Quei colloqui con i propri familiari che il carcere svuota di ogni umanità Il Mattino di Padova, 11 giugno 2012 Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha sollevato, di recente, un’eccezione di incostituzionalità sul secondo comma dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario. Questa norma impone la sorveglianza a vista durante i colloqui tra detenuti e familiari da parte della polizia penitenziaria: non esiste, infatti, nel nostro Paese la possibilità che le famiglie possano incontrare i propri cari in carcere con un po’ di intimità, senza essere guardati a vista, come avviene invece un po’ ovunque, dalla Svizzera alla Spagna alla Russia e perfino in Albania. Alla luce dell’eccezione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di sorveglianza, ora questa norma potrebbe essere cancellata per sempre dalla Corte Costituzionale. Una norma che lede il principio di uguaglianza e non rispetta il principio secondo cui la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Perché oggi i colloqui in carcere di umanità ne hanno pochissima, come raccontano le testimonianze di persone detenute, costrette a far subire ai figli e ai genitori le tante umiliazioni e sofferenze della galera. Qui ci privano anche della libertà dì affetto Mi torna in mente il mio passato ogni volta che vedo mia figlia che viene a trovarmi in carcere da quando aveva due anni, e adesso ne ha sette come ne avevo anche io quando andavo a trovare mio padre in carcere in Perù. Solo che nel mio Paese c’è più libertà per i familiari che hanno un parente carcerato, lo non vedevo l’ora dì tornare a trovare mio papà, con lui mi sentivo più al sicuro perché lui mi riempiva il cuore di quell’amore che mi mancava quando non era accanto a me. Sono passati diciotto anni e ora sono padre di due bambine, delle quali una è lontana e non ha la possibilità di venire a trovarmi, ma la più piccola vive qui con sua mamma e ogni mese percorrono con il treno quattrocento chilometri per venire a trovarmi. E non basta solo il viaggio, perché devono anche attendere davanti al carcere parecchio tempo prima che le facciano entrare a colloquio, e l’attesa è all’aperto anche se c’è un temporale o la neve. Una volta entrate devono subire l’umiliazione di essere spogliate e perquisite dagli agenti, e ogni volta mia figlia mi chiede: “Papà, perché ci spogliano quando veniamo a trovarti?”. Fino a due mesi fa ho sempre trovato una scusa, cioè le ho mentito, ma poi mi sono accorto che mia figlia ha capito che mi trovo in carcere e ora non so come devo affrontare questa situazione in modo più positivo. Anche se il sistema penitenziario italiano non ci permette di coltivare gli affetti in modo più libero, ogni volta che vedo mia figlia rivivo i momenti che ho passato io da bambino, solo che io ho avuto più tempo per stare con mio padre e potevo farlo quando volevo, invece qui in Italia non c’è questa possibilità perché tutto è limitato e sei sempre sotto sorveglianza. Questo non ti permette di trasmettere quell’affetto che da genitore senti nel profondo del cuore. Miguel Alla fine dell’incontro solo rabbia e amarezza Sono un detenuto moldavo, sto scontando la mia pena da oltre cinque anni nelle carceri italiane. in questi anni ho sentito dire tante volte che i familiari dei detenuti non hanno colpe e vanno trattati con umanità, ma con il tempo mi sono accorto che la realtà è tutt’altra. In questi lunghi cinque anni è stato davvero difficile mantenere saldi i legami con la mia famiglia, perché delle misere sei ore mensili di colloquio previste, una persona straniera deve fare i conti con la lunga distanza e quindi non ha nemmeno la garanzia di poterle effettuare tutti i mesi. D’altronde la mia famiglia farebbe anche dei sacrifici per venirmi a fare visita molto spesso, ma sono io che non voglio, conoscendo le modalità con cui si effettuano ì colloqui. Si possono incontrare i propri cari in una saletta con tantissime altre famiglie, dove il continuo accavallarsi di voci non ti permette di capire nulla e non ti dà neppure modo di potergli esprimere i tuoi reali stati d’animo. Ecco il motivo per cui io cerco sempre di farli venire il meno possibile, perché alla fine del colloquio il mio stato emotivo è pieno di rabbia e amarezza. Alla luce di questo ho chiesto di poter scontare la pena nel mio paese di origine, nonostante sia consapevole che la vita carceraria lì è molto più dura di quella italiana, ma in cambio ho la garanzia che i familiari dei detenuti vengono trattati in modo migliore di quello che succede in Italia. In Moldavia infatti ti permettono di vivere i colloqui con loro in una saletta da soli, senza telecamere e poliziotti che stiano lì ogni istante a guardarti ed impedirti di dare una carezza o un abbraccio in più. Quindi preferisco subire io la rigidità delle regole carcerarie del mio Paese e riservare alla mia famiglia un trattamento più umano e dignitoso di quello che subiscono nelle carceri italiane, avendo come unica colpa quella di amare il proprio caro e seguirlo in carcere. Igor Munteanu Vedere i propri figli esausti per l’attesa Molto spesso si sente parlare degli affetti in carcere e di quanto sia importante coltivarli, anche per un futuro progetto di reinserimento. Ma poi, con il tempo, ti accorgi come le cose scritte sull’Ordinamento penitenziario in merito all’importanza degli affetti sono in netta contraddizione con le modalità che gli istituti di pena adottano per permetterti di mantenere vivi i rapporti con i tuoi cari. Attualmente negli istituti italiani “migliori” il massimo che puoi ottenere per non distruggere il rapporto con la tua compagna e con i tuoi figli si racchiude in una telefonata di dieci minuti la settimana e sei ore di colloquio mensili. Il dramma però non sta semplicemente nel poco tempo che hai per stare con loro, ma nella qualità di quel tempo. Come si può riuscire a comunicare in modo sincero e intimo quando si è in una saletta con altre dieci famiglie, se si è fortunati, e il mescolarsi delle voci fa assomigliare quel posto più ad un mercato che a un luogo di comunicazione? Senza dimenticarci del le svariate telecamere che continuamente ti seguono con la loro “discrezione”, ma solo apparente. perché a toglierti ogni idea di sfuggire a un controllo pressante ci pensano cinque agenti che dietro a un vetro trasparente non ti tolgono gli occhi di dosso nemmeno per un istante, con la conseguenza che quando vuoi dire una parola di tenerezza alla tua compagna, lo fai mettendo le mani davanti per paura che dal labiale possa essere letta la tua frase e quindi violata la tua intimità. Per quando riguarda i figli, soprattutto quelli in tenera età, ti accorgi che quando arrivano sono esausti dalla lunga attesa che hanno dovuto fare all’ingresso per poter entrare, per poi ritrovarsi per tutto il tempo del colloquio senza poter avere nemmeno un gioco con cui giocare con il proprio papà, con la conseguenza che dopo un po’, se pure a malincuore, non vedono l’ora di tornarsene a casa. Allora mi chiedo come si può mantenere un rapporto da marito e da genitore in questo clima, come si fa a trovare lo stato d’animo giusto magari per riuscire a dire la verità, ai propri figli, sugli errori che ci hanno portato in carcere, e quindi iniziare a prendersi le proprie responsabilità? Semplicemente non lo si fa. si rimanda a un futuro prossimo, con la conseguenza che quando uscirai ti troverai a fare rientro in casa e a non conoscere nulla né dei tuoi figli né della tua compagna. Questo per i più fortunati, perché molto spesso dopo aver vissuto questo tipo di rapporto con il tempo una famiglia non latravi più. lo penso che si dovrebbe fare una lunga riflessione e capire che quando i detenuti avanzano la proposta di vivere un colloquio intimo, come avviene nella maggior parte dei paesi europei, non significa che vogliono avere colloqui “a luci rosse” come più volte in modo distorto viene raccontato, ma è un modo per riuscire a vivere un minimo di umanità e dolcezza con i propri familiari. Luigi Guida Giustizia: amnistia ora e subito, basta ipocrisie e slogan populisti conditi dal nulla di Valeria Centorame Notizie Radicali, 11 giugno 2012 “Nulla è più semplice che tirare fuori espressioni e notazioni per flussioni e infinitesimali... ma se rimuoviamo il velo e guardiamo dietro, se, lasciando da parte le espressioni, ci mettiamo attentamente a considerare le cose stesse che si suppone siano da esse espresse o contrassegnate, scopriremo il vuoto, il buio e la confusione; anzi, se non mi sbaglio, impossibilità e contraddizioni dirette.” George Berkeley A chi si oppone alla proposta di amnistia di Pannella e dei radicali come unico provvedimento in grado di deflazionare lo stato di ingiustizia italiano, si potrebbe argomentare di contro con i numeri del costo annuo della nostra ingiustizia. Numeri da capogiro, con una spesa pubblica complessiva per tribunali e procure che supera i 7,5 miliardi di euro, la seconda più alta in termini pro-capite in Europa, dopo la Germania. Numeri di cause civili e penali pendenti, che bloccano di fatto gli investimenti esteri nel nostro Paese e che già solo per questo dovrebbero essere al centro dell’agenda politica di un governo tecnico che si propone di pensare alla crescita. Si potrebbe argomentare parlando della famigerata “amnistia di classe” ovvero prescrizione, che viene sapientemente utilizzata da chi può pagare bravi avvocati mentre in carcere di fatto rimane chi spesso neanche vi sarebbe dovuto entrare, e per la metà (veri e non presunti) innocenti in attesa di giudizio. Si potrebbe argomentare con i numeri delle morti per pena, morti per mancanza di assistenza medica, di cause naturali nel fior fiore dell’età, o per suicidio anche nell’ambito dello stesso personale penitenziario. Si potrebbe argomentare parlando a ragione di una nuova shoah e di carceri lager dove vengono costantemente violati i diritti, la ns stessa Costituzione le nostre leggi nazionali e sovranazionali. Si potrebbe argomentare con le migliaia di condanne che l’Italia ha ricevuto dalla Corte