Giustizia: Diaz e non solo… la tortura che non esiste di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 14 giugno 2012 L’Avvocatura dello Stato ha oggi invitato la Cassazione ad annullare il processo a carico dei venticinque poliziotti e funzionari di polizia condannati in appello per i pestaggi brutali alla Diaz. E non perché andrebbe condannato anche il ventiseiesimo poliziotto, Gianni De Gennaro, o perché i crimini contestati sarebbero troppo poco severi in mancanza della tortura nel codice penale italiano. Sarebbe da rifare perché tutti e venticinque i poliziotti finora coinvolti dovrebbero venire assolti. Non è un bel messaggio verso chi crede nella legalità e nei diritti umani. È il consueto messaggio istituzionale che va nel segno della impunità e immunità dei torturatori. L’Avvocato dello Stato fa quello che gli dice il suo datore di lavoro. Il governo tecnico non si è in questo caso distinto dai precedenti governi politici. Il 26 giugno è la giornata dedicata dall’Onu alle vittime della tortura e quel giorno al Politecnico Fandango di Roma lanceremo la campagna “Chiamiamola tortura”. La tortura non è mai una questione di mele marce. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione di squadre e gruppi speciali. Nel febbraio del 1999 il Guardasigilli Oliviero Diliberto istituisce l’Ugap, Ufficio per la Garanzia Penitenziaria. È una struttura di intelligence a cui è affidato il compito di vigilare sulla sicurezza degli istituti penitenziari. A dirigerla fu chiamato il generale Enrico Ragosa, che proveniva dal Sisde e dai reparti speciali di polizia penitenziaria. Stefano Anastasia, mio predecessore alla presidenza di Antigone, così scrisse su questo giornale: “Creare l’Ugap significa togliere attribuzioni e poteri al direttore del Dap (che allora era Alessandro Margara, ossia un gentiluomo), e indica una strada pericolosa, quella della militarizzazione della polizia penitenziaria”. Tanto che il Corriere della Sera il 31 marzo 1999, a proposito dell’Ugap e della sostituzione al vertice del Dap di Margara con Caselli, scriveva: “Antigone negli ultimi tempi ha finito per avvertire una distanza dal primo Guardasigilli comunista. Soprattutto su un nodo cruciale che viene indicato nella contestata istituzione di un servizio segreto interno al ministero per il controllo dei mafiosi in carcere e di quanti hanno rapporti con loro. Tanto da agevolare il ritorno nei ranghi del ministero di un generale della polizia penitenziaria da qualche tempo in missione speciale: il capo delle guardie, Enrico Ragosa”. L’Ugap ha alle sue dipendenze i Gom, un gruppo speciale di polizia penitenziaria. Passano due anni e, sempre sul manifesto, con Anastasia pubblichiamo un articolo intitolato “L’incontrollabile Gom”. È passata meno di una settimana dai fatti di Genova. Così scrivevamo: “Gom, ovvero Gruppo Operativo Mobile, ovvero corpo speciale di Polizia penitenziaria. Sganciato da ogni controllo, è chiamato a gestire le emergenze, i casi particolari, le situazioni a rischio. E la caserma di Bolzaneto era una di queste”. I Gom erano alle dipendenze dell’Ugap del generale Ragosa. Veniamo al 2012. Margara è rimasto un gentiluomo e fa il Garante dei diritti delle persone private o limitate della libertà in Toscana. Il generale Ragosa è indagato per altri motivi. La tortura non è ancora reato. Antigone il 15 e 16 giugno si sposta ad Asti per la sua assemblea nazionale. Asti è la città dove un giudice non ha potuto condannare un gruppo di agenti torturatori in quanto manca il crimine nel codice penale italiano. Altro che mele marce, quegli agenti definiti torturatori dal giudice sono ancora in servizio. Giustizia: la lunga storia di una legge scomoda, evitata e dimenticata di Susanna Marietti Il Manifesto, 14 giugno 2012 Eppur si muove. La campagna “Chiamiamola tortura”, sottoscritta da 2.500 cittadini, ha rimesso al centro dell’agenda parlamentare il tema dell’introduzione del crimine di tortura nel nostro codice. I sette disegni di legge pendenti al Senato sono stati affidati ad Alberto Balboni (Pdl) e a Felice Casson (Pd). Loro compito è costruire un testo base per dare inizio alla discussione in Commissione Giustizia. In questa legislatura per due volte il tema ha varcato la soglia dell’Aula. A legislatura appena iniziata, quando la senatrice radicale Donatella Poretti presentò un emendamento al pacchetto sicurezza anti-immigrati di Maroni. Il ragionamento era coerente: la sicurezza vale per tutti, anche per chi è in pubblica custodia. Si decise per il voto segreto. I voti di coscienza arrivarono, ma non a sufficienza. L’emendamento fu bocciato per cinque voti. Il ddl poi fu calendarizzato in Aula, ma cadde nel dimenticatoio. In legislature precedenti era successo di peggio, come quando la senatrice leghista Carolina Lussana fece approvare un emendamento che prevedeva la punizione del torturatore solo se avesse torturato almeno due volte. Lo stesso Pdl si vergognò di quel voto e la legge fu abbandonata a se stessa. La tortura è un crimine specifico severamente punito negli stati europei di Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria. Tra i sette ddl vanno distinti quelli che - riprendendo la definizione Onu - ritengono la tortura un delitto proprio, ossia che può esser commesso solo da pubblico ufficiale (Poretti; Della Seta e Amati del Pd) e quelli che lo qualificano come delitto generico, commettibile anche dal privato cittadino, prevedendo nel caso del pubblico ufficiale un’aggravante specifica. “È offensivo per le forze dell’ordine ogni timore nell’introdurre con chiarezza il reato di tortura, perché la fiducia verso chi svolge tale ruolo passa anche attraverso la capacità di distinguere tra chi opera correttamente e chi no”, commenta Mauro Palma, vicepresidente del Consiglio europeo per la cooperazione penalistica del Consiglio d’Europa. “Occorre chiamare col nome di tortura il reato che si vuole perseguire e specificare la sua natura di reato commesso da chi agisce in nome di un mandato affidatogli dalla collettività. I reati che riguardano violenze tra privati, anche se necessitano di pene di ugual misura, hanno una struttura diversa da quelli commessi da chi ha responsabilità pubblica”. E aggiunge Antonio Marchesi, docente di diritto internazionale all’Università di Teramo e in passato presidente della sezione italiana di Amnesty International: “Il rischio di introdurre la tortura come reato generico è quello di snaturarlo, facendolo somigliare ai reati ordinari da cui la logica della Convenzione Onu si propone di tenerlo distinto. E poi ci sono motivazioni ben discutibili: stemperare, perché non sembri che si vogliano criminalizzare le forze di polizia. Nessuno mi convincerà mai che non punire adeguatamente la tortura possa essere nell’interesse delle forze di polizia”. Gli unici a rompere il tradizionale schieramento di partito sono come sempre i radicali. Il loro testo vede anche firme non di centrosinistra, tra cui Ombretta Colli (Pdl) e Adriana Poli Bortone (Io Sud). Il Pd ha presentato varie proposte. L’ultimo disegno di legge in ordine cronologico è di Pietro Marcenaro, presidente della Commissione diritti umani del Senato. Esiste anche una proposta del gruppo Idv e una dei senatori Salvo Fleres e Mario Ferrara (Io Sud). Oltre alla definizione del crimine e alle sanzioni minime e massime previste, il testo base dovrà decidere circa la collocazione sistematica della norma, indicare l’imprescrittibilità del crimine, stabilire se è punibile chi lo commette in territorio estero e se negare a questi l’immunità diplomatica, specificare se (come scrive Di Giovan Paolo, Pd) le dichiarazioni ottenute tramite tortura possano essere usate solo contro i presunti torturatori per determinare le modalità della loro estorsione. Giustizia: Felice Casson (Pd); tortura, un reato già richiesto dalla Costituzione Intervista di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 giugno 2012 Parla Felice Casson (Pd), relatore del ddl sul reato di tortura. Si apre in commissione Giustizia del Senato la discussione sul crimine mancante nel nostro ordinamento giudiziario. Quello che servirebbe per evitare la prescrizione sulle violenze di Genova. Sia pure fuori tempo massimo per dare giustizia alle vittime delle violenze perpetuate dalle forze dell’ordine a Genova, un barlume di speranza si accende però al Senato. Dove la commissione Giustizia, in sede referente, ha finalmente aperto la discussione generale su un disegno di legge che introduce il reato di tortura anche nel nostro ordinamento giudiziario. Non è la prima volta, ma stavolta forse il passo è possibile. Un passo avanti verso l’Europa. La delega a preparare il testo base ce l’ha il democratico Felice Casson, magistrato di lungo corso, accanito sostenitore della necessità di creare una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8 2001, “perché sono convinto che al di là degli accertamenti giudiziari ci siano state responsabilità politiche che vanno messe in chiaro e in