente della “Città solidale” - è il risultato di una grande collaborazione tra più partner. Adesso occorre creare una rete ancora più ampia che coinvolga tutti. Il fatto che da un progetto come il nostro nasca l’idea di costituire una impresa sociale collocata proprio nel carcere di Ragusa, è segno che è possibile spendere bene i fondi europei per costruire un reale e duraturo benessere condiviso”. Augusta (Sr): gli strappa l’orecchio a morsi durante l’ora d’aria La Tribuna di Treviso, 17 giugno 2012 Un detenuto gli ha strappato un orecchio a morsi. Poi gli ha sferrato due pugni in volto fracassandogli la mandibola. È accaduto nel carcere di Augusta in Sicilia, dove era stato trasferito a causa del sovraffollamento a Santa Bona. Ora chiede ti tornare nella casa di circondariale di Treviso dove si sente più al sicuro. Lui si chiama Youssef El Jeddaoui, 27 anni, famiglia marocchina ma nato e cresciuto nel Trevigiano. Un paio di anni fa era finito in carcere per una serie di furti con una condanna di tre anni. Dopo alcuni mesi era però stato trasferito in Sicilia, ad Augusta causa sovraffollamento. Proprio lì un mese fa è stato aggredito a morsi da un detenuto con grossi problemi psichici. È “l’ora d’aria”, Youssef è seduto su una panchina, di spalle rispetto ai bagni. Poi una gomitata improvvisa al collo, un dolore lancinante all’altezza dell’orecchio. L’aggressore gli sferra due pugni ben assestati in pieno volto. I medici hanno stabilito 20 giorni di prognosi. Una volta tornato in cella, Youssef non riesce a mangiare a causa delle fratture. Ora il giovane si trova a Santa Bona per partecipare ad un processo per furto. Ha scritto una lettera al direttore del carcere di Treviso perché lo faccia rimanere qui dove “si sente al sicuro ed è certo che fatti del genere non potrebbero accadere”. A giorni si terrà l’udienza preliminare in cui il suo aggressore dovrà rispondere di lesioni gravissime. L’avvocato di Youssef, Alessandra Nava, ha annunciato che valuterà se vi siano profili di responsabilità anche per la struttura carceraria di Augusta per capire come mai un soggetto con problemi psichici si trovasse con gli altri carcerati e non in isolamento. E perché quell’orecchio brutalmente strappato non sia stato recuperato per poterlo riattaccare. Padova: rissa nella Casa Circondariale tra detenuti nigeriani e albanesi Il Mattino di Padova, 17 giugno 2012 Il 7 giugno scorso nella Casa Circondariale di Padova è scoppiata l’ennesima rissa tra detenuti. Si sono apertamente affrontati durante l’ora d’aria detenuti di origine nigeriana e albanese. La rissa è stata, con fatica e tanta professionalità, sedata senza ricorrere all’uso della forza da parte dei poliziotti penitenziaria, i quali hanno diviso le due fazioni contendenti riportando alla calma. La notizia viene data dalla Funzione pubblica della Cgil. “Ma questa è solo una calma apparente” aggiungono in una nota “La situazione di promiscuità e di conflitto è dovuta alle precarie condizioni di vita all’interno dell’istituto patavino. Allo stato attuale sono presenti 235 detenuti a fronte di una capienza tollerabile di 160. Per i poliziotti penitenziari un numero così elevato di detenuti diventa di difficile controllo e la situazione spesso si trasforma in conflittualità fra diverse etnie. Inoltre i medici specialisti sono pochi per il bisogno di salute della popolazione penitenziaria, seppur vi sono delle direttive regionali in materia di sanità penitenziaria che prevedono una presenza costante di specialisti. Paradossale ed estremamente grave quanto accaduto in questi giorni ad un detenuto. Necessitava di una semplice supposta di glicerina e anziché somministrala direttamente il detenuto è stato inviato con urgenza al pronto soccorso”. Eboli (Sa): progetto “Gli Angeli della Voce”, in collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi di Rita Romano (direttore dell’Icatt di Eboli) Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2012 “Gli Angeli della Voce” è il titolo del nuovo progetto che la casa di Reclusione - Icatt di Eboli sta realizzando in collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi - Centro del libro Parlato. Il