Europea di Strasburgo per la lentezza dei ns processi e per la violazione dell’art. 3 sui diritti umani. Si potrebbe argomentare come invece nei fatti l’indulto concesso abbia portato ad un tasso di recidiva bassissimo rispetto a chi ha scontato un fine pena e quindi parlando di sicurezza il carcere fine a se stesso ed inteso in questo modo non solo non serve alla sicurezza sociale, ma è addirittura dannoso e pericoloso per la stessa. Ma anche grazie all’instancabile lavoro radicale, non di certo al “dovere” di cronaca ed informazioni dei media latitanti, questi concetti oggi sono più o meno conosciuti. Ciò che invece ignora ancora la massa di cittadini “brava gente” ed anche e purtroppo molti addetti ai lavori è la vera ipocrisia politica, quella cioè fatta di slogan e propaganda e di nulla ed ostruzionismo quando invece c’è l’opportunità in parlamento di dar corpo a tutto ciò che a parole viene auspicato. Insomma, nei convegni si dice “no all’amnistia perché occorrono riforme strutturali sulla Fini-Giovanardi, sulla Bossi-Fini e sulla ex-Cirielli”, nei fatti ed in parlamento si propone il nulla, ed anzi si blocca pure quello. Il Nulla, ben rappresentato dal provvedimento farsa svuota carceri o peggio ancora “salva carceri” che nonostante la sua attuazione non ha portato a risolvere la sostanziale e drammatica illegalità in cui versano gli istituti di pena (come peraltro già si sapeva). Il Nulla, ben rappresentato proprio in Commissione Giustizia, dallo stesso sottosegretario Mazzamuto che ha ammesso oltre un mese fa che quanto alle “depenalizzazioni” previste dal Governo, la portata sarebbe stata minima e sicuramente “non adeguata rispetto agli obiettivi deflattivi che si poneva il Governo”. Ahimè oggi scopriamo che neanche la portata minima sarà raggiunta, quindi neanche quel Nulla, perché in Commissione giustizia la ministra Paola Severino ha comunicato addirittura pochi giorni fa la scelta di espungere dal disegno di legge delega del Governo in materia di depenalizzazione e pene detentive non carcerarie, la materia delle depenalizzazioni come scrive la stessa Rita Bernardini. Si parla e straparla di abuso di custodia cautelare e l’unica proposta (quella radicale) di riforma non viene discussa e calendarizzata, nonostante l’impegno della Presidente di Commissione. Ci sono nei cassetti della Camera e del Senato concrete proposte di riforma del codice penale, ci sono testi di Commissioni (Pisapia, Nordio) utilizzabili, da subito, eppure giacciono lì tra polvere e ragnatele, ci sono le proposte e le mozioni radicali. Allora siamo stanchi di questo nulla, sul fronte della reale e dovuta informazione ai cittadini di quanto accade al nostro sistema Giustizia e di come si pensa di (non) risolvere i problemi ad esso legati. Di questo Nulla che viene condito e colorito da termini ed appellativi a dir poco “imbarazzanti” nell’ottica di ciò che si propongono. Di questo Nulla con il quale si pensa di tamponare una delle situazioni più tragiche dal dopoguerra, quella del nostro sovraffollamento carcerario, cresciuto non in base a nuova criminalità, ma sulla base di criminalizzazione carcero centrica dello stato sociale. Di questo Nulla che ancora non ci vede tra i paesi che hanno adottato il Reato di Tortura all’interno del proprio codice penale. Di questo Nulla, condito da frasi spot allucinanti e citazioni di Verri e Beccaria fini a se stesse, mentre in tv vengono trucidati cittadini inermi e si incita al giustizialismo sfrenato. E mentre il Nulla a volte lascia il posto al salvataggio del politico di turno, anche in assenza di reale fumus persecutionis, il povero cristo, attende in carcere tra ratti, scabbia e scarafaggi anche anni di vedere riconosciuta la propria innocenza (non già la propria colpevolezza). Il problema come sostiene un mio caro amico, è di cultura della civiltà giuridica di un paese che nel caso della povera Italia, già culla del diritto, è del tutto sconosciuta. C’è la necessità immediata di un intervento di amnistia e di indulto per rimuovere l’illegalità delle carceri italiane dove vengono praticati - da anni! - trattamenti disumani e degradanti sia nei confronti dei detenuti che del personale che vi lavora. Povera Italia del Nulla! Giustizia: chiudere gli Ospedali Psichiatrici giudiziari, rilanciare la Legge 180 di Mario Nasone (direttore Uepe Reggio Calabria) Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2012 Entro il mese di Marzo 2013 saranno chiusi in Italia gli ospedali psichiatrici giudiziari. Ossia quei veri e propri lager per infermi malati di mente che hanno commesso dei reati e le cui condizioni atroci sono state in questi anni denunciate da commissioni parlamentari, associazioni laiche e cattoliche. È una decisione storica e nello stesso tempo giunge con gravi ritardo perché era inammissibile che tali strutture avessero potuto ancora esistere in un paese che si dichiara civile come il nostro. In atto sono un migliaio gli ospiti dei 6 Opg distribuiti in varie regioni, di cui circa sessanta i calabresi. L’internato in Opg vive una doppia emarginazione. Come malato di mente con il suo carico di sofferenza per la patologia di cui portatore. Come soggetto che ha commesso reati e per il quale si crea un allarme sociale che ostacola fortemente il reinserimento sociale. È emblematico che diversi soggetti rimangano ricoverati sine-die attraverso la proroga sistematica della misura di sicurezza per la mancanza di progetti di reinserimento da parte dei Dipartimenti di salute mentale competenti e del rifiuto delle famiglie ad accoglierli. In particolare in regioni come la Calabria, dove non esiste una rete di servizi di salute mentale forte e coordinata, non si riesce a garantire una reale presa in carico di questi soggetti che presentano bisogni ed esigenze che richiedono interventi differenziati. Si consuma così per molti di loro una sorta di morte civile, un ergastolo strisciante di persone che non trovano spazio e cittadinanza nella comunità d’origine. che vivono in atto quella che si può chiamare una vera e propria deportazione in strutture lontane dai loro luoghi di residenza e dalla rete dei servizi territoriali. La decisione del Parlamento di chiudere gli Opg da sola non basta perché sono diverse le questioni a cui si deve trovare una risposta per non vanificare nei fatti questa importante previsione legislativa. Ovviamente non basta prevedere la chiusura perché queste persone da dimettere dovranno poi avere luoghi e strutture dove essere accolte e seguite. E magari controllate, se qualcuna di loro è ancora pericolosa socialmente. La legge prevede la attivazione di strutture residenziali alternative all’Opg. Il rischio di riproporre nelle varie regioni tanti piccoli Opg esiste. Come afferma l’associazione Stop-Opg che da anni si batte su questi temi “finché non cambierà finalmente la legge sull’imputabilità del “folle reo” e sulla “pericolosità sociale”, senza una vera presa in carico dei Dipartimenti di Salute Mentale per offrire percorsi individuali di assistenza come prevedono sentenze della Corte Costituzionale, tutti (o quasi) gli internati saranno inevitabilmente trasferiti nelle nuove strutture manicomiali dove la magistratura continuerà a disporre l’esecuzione della misura di sicurezza” L’urgenza è certo quella di dare sollievo agli uomini e alle donne oggi internati negli attuali Opg, realtà indegne di un paese civile, ma bisogna farlo restituendo dignità e diritti di cittadinanza, non alimentando business o nuovi manicomi, che per loro natura impediscono la cura e la riabilitazione di persone malate”. L’auspicio è che il “territorio”, cioè le Asl, le comunità, le case famiglia, i reparti ospedalieri per i più gravi siano pronti ad accoglierli, perché di certo non saranno le famiglie a poterli sostenere, se qualcuno di questi ammalati ancora ne ha una. Ma forse tutto questo sarà sempre meglio della disumanità degli Opg. E seppure impropriamente, forse la chiusura degli Opg potrebbe rilanciare nel nostro paese e nella nostra regione il tema drammatico e ignorato della malattia mentale. Milioni di famiglie abbandonate a se stesse, migliaia di pazienti senza cure, i servizi di salute mentale ridotti al collasso, con organici all’osso, senza una adeguata rete di servizi di accoglienza e di sostegno, con l’ abolizione di quasi tutte le terapie basate su psicoterapia e psicoanalisi , o su terapie comportamentali (tutto troppo costoso), a favore di farmaci, Tso, ed in alcuni casi il ritorno dell’elettrochoc. La legge Basaglia ha poco più di 30 anni e ha regalato a molti matti ed ex matti una vita dignitosa. Qualche volta, addirittura, una sorta di esistenza normale. Eppure per vederla applicata bisogna sempre ripartire e tornare là dove la 180 è nata, ossia a Trieste, o in qualche oasi dell’Emilia Romagna e della Toscana, quando ancora governavano giunte che finanziavano casa famiglie e progetti di inserimento al lavoro degli ex degenti psichiatrici. Per il resto la situazione è drammatica, ma sulla malattia mentale in Italia è sceso un silenzio denso e pericoloso. I matti sono malati scomodi, difficili da curare, scomodi. E dunque nessuno ne parla più. oppure se ne parla per avviare delle vere e proprie controriforme come sta succedendo in Parlamento con il disegno di legge dell’on. Ciccioli approvato in Commissione che rappresenta un arretramento del modello di assistenza psichiatrica voluta da Franco Basaglia. A interrogativi si chiederà di dare una risposta al Ministro della salute Balduzzi che parteciperà Lunedi 11 Giugno, a Reggio Calabria, al Convegno promosso dal Centro Servizi al Volontariato Dei Due Mari Chiudono gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Una sfida per Istituzioni e volontariato e che avrà come finalitù quella d’informare e sensibilizzare gli attori istituzionali e le parti sociali sulla normativa e sullo stato dell’arte dei programmi ministeriali e regionali per il superamento dell’Opg e sulla necessità di attivare una vera alternativa alla segregazione manicomiale, di raccogliere indicazioni e proposte per