evidenza”. Commissione che nessuno vuole, si sa, eppure “nella passata legislatura l’aveva chiesta perfino Francesco Cossiga, segno che quello che abbiamo visto è più che sufficiente per pretendere un accertamento”. È uomo delle istituzioni, Casson, con la bussola fissa verso la “presunzione d’innocenza, un principio di civiltà”, e gli “obblighi giuridici”. Però, riguardo alla nomina dell’ex capo di polizia De Gennaro a sottosegretario ai Servizi segreti, risponde: “Esiste un problema di sensibilità e opportunità politica: se ci sono zone grigie, governo e parlamento ne dovrebbero responsabilmente tenere conto”. Senatore Casson, la convenzione Onu sulla tortura risale al 1984 e l’Italia l’ha ratificata nel 1988. Da allora è rimasta lettera morta, perché? Perché c’è uno scontro molto forte tra culture di destra e di sinistra - non partiti, ma culture sì -, che è venuto fuori in maniera evidente anche in commissione, sulla necessità di tutelare dai comportamenti violenti persone sottoposte a limitazione della libertà personale. Perché c’è un malinteso senso di protezione delle forze dell’ordine, dimenticando che lo spirito fondamentale della Costituzione sta nella tutela della persona e della sua dignità, in qualunque caso e situazione. Va ricordato che nella Carta del 1948 è scritto all’articolo 13, terzo comma: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”. È l’unica sanzione penale che bisognava precisare, sancita costituzionalmente. Ed è rimasta inadempiuta fino ad ora. Su cosa si basa il testo unico da lei messo a punto elaborando i 7 ddl presentati al Senato? Si rifà all’impostazione della convenzione Onu. I punti più delicati riguardano l’impianto della fattispecie di reato. Se configurarlo come delitto contro la libertà personale e morale, oppure come delitto contro la vita e l’incolumità personale. Noi abbiamo preferito inserirlo come articolo 613 bis, cioè come delitto contro la libertà personale e morale perché ha un’accezione anche simbolica più ampia: è la persona nella sua interezza, con tutte le sue libertà, da tutelare, e non solo l’incolumità individuale. Il secondo punto controverso riguarda l’opportunità di considerarlo come “reato proprio del pubblico ufficiale”, oppure come “reato comune”, che può compiere chiunque, con l’aggravante nel caso si tratti di pubblico ufficiale. Contemperando le varie esigenze culturali e politiche abbiamo optato per il reato comune prevedendo per il pubblico ufficiale un’aggravante che si chiama “efficacia indipendente” e che eleva la pena base fissata tra i 3 e i 10 anni a 4-12 anni. Un dato molto importante è che viene contemplata la punizione per l’istigatore del reato e per chi non ottempera all’obbligo giuridico di impedire la tortura. Poi ci sono ovviamente le aggravanti in caso di lesioni gravissime o morte, e sono modulate sul modello del sequestro di persona. Anche se io sono contrario all’ergastolo, comunque è previsto anche questo tipo di pena per chi provoca volontariamente la morte della persona sottoposta a tortura. E sulla prescrizione? Ecco, sulla prescrizione io ho posto il problema ma è un punto che è rimasto interrogativo. Ovviamente con queste pene più lunghe, i tempi di prescrizione si allungano. Chi e perché si oppone in Commissione all’introduzione della fattispecie di reato? Ci sono stati una serie di interventi che contestavano la necessità e l’impostazione del delitto di tortura, per esempio del senatore Giovanardi (“si rischierebbe di sanzionare anche alcuni interrogatori pressanti svolti dalle forze dell’ordine”, dal resoconto della seduta, ndr), di Benedetti Valentini (“Perplessità nella parte in cui si configura quale reato teleologicamente qualificato”, ndr) o dell’ex prefetto Serra (“l’ipotesi di sanzionare colui che cagiona sofferenze psichiche rischierebbe di venire in rilievo anche nel caso di alcuni pressanti interrogatori delle forze dell’ordine”, ndr). C’è un problema delicato di raccordo tra le varie posizioni politiche ma credo che bisogna andare avanti nella discussione e nell’approvazione. A fine mese si potrebbe arrivare al voto sul testo in commissione, poi andrà in Aula. Cercheremo di farlo calendarizzare in tempi brevi perché lo riteniamo una priorità. All’introduzione del reato di tortura è più restio il mondo della giustizia o quello politico? Non credo che la magistratura abbia problemi in questo senso anche perché l’introduzione del reato semplificherebbe determinate situazioni processuali. Credo invece che all’interno delle forze di polizia, ma non da parte di tutti, solo in una certa parte culturale, ci sia la sensazione che l’introduzione del delitto possa essere punitivo, o comunque una sconfessione delle attività passate delle forze di polizia. Penso invece che vada tutelata al massimo la serietà e la professionalità delle forze dell’ordine, che non hanno certo bisogno di ricorrere a questi strumenti medievali. Giustizia: Cpt; sotto osservazione trattamenti di forze ordine a persone private libertà Ansa, 14 giugno 2012 L’Italia è sotto osservazione per il trattamento riservato dalle forze dell’ordine alle persone private della libertà. Per questo questure, caserme dei carabinieri, carceri e ospedali psichiatrici giudiziari sono stati i luoghi visitati dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa in Italia, per oltre 10 giorni, alla fine di maggio. La visita aveva lo scopo di monitorare le misure prese dalle autorità italiane dopo le raccomandazioni del Comitato seguite a precedenti visite. I delegati hanno anche verificato le condizioni delle prigioni e in particolare la situazione dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ma anche gli Opg e quei reparti psichiatrici ospedalieri che accolgono pazienti in trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Nel corso della permanenza in Italia la delegazione ha anche incontrato i ministri della giustizia, Paola Severino, della sanità Renato Balduzzi e rappresentanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. I luoghi visitati sono stati: la questura di Firenze, Messina, Milano, Palermo e Roma; le caserme dei Carabinieri di Messina e Milano, Ponte di Magenta; il Cie di Bologna; gli istituti penitenziari di Bari, Firenze(Sollicciano),Milano(San Vittore), Palermo (Ucciardone), Terni e Vicenza. Inoltre l’opg di Barcellona Pozzo di Gotto e il servizio psichiatrico dell’ospedale di Milazzo. Le osservazioni del comitato saranno prima inviate al governo e poi pubblicate. Il Cpt aveva già annunciato che l’Italia sarebbe stato uno dei 10 Paesi oggetto di una ispezione nel corso del 2012 ma la lista dei luoghi oggetto della visita è arrivata all’Italia, come da prassi, solo qualche giorno prima. Il comitato, inoltre, grazie al suo statuto, può recarsi senza alcun preavviso in qualsiasi luogo perché ha diritto ad un accesso illimitato a tutti i luoghi di detenzione e a parlare riservatamente con chiunque sia privato della libertà. L’ultima missione in Italia del comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti è stata una visita ad hoc avvenuta nel giugno del 2010, dopo il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato e poi morto in circostanze controverse. Giustizia: progetto Second Life “la famiglia è un valore forte per il 98% dei detenuti” Redattore Sociale, 14 giugno 2012 Indagine del progetto Second Life tra i detenuti del Pagliarelli. I rapporti con la famiglia vengono definiti “ottimi” dal 66% degli intervistati. Il 75% prevede che andrà a vivere in famiglia una volta conclusa l’espiazione della pena. La famiglia è un valore ancora molto forte per il 98% di chi ha avuto problemi con la giustizia. È quanto emerso nella giornata di conclusione del progetto “Second Life: un nuovo inizio”, avvenuta questa mattina presso il teatro della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo nell’ambito del convegno su “Ipotesi, tracce e percorsi per un futuro oltre le sbarre, un modello di attività integrate al servizio dei detenuti”. Il progetto è stato realizzato dal Curs in collaborazione con il Centro di accoglienza Padre Nostro Onlus nell’ambito dell’Avviso 2/2009 Fse 2007/2013 Assessorato Regionale Famiglia e Politiche Sociali, unitamente ai rappresentanti del Dipartimento Famiglia e Politiche Sociali, dell’Amministrazione penitenziaria - Prap Sicilia. Il progetto oltre ad avere realizzato due corsi di formazione, uno per operatore per la mediazione culturale e l’altro per addetto alla ristorazione, ha svolto una ricerca conoscitiva sulla possibilità di una “Second Life” per i detenuti. “Un campione della popolazione detenuta presso la casa circondariale Pagliarelli e di soggetti in esecuzione penale esterna - spiega Laura Stallone, psicologa e ricercatrice del progetto - ha raccontato come sarà per loro il domani”. Il campione dell’indagine è stato composto da 60 uomini di cui 30 in esecuzione penale esterna e 30 detenuti presso la casa circondariale Pagliarelli. Il 67% italiani ed il 32% stranieri. La prima parte del questionario è