Progetto nasce dall’esigenza di coniugare due realtà che, in apparenza non avrebbero punti di contatto se non nella problematicità della loro condizione esistenziale: i detenuti e i non vedenti. I promotori del progetto fortemente convinti che la realtà detentiva vada sempre più attenzionata in termini di positiva e concreta fattività, superando le sterili polemiche sui numeri e sulle statiche, hanno voluto dedicare il loro interessamento soprattutto a quei detenuti più disponibili ad un processo di “rieducazione civile” e proiettati verso un effettivo reinserimento sociale: Questa la ragione della scelta dell’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti di Eboli, da anni impegnato, con la realizzazione di progetti anche di respiro internazionale, nell’ attuazione del mandato di cui all’art. 27 della Costituzione. Il progetto, dunque, si propone di presentare ai detenuti del carcere di Eboli una serie di libri fra i quali scegliere letture su cui dibattere e discutere, in qualche caso anche con la presenza dell’autore, ma soprattutto da leggere, dopo un’accurata preparazione, al fine di registrare con l’aiuto di software e personale specializzato messo a disposizione dal Centro del Libro Parlato dell’ Unione Italiana Ciechi, una serie di “libri parlati”. Il primo libro “recitato” dai detenuti è “Scontro di Civiltà per un ascansore a Piazza Vittorio” di Amara Lakhous: sapiente miscela di satira e di costume nella quale si fondono temi sociali, politici e religiosi di una scottante realtà che spesso tendiamo a rimuovere e i cui 12 personaggi prenderanno vita attraverso le voci dei detenuti. È noto che in Italia esiste il Centro Nazionale del Libro Parlato, servizio Onlus per l’emancipazione culturale e sociale dei non vedenti e degli ipovedenti presso le cui sedi si conservano migliaia di cassette audio e cd rom. In tal modo non vedenti e ipovedenti possono ascoltare libri di ogni genere e disciplina. I detenuti di Eboli, dunque, si sono attivati per prestare la loro voce ed arricchire di nuovi libri parlati la già ricca biblioteca della sede di Napoli. Con questa attività si intende aiutare i detenuti nella crescita dell’autostima e stimolare gli stessi ad attività di solidarietà e soccorso nei confronti di quanti, a vario titolo, possono usufruire anche del loro aiuto, secondo le tematiche della “Giustizia Riparativa e in un riuscitissimo esperimento di totale integrazione tra l’Istituzione Penitenziaria e la società esterna. i “Libri parlati” così ottenuti possono essere di vantaggio anche per quanti siano analfabeti. E perché non auspicare una proficua circolazione di tali libri anche in altre case di detenzione affinché possano usufruirne detenuti analfabeti o stranieri? Le finalità del progetto, fortemente voluto dal direttore Rita Romano, si presentano estremamente valide ed interessanti: attraverso i detenuti, Angeli della Voce, si potrebbe stabilire una rete di contatti utili sia ai diretti fruitori del progetto (ciechi ed ipovedenti) ma anche agli “attori” stessi, consapevoli di poter offrire qualcosa di sé per una giusta causa. Lodi: “I giorni scontati”… il regista Maccioni parla del docu-film girato nel carcere Il Cittadino, 17 giugno 2012 “Non dico tanto, basterebbero quattro giorni in carcere per capire davvero cos’è”. Germano Maccioni, regista bolognese classe 1978, ci ha passato un anno intero. Con la sua macchina da presa è entrato nella casa Casa circondariale di Lodi, istituto modello nel panorama italiano ma che comunque “rimane un carcere”. Ossia un inferno per chi lo visita per la prima volta, ma soprattutto per chi è costretto a scontare la pena in celle di quattro metri per tre. Per tutto il 2011 Maccioni ha filmato ambienti e raccolto storie, sfidando la ritrosia iniziale dei detenuti. Un lavoro lungo e complicato ma che alla fine ha portato alla luce “I giorni scontati”, film-documentario presentato in anteprima lo scorso 26 maggio al Festival Poiesis di Fabriano. L’idea del film è nata da un progetto della facoltà di giurisprudenza dell’Università Bicocca di Milano, subito avallato dalla direttrice del carcere lodigiano Stefania Mussio. La pubblicazione del