avviare una progettualità condivisa, finalizzata alla presa in carico dei soggetti dimessi e per la costruzione di un nuovo sistema per la tutela della salute mentale centrato sui diritti del sofferente mentale alla riabilitazione ed alla integrazione lavorativa e sociale. La presenza al Convegno del Governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti e dei suoi dirigenti del settore, sarà importante per capire come la nostra regione si sta preparando a questa importante scadenza, sugli impegni che intende assumersi e sulle modalità di coinvolgimento che intende attivare in questo percorso del mondo del volontariato e delle associazioni delle famiglie. C’è da mettere mano con urgenza ad una nuova legge regionale sulla tutela della malattia mentale, superando l’attuale normativa che si è mossa solo in chiave emergenziale per dare risposte alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici di Reggio e Girifalco e di Serra D’Aiello. Una legge che metta fine ai tanti contenitori dell’abbandono che ospitano in Calabria queste persone, che garantisca al malato di mente ed alla sua famiglio una presa in carico reale ed un progetto individualizzato di cura, riabilitazione, integrazione lavorativa e sociale. Per questo servono anche investimenti di risorse sul personale e sui servizi in particolare quelli domiciliari, diurni e di inserimento lavorativo e sociale, scelte che anche la nostra regione è chiamata a fare pur con i vincoli di contenimento della spesa a cui è soggetta. Giustizia: nel mio mondo capovolto il carcerato si sente inutile di Enrico Sbriglia (direttore Casa circondariale di Trieste) Il Piccolo, 11 giugno 2012 Un mondo capovolto quello che sto vivendo… Mi giungono diverse lettere di persone detenute che esprimono apprezzamento per le cose banali che ho detto in diverse occasioni, allorquando ho provato a spiegare come il sistema penitenziario stenti nel sopportare gli oneri di politiche criminali che oltre ad essere costose rischiano di non fare “sicurezza”. Trovo perfino imbarazzante che modesti principi di ordinaria economia, suggeriti affinché siano bilanciati il perseguimento della sicurezza del cittadino e della società, con quelli concorrenti che tengano conto della proporzionalità dei costi finanziari ed umani derivanti, allo scopo di interrogarci tutti se non sia perseguibile e consigliabile la ricerca di altre soluzioni, appaiano facilmente compresi dai detenuti e sfuggano quasi completamente a coloro che deliberano, decidono, statuiscono le politiche di contrasto alla criminalità in tutte le sue poliedriche manifestazioni. Una volta, quando mi giungevano lettere di persone detenute, mi attendevo proteste, minacce, intimidazioni, e se erano anonime intuivo che sarebbero state arricchite dai simboli-brand di organizzazioni eversive, oggi invece ricevo missive che trasudano senso di responsabilità, desiderio di conciliazione, ammissioni di colpevolezza senza reticenze, che si vuol pagare pure senza sconti, ma in condizioni di dignità della persona detenuta e non, invece, bivaccando su materassi poggiati per terra, stipati in celle dove il piscio di uno è sentito da tutti, così come il pianto e l’angoscia o la rabbia che l’accompagnano. Spesso sono lettere di detenuti che chiedono di espiare tutta la loro pena, fino all’ultimo giorno, però rendendosi utili; detenuti che chiedono di essere giudicati per quello che hanno fatto e non per come sono fatti, detenuti che non implorano pietas ma che vorrebbero, almeno nell’occasione della prigionia, sapere di potersi concedere completamente in mano alle leggi ed alle norme, qualunque ne siano gli effetti conseguenti, seppure dolorosi. P.M., lituano, detenuto a Trieste, prossimo a fine pena, chiede di poter andare a dare una mano in Emilia, è di buona salute, non è tossicodipendente, davvero non comprende il senso di una pena segnata dall’inutile non fare, da un continuo bivaccare con la sua coscienza nell’assoluta inerzia di quattro mura, quando con quelle mani grosse potrebbe rimuovere detriti, aiutare una persona disabile da trasportare in carrozzella, potare i rami di un albero o fare le pulizie in una cucina da campo. G.D. napoletano ristretto nel carcere di Verona, non comprende il senso di una carcerazione “inutile” dove non risarcisce nessuno e nessuno in fin dei conti si interessa di lui, eppure è sano, era pizzaiolo, potrebbe essere utile lì in Emilia. V.V., italiano detenuto a Ravenna, da vecchio carcerato, non comprende perché semplici principi di ragionevolezza non trovino accoglienza preferendo attendere che esploda il carnaio delle carceri con le conseguenze che nessuno potrà prevedere; mi appella come persona “colta”, bontà sua! Ma davvero basta semplicemente scendere sulla terra per essere considerati messia del nulla e dell’ovvio? Insomma, è un mondo capovolto quello delle carceri tronfie che sto vivendo; è quello di un mondo dove sono le persone detenute a spiegarmi il bisogno di legalità e non io ad imporlo per mestiere, ma forse, in verità, quando l’articolo 27, 3° comma , della Costituzione Italiana afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, seppure non lo dice, non è rivolto solo ai prigionieri, forse la rieducazione al rispetto della legalità riguarda tutti ed imporrebbe una democrazia del dovere. Nel frattempo i numeri crescono, così come la delusione di quanti, operatori penitenziari, poliziotti penitenziari, direttori penitenziari si sentono abitanti di un mondo capovolto. Giustizia: domani a Roma l’assemblea nazionale del Comitato Stop-Opg Agenparl, 11 giugno 2012 Per chiudere definitivamente e senza trucchi gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), per fermare il disegno di legge contro la legge Basaglia e per il diritto costituzionale alla salute e alla cura nel rispetto della persona umana, il comitato Stop Opg per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari - costituito da un vasto cartello di associazioni tra cui la Cgil e la Fp Cgil - promuove per domani martedì 12 giugno l’assemblea nazionale di Stop Opg a Roma al centro congressi Frentani in via dei Frentani 4 a partire dalle ore 10. Un appuntamento promosso per valutare lo stato di attuazione del processo di “superamento” degli Ospedali psichiatrici giudiziari a nove mesi dal termine previsto dalla legge (marzo 2013) e per decidere le prossime iniziative di Stop Opg. Da un monitoraggio condotto dallo stesso comitato sono infatti attualmente 1.500 le persone internate negli ospedali psichiatrici giudiziari, ovvero “gli ultimi residui dell’orrore manicomiale”, e i soggetti promotori del comitato per la chiusura degli Opg temono i progetti in campo per il superamento di questi ultimi. Il rischio, infatti, secondo il comitato, è che tutto si riduca al trasferimento degli internati nelle nuove strutture previste dalla legge, con il rischio concreto si aprano “mini Opg” in tutte le regioni italiane, paragonabili a veri e propri nuovi manicomi. Ma questo è solo uno degli argomenti in discussione domani, al centro dell’assemblea ci sarà infatti anche il testo di riforma della legge Basaglia in discussione alla Camera che, secondo Stop Opg, “non è altro che il tentativo di ricostruire i manicomi riaprendo una stagione buia che consideravamo definitivamente archiviata”. Domani infine sarà l’occasione per lanciare un nuovo allarme per “i continui tagli al finanziamento del Servizio sanitario e al welfare, che indeboliscono e precarizzano per primi i servizi territoriali: dai dipartimenti di Salute Mentale ai servizi sociali, producendo esclusioni e disagi”. Tra gli interventi in programma domani quelli di Ignazio Marino (senatore Pd e presidente commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza e l’efficacia del Servizio Sanitario Nazionale), Margherita Miotto (deputata Pd e prima firmataria Odg 9/4909/31 sugli Opg approvato alla Camera), Carlo Lusenti (assessore regione Emilia Romagna e componente commissione Stato Regioni superamento Opg), Antonella Calcaterra (Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane), Sergio Moccia (docente università Napoli Scienze Penalistiche, Criminologic he e Penitenziarie), Donatella Poretti (senatrice Radicale e componente della commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza e l’efficacia del Servizio Sanitario Nazionale). A partecipare ai lavori è stato invitato anche il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Il Comitato nazionale Stop Opg è formato da: Forum Salute Mentale, Forum per il diritto alla Salute in Carcere, Cgil nazionale, Fp Cgil nazionale, Antigone, Centro Basaglia (AR), Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo F. Basaglia, Coordinamento Garanti territoriali diritti dei detenuti, Fondazione Franco e Franca Basaglia, Forum Droghe, Psichiatria Democratica, Società della Ragione, Unasam, Associazione “A buon diritto”, SOS Sanità, Cittadinanzattiva, Gruppo Abele, Gruppo Solidarietà, Cnca Coordinamento nazionale Comunità, Accoglienza, Fondazione Zancan, Conferenza nazionale Volontariato Giustizia, Itaca Italia, Cnnd Coordinamento nazionale nuove droghe, Arci, Auser, Associazione Casa di Solidarietà e Accoglienza Barcellona P.G. Giustizia: Musumeci: “Signor presidente, sia buono…. mi conceda la pena di morte” di Stefano Lorenzetto Il Giornale, 11 giugno 2012 Quattro condanne a vita, quattro assoluzioni. Infine l’ergastolo ostativo che non prevede permessi: l’unico, 11 ore, l’ha avuto per potersi laureare. Signor presidente della Repubblica, un cittadino di 56 anni, residente in un edificio di proprietà dello Stato che lei rappresenta, al numero 10 di via Maiano, a Spoleto, le chiede d’essere aiutato a morire. Se lei ha un cuore, dovrebbe esaudirne l’insano desiderio. Quest’uomo, in buona salute, determinato e generoso, è uno scrittore, ha già pubblicato tre libri - l’ultimo, Zanna Blu (Gabrielli Editori), con la prefazione di Margherita Hack, uscito in questi giorni - ma per sopravvivere è costretto a lavorare in una biblioteca a 26 euro al mese. La casa in cui abita misura tre passi e