stata dedicata alla definizione dei rapporti familiari. Il 98% degli intervistati afferma di avere rapporti con i familiari e ciò vale sia per gli italiani che per gli stranieri. Rapporti che vengono definiti “ottimi” per il 66% seguito da un 20% di soggetti che invece li definisce “buoni”. Un dato che secondo i ricercatori fa emergere quanto importante e determinante sia il sostegno della rete familiare per il detenuto sia nel suo periodo di detenzione che per il futuro oltre le sbarre. Il 75% degli intervistati prevede, infatti, che andrà a vivere in famiglia una volta conclusa l’espiazione della pena. Per il 61% di loro le persone a cui si rivolgeranno per essere aiutati a vivere nella società una volta tornato libero sono sempre i familiari. La seconda area della ricerca si è concentrata su quella della progettualità. In questo ambito il 59% degli intervistati si aspetta un rientro in società che sarà “né facile né difficile”. In realtà il dato è stato meglio registrato dall’espressione di un detenuto che ha detto: “Non lo sappiamo domani cosa potrà succedere... i dubbi sono tanti. Noi non abbiamo nessuna certezza. A parte la famiglia, niente, non c’è niente”. Per ciò che attiene la conoscenza di eventuali enti o servizi ai quali rivolgersi una volta tornati in libertà, il 71% risponde affermativamente. In particolare, il 42% afferma che si rivolgerebbe alle associazioni di volontariato o comunque al terzo settore, il 32% ai servizi pubblici. Per quanto concerne il tema della recidiva, per il 50% tra gli elementi basilari per contrastare il rientro in carcere c’è l’adattamento ad un nuovo stile di vita seguito dalla ricerca di una occupazione e dall’impegno nel lavoro per il 26%. Nell’area della formazione e del lavoro è emerso che il titolo di studio più frequente posseduto dai soggetti al momento della carcerazione è la licenza media inferiore per il 57%, seguita per il 28% da quella elementare. Il 59% nel corso della sua permanenza in carcere non ha ampliato le sue conoscenze culturali. Alla luce dei dati emerge che la formazione scolastica si mantiene quindi a livelli bassi. Per quanto concerne invece il settore occupazionale che desta loro maggiore interesse di approfondimento si è registrato per il 32% quello della ristorazione e per il 19% quello informatico. “Con il progetto si è voluto proporre un modello di azione condiviso tra operatori pubblici e privati e istituzioni - sottolinea Francesco Melodia, referente del progetto. Solo con un impegno sinergico a più livelli si possono raggiungere i risultati sperati”. “Ringrazio a tutti perché attraverso il progetto avete saputo leggere e tirare fuori le nostre emozioni - dice Roman Daniel un detenuto romeno -. Con il laboratorio abbiamo potuto dimostrare di essere uguali a tutti gli altri. Speriamo che con il contributo vostro qualcuno di noi potrà ritornare nella società”. Giustizia: Anfu; riallineare funzionari Polizia penitenziaria con altri Corpi Adnkronos, 14 giugno 2012 I funzionari di Polizia penitenziaria dovrebbero essere equiparati a livello giuridico-economico ai funzionari degli altri omologhi ruoli della Polizia di Stato e del Corpo Forestale dello Stato. Lo ha detto oggi, nell’incontro con una delegazione dell’Anfu, guidata dal Segretario Nazionale Luca Pasqualoni, il Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Simonetta Matone, che si è impegnata per sostenere il riallineamento del Corpo di Polizia penitenziaria con le altre forze. Lo sottolinea una nota dell’Anfu, Associazione Nazionale Funzionari Polizia Penitenziaria. Il Segretario Nazionale dell’Anfu ha inoltre sottolineato come la perequazione dei funzionari agli altri omologhi ruoli della Polizia di Stato e del Corpo Forestale dello Stato richieda un impegno di spesa piuttosto modesto fronteggiabile con il riordino dei ruoli, tanto da potersi realizzare anche nell’ambito dell’attuale congiuntura politica-economica. Giustizia: trattativa tra Stato e mafia, indagato anche l’ex ministro Conso di Salvo Palazzolo La Repubblica, 14 giugno 2012 Fu l’ex ministro Dc Calogero Mannino ad avviare la trattativa con i vertici di Cosa nostra, all’inizio del 1992, perché temeva di essere ucciso. Poi, sarebbero stati i carabinieri del Ros a proseguire il dialogo segreto fra Stato e mafia, tramite l’ex sindaco Vito Ciancimino. Dopo il 1993, invece, i boss avrebbero avuto un altro referente nei palazzi delle istituzioni: l’attuale senatore Marcello Dell’Utri. Così la Procura di Palermo ricostruisce una delle pagine più buie della storia recente del Paese: dopo quattro anni di indagini, un atto d’accusa di nove pagine, la sintesi di 120 faldoni, chiama in causa dodici persone, per i magistrati sono loro i protagonisti di un patto scellerato che Paolo Borsellino avrebbe scoperto nella sua fase iniziale. Quella trattativa ebbe il suo culmine nel 1994, ne sono convinti il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene: fu allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca “prospettarono al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura”. Così è scritto nell’avviso di chiusura delle indagini. In cima al documento ci sono i nomi dei capimafia: Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e Antonino Cinà. Seguono i nomi di rappresentanti delle istituzioni e di politici: Antonio Subranni, Mario e Giuseppe Donno, all’epoca l’anima del Ros dei carabinieri; Mannino era ministro; Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi. “Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato”, recita l’atto d’accusa fondato sulle indagini della Dia di Palermo, diretta dal colonnello Giuseppe D’Agata. “Hanno agito in concorso con l’allora capo della polizia Parisi e il vice direttore del Dap Di Maggio, deceduti”: loro avrebbero ammorbidito la linea dello Stato contro la mafia, cedendo su centinaia di 41 bis, il carcere duro varato dopo le stragi. L’atto d’accusa della Procura prosegue con il nome dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: “Deponendo al processo Mori - scrivono i pm - anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l’impunità ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva”. I magistrati ritengono che anche l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e l’allora capo del Dap Adalberto Capriotti abbiano mentito: sono indagati per false dichiarazioni ai pm, ma per questo tipo di reato la loro posizione è sospesa, così ordina il codice penale, in attesa della definizione del processo principale. C’è pure Massimo Ciancimino nella lista che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma anche di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Si profila un processo senza precedenti: insieme, i vertici della mafia e dello Stato. Uno dei pm del pool, Paolo Guido, non ha però condiviso la sintesi finale dell’inchiesta, e ha deciso di non firmare l’atto d’accusa. Gasparri (Pdl): su trattativa vogliamo verità, basta censura “Sono mesi che ho puntato l’indice contro Mancino, Conso, Giuliano Amato, Ciampi che, mentre Scalfaro era al Quirinale, furono a mio avviso protagonisti della resa dello Stato alla mafia. In quel tempo, come lo stesso Conso ha ammesso davanti alla Commissione Antimafia, fu cancellato il carcere duro per centinaia e centinaia di boss. Una pagina vergognosa della vita della Repubblica italiana”. Lo dichiara il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri. “Una resa ignominiosa all’indomani delle stragi che sterminarono Falcone, Borsellino e le loro scorte - prosegue. Porto avanti questa battaglia per la verità nella censura generalizzata, perché anche nei giorni scorsi il caso Mancino è stato rapidamente occultato da tutti i mezzi di comunicazione. Il principale responsabile di questa vicenda è stato Oscar Luigi Scalfaro ed il fatto che sia scomparso non ci deve impedire di portare avanti una battaglia di verità. Ma Conso, Mancino, Giuliano Amato e Ciampi sono tutti vivi e consapevoli di quanto avvenne in quel tempo”. “Dobbiamo sapere - conclude - la verità e conoscere sia chi mise lo Stato in ginocchio davanti alle cosche e sia chi invece nella politica, nella magistratura e tra le Forze dell’Ordine ha combattuto i fenomeni criminali, spesso pagando questa scelta coraggiosa con il prezzo della vita. Non molleremo ed esprimo comunque soddisfazione per una seppur tardiva possibilità che emerga una verità, che troppi in vogliono nascondere”. Giustizia: criminali contro l’umanità; disposizioni della Cpi presto operative in Italia di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 14 giugno 2012 Si è vicini all’approvazione delle norme di procedura penale utili a rendere operative in Italia le disposizioni presenti nello Statuto della Corte penale internazionale de L’Aia (Cpi). Il tribunale era nato il 17 luglio del 1998 a Roma per punire su scala universale i crimini contro l’umanità. L’Italia, che aveva prontamente firmato e ratificato lo Statuto per iniziativa dell’allora vicepresidente del Senato Ersilia Salvato, non