dvd, prevista per il prossimo autunno, sarà accompagnata anche da un volume curato dalla docente Silvia Buzzelli che verrà utilizzato nel corso di diritto penitenziario dell’ateneo milanese. “Sono stato contattato direttamente dalla direttrice dell’istituto Stefania Mussio che aveva visto il mio precedente lavoro “Lo stato di eccezione”, insieme a Silvia Buzzelli - racconta il regista bolognese. Devo ringraziarla per avermi dato pressoché carta bianca all’interno del carcere”. L’impatto con l’istituto di via Cagnola è stato però traumatico: “Avevo un’idea distorta del carcere: lo consideravo un pianeta staccato dal resto del mondo. Un luogo generico dove finiscono i malfattori, un luogo che non riguarda la stragrande maggioranza della popolazione. Ma dopo un anno di lavoro ho capito che si tratta di un luogo reale, al quale bisognerebbe riservare qualche attenzione in più”. Nessuna spettacolarizzazione, una produzione ridotta all’osso: queste le coordinate lungo le quali si è mosso Maccioni: “Ho voluto utilizzare le celle come primo elemento di rottura: l’impatto brutale di trovarsi in questi spazi minuscoli e sovraffollati produce un effetto immediato sullo spettatore. Ho dovuto conquistare la fiducia dei detenuti. Una volta riuscito ho ristretto il campo e ho inseguito qualche storia. Il carcere di Lodi funziona molto meglio rispetto a parecchi altri istituti: mi premeva raccontare questo luogo dove c’è un impegno maggiore da parte degli operatori, ma che rimane un carcere e dove viverci è comunque molto duro. Ho voluto poi allargare l’esperienza al panorama italiano: mi è venuto in soccorso Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, un referente importante che mi ha aiutato a comprendere meglio la realtà carceraria nel nostro Paese e come poter cambiare le cose”. Ma per molti detenuti, paradossalmente, è meglio la vita in carcere che quella all’esterno: “Il vero problema è il reinserimento, il ricollocamento dell’individuo nella società - continua Maccioni -. Se durante la detenzione non vengono offerti gli strumenti per affrontare un percorso di “riabilitazione”, il carcere diventa un ricettacolo di nuovo crimine. Questo me l’hanno confermato diversi detenuti. In tal senso Lodi rappresenta una felice anomalia e offre diverse occasioni per riflettere sulla propria condizione ed evitare, in futuro, di non commettere di nuovo gli stessi errori”. La realizzazione de I giorni scontati si deve anche alla Fondazione della Banca Popolare di Lodi e all’associazione di volontari lodigiani Alovoc, come precisa la direttrice Stefania Mussio: “Ho molta fiducia in Germano Maccioni, è una persona molto profonda e sensibile. A lui interessa una fotografia realistica della realtà, e io gli ho semplicemente chiesto di fotografare la realtà del carcere. Il film è un’immagine vera, limpida, di ciò che è il carcere oggi. È un documentario di enorme valore culturale. Lodi è una realtà atipica nel panorama italiano: e pur presentando le stesse problematiche e le sofferenze che si vivono nelle altre strutture, mi piaceva che fosse evidenziato anche il grande lavoro degli operatori”. Immigrazione: chiedeva soldi per permessi di soggiorno, Commissario di Polizia a giudizio di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 17 giugno 2012 Era stato arrestato da colleghi con mio dei sospetti ritenuti più infamanti per un funzionario di polizia: aver intascato soldi da stranieri per favorirli nel rilascio di permessi di soggiorno. Il sostituto commissario Carlo Di Pietro, fino all’autunno del 2010 considerato poliziotto irreprensibile in forza al commissariato di Tor Pignattara, ora per quelle accuse si ritrova sotto processo a piazzale Clodio per concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ieri, in aula, davanti alla VII sezione penale collegiale, un funzionario della Squadra Mobile ha spiegato i passi dell’inchiesta che hanno portato proprio alle contestazioni formulate dal pm Maria Letizia Golfìeri. A cominciare da una segnalazione interna arrivata dal commissariato di Tor Pignattara, un ufficio di polizia finito anche nei giorni scorsi in un’altra bufera giudiziaria per altri presunti agenti