mezzo in lunghezza e tre passi in larghezza, bagno compreso, e ha il letto inchiodato al pavimento. Dentro ci sono solo uno sgabello, una lampadina, un tavolino, un paio di stipetti attaccati al muro, una mensola con sopra un piccolo televisore. Si entra nel monolocale da un cancello. Dietro il cancello, un blindato che viene aperto al mattino e chiuso la sera. Al centro del blindato, uno spioncino, perché Carmelo Musumeci, alias Zanna Blu, originario di Aci Sant’Antonio (Catania), è detenuto per associazione a delinquere di tipo mafioso, in regime AS1 (Alta sicurezza), va guardato a vista e non può stare con altri reclusi: “Divido la cella solo col mio cuore”. Nel 1995 gli è stato inflitto l’ergastolo quale mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani, un pregiudicato di Massa Carrara assassinato nel 1991, che l’anno prima, secondo la Criminalpol, aveva partecipato a Roma all’assassinio di Enrico De Pedis, il boss della Magliana oggi sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare. Il pentito Angelo Siino ha scagionato Musumeci, attribuendo il delitto Gozzani, del quale non s’è mai scoperto l’esecutore materiale, a Cosa nostra, ma le carte di quella confessione si sono smarrite nei meandri del Palazzo di giustizia di Palermo. Musumeci non si dichiara né innocente né colpevole: semplicemente s’accontenta d’essere giudicato un uomo diverso. “Sono stato punito per reati che non ho commesso e perdonato per reati che ho commesso”. Del resto per quattro volte l’hanno condannato al carcere a vita e per quattro volte l’hanno poi assolto. L’inquilino della cella numero 154 è “un uomo ombra”. Sconta un tipo di ergastolo speciale, quello ostativo, che gli nega permessi-premio o altri benefici. Per questo supplica Giorgio Napolitano di concedergli la pena di morte. “Un ergastolano ostativo è cattivo e colpevole per sempre. Per uscire ha un’unica possibilità: mettere in cella un altro al posto suo. Se parla, lo liberano. Sennò sta dentro fino al momento del decesso”. Nel suo caso, per la verità, c’è stata un’eccezione, altrimenti non avrebbe potuto scrivere Undici ore d’amore di un uomo ombra, il suo secondo libro, con prefazione di Barbara Alberti, che narra dell’unico giorno di felicità da quando, 21 anni fa, ha smesso di veder sorgere il sole all’orizzonte, “perché vivo con le sbarre alla finestra e con un muro davanti agli occhi”. L’11 maggio 2011 il giudice di sorveglianza gli ha concesso un permesso straordinario per presentarsi presso la facoltà di giurisprudenza di Perugia, dove s’è laureato in legge con una tesi dal titolo La “pena di morte viva”: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità, discussa col professor Carlo Fiorio, docente di procedura penale. Quel giorno ad attenderlo all’uscita della prigione, per le uniche 11 ore di libertà della sua vita recente, e soprattutto futura, c’era Nadia Bizzotto, dall’età di 21 anni costretta in carrozzella per un incidente stradale, responsabile della casa d’accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi a Bevagna (Perugia). È lì che s’è tenuto il pranzo di laurea. Musumeci aveva accanto la compagna Sandra, 58 anni, soprannominata Lupa Bella, e i figli Barbara, 30 anni, laureata in ingegneria chimica con 110 e lode, che lavora a Modena, e Mirko, 28, che gli ha dato due nipoti, Lorenzo, 6, e Michael, 4. Porta i loro nomi tatuati sulle braccia. Nadia Bizzotto è una volontaria originaria di Bassano del Grappa che da anni, tutti i mercoledì, lo va a trovare in carcere. Musumeci la chiama “il mio diavolo custode” e in cella conserva il rosario che la ragazza stringeva in ospedale dopo lo schianto. “Ho anche un’immagine della tomba di don Oreste e poi, le sembrerà strano, ma nel mio angolo della felicità, dove tengo le foto dei figli e dei nipotini e le foglie e i fiori secchi che mi mandano le suore o qualche mio amico che vive nei boschi, c’è anche lei, Lorenzetto, perché la mia figlia del cuore, Mita, mi ha mandato, non so neppure dove l’abbia presa, una sua foto sorridente accanto a don Benzi, con scritto sul retro “Don Oreste con Stefano Lorenzetto del Giornale”. Anche se mi hanno detto che la sua è una testata forcaiola, m’ispirano le persone che sorridono”. Sono imperscrutabili i disegni che si compongono in questi 10 metri quadrati dimenticati dal sole ma non dalla luce. Mita è la figlia di un operatore penitenziario della casa circondariale di Perugia, morto tre anni fa per un tumore al pancreas. S’è imbattuta in Carmelo visitando il suo sito su Internet dedicato alla condizione carceraria ed è come se avesse trovato un secondo padre. Gli ha scritto. Ora gli fa visita ogni 15 giorni insieme col marito. La sua compagna le vuole bene da 30 anni, ma non può aspettare il suo ritorno. Che cos’è che vi tiene uniti? “Lascio rispondere Zanna Blu: “Lupa Bella era una lupa meravigliosa, dolce e buona. Anche lei, come Zanna Blu, aveva sofferto. Come lui era stata abbandonata da piccola e fino a quel momento era vissuta da sola. Una notte di luna piena giurarono entrambi che non si sarebbero mai lasciati, né con il cuore, né con la mente. Che i loro cuccioli mai e poi mai sarebbero stati abbandonati e che non avrebbero mai conosciuto altri genitori che loro”. Lei è stato abbandonato da piccolo? “Mio padre era bracciante a giornata, emigrò in Francia per fame. Mia madre faceva avanti e indietro. Nella mia famiglia l’amore era un lusso. Muratore a 9 anni, a 10 mi hanno messo in collegio, ma sono scappato. Da nonna Lella ho imparato ciò che altri avevano insegnato a lei: a rubare per sopravvivere. Mi riempì di botte in presenza del bottegaio che m’aveva pescato a sgraffignare. Poi a casa me ne diede altrettante perché m’ero fatto scoprire”. A che età commise il suo primo reato? “Sono nato colpevole. Non ricordo l’età, ma l’episodio sì: il furto di una pistola giocattolo esposta su una bancarella in una fiera. Assomigliava a quella vera che teneva nascosta mio zio. Ho imparato a rubare prim’ancora di scrivere, forse di parlare. Ma c’è solo un reato che mi ha fatto sentire veramente colpevole. Avrò avuto 10 anni. Scippai la borsa a una vecchietta. Dentro c’erano 1.000 lire. Non so perché, me ne vergognai a morte. Lasciai la banconota in elemosina a un povero davanti a una chiesa e giurai a me stesso che da grande sarei andato a prendere i soldi solo dove ce n’erano molti. E così feci. Appena quindicenne, già rapinavo banche”. In quante prigioni è stato? “Tante. Troppe, per elencarle tutte. La prima fu Marassi a Genova nel 1972. Sono stato anche in tre carceri francesi. Questo di Spoleto è il meno peggio”. Mi racconti la sua giornata. “Mi sveglio presto. Alle 8.30 vado a lavorare in biblioteca. A mezzogiorno ritorno in cella. Pasto frugale. Leggo i giornali. A volte vado all’ora d’aria, ma più spesso rimango in cella. Aspetto che passi la guardia con la posta. Rispondo alle numerose lettere che ricevo. La sera mi cucino qualcosa. Poi inizio a fare su e giù in cella per digerire. Tre passi avanti e tre indietro. Quando sono abbastanza stanco, mi sdraio nella branda. Leggo fino a tardi. Poi mi addormento perché non posso fare altro”. A parte la privazione della libertà, che cosa la fa più soffrire nella sua condizione di carcerato? “La mancanza di futuro”. Quanti sono i detenuti italiani condannati al carcere ostativo? “Potrebbero essere un migliaio. È difficile quantificare, perché decide di volta in volta il magistrato di sorveglianza”. Non c’è nessuna speranza che la sua pena venga condonata dal capo dello Stato? “Non credo che un presidente della Repubblica sano di mente possa dare la grazia a un ergastolano condannato fra l’altro per mafia. Io voglio uscire dal carcere perché me lo merito e non per un colpo di culo o perché faccio la spia: non sono così criminale da usare la giustizia per procurarmi una scorciatoia”. Com’è possibile che gli assassini di Aldo Moro e i due di Ludwig siano già liberi e lei no? “La legge non è uguale per tutti”. È favorevole alla pena di morte? “Credo che sia meglio morire una volta sola che tutti i giorni. Ho scritto a Napolitano affinché si dimostri più umano e mi tramuti l’ergastolo in un’esecuzione capitale”. Alla gente spaventata, che rinchiuderebbe chi delinque e butterebbe via la chiave, che cosa sente di poter dire? “Se vuoi punire un criminale e dargli la più severa delle pene, perdonalo. Solo il perdono ti fa sentire veramente colpevole e ti tira fuori il senso di colpa per il male che hai commesso. Se invece le persone perbene si dimostrano più cattive di te, a tal punto da infliggerti un castigo senza fine, persino il peggior criminale si sentirà innocente e migliore dei suoi governanti”. Perché ha deciso di laurearsi in giurisprudenza? “Per lottare meglio contro l’Assassino dei Sogni, come io chiamo il carcere, che è il più grande criminale che il mondo abbia mai partorito. Voglio costringerlo a rispettare le sue stessi leggi. E anche difendere i miei diritti e quelli dei miei compagni”. Per quanti anni ha studiato? “Sono entrato in galera con la quinta elementare e ho preso la licenza media. Poi, quando ero sottoposto allo stato di tortura del regime 41 bis nell’isola del diavolo dell’Asinara, ho iniziato a studiare da autodidatta, ma non mi davano i libri. Allora Giuliano, un maestro in pensione, strappava le pagine dei testi e me li mandava per lettera, pochi fogli alla volta. Mi ero iscritto al liceo scientifico, come mia figlia, ma c’era troppa matematica e io non sapevo fare neppure una divisione. Soprattutto non riuscivo a comprendere perché la moltiplicazione di due numeri negativi diventasse un numero positivo. Sono passato alle magistrali: peggio che andare di notte, ho trovato il latino e io non sapevo neppure la grammatica italiana”. Quando ha appreso che l’avrebbero lasciata uscire di prigione per andare a laurearsi? “Alle 17 del giorno precedente, il più lungo di tutta la mia vita. Avevo paura che ci ripensassero”. E durante la notte ha temuto di morire, come Mosè, che poté contemplare la Terra Promessa dall’alto del Monte Nebo ma non entrarci, è così? “Sì. Dovevo decidere se rientrare in carcere, sapendo che non avrei avuto mai più un’altra occasione simile: il tribunale di sorveglianza concede il permesso di necessità una sola volta e per un evento unico e irripetibile. Oppure potevo scappare all’estero e godermi la libertà fino a quando non mi avessero preso. Ho pensato anche a una terza possibilità: impiccarmi a un albero prima di ritornare dentro, morendo così da uomo libero. Alla fine ho scelto di rientrare per fare un dispetto all’Assassino dei Sogni e dimostrare che sono migliore di lui”. Quando conobbe don Oreste Benzi? “Nel 2007 e da allora condivido il progetto “Oltre le sbarre” della sua comunità. Era venuto nel carcere di Spoleto, pensavo che fosse il solito prete che sta solo dalla parte dei “buoni”. In quel periodo stavo organizzando il primo sciopero della fame collettivo in tutte le carceri d’Italia, per l’abolizione dell’ergastolo. Gli chiesi se avesse il coraggio di schierarsi dalla parte dei mafiosi, dei criminali, dei più cattivi di tutti, appoggiando il nostro sciopero per far cancellare l’ignominia del “fine pena mai”. Lui mi sorrise e mi rispose: “Sì!”