aveva mai adeguato le norme interne di procedura rendendo così impossibile una collaborazione giudiziaria con la Cpi. Attualmente sono 121 gli Stati che hanno deciso di sottoporsi al giudizio della Corte. Mancano all’appello gli Stati più popolosi o dove i diritti umani sono più a rischio, ossia Cina, Cuba, Iran, Russia, Stati Uniti. Sono sette gli Stati coinvolti in vicende processuali: Uganda, Congo, Sudan per la questione del Darfur, Kenia, Repubblica Centrafricana, Libia, Costa d’Avorio. La Camera dei deputati aveva licenziato lo scorso 8 giugno del 2011 la proposta di legge che conteneva le norme di adattamento alle disposizioni statutarie della Cpi. La Commissione giustizia del Senato ha iniziato finalmente la discussione di quel disegno di legge dovendo porre un limite a una lacuna normativa che si protrae da tredici anni, lacuna fortemente stigmatizzata da Amnesty international e da Non c’è pace senza giustizia. Molti gli emendamenti presentati. Si è deciso di sospenderne l’esame e di procedere all’audizione del primo presidente della Corte di cassazione Ernesto Lupo, del procuratore generale presso la Corte di cassazione Gianfranco Ciani, dell’attuale componente italiano della Cpi Cuno Tarfusser, del membro italiano uscente della Cpi Mauro Politi, del dirigente del dipartimento degli affari giudiziari del ministero della Giustizia Eugenio Selvaggi e di un rappresentante dell’Unione delle camere penali. Il tema che resta di dubbia soluzione procedurale è quello della doppia incriminazione di una persona da parte della Cpi e della giurisdizione italiana. L’articolato in discussione prevede che spetta al ministro della Giustizia curare i rapporti con la Cpi dando seguito in modo riservato alle richieste da lì provenienti, in particolare trasmettendole per l’esecuzione al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma. Sarà poi la Corte d’appello a dare esecuzione alla richiesta con proprio decreto. Può delegare il gip del luogo in cui gli atti devono essere compiuti. C’è solo un caso in cui il ministro della Giustizia può non trasmettere gli atti alla Corte, ossia quando abbia motivo di ritenere che la consegna di determinati atti o documenti possa compromettere la sicurezza nazionale. Una formulazione vaga che mette la real politic davanti alle esigenze di protezione su scala universale dei diritti dell’uomo. Spetta sempre alla Corte d’appello di Roma provvedere con ordinanza, contro cui è ammesso ricorso per Cassazione anche nel merito, alla applicazione della misura cautelare. A seguire si avvierà una procedura per la consegna della persona arrestata alla Cpi. L’Italia mette a disposizione anche le proprie carceri per l’eventuale detenzione di criminali condannati dalla Cpi. Si applicherà solo parzialmente nei loro confronti l’ordinamento penitenziario italiano. Per quanto riguarda infatti i regimi premiali, il differimento e la sospensione della pena, nonché le misure alternative alla detenzione il ministro della Giustizia deve trasmettere alla Cpi la documentazione pertinente. Se la Cpi non ritiene che il condannato possa beneficiare del provvedimento richiesto, il ministro della Giustizia può chiedere alla stessa Corte il trasferimento del condannato in altro Stato. Lettere: le carceri esplodono, servono interventi di Gerardo Villanacci (Università Politecnica delle Marche) Corriere Adriatico, 14 giugno 2012 Nelle prime ore dell’alba dello scorso lunedì 11 giugno si è tolto la vita nel carcere anconetano di Montacuto un detenuto cinquantaquattrenne originario di Civitanova Marche. Si tratta, purtroppo, soltanto dell’ultimo atto dell’interminabile catena di suicidi e di altri episodi di autolesionismo più o meno gravi che si sta consumando nelle nostre carceri con una sistematicità che non può essere più trascurata. Si consideri, in proposito, che nel solo 2011 si sono uccisi nei nostri istituti di pena addirittura 65 detenuti, vale a dire all’incirca uno ogni mille. Questo dato appare idoneo, forse più di altri, a rappresentare con estrema e tragica incisività la situazione drammatica dei penitenziari nostrani, ove ad oggi risultano reclusi approssimativamente 68mila individui, a fronte di una capienza regolamentare che, al massimo, non potrebbe eccedere le 45.817 unità. Un simile tasso di sovraffollamento, secondo i dati resi noti dall’Associazione Antigone, non ha eguali nel resto d’Europa. Nelle carceri italiane, in media, sono recluse 147 persone ogni 100 posti disponibili; non v’è confronto con la media europea (98,4 detenuti ogni 100 posti) e con la situazione dei principali paesi dell’Unione. Il tutto si traduce, ovviamente, in un drastico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria ed in un’inaccettabile negazione delle garanzie costituzionali, in quanto è lecito privare il detenuto della sua libertà personale, ma non della sua dignità di essere umano. In tale ottica, l’individuazione di strumenti idonei a fronteggiare quest’emergenza, che rischia di sconvolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, non può che rappresentare una priorità assoluta per il nostro Stato. Gli interventi di edilizia carceraria più volte preannunciati ma, ad oggi, mai realizzati ed un maggiore utilizzo di strumenti alternativi alla carcerazione rappresentano indubbiamente misure necessarie ma, tuttavia, non sufficienti. La soluzione del problema del sovraffollamento negli istituti di pena non può difatti prescindere da un corretto e più equilibrato ricorso allo strumento della carcerazione preventiva che, al contrario di quanto sistematicamente avviene nel nostro Paese, dovrebbe essere disposta soltanto “quando ogni altra misura risulti inadeguata”, come sancito dall’articolo 275 del codice di procedura penale. Secondo le stime del Ministero della Giustizia, difatti, ad oggi nelle nostre celle sono reclusi ben 28 mila detenuti in attesa di giudizio. In altri termini, attualmente il 42% dell’intera popolazione carceraria è costituito da imputati o indagati che, di fatto, stanno scontando una pena detentiva precedentemente alla condanna, nonostante nel nostro ordinamento non sia dato dubitare della vigenza del principio di presunzione di innocenza. Regione Abruzzo: la Giunta regionale approva misure per curare detenuti affetti da hiv Agenparl, 14 giugno 2012 La Giunta regionale, su proposta dell’assessore alla Prevenzione collettiva, Luigi De Fanis, ha recepito l’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata tre Regioni e Governo, sugli interventi di contrasto all’infezione da Hiv negli Istituti di pena. L’accordo, tra gli altri interventi, contempla a carico del Ssn: azioni stabili e continuative di consulenza infettivologica e multi professionale in tutti gli Istituti di pena, la reiterazione del test di screening Hiv fino ad un tasso di esecuzione di almeno il 60 per cento in ogni Istituto; l’offerta, in caso di accertata sieropositività, di livelli diagnostici non inferiori a quelli offerti esternamente; terapie Arv, distribuzione di farmaci e contolli ematochimici, virologici e immunologici. “In considerazione del fatto che le funzioni sanitarie negli Istituti di pena sono state affidate alle Asl - ha spiegato l’assessore De Fanis, è necessario garantire una serie di azioni volte a superare i principali problemi e le attuali disomogeneità nell’assistenza e cura della persona sieropositiva per Hiv. Nello specifico, l’assistenza dei detenuti con infezioni da Hiv può essere guidata da unità operative di malattie infettive del territorio dove insiste ogni singolo istituto penitenziario”. Molti dei detenuti risultano già affetti da patologie infettive al loro ingresso in carcere. Non può però essere sottovalutata la possibilità che fattori quali l’eccessivo affollamento, l’inadeguatezza delle strutture che si riflette sulla possibilità di osservare correttamene le norme igienico-sanitarie e la carenza di politiche sanitarie realmente efficaci possano favorire la diffusione delle infezioni all’interno degli stessi Istituti. Puglia: Cisl; San Severo, Lucera e Foggia…carceri e sorveglianza dinamica Il Campanile, 14 giugno 2012 La casa di reclusione di San Severo come modello di istituto a custodia attenuata, quella di Lucera come di sorveglianza dinamica, mentre quella di Foggia, super affollata, è inadeguata a contenere i 750 detenuti ospiti. Durante la visita della Cisl Fns, effettuata nel pomeriggio dello scorso 11 giugno 2012 alla presenza del Segretario Nazionale Mattia D’Ambrosio, del segretario Generale Regionale Crescenzio Lumieri, alla Casa Circondariale di San Severo, il segretario generale Provinciale Michele Lanza ha messo in evidenza che “la struttura nonostante risulti particolarmente vecchia è ben tenuta in ter-mini di condizioni igieniche pur alla luce dei tagli sui conti assegnati per la gestione dell’Istituto e strutturali”. La Casa di Reclusione di San Severo, è gestita con un numero di personale esiguo e per tale ragione si attua la sorveglianza dinamica paventata dal capo del dipartimento