infedeli: un ispettore e due assistenti finiti in manette l’11 giugno, su richiesta del pm Laura Condemi, per estorsione; per aver chiesto dei soldi a un commerciante dietro la promessa di chiudere un occhio su un giro di droga. A chiamare in aula il funzionario della Mobile che ha sviluppato l’inchiesta sul commissario Di Pietro è stata il pm Golfieri. “Nel 2010 il dirigente del commissariato di Tor Pignattara, il dottor De Santis, ci chiese di indagare su una voce che circolava su un suo funzionario” ha spiegato il testimone, il sub commissario della Mobile Dario Saba. “Ci mettemmo subito al lavoro”. La Mobile così decise di monitorare i permessi, di studiare i tabulati telefonici del poliziotto sospettato e degli stranieri in attesa di regolarizzazione, facendo emergere una serie di contatti. Il risultato: quattro cittadini bengalesi alla fine regolarizzano la denuncia contro il funzionario, che tra l’altro sarebbe ricorso anche a dei personaggi compiacenti per fornire loro un datore di lavoro sulla carta. Sul caso il legale del commissario Di Pietro, l’avvocato Mauro Ariè, però, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. In aula ha incalzato il teste lasciando intendere che si era proceduto a indagare in maniera monodirezionale. La testimonianza dei bengalesi che hanno denunciato gli abusi, invece, è stata rinviata: il giudice vista l’importanza della loro deposizione ha deciso di ascoltarli in presenza di un interprete. È ai primi passi invece l’inchiesta sugli altri tre agenti del commissariato di Tor Pignattara finiti in manette. Ieri intanto all’interrogatorio di garanzia si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Mondo: italiani in carcere all’estero… più di tremila dietro le sbarre di Francesco Semprini La Stampa, 17 giugno 2012 “Tremila centonove connazionali reclusi all’estero. È questo il drammatico quanto sorprendente bilancio dei cittadini di nazionalità italiana rinchiusi negli istituti penitenziari di tanti Paesi sparsi per il mondo. Una vera e propria popolazione carceraria, sul modello di quella esistente entro i confini nazionali, fatta di casi passati in giudicato, talvolta figli di sentenze affrettate e sommarie, e a loro volta motivo di battaglie per la libertà e il diritto a un processo giusto. Ma ci sono anche tante persone in attesa di giudizio, per le quali il carcere preventivo diventa una condanna di fatto. Migliaia di casi, talvolta simili fra loro, altre diversi, che vedono le autorità italiane impegnate in attività delicate e complesse, spesso condotte in riservatezza per tutelarne il buon esito e senza compromettere i rapporti istituzionali”. A scriverne oggi è Francesco Semprini per “La Stampa”, quotidiano diretto a Torino da Mario Calabresi. “È il ministero per gli Affari esteri a gestire la gran parte delle operazioni relative a casi di italiani costretti dietro le sbarre di carceri straniere, attraverso la capillare rete di rappresentanze diplomatiche presenti sul territorio straniero. Questo rientra nei più generali compiti che vedono la Farnesina assistere in senso lato i connazionali fuori dai confini attraverso la Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e il “network” di ambasciate e consolati nel mondo. La sua opera si esplica attraverso la fornitura di certificazioni e servizi, come appunto l’assistenza consolare in caso di incidenti, questioni giudiziarie e casi che riguardano i minori, ovvero sottrazioni internazionali e adozioni. Secondo fonti ben informate, nel 2011 all’attivo del Mae ci sono stati circa settemila interventi diretti di assistenza in favore di italiani all’estero, con uno sforzo che ha visto impegnati funzionari a ogni livello. In questo contesto si inserisce il capitolo dell’assistenza ai connazionali detenuti all’estero, considerato uno degli aspetti “strategici”, per la complessità e l’articolazione dei suoi aspetti. Secondo le ultime rilevazioni interne sono appunto 3.109 i casi di nostri connazionali che si sono trovati alle prese con la giustizia straniera e attualmente in stato detentivo. La mappa della popolazione carceraria vede una indiscussa dominanza dei Paesi del Vecchio