. Poi aggiunse: “L’uomo non è il suo errore”“. E se un giorno Nadia Bizzotto smettesse di farle visita? “Non può farlo. Don Oreste me l’ha lasciata come angelo custode. Sono le donne e gli uomini che tradiscono. Gli angeli come lei e i diavoli come me non tradiscono mai”. Ha mai pensato di evadere? “Non solo lo penso, ma lo faccio tutte le volte che mi addormento. L’ho sognato anche questa notte”. Don Benzi una volta mi disse: “Per rimanere in piedi, bisogna mettersi in ginocchio”. Che cosa la tiene in piedi? “Anche se avessi ucciso, le assicuro che non è mai morto un innocente per colpa mia. Quando uno nasce in una famiglia come quella che ho avuto io, non ha scelta: o sta con i buoni o sta con i cattivi. Io sono stato con i cattivi perché erano gli unici che mi volevano bene. Non cerco né pietà né compassione, pretendo la pena di morte o la fine della mia pena. Ecco che cosa mi tiene in piedi. Ora basta. Dottor Lorenzetto, cazzo! Ma si rende conto che mi ha fatto 51 domande? Neppure un pubblico ministero mi ha mai interrogato così”. Giustizia: Diaz, quello che la Corte deve chiarire… undici anni dopo i fatti di Livio Pepino Il Manifesto, 11 giugno 2012 Undici anni dopo i fatti, la Cassazione sta mettendo la parola fine - per quanto riguarda il versante giudiziario - all’accertamento dei gravissimi strappi della legalità intervenuti a margine del G8 di Genova del luglio 2001. Sintomo della lentezza del nostro sistema giudiziario ma anche delle difficoltà e degli ostacoli che hanno caratterizzato indagini e dibattimenti. Qualche giorno fa è stata depositata la motivazione della sentenza che, annullando la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Genova, ha assolto Giovanni De Gennaro dalla imputazione di concorso in falsa testimonianza in relazione alle violenze nella scuola Diaz e a breve è attesa la decisione sul merito di tali fatti e sui falsi che li hanno seguiti. Si tratta di processi e sentenze importanti per la stessa tenuta della nostra democrazia. La prima decisione - va detto senza mezzi termini - è stata assai deludente. Conviene riassumere la vicenda. L’accertamento dei fatti “di inusitata violenza” commessi da operatori di polizia nella scuola Diaz la notte tra il 21 e il 22 luglio si è scontrato con un muro di silenzi istituzionali, di omertà, di falsi che hanno riguardato l’identità degli esecutori, la dinamica degli eventi, il contesto in cui si sono realizzati, la catena di comando che li ha determinati (o, quantomeno, favoriti e coperti). Era questo il vero nodo dei processi: ben più dell’esistenza e dell’entità delle violenze, documentate al di là di ogni dubbio dalle immagini dei corpi insanguinati portati fuori dalla Diaz mentre il responsabile delle relazioni esterne della polizia, Roberto Sgalla, parlava, senza vergogna, di “lesioni pregresse” riscontrate su alcuni estremisti. Superfluo dire che il portavoce del capo della polizia non era lì per caso e che accertare le ragioni della sua presenza era decisivo: anzitutto perché, se a mandarcelo era stato De Gennaro veniva, a dir poco, avvalorata l’ipotesi di un controllo diretto e continuativo dell’operazione da parte del vertice della polizia. Sul punto, non sono mancate le contraddizioni. In particolare, il questore di Genova, Fabrizio Colucci, dopo avere dichiarato, nell’immediatezza dei fatti, alla Commissione parlamentare di indagine e ai pubblici ministeri procedenti, che Sgalla era sul posto per decisione del capo della polizia, il 3 maggio 2007, sentito dal tribunale, ha modificato versione assumendosi la paternità dell’invio. Ad apparire singolare ai pubblici ministeri è stata la circostanza che quel radicale mutamento nella deposizione, che è valso a Colucci un processo per falsa testimonianza, sia intervenuto all’esito di un incontro con De Gennaro, da lui riferito e commentato in una serie di telefonate (intercettate) avvenute con Mortola (già capo della Digos di Genova all’epoca dei fatti), ed abbia determinato - sempre secondo quanto riferito da Colucci a Mortola - i “complimenti” del capo della polizia. Di qui la contestazione a De Gennaro di avere indotto Colucci a mentire. Orbene, l’argomento principe usato dal Supremo Collegio per escludere la responsabilità del capo della polizia è che, in ogni caso, la deposizione di Colucci era “priva di ogni profilo di seria pertinenza con i fatti reato integranti la re giudicanda del processo Diaz”. In altri termini, uscendo dal giuridichese: la ragione della presenza all’irruzione nella Diaz del portavoce del capo della polizia non ha alcun interesse (sic!) neppure ai fini della ricostruzione dell’accaduto e della determinazione della responsabilità dei protagonisti. Si tratta, all’evidenza, della (apodittica) riduzione dei fatti a condotte improprie di alcuni agenti, con rimozione di ogni possibile diversa ricostruzione. Non è un bel segnale. E non c’è bisogno di fare delle dietrologie per coglierlo. Se si tratta di un incidente di percorso o di una scelta generalizzata, tesa a chiudere la stagione del controllo giudiziario sulle devianze dei poteri forti, lo dirà l’imminente sentenza della Cassazione sui fatti della Diaz. Il problema - superfluo dirlo per chi crede nel garantismo - non riguarda la posizione di questo o quel funzionario ma l’impostazione complessiva dell’accertamento. Ciò che la Corte dovrà dire è se la (pacifica) falsa attestazione del rinvenimento di molotov all’interno della Diaz è un insignificante accidente o la chiave di volta per comprendere (anche) come si è arrivati a quelle efferate violenze e quale catena di comando le ha generate o consentite. Superfluo dire che la questione riguarda non solo il passato ma anche il futuro e che su di essa si gioca la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Fiducia a cui non sono estranei i comportamenti degli apparati (e neppure quelli dei supremi giudici). Lombardia: “Agente di Rete”, figura chiave per le carceri della regione www.marketpress.info, 11 giugno 2012 In Lombardia (dati giugno 2011) ci sono circa 9.500 detenuti, il 14 per cento della popolazione carceraria italiana, con una quota di circa 95 detenuti su 100.000 abitanti, inferiore alla media del Paese, che è di circa 112/100.000. 19 Carceri In Lombardia, Il Problema Sovraffollamento - La popolazione lombarda è distribuita in 19 istituti, con picchi di presenze che vanno dai 1.635 di Milano, ai 1.331 di Opera, ai 1.115 di Bollate, fino ai 42 di Sondrio. Gli istituti penitenziari della Lombardia hanno una capienza regolamentare di 5.652 posti; i detenuti presenti nelle carceri sono 9.559, di cui 4.105 sono stranieri (42,9 per cento). Sono quindi presenti nelle carceri lombarde 3.907 detenuti in più di quelli previsti (40,9 per cento). Sono alcuni dei dati richiamati da Giulio Boscagli, assessore alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale della Regione Lombardia, intervenuto alla seduta di insediamento della Commissione Carceri del Consiglio regionale, presieduta da Stefano Carugo e costituita dai rappresentanti di tutti i Gruppi consiliari. “Regione Lombardia ha promosso, attivato e realizzato Patti territoriali, che hanno introdotto nel sistema carcerario lombardo - ha detto Boscagli - un nuovo soggetto, l’Agente di rete, che ha svolto la funzione di raccordare gli interventi all’interno del carcere con quelli esterni al fine di favorire il reinserimento sociale delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria grazie alla loro competenza di tipo educativo”. Gli Enti locali, i 14 Comuni sede di carcere, sono stati i protagonisti di questo sistema, che ha coinvolto tutti i soggetti presenti sul territorio: Asl, direttori degli istituti penitenziari, Amministrazione penitenziaria (Uffici di Esecuzione Penale Esterna, Uepe, e Centro Giustizia Minorile, Cgm). Questa iniziativa, iniziata nel 2005 con una sperimentazione triennale, ha dato risultati molto positivi considerati utili per il rilanciare questo intervento. “Decisamente strategica - ha sottolineato l’assessore Boscagli - la collaborazione con la Direzione generale Occupazione e Politiche del lavoro della Regione, per costruire un sistema integrato di interventi, utilizzando la Dote formazione lavoro, che nel 2011 sono stati finanziati con 2 milioni di euro”. Per rendere ancor più puntuali le nostre azioni è stato istituito un Tavolo, coordinato dalla stessa Direzione generale Occupazione e Politiche del lavoro, a cui partecipano la Direzione generale Sanità e i referenti dell’Amministrazione penitenziaria. La Regione Lombardia ha promosso il Progetto “Responsabilità di impresa: lavoro, carcere e imprese”, in collaborazione con Unioncamere, il cui obiettivo è stato quello di migliorare il sistema. In particolare, per quanto riguarda la realizzazione di percorsi di accoglienza per persone con problematiche psichiatriche, “Regione Lombardia - ha spiegato Boscagli - si era data l’obiettivo di individuare modalità di accompagnamento per garantire la fuoriuscita dal circuito penitenziario di persone che, per la loro particolare fragilità, spesso non riescono a garantirsi una vita autonoma. Il progetto, promosso da Regione Lombardia in collaborazione con Unioncamere Lombardia, ha inteso favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti in imprese profit e non profit e diffondere la conoscenza delle opportunità che la normativa vigente offre in termini di benefici contributivi e fiscali alle imprese che offrono lavoro ai detenuti”. Due Milioni Di Euro Alle Asl. Pochi giorni fa è stato firmato il decreto con cui si trasferiscono alle Asl 2 milioni di euro, che saranno da esse assegnate, tramite bando, ai progetti da realizzare sul territorio, in continuità rispetto alle iniziative degli anni precedenti. Entro la metà di luglio 2012 finanzieranno gli Enti che risultano vincitori. Puglia: Federazione Italiana Medici; in carcere a rischio il diritto alla salute Bari Sera, 11 giugno 2012 Anche nelle carceri pugliesi il diritto alla salute sembra essere fortemente condizionato dalla mancanza di risorse, dalle difficoltà e, secondo la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, anche dalla mancata volontà di risolvere i tanti problemi che ogni giorno si presentano in questo settore da parte delle Direzioni Generali delle Asl. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del primo aprile 2008 ha previsto il trasferimento delle risorse finanziarie e delle competenze gestionali e organizzative in materia di sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, compresi i rapporti di lavoro del personale medico che lavora nelle strutture penitenziarie. Di fatto, l’assistenza penitenziaria di base è sta­ta inserita nell’area della Medicina Ge­nerale erogata nel territorio. I medici impegnati all’interno delle carceri si sentono lasciati soli ad affrontare i problemi dei detenuti a loro affidati. “La situazione è paradossale”, dichiara il dottor Filippo Anelli, segretario regionale della Fimmg Puglia. Ci troviamo di fronte a un considerevole sovraffollamento dei detenuti che in alcune situazioni supera il 100 per cento dei posti disponibili: in Puglia circa 4.500 reclusi per 2.350 posti. Ciò nonostante, il personale sanitario non è aumentato e in alcune situazioni è addirittura diminuito!”. Sono a rischio le attività di prevenzione e controllo delle malattie infettive che in carcere presentano una frequenza e un rischio di diffusione ben maggiore che nella comunità libera (Hiv, epatiti virali, tbc, lue e altro). Sono pure compromesse le attività di assistenza ai detenuti affetti da malattie mentali, anch’esse particolarmente frequenti e a rischio, come testimoniato dai numerosi casi di suicidio nelle carceri anche italiane. Stesso discorso per le prestazioni specialistiche ambulatoriali: nelle carceri non vengono più garantite le urgenze specialistiche (prima assicurate dall’amministrazione penitenziaria), provocando inevitabilmente un incremento (più del 100% in alcuni casi) del numero dei detenuti che escono dal carcere per andare nelle strutture sanitarie esterne. È stato istituito l’osservatorio regionale permanente della sanità penitenziaria per tenere sotto controllo le criticità della medicina penitenziaria dopo il passaggio alle Asl che dovevano fornire modalità operative condivise. Da tale tavolo tecnico sono state escluse proprio le parti più importanti e le uniche con esperienza specifica in medicina penitenziaria, cioè i medici che da anni lavorano in prima linea nei penitenziari, i quali potevano e possono dare certamente un valido contributo nell’interesse di tutti a partire proprio dai detenuti, evidenziando le criticità e le possibili soluzioni. Con provvedimento regionale il carcere di Bari è stato considerato “unità operative semplici” eppure in questo istituto penitenziale è attivo uno dei dieci centri clinici italiani con annesso reparto di Medicina Interna e uno due raparti presenti in Italia per il trattamento dei para/tetraplegici dove affluiscono detenuti affetti da importanti e gravi patologie, provenienti dagli istituti penitenziari regionali e nazionali. Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, ha già denunciato che “nel carcere di Bari vengono inviati detenuti da altre carceri con gravissime patologie che non trovano posto nel centro clinico per mancanza di posti, per cui sono costretti a vivere nelle normali celle con gravissimi rischi per la propria e altrui salute”. Il segretario nazionale della federazione italiana medici di Medicina Generale, Giacomo Milillo, ha inviato una lettera al ministro Balduzzi e agli assessori regionali invitandoli a “una maggiore attenzione alle problematiche del personale medico operante nelle carceri, avendo cura di assicurare omogeneità di trattamento economico e normativo, garantendo il posto di lavoro e tenendo conto sul piano economico e normativo della peculiare condizione di rischio personale e professionale”. Ancona: detenuto 55enne suicida, lo scorso gennaio aveva ucciso la moglie Ansa, 11 giugno 2012 È Maurizio Foresi, 55 anni, l’autotrasportatore di Civitanova Marche che il 14 gennaio scorso aveva ucciso la moglie polacca Grazia Tarkowska a colpi di pistola, il detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Montacuto ad Ancona, impiccandosi a un termosifone. Un mese prima dell’uxoricidio, avvenuto davanti alla figlia diciottenne della coppia, Foresi, depresso e con problemi di lavoro, aveva aggredito con violenza la moglie, un’operatrice sanitaria di 46 anni, ed era stato sottoposto a trattamento sanitario. “Sono sconvolta, l’avevo visto 15 giorni fa, era depresso certo, ma non mi aspettavo un epilogo come questo”. L’avv. Maria Gioia Squadroni ha appreso da poco del suicidio di Maurizio Foresi, e deve ancora mettersi in contatto con la direzione del carcere. Foresi era indagato per omicidio volontario aggravato, e a metà luglio avrebbe dovuto essere depositata la perizia psichiatrica disposta dal gip in incidente probatorio. “Una consulenza cui stavano lavorando quattro periti, due nominati dal gip, uno dal pm e uno indicato dalla difesa”, spiega il legale. Il detenuto era rinchiuso in una cella della “sezione filtro”, insieme ad altri tre compagni. Ieri notte, ha reso noto il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria, si è impiccato alle inferriate della cella del bagno: il corpo senza vita è stato ritrovato stamattina. Il sostituto procuratore di Ancona Andrea Laurino disporrà l’autopsia sul cadavere, mentre un’inchiesta interna è stata già aperta dal Dap. Affetto da tempo da patologie psichiatriche, anche in carcere Foresi era seguito dal Servizio psichiatrico dell’Asur. Ma né le cure né la sorveglianza particolare cui era sottoposto dalla polizia penitenziaria sono servite a scongiurare il suo gesto estremo. Da quanto si sa, da gennaio l’uomo non aveva più incontrato la figlia Milena, rimasta a lungo in stato di choc per la morte della madre, e ora seguita da alcuni parenti. I disagi psichici di Foresi si erano aggravati dopo che il fratello Maurizio, dipendente comunale, era morto per una malattia; ad acuirli anche il calo di commesse legato alla crisi economica. Con la moglie Grazyna, per tutti “Grazia”, i litigi erano all’ordine del giorno, anche per questioni di denaro. Il 14 gennaio mattina, dopo l’ennesima lite, Foresi aveva impugnato un revolver Smith and Wesson, regolarmente detenuto, e aveva ripetutamente fatto fuoco contro la compagna. Raggiunta da più proiettili al torace, la donna si era accasciata a terra, mentre la figlia correva a chiedere aiuto. L’omicida si era barricato in casa, una villetta bifamiliare in via della Repubblica a Civitanova, e solo dopo una lunga trattativa si era arreso ai carabinieri, consegnando il revolver. Papa (Pdl): ad Ancona ennesimo suicidio di stato “Il suicidio del detenuto cinquantaquattrenne nel carcere di Montacuto è l’ennesimo suicidio di Stato, epifenomeno di un’emergenza silenziata dalla politica”, è quanto afferma il deputato del Pdl Alfonso Papa che ha concluso lo scorso giovedì un lungo sciopero della fame a causa dei frequenti suicidi negli istituti penitenziari italiani. “Il 2011 si è chiuso con un bollettino nero: 66 suicidi, uno ogni cinque giorni. Il 23 maggio scorso il Guardian, autorevole giornale inglese, si è chiesto com’è possibile che nel giro di dieci anni, dal 2002 al 2012, siano morti nelle carceri italiane oltre 1.000 detenuti”, continua l’onorevole Papa. “È una situazione intollerabile rispetto alla quale il Parlamento e il governo sono latitanti, dolosamente latitanti”. Genova: detenuto 40enne affetto da hiv muore in carcere per arresto cardiaco Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2012 Si chiamava Simone Milia, aveva 40 anni ed era affetto da hiv, è morto la scorsa notte per arresto cardiaco nella sua cella all’interno del carcere di Genova Marassi. “La notizia della morte del detenuto intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. Ad esempio proprio a Marassi, alla data del 31 maggio scorso, c’erano più di 800 detenuti stipati in celle realizzate per ospitarne 450 e oltre 130 Agenti di Polizia Penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti”. Lo comunica Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri “Questa ennesima morte di un detenuto testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane” rilancia il Sappe, che rinnova il suo appello alla classe politica del Paese. “Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi. La legge prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Eppure queste persone continuano a rimanere in carcere. Noi riteniamo sia invece preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle Comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che commetto reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”. “Rinnoviamo allora l’auspicio” conclude Martinelli “che la classe politica ed istituzionale del Paese faccia proprie le importanti e pesanti parole dette dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri “terribilmente sovraffollate” e ci si dia dunque da fare - concretamente e urgentemente - per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ‘ripensi’ organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso, un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale ma soprattutto l’impiego dei detenuti durante la detenzione in attività lavorative compresi, per quelli con pene brevi e di minore allarme sociale, quelli di pubblica utilità per il recupero ambientale del territorio”. Piacenza: carcere delle Novate, il sovraffollamento di detenuti supera il 170 per cento Piacenza Sera, 11 giugno 2012 Il sovraffollamento nel carcere delle Novate supera il 170 per cento. A dirlo è una rapporto della Regione sulla situazione dei penitenziari dell’ Emilia Romagna. Nella stessa situazione di Piacenza sono le strutture di Reggio Emilia, Modena e Ferrara. Nelle strutture di Bologna e Ravenna i detenuti sono più del doppio. Questo nonostante il graduale e costante incremento delle misure alternative alla detenzione in carcere. “Il carcere resta in emergenza, e questo rapporto vuole ancora una volta denunciare l’enormità di lavoro ancora da fare perché la giusta pena sia davvero ispirata ai più elementari principi costituzionali”. È quanto afferma l’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi, che oggi ha presentato in Giunta la relazione annuale sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna, elaborata dalla Regione per il 2011. “L’impegno economico per il carcere in questo ultimo anno è stato significativo, come pure importante è stato il lavoro di rete che ha ulteriormente valorizzato l’impegno delle istituzioni e la collaborazione con il terzo settore e il volontariato. Ciò nonostante il carcere resta in emergenza, e questo rapporto vuole ancora una volta denunciare l’enormità di lavoro ancora da fare perché la giusta pena sia davvero ispirata ai più elementari principi costituzionali”. È quanto afferma l’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi, che oggi ha presentato in Giunta la relazione annuale sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna, elaborata dalla Regione per il 2011. La popolazione carceraria in Emilia-Romagna Il rapporto, che non ha dimenticato di ricordare le misure straordinarie in atto in questi giorni per far fronte alle ulteriori difficoltà degli istituti penitenziari dei territori colpiti dal sisma, traccia il profilo della popolazione carceraria a dicembre 2011. Per la prima volta dopo molti anni il numero dei detenuti è in leggero calo: si passa infatti dai 4.373 detenuti del 2010 ai 4.000 del 2011. Di questi, 3.855 sono uomini e 145 le donne. Sono 2.065 gli stranieri (51,62% del totale, contro una media nazionale del 36,14%). Circa le tipologie di reato, in Emilia-Romagna i reati contro il patrimonio sono al primo posto (57% ad opera di italiani e 34% di stranieri). I reati contro la persona sono la seconda causa di carcerazione per gli italiani, mentre il 56,5% dei detenuti stranieri è in carcere per reati legati alla droga, contro il 31% dei detenuti italiani. Nonostante il graduale e costante incremento delle misure alternative alla detenzione in carcere (1.263 nel 2011 contro le 804 del 2008) il tasso di sovraffollamento medio rispetto alla capienza regolamentare (2.394) resta superiore al 160%. Nel dettaglio, nelle strutture di Bologna e Ravenna i detenuti sono più del doppio, mentre nelle carceri di Piacenza, Reggio Emilia, Modena e Ferrara il sovraffollamento va oltre il 170%. Rispetto alla posizione giuridica, in Emilia-Romagna risultano condannati in via definitiva 2.023 detenuti (50,5%), mentre il 20% della popolazione carceraria è in attesa del giudizio di primo grado e il 41,9% è stata condannata in via non definitiva. In carcere lavora il 17,12% dei detenuti: 654 persone (312 stranieri) sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 31 di imprese o cooperative esterne. I lavori più diffusi sono quelli di tipo domestico anche se vengono svolte anche altri tipi di attività come la manutenzione degli immobili, del verde e lavori agricoli. L’intervento della Regione Le attività e gli interventi che la Regione svolge a favore di detenuti ed ex-detenuti sono regolate da Protocolli d’intesa siglati con il ministero della Giustizia, e riguardano attività svolte sia durante la carcerazione che nel periodo successivo per il reinserimento sociale. Lo strumento principale per la reinclusione degli ex detenuti è costituito dai finanziamenti regionali ai Comuni sedi di carcere, previsti dal Programma regionale per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, affidato alla progettazione dei Piani sociali di zona. Le risorse per il 2011 sono state complessivamente pari 1 milione e 400 mila euro. Nel dettaglio, la Regione ha destinato 245 mila euro al programma carcere, ai quali si somma la quota di cofinanziamento da parte degli Enti locali di 214 mila euro. Inoltre è stato confermato il contributo regionale di 100 mila euro, previsto dalla legge regionale n. 3/2008 su “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna”, al quale alcuni Comuni hanno aggiunto una piccola quota di cofinanziamento. Per il progetto Teatro Carcere le risorse regionali sono state pari a 30 mila euro. Sono state inoltre impegnati 21 mila e 500 euro per la prima annualità del progetto “Cittadini Sempre” per la messa in rete del volontariato carcerario. Attraverso il Fondo sociale europeo, le Province hanno finanziato con 626 mila euro progetti per la formazione e l’inserimento lavorativo di detenuti. Ingente è anche l’impegno per quanto riguarda la salute negli Istituti penitenziari, sono state infatti destinate risorse pari a 17 milioni di euro. Di queste oltre 12 milioni di euro sono risorse assegnate alla Regione Emilia-Romagna dal Servizio Sanitario Nazionale nell’ambito del riparto del fondo per la medicina penitenziaria, ripartite per le diverse Aziende Sanitarie dei comuni sede di carcere, alle quali va aggiunta l’azienda sanitaria di Cesena e quella di Imola. Particolare rilevanza è stata data al progetto “Salute mentale in carcere”, con la finalità di costituire un’equipe psichiatrica negli Istituti penitenziari della Regione. Sassari: al San Sebastiano droga per affermare il potere di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 11 giugno 2012 La droga per affermare il potere dentro il carcere di San Sebastiano e continuare a gestire i rapporti con l’esterno. E la postazione di comando - secondo la Direzione distrettuale antimafia di Cagliari che ha chiesto e ottenuto sette misure cautelari per traffico di sostanze stupefacenti e associazione per delinquere - stava al secondo piano. Nella cella 10, quella di Pino Vandi, 48 anni, e dei suoi “servitori fedeli” agevolati da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Si torna, così, anche all’omicidio di Marco Erittu (il pentito Giuseppe Bigella, ritenuto attendibile, ha indicato Vandi come mandante) ucciso a San Sebastiano il 18 novembre 2007: una decisione estrema, quella di tappargli la bocca per sempre, perché voleva raccontare quel che era venuto a sapere sulla scomparsa di Giuseppe Sechi, il muratore di Ossi sparito nel nulla il 22 marzo del 1994 dopo essere partito da Sorso, da casa della compagna. Una morte collegata al sequestro del farmacista di Orune Paoletto Ruiu, rapito il 22 ottobre del 1993 e mai tornato a casa: un lembo dell’orecchio di Sechi venne inviato ai familiari per sollecitare il pagamento del riscatto. Una storia sempre aperta, mai chiarita fino in fondo. I carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Sassari, ieri all’alba hanno notificato i provvedimenti restrittivi, alcuni in carcere, altri a ex detenuti. Solo uno, che ha avuto un ruolo minore nella vicenda, è sfuggito alla cattura ed è attivamente ricercato. A Pino Vandi, la nuova accusa che lo indica come “capo” del traffico di droga dietro le sbarre, è stato notificato nella casa circondariale di Vigevano, dove è stato trasferito da qualche tempo. Pietro Saba, “il conte”, 63 anni, sassarese, ha ricevuto la comunicazione nella casa circondariale di Nuoro, mentre Mario Salvatore Sanna, 43, di Sassari, si trova attualmente rinchiuso a Mamone. Bruno Deaddis, 44, sassarese, l’ha ricevuta a San Sebastiano e Giampiero Carboni, 43, anche lui di Sassari, nella casa circondariale di Macomer. Gli altri, al tempo in cui è partita l’inchiesta - da maggio 2007 alla 2009 - erano detenuti a San Sebastiano: si tratta di Mario Iacono, 49 anni, algherese, e di un giovane di 22 anni, nato a Sassari, che è sfuggito alla cattura. I dettagli dell’operazione sono stati illustrati ieri mattina in una conferenza stampa dal capitano Simone Martano, comandante della compagnia di Sassari, alla presenza del direttore del carcere di San Sebastiano Francesco D’Anselmo e del comandante della polizia penitenziaria, il commissario Pier Maria Basile. Una cinquantina i casi documentati (con altrettanti indagatati) nell’ambito delle indagini coordinate dal procuratore Carlo Moi della Dda, e portata avanti dai carabinieri del nucleo operativo della compagnia con la collaborazione della polizia penitenziaria. La droga veniva ordinata in carcere, attraverso i galoppini, e pagata fuori per la parte in denaro, mentre in carcere la contropartita era rappresentata da capi di abbigliamento, orologi, detersivi, sigarette e prodotti alimentari. La compiacenza di alcuni agenti della polizia penitenziaria (Antonio del Rio era stato arrestato) - secondo l’accusa della Dda - veniva ricompensata con denaro e favori di vario genere, persino con l’offerta di rapporti sessuali con prostitute straniere. Pino Vandi, dunque, è stato indicato come il capo e “sotto di lui” numerose persone. Quelle che si facevano portare la “roba” in carcere dai familiari durante i colloqui, quelli che la introducevano direttamente dopo i permessi. E quelli che la nascondeva e prelevavano nel rispetto di ordini precisi. Cocaina, eroina, ma anche hascisc e marijuana, metadone e centinaia di