con la circolare del 30 maggio. Le attuali iniziative preannunciate dal governo che prevedono la chiusura di alcuni Istituti Penitenziari la cui ricettività risulti inferiore a 100 unità comporterà, nell’ipotesi in cui dovesse rigu-ardare anche l’Istituto di San Severo, un grave errore. Il trasferimento dei detenuti negli Istituti di più ampia capacità ricettiva creerà un maggiore sovraffollamento con conseguenti problemi di gestione della sicurezza e della vivibilità delle persone. La suddetta circolare Ministeriale prevede la sorveglianza dinamica, da realizzarsi attraverso un circuito penitenziario aperto al mondo esterno, che determini attività lavorative e culturali da effettuarsi nelle attività lavorative di imprese e di formazione utili all’inserimento nella vita sociale limitando quindi il regime di sicurezza a favore di attività utili a migliorare lo status del soggetto che ha commesso il reato. Il progetto riferito alla sorveglianza dinamica potrebbe essere attuato proprio in questa struttura adeguando il circuito penitenziario con la selezione dei detenuti assegnati, naturalmente l’utilizzo delle strutture già operative e funzionali evitano ulteriori spese allo Stato Italiano. “Il modello organizzativo della struttura e del personale della Polizia Penitenziaria ha la necessità di un coinvolgimento pieno delle parti sociali, affinché i criteri e le caratteristiche di gestione siano regolamentati con la garanzia delle pari opportunità e soprattutto escludano la responsabilità del personale di Polizia Penitenziaria rispetto ad eventi critici con risvolti penali e disciplinari in coerenza ai nuovi principi della sorveglianza dinamica della tipologia dei detenuti”, ha sottolineato Crescenzio Lumieri. Riguardo alla casa circondariale di Lucera, foto a destra, la delegazione ha potuto accertare che la struttura nonostante sia un vecchio convento adattato a carcere risulta essere, comunque, adeguatamente attrezzata a gestire circa 240 detenuti ristretti. L’igiene sul posto di lavoro è abbastanza accettabile seppure carente dei servizi igienici presso le postazioni di lavoro. Molti uffici, soprattutto quegli operativi, denunciano una limitazione di spazio anche se tenuti, sotto il profilo funzionale e dell’immagine, in maniera decente. Le scale d’ingresso ai reparti presentano dei limiti in termini di sicurezza in violazione della normativa prevista dalla 626/94 e 81/2008. Tale condizione esiste in tutti i posti di servizio dell’Istituto. Per quanto concerne il personale si ritiene che lo stesso sia superiore al numero previsto dalla pianta organica nonostante l’anzianità supera i 30 anni di servizio o i 50 anni di età e tale condizione crea notevoli problemi nella gestione e suddivisione dei carichi di lavoro. Nella struttura risultano in organico 6 unità di Polizia Penitenziaria femminile nonostante non ci sia un reparto detentivo femminile. Ovviamente questo personale è ben integrato nei servizi d’Istituto e garantisce le pari opportunità con il personale maschile. Mentre per la Casa Circondariale di Foggia, super affollata, che ad oggi ospita 750 detenuti, a fronte dei 350 previsti dalla capienza tollerabile, la delegazione ha rilevato che il rapporto tra personale e detenuti risulta essere meno di mezzo agente per ogni detenuto. In effetti, le 295 unità previste in organico sono suddivisi in tre o quattro turni di servizio di cui 51 di questi, sono assegnati al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti per le attività del Tribunale, trasferimenti, piantonamenti e visite ambulatoriali. Una gravissima carenza di risorse umane è rilevata presso la sezione femminile. di Foggia, mentre la Cisl Fns evidenzia che presso il carcere di Lucera vi è un congruo numero di agenti donne senza la presenza di un reparto femminile. A tal riguardo la Cisl chiede al Dipartimento i motivi per i quali si verificano tali incresciose situazioni. La situazione igienico-sanitaria della struttura è da ritenersi drammaticamente carente, soprattutto nei servizi igienici del block house e nel reparti denominati “transito ed isolamento” per il quale si chiede nuovamente la chiusura, perché necessita di interventi urgenti e risolutivi. Durante i turni pomeridiani e notturni i 750 detenuti vengono gestiti da un numero di agenti che in alcuni casi è inferiore alla soglia minima di sicurezza, tale circostanza assume rilievo sul piano della sicurezza, in modo negativo. Si denuncia con forza il mancato funzionamento del sistema di anti scavalcamento del muro di cinta, nonostante l’amministrazione penitenziaria e lo Stato hanno investito somme ingenti per razionalizzare le unità di polizia penitenziaria. La domanda della Cisl, rivolta ai vari livelli dell’amministrazione penitenziaria è: “come mai si investono risorse economiche, ed il servizio non garantisce l’efficacia e l’efficienza sperate? “. Altro gravissimo problema che affligge la Casa Circondariale di Foggia, è la mancanza di un reparto per la degenza di detenuti sottoposti a ricoveri, nonostante le promesse dell’Asl in ordine alla ristrutturazione del vecchio reparto utilizzato per i ricoveri. A tutt’oggi detto reparto non è stato ancora restituito alla Polizia Penitenziaria per lo svolgimento del servizio di propria competenza. A causa di ciò i molti ricoveri di detenuti presso la struttura ospedaliera vengono eseguiti nei reparti ordinari, con gravi disagi ai cittadini che risultano ricoverati negli stessi luoghi, con ripercussioni e rischi per la sicurezza pubblica, oltre che sperpero di personale che non è sufficiente alle altre esigenze della struttura penitenziaria. La carenza di Personale crea gravi disagi alla vita quotidiana dei poliziotti e delle loro famiglie. Le ore lavorative giornaliere superano i criteri contrattuali, determinando stress che, aggiunto alle continue aggressioni subite, sta decimando il Personale. Basta verificare le assenze del Personale per malattia e convalescenza. I disagi dovuti ai tagli dei fondi creano invivibilità nella dimensione carceraria, che si ripercuote sui Poliziotti che subiscono, in prima persona, lo stato di malessere prodotto dalla carenza di fondi e dal grave affollamento esistente. Il taglio dei fondi crea gravi problemi strutturali, anche nella sede della Casa Circondariale di Foggia si riscontrano crepe nei cornicioni e nei pilastri delle strutture dovute a probabili infiltrazioni. La Cisl Fns denuncia con forza: “la mancata applicazione della Legge svuota carceri proposta dal Ministro Guardasigilli che prevede la detenzione o gli arresti domiciliari per reati che prevedano una pena residua fino a diciotto mesi e soprattutto gli arrestati per reati del giudice monocratico vengono associati presso la Casa Circondariale, nonostante la norma prevede che il processo per direttissima ed il fermo deve essere effettuato presso le camere di sicurezza delle forze dell’ordine che procedono all’arresto”. Forlì: Alessandrini (Pd); condizioni molto precarie dal punto di vista igienico-sanitario www.forlitoday.it, 14 giugno 2012 La Regione Emilia-Romagna ha presentato la relazione annuale 2011 sulla situazione penitenziaria in regione. Per la prima volta dopo molti anni il numero dei detenuti è in leggero calo: si passa infatti dai 4.373 detenuti del 2010 ai 4.000 del 2011. Di questi, 3.855 sono uomini e 145 le donne mentre sono 2.065 gli stranieri (51% del totale, contro una media nazionale del 36%). “L’impegno economico della Regione nel 2011 è stato significativo, ed è stato accompagnato da un lavoro di rete che ha ulteriormente valorizzato l’impegno delle istituzioni e la collaborazione con il terzo settore e il volontariato. Nonostante questi sforzi e i lievi miglioramenti, tuttavia, il carcere resta ancora in una situazione emergenziale. Il rapporto 2011 - spiega il consigliere regionale Pd Tiziano Alessandrini - ci dice dunque che, affinché venga rispettata la dignità delle persone che devono scontare la propria pena, il Governo deve lavorare ancora, in particolare per quanto riguarda Forlì, dove i lavori per la costruzione del nuovo carcere vanno molto a rilento. Nel carcere attuale di Forlì, infatti, oltre ai problemi legati al sovraffollamento e al sottodimensionamento del personale di sorveglianza, esistono condizioni molto precarie dal punto di vista delle condizioni igienico-sanitarie per via della struttura vecchissima, come dimostrato dalle analisi dell’Asl e da ripetuti interventi delle Istituzioni locali”. “La relazione - sottolinea Alessandrini - ci dice che in Emilia-Romagna i reati contro il patrimonio sono al primo posto (57% ad opera di italiani e 34% di stranieri). I reati contro la persona sono la seconda causa di carcerazione per gli italiani, mentre il 56,5% dei detenuti stranieri è in carcere per reati legati alla droga, contro il 31% dei detenuti italiani. Nonostante il graduale e costante incremento delle misure alternative alla detenzione in carcere (1.263 nel 2011 contro le 804 del 2008) il tasso di sovraffollamento medio