continente. Risultano infatti 2.477 gli italiani rinchiusi nei penitenziari europei, ovvero il 79,67 per cento. Segue, a lunga distanza il continente americano nelle cui prigioni si trovano allo stato attuale 483 connazionali, pari al 15,53 per cento. Sono 73 invece quelli detenuti in Asia e Oceania, ossia il 2,34%, a seguire 64 nei Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, pari al 2,05%. Risultano infine 12, ovvero lo 0,38%, gli italiani reclusi nelle carceri di Paesi dell’Africa sub-sahariana. L’assistenza ai connazionali arrestati all’estero si concretizza in una serie di interventi messi in pratica da ambasciata o consolato. Riguardano sia la costante assistenza mediante visite in carcere e il mantenimento dei contatti con la famiglia, sia l’aiuto dal punto di vista legale, che può concretizzarsi nella segnalazione di avvocati e interpreti, nell’erogazione di sussidi o prestiti, sempre in compatibilità con il budget e le risorse finanziarie messe a disposizione delle autorità diplomatiche. L’assistenza inoltre, si esplica agendo in tutti i modi e in tutte le direzione consentiti dall’ordinamento locale, ovvero dalla legge vigente nel posto in cui si trova il connazionale recluso. E ancora intervenendo presso le autorità locali per garantire azioni a tutela dei diritti del cittadino italiano, per ottenere informazioni e, in caso, per sostenere una domanda di grazia per ragioni umanitarie. Infine, qualora il Paese dove è detenuto il connazionale aderisca alla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei carcerati o abbia stretto accordi bilaterali “ad hoc” con lo Stato italiano, il Mae ha facoltà di sostenere l’istanza di trasferimento in Italia presentata dal detenuto. Sono stati diversi i casi di questo genere che si sono verificati in passato che hanno permesso di riportare a casa i detenuti, e nei casi di accertata colpevolezza, facendo scontare loro la pena nelle patrie galere”. Detenuto in Grecia: undici anni in condizioni insostenibili Francesco Stanzione è in carcere in Grecia dal 2001. Tre gradi di giudizio l’hanno ritenuto colpevole di traffico di stupefacenti: 18 anni di condanna. Ma il 58enne, che ha denunciato condizioni di detenzione insostenibili nel penitenziario di Larissa, insiste: “Sono innocente”. Il suo è uno dei tanti casi di cui si occupa l’associazione “Prigionieri del silenzio”, nata dopo l’arresto di Carlo Parlanti, che segue gli italiani detenuti all’estero. Assistono i familiari, trattano con i consolati per “garantire i diritti fondamentali ai detenuti - spiega Francesca Carnicelli, avvocato dell’associazione - come ad esempio avere a disposizione un interprete. Nei primi giorni dopo l’arresto è fondamentale: spesso vengono fatti firmare verbali di confessione in lingue che l’arrestato non conosce”. Stanzione ha richiesto l’applicazione della Convenzione di Strasburgo, ma “la Grecia - continua l’avvocato - si è rifiutata di concedere il suo trasferimento in Italia perché chiede il pagamento di una pena pecuniaria”. Circa 200 mila euro, che la famiglia non è in grado di pagare. Turchia: incendio in una prigione della zona curda, 13 morti e mistero sulle cause www.corriereweb.net, 17 giugno 2012 Un incendio divampato in un dormitorio del carcere di Sanliurfa ha causato la morte di 13 detenuti. Il governatore della regione assicura che non si è trattato di una protesta ma di una rissa. Ignote le cause. La polizia ha usato gas lacrimogeni contro i familiari delle vittime. Tredici detenuti sono morti nella notte tra sabato e domenica nella prigione di Sanliurfa, cittadina del sud-est della Turchia a maggioranza curda. Le autorità hanno reso noto che i decessi sono stati causati da un incendio provocato da alcuni detenuti che hanno dato fuoco ai letti di un dormitorio nell’ambito di una rissa le cui ragioni sono però ancora ignote. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha confermato che il dormitorio, all’interno del quale erano ospitate 18 persone, è stato invaso dalle fiamme e che l’incendio è stato provocato proprio dalle fiamme causate dal falò. Non è ancora chiaro se le cause delle morti siano da attribuire alle inalazioni di fumo o alle ustioni. Le autorità hanno spiegato che 5 dei 18 detenuti che si trovavano nel dormitorio sono stati ricoverati per inalazioni di fumo, ma nessuno di loro è in gravi condizioni. La prigione di Sanliurfa si trova in una zona della Turchia a maggioranza curda e ospita circa mille detenuti. Già in passato in Turchia si erano verificate rivolte nella carceri per protestare contro le pessime condizioni di vita e più volte i detenuti avevano dato vita a gesti simili a quello accaduto nella prigione di Sanliurfa. Il governatore della regione Celalettin Güvenç ha però escluso che in questo caso all’origine dell’incendio ci possa essere una rivolta dei carcerati. Güvenç ha anche rassicurato circa le condizioni di un parlamentare curdo detenuto nel carcere di Sanliurfa perché accusato di avere legami con il Kck e il Pkk, organizzazioni considerate illegali dal governo turco. Il governatore della regione ha anche annunciato che le autorità hanno aperto un’indagine su quanto accaduto, anche per verificare se ci siano stati dei ritardi da parte delle stesse autorità e, in particolare, dei vigili del fuoco. “Perché i vigili del fuoco non sono arrivati in tempo? Che cosa ha causato la rissa? Perché queste persone sono state uccise? Tutto ciò sarà oggetto di indagine”, ha messo in chiaro Güvenç. Anche il primo ministro Erdogan ha annunciato l’apertura di un’indagine volta a verificare se nel dormitorio si trovassero più detenuti di quanti ne potesse effettivamente ospitare. “Il governatore mi ha detto che il dormitorio non aveva spazio sufficiente per contenere 18 persone”, ha detto il leader turco ai giornalisti prima di salire sull’aereo che l’avrebbe condotto a Cancun per il vertice del G20. Intanto, l’agenzia di Stato Anadolu riporta che la polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni contro alcuni manifestanti, tra cui i familiari dei detenuti rimasti uccisi nell’incendio, che cercavano di superare il blocco stradale delle forze dell’ordine allo scopo di raggiungere la prigione di Sanliurfa. Israele: 20 detenuti minorenni palestinesi cominciano lo sciopero della fame ad oltranza Unit Media, 17 giugno 2012 Secondo fonti private del Ministero per gli Affari dei detenuti a Gaza, 20 minori detenuti nel carcere di “Hasharon”, martedì 12 giugno hanno iniziato uno sciopero della fame ad oltranza per protestare contro le difficili condizioni in cui vivono e la mancanza di risposta dalla direzione carceraria alle loro richieste. 17 anni, Ahmed Lafi ha annunciato che 20 prigionieri hanno iniziato la sciopero della fame per protestare contro le condizioni incontrate dai detenuti in questa prigione per i minori e il deterioramento delle loro condizioni di vita. I membri della famiglia non sono autorizzati alle visite, non è permesso loro di studiare, non c’è la lavanderia cosicché debbano lavare i panni a mano. Ha spiegato che l’amministrazione penitenziaria persiste nella tortura e umiliazione dei prigionieri bambini anche dopo la firma dell’accordo fra il Comitato Supremo del direttivo dello sciopero e il servizio carcerario per terminare la Battaglia delle pance vuote, aggiungendo che l’amministrazione penitenziaria mette in isolamento qualsiasi prigioniero che cerchi di rivendicare i propri diritti. Ha anche detto che le celle sono nei sotterranei, i bagni senza porte e vi è mancanza di cibo con una sola ciotola di riso per otto giovani. Inoltre, i prigionieri sono sottoposti a ispezioni e provocazioni effettuate dalla intelligence israeliana. Il Dipartimento delle Prigioni ha anche usato metodi di tortura per estorcere confessioni da questi giovani, violando tutte le convenzioni internazionali che proteggono i diritti dei bambini. Le autorità di occupazione israeliane hanno ancora in mano circa 190 prigionieri sotto i 18 anni di età nelle loro carceri e campi di detenzione, in circostanze analoghe a quelle in cui sono tenuti prigionieri adulti, in termini di trattamento dello spazio, crudeltà, malnutrizione e mancanza di assistenza sanitaria, tale che non vi è distinzione tra il maltrattamento e la crudeltà sui minori e adulti. Gran Bretagna: reality con lo chef Gordon Ramsay, nella cucina del