rispetto alla capienza regolamentare (2.394) resta superiore al 160%. Nelle strutture di Bologna e Ravenna i detenuti sono più del doppio, mentre nelle carceri di Piacenza, Reggio Emilia, Modena e Ferrara il sovraffollamento va oltre il 170%.” “Rispetto alla posizione giuridica, - prosegue il consigliere regionale - in Emilia-Romagna risultano condannati in via definitiva 2.023 detenuti (50%), mentre il 20% della popolazione carceraria è in attesa del giudizio di primo grado e il 41% è stata condannata in via non definitiva. In carcere lavora il 17% dei detenuti: 654 persone (312 stranieri) sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 31 di imprese o cooperative esterne. I lavori più diffusi sono quelli di tipo domestico anche se vengono svolte altresì altri tipi di attività come la manutenzione degli immobili, del verde e lavori agricoli.” “Nel corso dell’anno la Regione ha destinato 245mila euro al programma carcere, ai quali si somma la quota di cofinanziamento da parte degli Enti locali di 214 mila euro. Inoltre è stato confermato il contributo regionale di 100mila euro, previsto dalla legge regionale n. 3/2008 su “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna”, al quale alcuni Comuni hanno aggiunto una piccola quota di cofinanziamento. Per il progetto Teatro Carcere le risorse regionali sono state pari a 30 mila euro. Sono state inoltre impegnati 21 mila e 500 euro per la prima annualità del progetto “Cittadini Sempre” per la messa in rete del volontariato carcerario. Nel 2011 - sottolinea Alessandrini - sono andati a Forlì 21.457,21 euro di risorse regionali per i progetti sociali in carcere. Nel 2012 andranno 16.348,50 euro”. Trapani: Sappe; muore suicida un agente in servizio a Palermo Ucciardone Comunicato stampa, 14 maggio 2012 “Siamo sgomenti e sconvolti alla notizia di un nuovo suicidio di un appartenente alla Polizia Penitenziaria. Un agente di Polizia Penitenziaria di 35 anni, in servizio nel carcere palermitano dell’Ucciardone, si è infatti suicidato poco fa nella sua abitazione di Trapani . Questa tragedia avviene a pochi mesi dal suicidio di altri appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria a Formia, San Vito al Tagliamento, Battipaglia e Torino. E prima ancora altri tragici casi sono avvenuti a Mamone Lodè, Caltagirone e Viterbo. Nonostante tutte queste tragiche morti l’Amministrazione penitenziaria non ha fatto nulla per creare strutture di supporto psicologico al nostro Personale, quotidianamente impegnato in dure e difficili condizioni tali da determinare l’effetto burn out. Le responsabilità sono chiare. Piangiamo oggi la vittima di un’altra tragedia che ha sconvolto i Baschi Azzurri nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria. Siamo impietriti per questa nuova immane tragedia immane. Ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile dei familiari, degli amici, dei colleghi”. È il commosso commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. Capece aggiunge: “Dal 2000 ad oggi si sono uccisi circa 100 poliziotti penitenziari, 1 direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e 1 dirigente regionale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Da tempo sosteniamo che bisogna comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere. L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi degli scorsi anni - nell’ordine di 10/15 casi in pochi mesi! -, accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Proprio per questo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria assicurò i Sindacati di prestare particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. Ma a tutt’oggi non sono stati colpevolmente attivati questi importanti Centri di ascolto e questa colpevole superficialità su un tema tanto delicato quanto importante è imperdonabile, se in poco tempo tanti appartenenti alla Polizia Penitenziaria si sono tolti la vita. Ed è grave che su un tema tanto delicato quanto il disagio lavorativo dei Baschi Azzurri ci sia così tanta superficialità. Chiediamo alla Ministro della Giustizia Paola Severino di farsi carico in prima persona su questo importante problema, anche chiedendo perché l’Amministrazione Penitenziaria non ha fatto ancora nulla per contrastare il disagio lavorativo dei poliziotti penitenziari nonostante tutte queste morti. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria. Su queste tragedie non possono e non devono esserci colpevoli superficialità o disattenzioni”. Massa: poliziotti penitenziari protestano contro l’apertura di una nuova sezione detentiva Il Tirreno, 14 giugno 2012 Monta la protesta tra gli Agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di Massa. La Direzione Generale delle Risorse Materiali, dei Beni e dei Servizi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha infatti dato disposizione di riaprire, da domani 15 giugno, la sezione detentiva “B”. Un reparto in grado i ospitare circa 100 detenuti. “Alla disposizione non è stata però accompagnata alcun incremento di organico ed ora sono a rischio le ferie degli agenti” denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo di Categoria. “Già da tempo il Reparto di Polizia Penitenziaria del carcere di Massa è di sia di per sé carente e non potrà dunque sicuramente assolvere agli ulteriori e gravosi impegni lavorativi che ne deriveranno, qualora non venisse integrato, da subito, con un’importante assegnazione di Agenti. Nella Casa di Reclusione di Massa, a fronte di una pianta organica prevista di 159 unità di Polizia Penitenziaria, ve ne operano in realtà 125. Aprire un nuovo reparto detentivo in queste condizioni non è affatto possibile. Quel che si rende necessaria, parallelamente all’ormai imminente riattivazione del padiglione, è l’assegnazione di un congruo numero di Agenti al fine di poter garantire ai poliziotti le giuste ed imprescindibili condizioni di sicurezza, oltre al godimento dei diritti soggettivi sanciti dalla normativa contrattuale”. Sulle proteste in carcere, il Sappe ha interessato i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Prefetto di Massa-Carrara, chiedendo loro un rinvio dell’apertura della nuova sezione detentiva fino all’effettivo incremento del Reparto di Polizia Penitenziaria del carcere di Massa con nuove unità. Cassino (Rm): la polizia penitenziaria sventa tentativo di introduzione di droga in carcere Comunicato stampa, 14 giugno 2012 La Polizia Penitenziaria di Cassino ha sventato un tentativo di introduzione di droga all’interno del carcere. Lo rende noto il Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece. Durante una visita ad un congiunto, il nipote, un uomo M.G., napoletano, di 40 anni, è stato arrestato dagli Agenti di Polizia Penitenziaria in quanto durante un controllo di routine dall’agente addetto ai pacchi ,all’interno dell’accappatoio aveva celato n° 24 bussolotti di eroina, circa 20 gr., in un sacchetto portaocchiali e infilato in una delle tasche. Ancora una volta, la perspicacia e la professionalità della Polizia Penitenziaria ha evitato che una quantità non irrilevante di sostanza stupefacente giungesse fino alle sezioni detentive. “Questi episodi” commenta Capece, “oltre a confermare il grado di maturità raggiunto e le elevate doti professionali del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Cassino, ci ricordano che il primo compito della Polizia Penitenziaria è stato, è e rimane quello di garantire la sicurezza dei luoghi di pena e impongono oggi più che mai una seria riflessione sul bilanciamento tra necessità di sicurezza e bisogno di trattamento dei detenuti. Tutti possono immaginare quali e quante conseguenze avrebbe potuto causare l’introduzione di droga in Istituto”. Capece ricorda che la percentuale di tossicodipendenti tra i detenuti è oggi si attesta al 25% delle presenze: uno su quattro, dunque ha problemi di droga: “È allora opportuno agire sul piano del recupero sociale per i detenuti tossicodipendenti, attraverso un circuito penitenziario differenziato che faccia loro scontare la pena nelle Comunità di recupero, ma è altrettanto necessario disporre di adeguate risorse per far fronte alla possibilità che all’interno del carcere entri la droga. Spesso, come ad esempio è avvenuto a Cassino, è la professionalità della Polizia Penitenziaria a consentire di individuare i responsabili e di denunciarli all’autorità giudiziaria, ma ciò non è sufficiente. Ma si può e si deve fare di più per contrastare l’introduzione di stupefacenti in carcere”. Marsala (Tp): ex direttore carcere condannato per rivelazione di segreto d’ufficio La Sicilia, 14 giugno 2012 L’ex direttore del carcere marsalese Nicolò Raimondo, 62 anni, è stato condannato, per rivelazione di segreto d’ufficio, ad un anno e due mesi di reclusione. Con interdizione dai pubblici uffici per un eguale periodo. Ad emettere la sentenza è stato, ieri, il Tribunale (presidente del collegio giudicante Gioacchino Natoli). Secondo l’accusa, scattata a seguito delle dichiarazioni di un paio di agenti di polizia penitenziaria, l’ex direttore del carcere di piazza Castello avrebbe rivelato ad alcuni detenuti che rischiavano di essere trasferiti altrove. Suggerendo loro, inoltre, come evitare di finire in un penitenziario lontano dalla loro città. E cioè partecipando a qualcuno dei progetti attuati per favorire il reinserimento dei carcerati nella società. Epoca dei fatti contestati è quello compreso tra il novembre del 2008 e l’inizio del 2009. Nel corso del processo, la difesa (avvocati Stefano Pellegrino e Luigi Pipitone), nel tentativo di smontare l’accusa, ha chiamato a testimoniare tre ex detenuti (i pregiudicati locali Gaspare Dardo, Ignazio Angelo Angileri e Antonino Raia) e un ispettore di polizia penitenziaria. “Il direttore - affermarono i primi tre - non ci rivelò mai che rischiavamo di essere trasferiti in qualche altro carcere. Noi lo sapevamo perché questo accade ogni qualvolta a Marsala si supera il numero di circa quaranta detenuti”. Le prove in mano all’accusa, però, sono state ritenute superiori. Per un’altra vicenda, il 10 febbraio 2010, il gup Caterina Greco condannò Raimondo a 6 mesi di reclusione per peculato d’uso e falso ideologico. Catanzaro: Sappe; agente penitenziario aggredito da un detenuto Agi, 14 maggio 2012 Ieri sera un agente della polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto ristretto nel carcere di Catanzaro. Lo rende noto il sindacato Sappe. “L’agente - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto e Damiano Bellucci, segretario nazionale - ha dovuto fare ricorso alle cure mediche e gli è stata data una prognosi di 15 giorni. Nel carcere di Siano ci sono circa 570 detenuti, quindi, il sovraffollamento è altissimo; il lavoro della polizia penitenziaria è reso ancora più difficile da questa situazione e dalla carenza di personale. Nel carcere di Catanzaro ci sono anche due sezioni di alta sicurezza (AS1 e AS2) con detenuti condannati anche per gravi fatti di terrorismo, nonché di criminalità organizzata”. “In Calabria - aggiungono i due sindacalisti del Sappe - i detenuti presenti sono circa 3.000, dei quali circa 1.000 appartenenti alla criminalità organizzata, per una capienza di 1.890 posti; 791 sono in attesa di primo giudizio, 349 appellanti, 211 ricorrenti in Cassazione, 101 in posizione mista, in quanto aventi più procedimenti a carico. In totale gli imputati sono 1.452. La difficile situazione esistente nelle carceri calabresi, come in quelle del resto d’Italia, non giustifica in nessun modo gli atti di violenza nei confronti del personale di polizia penitenziaria; chiediamo quindi - concludono Durante e Bellucci - che si proceda disciplinarmente nei confronti del detenuto, oltre, ovviamente, agli eventuali risvolti penali della vicenda”. Iglesias (Ca): detenuto al lavoro esterno scompare, si indaga su evasione ma non solo… La Nuova Sardegna, 14 giugno 2012 Misteriosa scomparsa di un detenuto che era uscito dalla casa circondariale di “Sa Stoia”, a Iglesias, per lavorare all’esterno, così come faceva da qualche tempo. Accompagnato dagli agenti della polizia penitenziaria, Salvatore Lattone, 26 anni di Bono, ha raggiunto la carrozzeria. Solo che, poco dopo, si è allontanato senza fare più ritorno e il titolare dall’officina ha dato l’allarme. Da lunedì mattina, poco dopo le 8.30, il giovane è ricercato per evasione. Le ricerche effettuate a Bono, e anche nella Penisola, dove il giovane ha dei parenti, non hanno dato alcun esito. E c’è anche una preoccupazione: la scomparsa di Salvatore Lattone potrebbe non essere un gesto volontario. Gli investigatori, infatti, non escludono che il detenuto si possa essere allontanato dall’officina per andare all’appuntamento con qualcuno e che durante l’incontro sia accaduta qualcosa di grave, tanto da pregiudicare il ritorno del giovane nell’officina. Per ora si tratta solo di una ipotesi, anche perché Salvatore Lattone - che aveva ottenuto il beneficio del lavoro all’esterno del carcere - non aveva alcun interesse a “bruciare” una opportunità, conquistata a fatica, che gli consentiva tutti i giorni di trascorrere gran parte della giornata fuori dalla struttura carceraria. Si studia anche il fascicolo penale di Salvatore Lattone: diversi gli episodi che l’hanno portato all’attenzione delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria. Una rapina, qualche furto e altri fatti direttamente collegati (compresa una evasione dai domiciliari). Ma l’episodio più grave è sicuramente quello del 2000, quando era ancora minorenne: insieme a altri tre coetanei era stato accusato di avere legato, picchiato e violentato un ragazzo di 16 anni. Una storia squallida, per la quale - nel 2007 - insieme agli altri autori della violenza, Salvatore Lattone era stato condannato a 3 anni e sei mesi di reclusione. Di quel fatto - duramente condannato anche dalla comunità di Bono - non è mai stato cancellato il ricordo. Era stata la madre della vittima a denunciare la violenza e a fare scattare le indagini dei carabinieri che erano poi risaliti ai protagonisti dell’assurda vicenda. Di Salvatore Lattone, dopo qualche altro incidente di percorso (era ai domiciliari ma era stato sorpreso in giro su uno scooter: scappato era riuscito a fare perdere le tracce e il giorno seguente si era presentato spontaneamente al carcere di Mamone), non si era saputo più niente. Si è scoperto solo ora che da qualche tempo aveva ottenuto la possibilità di lavorare all’esterno del carcere, grazie a un percorso di recupero - considerata la giovane età - che lo vedeva quotidianamente impegnato in una carrozzeria. Una situazione apparentemente, tranquilla, senza problemi. Fino a lunedì mattina, quando il giovane è scomparso misteriosamente. Le ricerche finora non hanno dato alcun risultato. Milano: detenuti a scuola di poesia, esce l’antologia di Bollate Redattore Sociale, 14 maggio 2012 Trenta poesie che parlano di amore, affetto e speranza. Presentazione il 16 giugno a Milano. Il laboratorio funziona da sei anni e ci sono continue richieste. I proventi della vendita saranno destinati alle attività in carcere Trenta poesie che parlano di amore, affetto e speranza dalla prospettiva del carcere. Le opere, realizzate dagli “alunni” detenuti e detenute del laboratorio di poesia della casa di reclusione di Bollate (Mi), sono raccolte nell’antologia “Sono i miei occhi” (ed. La vita felice, 80 pagine, 12 euro) che verrà presentata sabato 16 giugno a palazzo Marino. “Il titolo è il primo verso di una poesia di un ragazzo marocchino - spiega Maddalena Capalbi, coordinatrice del progetto insieme alla poetessa Anna Maria Carpi. Il laboratorio funziona da sei anni e ci sono continue richieste: il tema che emerge maggiormente nei versi è la mancanza di affettività, sia famigliare che amorosa”. Alla presentazione interverranno alcuni degli autori delle poesie e il sindaco Giuliano Pisapia, che ha curato la presentazione del volume. Il laboratorio di poesia si tiene ogni sabato dalle 9.30 alle 13 e gli iscritti sono una trentina, tra i 25 e i 64 anni, di cui cinque donne. Provengono da tutti i reparti e una decina hanno origini straniere. “C’è un palestinese, che scrive poesie “impegnate”, su temi politico-sociali, un tunisino, un marocchino, un ragazzo del Senegal e uno del Perù -racconta Capalbi, che è in pensione e fa la volontaria a Bollate, dopo aver lavorato per 35 anni in tribunale-. Solitamente scrivono in italiano, ma a volte li facciamo “poetare” nella lingua madre e poi gli chiediamo di tradurre, perché la poesia ha una musicalità diversa nella propria lingua”. Ogni settimana i “poeti” leggono un proprio componimento in classe, che poi, sotto la guida delle due coordinatrici, viene analizzato e discusso. “Leggiamo anche degli autori contemporanei -aggiunge Capalbi - e a volte invitiamo dei poeti (come Milo De Angelis, Daniela Muti o la poetessa libanese Joumana Haddad, ndr), con i quali apriamo un dibattito”. La difficoltà, sottolinea la coordinatrice, “sta nel conquistare la loro fiducia, ma una volta che si è stabilita la sinergia, i detenuti si aprono e si lavora bene insieme”. Il libro verrà venduto al pubblico presso la “Libreria popolare” di Milano (via Tadino, 18): i proventi saranno destinati alle attività per i detenuti del carcere di Bollate. Lodi: il Vescovo ad operatori carcere; mettere in relazione legge e dignità della persona Il Cittadino, 14 giugno 2012 “Il caro augurio è di continuare il vostro servizio sempre raccordando il rispetto della legge con la dignità della persona”. È l’incoraggiamento del Vescovo di Lodi ad agenti, collaboratori e volontari della casa circondariale di Lodi, incontrati ieri pomeriggio per la visita pastorale. Ad accogliere il Vescovo verso le 16, il direttore del carcere di via Cagnola, Stefania Mussio, il comandante Nicola Colucci e il cappellano don Gigi Gatti. “La ringraziamo perché per la visita pastorale ha scelto di venire in un luogo che non è proprio così comune”, ha salutato Stefania Mussio, mentre Colucci ha sottolineato: “Tra