carcere di Brixton Ansa, 17 giugno 2012 Lo chef scozzese, nel suo nuovo reality, insegna a 12 detenuti a cucinare e vendere i loro prodotti. Nella prigione londinese Gordon ha trovato agi e comfort in quantità impensabile, rimanendone sorpreso. Il cinico Gordon Ramsay, il cuoco dal pugno fermo che in Hell’s Kitchen fa tremare gli aspiranti chef, era la persona più indicata per tenere a bada i protagonisti del suo nuovo reality: con il primario intento di far spettacolo, accompagnato da un lodevole impegno sociale, Ramsay insegnerà a 12 detenuti della prigione di Brixton, a Londra, a cucinare e produrre leccornie da vendere in un’azienda tutta loro, i cui ricavati possano riscattare ciò che i carcerati, illegalmente, hanno sottratto alla società con furti e rapine. Un reality apprezzabile negli intenti, che fa però emergere un inatteso quadro delle condizioni di vita nelle carceri inglesi, totalmente opposto a quello italiano. “Neanche un cuoco professionale ha una cucina così attrezzata!”. Una grande sorpresa per Gordon l’entrata nella cucina della prigione di Brixton, super accessoriata e dotata di una fornitura di coltelli, che ha fatto ben pensare ad un sistema di sicurezza che non permettesse ai detenuti con sindromi compulsive di accedervi, dando vita a spiacevoli fenomeni di autolesionismo. I tempi del reality “Gordon Behind Bars” son stati anche ridotti per non intralciare eccessivamente il percorso rieducativo del carcere, anche se a leggere le dichiarazioni di Ramsay, i detenuti inglesi da lui incontrati vivono proprio come pascià: Non pensavo che la vita del detenuto fosse cosi facile, e sono rimasto molto sorpreso dal livello di comfort di cui la prigione è dotata. Ciò mi ha imbarazzato e francamente irritato. Pensavo che la nostra fosse una nazione di lavoratori, ma mi sbagliavo. Queste persone non hanno mostrato nessuno spirito di collaborazione. Già, perché dovrebbero lavorare con me dieci ore al giorno quando è molto piu semplice stare in poltrona davanti alla tv? Un reality come impegno sociale - Al di là delle polemiche, lo scozzese Gordon Ramsay amico di David Beckham, ha portato a termine la registrazione del reality insieme ai 12 detenuti prescelti: le torte composte durante il programma sono state già acquistate dalla catena londinese Caffè Nero e i prodotti cucinati dai carcerati saranno venduti tramite l’azienda a loro collegata, la Bad Boys Bakery, tirata su anche da Gordon Ramsey. Insomma, un bellissimo progetto quello di Channel 4 che manderà in onda il reality dal 26 giugno: speriamo che anche dietro le telecamere e non solo in Inghilterra nascano altri progetti di rieducazione per i detenuti, che in Italia occupano carceri sovraffollate, arrivando per disperazione a compiere gesti estremi. La vita del carcerato cambia da nazione a nazione, the reality! Kazakhstan: arrestato regista Atabaev, per opera teatrale su proteste operai Adnkronos, 17 giugno 2012 Arrestato in Kazakhstan il regista e attivista politico Bolat Atabaev, autore di un opera teatrale che si riferisce indirettamente alle rivendicazioni salariali nella città petrolifera di Zhanaozen concluse lo scorso dicembre con la morte di 16 manifestanti in scontri con la polizia. È stato lo stesso Atabaev, che è stato insignito della medaglia Goethe che dovrebbe essergli conferita il 28 agosto a Weimar, in Germania, per il suo contributo agli scambi fra i teatri tedeschi e kazaki, a denunciare il suo arresto in una telefonata a Radio Europa libera effettuata mentre veniva trasferito al centro di detenzione della commissione per la sicurezza nazionale dove gli è stata confermata l’accusa di “istigazione all’odio sociale”. La piece di Atabaev incriminata era andata in scena lo scorso marzo. In relazione all’uccisione di 16 persone a Zhanaozen, sono stati condannati fra cinque e sette anni di carcere cinque agenti di polizia, fra cui tre di alto rango. In un altro processo contro 37 partecipanti alle proteste che si è concluso la scorsa settimana fra le urla dei familiari degli imputati che non hanno consentito al giudice di terminare la lettura del verdetto, sono stati condannati fra tre e sette anni di carcere in 13.