tutti coloro che qui collaborano riscontro la massima apertura, il cercare di conoscere il detenuto che è la cosa primaria, prevista dalle norme, ma anche il dedicarsi con passione al lavoro. Arrivano persone straniere e di differenti culture e la convivenza nelle celle non è scontata. A Lodi poi esiste una realtà di volontariato molto positiva per sostenere quelli che davvero hanno bisogno”. E a proposito di volontariato, il presidente dell’Associazione lodigiana volontariato carceri, Franco Pasquale, volontario alla Cagnola da ben 53 anni, ha illustrato le attività svolte da molti anni: “Facciamo servizio anche di prima accoglienza per persone extracomunitarie o per chi ha le famiglie lontane, fornendo innanzitutto biancheria, kit per l’igiene personale. Alcune signore gestiscono l’armadio con capi di vestiario nuovi e si occupano di seguire l’acquisto delle materie prime per il mercatino dei dolci del giovedì, quando sotto i portici di piazza Broletto alcuni detenuti vendono i prodotti preparati nella cucina del carcere. E oltre a collaborare con il cappellano, diamo una mano alle famiglie che spesso necessitano di pagare l’affitto o le bollette”, ha affermato. E così monsignor Merisi ha incoraggiato il servizio dei volontari, che conoscono le singole situazioni concrete, e quello di agenti, educatori, collaboratori, responsabili. “I maestri dello Spirito dicevano che non ci potrà mai essere una legge nè uno statuto che obblighi un medico a sorridere al paziente. Ciò è valido anche per voi. Nella vostra prestazione professionale mettete al tempo stesso la passione del cuore perché l’attenzione nell’azione educatrice riguardi la professionalità coniugata con la solidarietà”. E dopo il momento di preghiera insieme, ha concluso: “L’augurio più cordiale a voi, alle vostre famiglie e alle persone che dipendono da voi”. Immigrazione: Schifani; carcerati stranieri scontino la pena nei loro Paesi Italpress, 14 maggio 2012 “Dovrebbero essere stipulati accordi bilaterali per fare scontare la pena definitiva nei Paesi di origine dei detenuti stranieri che costituiscono il 36% della popolazione carceraria e che provengono da 149 Paesi diversi”. Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani, nel corso del suo intervento al convegno “Immigrazione: una sfida e una necessità” promosso dal Partito Radicale a Palazzo Giustiniani. “Nel mese di ottobre del 2011 i detenuti stranieri erano circa 24.500 - ha aggiunto - con ua presenza del 50% di condannati a pene definitive. Su quest’ultima percentuale, buona parte della quale risulta proveniente da Marocco, Albania, Romania e Tunisia che assorbono oltre il 50% dell’intera popolazione detenuta straniera, potrebbe essere utile insistere sulla ricerca di accordi internazionali, come ad esempio, aiuti per la predisposizione di piani di assistenza e sostegno sociale in favore di chi deve essere rimpatriato o beneficiare dell’espulsione in alternativa all’esecuzione anche residua della pena nel nostro Paese”. Per il presidente sel Senato “questo consentirebbe di allontanare dall’Italia innanzitutto gli immigrati clandestini che hanno commesso reati. Se i carcerati definitivi stranieri potessero scontare la pena nei loro Paesi di origine - ha inoltre aggiunto Schifani - l’emergenza carceraria del sovraffollamento sarebbe in via di soluzione”. Stati Uniti: l’Unione Americana per le Libertà Civili diffonde ricerca sui detenuti anziani www.iljournal.it, 14 giugno 2012 L’Aclu è l’Unione Americana per le Libertà Civili. Ha da poco pubblicato un rapporto sullo stato dei detenuti anziani nelle prigioni degli Stati Uniti. Il termine anziani, “elderly” in inglese, per l’associazione, comprende i prigionieri dai 55 anni in su. Sono 125 mila in questo momento nelle carceri americane, il 1300 per cento in più dal 1980. Secondo il rapporto ogni detenuto “elder” costa alle casse degli Stati d’America ed al Governo federale circa 68 mila dollari a fronte dei 34 mila che vengono spesi per un detenuto più giovane. Inoltre esistono ampie prove che questi carcerati non rappresentano più un pericolo per la società o in maniera molto lieve. L’Aclu sostiene che senza interventi urgenti nel settore i detenuti over 55 nel 2030 saranno 400 mila ed a quel punto ci sarà un enorme problema per le casse federali e per il budget del sistema penitenziario americano. Perché i detenuti “anziani” necessitano di cure mediche e di altri servizi che costano cifre importanti. Le statistiche elaborate dimostrano che la presenza degli over 55 nelle prigioni Usa non è dovuta ad un esplosione di crimini compiuti da persone in età avanzata ma al fatto che negli anni 80 e 90 le corti di giustizia americane hanno emesso condanne molto severe e spesso non per reati violenti o legati alla droga. Qualche stato, accortosi della gravità del problema ha cercato delle alternative. In Louisiana per esempio nel 2011 è stata approvata una legge che rende più facile per gli over 60 avere accesso alla libertà sulla parola. Infine i numeri evidenziano ancora due cose: la percentuale di reati commessi dagli “elder” dopo il rilascio dalla prigione è molto bassa, mentre alcuni di loro tornano in prigione per violazioni delle leggi sulla libertà sulla parola. Libia: in arresto delegazione Cpi, appello di Rasmussen per la loro scarcerazione Asca, 14 giugno 2012 Il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen ha espresso oggi ‘profondo rammaricò per la detenzione di Melinda Taylor, giunta la scorsa settimana in Libia con una delegazione della Corte penale internazionale e arrestata dopo aver incontrato in carcere Saif al Islam, il figlio dell’ex dittatore Muammar Gheddafi, con l’accusa di aver portato con sé una penna e una macchina fotografica e di aver provato a consegnare a Saif al Islam una lettera in codice di Mohammed Ismail, attualmente ricercato. ‘Accolgo con grande rammarico che la delegazione della Cpi sia stata arrestata, invitò le autorità di Tripoli a liberare tutte le persone coinvolte il più presto possibile, ha detto Rasmussen, lamentando che il nuovo governo libico subentrato al regime di Gheddafi ‘non sta cooperando in modo positivo sulla vicenda con la Corte internazionale”. Tunisia: ergastolo ad ex presidente Ben Ali, per repressione a Thala e Kasserine Aki, 14 giugno 2012 L’ex presidente tunisino, Zin el-Abidin Ben Ali, è stato condannato all’ergastolo dal tribunale militare di Tunisi per la repressione ordinata durante la rivoluzione dello scorso anno nelle città di Thala e Kasserine. Lo riferisce l’agenzia di stampa tunisina “Tpa”. Nell’ambito dello stesso processo è stato condannato anche l’ex ministro dell’Interno, Belhaj Qasem, a 10 anni di carcere. Nella mattinata lo stesso tribunale lo aveva condannato a 20 anni di carcere per la repressione ordinata a Ouardanine dove sono morti 4 giovani. Ben Ali si trova in Arabia Saudita dove è fuggito nel gennaio dello scorso anno, mentre era in corso la rivoluzione nel suo paese. Tibet: monaco muore in carcere dopo torture, arrestato per manifesti indipendentisti Adnkronos, 14 giugno 2012 Un monaco tibetano è morto in carcere dopo essere stato picchiato e torturato dalla polizia cinese che l’aveva arrestato con l’accusa di aver affisso alcuni manifesti inneggianti all’indipendenza del Tibet. A denunciare l’accaduto è Radio Free Asia, emittente radiofonica con sede negli Stati Uniti che ha raccontato la vicenda di Khawang, un monaco tibetano 32enne morto nel carcere di Nyagrong dove era recluso da maggio. “La polizia ha usato la forza per fargli ammettere di essere stato lui il responsabile dell’affissione dei manifesti”, ha raccontato alla radio Yeshe Sangpo, del governo tibetano in esilio. “L’Unione Europea è preoccupata dal deteriorarsi della situazione in Tibet”, aveva dichiarato martedì l’Alto Rappresentante della politica estera europea, Catherine Ashton, che ha mostrato la sua preoccupazione soprattutto per gli arresti di massa, dopo le auto-immolazioni di due uomini e una donna che si sono dati fuoco davanti ad alcuni importanti monasteri di Lhasa a fine maggio. A causa di tali eventi le autorità cinesi hanno rafforzato le misure di sicurezza in Tibet. Bahrein: medici condannati per avere curato rivoltosi, pene ridotte in appello Ansa, 14 giugno 2012 La Corte d’Appello del Bahrein ha condannato nove medici per il ruolo svolto durante la rivolta popolare del febbraio-marzo 2011 e ha assolto altri nove imputati tra medici e personale sanitario dell’ospedale di Salmanya, nella capitale Manama. Le pene variano da un mese a cinque anni di reclusione. I medici erano stati originariamente processati da un tribunale militare, ma le proteste sorte in seguito alle sentenze inflitte e l’attenzione internazionale rivolta al caso, avevano indotto il procuratore generale dell’emirato petrolifero ad indire un nuovo processo, questa volta presso un tribunale civile. Al termine del primo dibattimento, lo scorso ottobre, i medici erano stati condannati a pene detentive tra i cinque e i 15 anni di carcere.