pastiglie di Tavor. La droga veniva occultata nel doppio fondo di scarpe, negli accendini, nell’intercapedine dei termosifoni tra una cella e l’altra, in lavanderia e nella barberia. La droga veniva chiamata in vari modi, “bollini” e “litri” i termini più comuni. Lo stupefacente arrivava puro in carcere e il taglio avveniva nelle celle dei “galoppini” delegati. Nessuno poteva sognarsi di sgarrare, e quando qualche volta è accaduto, a un detenuto era stato rotto un braccio per punizione. Roma: Radicali; bancarotta della giustizia e carceri illegali, domani conferenza stampa Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2012 Martedì 12 giugno, alle ore 13.30 a Roma presso la Sala stampa della Camera dei Deputati, in via della Missione 4, Marco Pannella, che venerdì scorso ha ripreso l’iniziativa nonviolenta di digiuno per l’Amnistia, la giustizia e libertà, presenzierà alla conferenza stampa del consigliere nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) e segretario regionale delle Marche Aldo Di Giacomo, il quale illustrerà le ragioni che l’hanno spinto a intraprendere uno sciopero della fame giunto oggi al 22° giorno. Alla conferenza interverranno inoltre la deputata radicale in Commissione Giustizia Rita Bernardini e la segretaria dell’associazione radicale Il detenuto ignoto Irene Testa. Ed è proprio dalle Marche che in queste ore giunge notizia di un nuovo suicidio che si è consumato nel carcere di Montacuto ad Ancona, un istituto con gravi problemi di sovraffollamento e carenza di personale, con un alto tasso di detenuti tossicodipendenti e casi psichiatrici. Sulle condizioni della struttura di Montacuto Rita Bernardini aveva presentato un’interrogazione parlamentare alla quale il governo risponderà giovedì prossimo. Padova: l’ergastolo dietro un pallone… Il Mattino di Padova, 11 giugno 2012 L’Union Voltaroncaglia nasce nel 1983 come società sportiva della parrocchia di san Basilio Magno a seguito della fusione di due realtà calcistiche locali. 140 gli atleti attualmente tesserati, dai cinque anni in su, che militano in sette diversi campionati. La prima squadra nelle scorse settimane si è salvata ai playout contro il Sacra Famiglia, rimanendo in seconda categoria. A far parte della spedizione del VoltaRoncaglia al Due Palazzi di Padova c’erano 16 ragazzi, tutti amici tra di loro, dai 20 ai 25 anni: di questi, alcuni militano tutt’ora nella seconda categoria, gli altri, pur essendosi ritirati dal calcio giocato, rimangono ancora legati a questa società, all’interno della quale da bambini hanno incontrato gli amici della vita. “Dopo aver superato tutti quei controlli, metal detector e guardie, con il rumore dei cancelli dell’entrata chiusi alle nostre spalle e il campo da gioco di fronte a noi, siamo entrati in un altro mondo, per noi surreale”. I sedici giovani di Roncaglia, tutti atleti o ex atleti della società sportiva Union Voltaroncaglia, hanno abbandonato solo per una mattina la loro normale vita per affrontare sul campo da calcio del carcere Due Palazzi di Padova avversari che non avevano mai incontrato prima: i detenuti del braccio di alta sicurezza. Esponenti della malavita organizzata, a volte assassini, quasi tutti ergastolani. “Con la mia scuola, il Gramsci, ero già stato due volte all’interno del Due Palazzi”, racconta Roberto Nardo, classe ‘89, “sono tornato ieri , questa volta con la mia squadra, su invito del mio vecchio professore di educazione fisica, Gianpaolo Munari”. L’imbarazzo del primo momento è svanito quando l’arbitro ha fischiato il calcio d’inizio: “Si vedeva proprio”, racconta Federico Caretta, “che non vedevano l’ora di giocare un 11 contro 11”. Una partita amichevole, “all’acqua di rose”, nessun fallo e nessuna contestazione, perché i detenuti “sanno di dover sfruttare bene queste poche occasioni che hanno per divertirsi”. Ma anche, inaspettatamente, un incontro dall’alto tasso tecnico: “Nonostante un’età media di 35 anni”, osserva Nardo, “i nostri avversari ci tenevano a fare bella figura”. Presto, però, “più che a giocare a calcio ci tenevamo a parlare con queste persone”, racconta ancora Caretta. “Alcuni dei detenuti devono affrontare l’esame di maturità perciò hanno colto l’occasione di questo incontro per avere delle “dritte”, ad esempio sapere che temi potrebbero uscire quest’anno secondo noi colleghi studenti. Altri, invece, hanno voluto raccontarci le loro giornate. Un po’ prima dell’ora di pranzo, alzando gli occhi dal campo di calcio abbiamo visto una carrucola che saliva fermandosi ad ogni piano: in questo modo si passano il cibo da una cella all’altra, attraverso le finestre. Ma non tutti i detenuti erano dietro le sbarre. Oltre a quelli impegnati con noi nella partita di calcio, c’erano i tifosi che assistevano mentre altri si allenavano nei campi di basket e di pallavolo lì accanto”. “I detenuti dell’alta sicurezza”, continua Caretta, ci hanno spiegato che “non possono lavorare, possono solo studiare o fare un po’ di sport nel poco tempo in cui sono autorizzati a lasciare la loro cella”, tanto che la partita è dovuta finire con qualche minuto d’anticipo per lo scadere del tempo che gli era stato concesso, sul 3 a 3. “Mentre uscivamo dal campo”, conclude Nardo, “uno di loro ci ha salutato con un urlo: “Mi raccomando, non fate cazzate!” È un uomo condannato all’ergastolo. Immigrazione: Cie di Trapani; gli abitanti del carcere perfetto… unica colpa essere stranieri di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese La Repubblica, 11 giugno 2012 Sono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato. Si rifiutano di scontare la pena. Tentano la fuga, ma non tutti riescono a farlo. Dentro c’è anche chi è stato intrappolato dalla burocrazia: dissidenti politici che non esistono per il loro paese, cittadini europei, padri di bambini nati in Italia arrivati più di venti anni fa. Alla fine dell’autostrada Palermo-Trapani, nascosto dalle siepi, c’è il nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie) di contrada Milo a Trapani. Inaugurato a luglio 2011 questo centro, al contrario di molti altri ricavati in edifici come ex ospizi o comunità per tossicodipendenti, è stato progettato e costruito per essere un Cie modello. La struttura è praticamente inaccessibile dall’esterno e si trova lontano dal centro abitato. Una torre centrale domina i cinque settori in cui si divide, alti cancelli color giallo canarino separano le aree. Il modo in cui è stato realizzato fa pensare all’occhio del sorvegliante che penetra la vita dei sorvegliati costantemente, con l’intento di rendere la permanenza una punizione esemplare. Un Panopticon di ultima generazione pensato per la detenzione amministrativa, il carcere perfetto ideato dal filosofo inglese Jeremy Bentham che lo definì “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e in quantità mai vista prima”. Oggi che il centro è aperto quel progetto sembra fallito del tutto. I reclusi rifiutano di scontare una pena ingiusta, prolungabile fino a diciotto mesi. L’unico modo che hanno di opporsi è quello di ribellarsi e tentare di scappare dalla gabbia. Le barriere architettoniche interposte tra loro e il mondo esterno non servono a fermali. Abbiamo visto come idranti e lacrimogeni vengono utilizzati per contrastarli, ma anche quelli non bastano. I più giovani si arrampicano sul recinto, mentre alcuni tengono impegnati gli agenti altri saltano dall’altro lato e si danno alla macchia. Spesso li si vede correre sull’autostrada, camminano per giorni prima di trovare un centro abitato. Circa una settimana fa sono scappati in centodiciotto. A detta dei finanzieri di guardia, è stata una notte “intensa” quella. Ma non tutti hanno l’energia per tentare la fuga. Qui dentro finiscono anche padri di famiglia, persone in età da pensione, residenti in Italia da decenni e che sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno. È il caso di Klay Aleya, nato in Tunisia nel 1962 e arrivato regolarmente in Italia nel lontano1988. Gli hanno contestato l’ingresso illegale nel 2010 ma lui è residente a Nettuno, dal suo arrivo ha sempre lavorato come pittore edile. Klay è per giunta sposato e convive con una cittadina europea dal 2001. Nel 2009 ha fatto richiesta di rinnovo del permesso presentando tutti i documenti necessari. Ma la macchina burocratica per lui si è inceppata, ad oggi aspetta ancora una risposta. È stato fermato e portato al Cie di Ponte Galeria a Roma per poi essere trasferito nel nuovo Cie di Trapani. Il suo avvocato, Serena Lauri, ha presentato ricorso contro il decreto di espulsione, nel frattempo l’unico modo che abbiamo per parlare con lui è da dietro le sbarre. Le stesse sbarre che lo tengono lontano dalla moglie e dal lavoro. Poi ci sono i casi impossibili da rimpatriare. Quelli che i consoli non riconoscono. Nel Cie di Trapani molti reclusi hanno fatto la spola diverse volte con l’aeroporto di Palermo, dove il console tunisino dovrebbe fare il riconoscimento ‘sotto bordò. Ma la Tunisia non è obbligata a riprendersi tutti. A quanto pare, gli accordi bilaterali prevedono il rimpatrio di chi è arrivato irregolarmente dopo il 5 aprile 2011. Chi è in Italia da molti anni e soprattutto chi ha scontato anni di carcere per reati come lo spaccio di droga, difficilmente ottiene il nulla osta del consolato per essere riportato indietro. Tutte persone che prima o poi verranno rilasciate per scadenza dei termini, dopo aver scontato per diciotto mesi un castigo senza delitto. Un signore croato di sessantuno anni ci racconta di essere un disertore. Lui i documenti non li ha mai potuti fare per paura di essere rintracciato. All’epoca era scappato da un paese in guerra, se fosse rimasto avrebbe dovuto prendere parte al conflitto che ha devastato l’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995. Da allora si nasconde in Italia, per il suo paese lui è una persona morta. Per l’anagrafe non esiste più. Mohammed invece ha fatto nove anni e mezzo di carcere, viveva ad Ancona con la famiglia e sperava di tornare dalla moglie che ha un regolare permesso di soggiorno e dalla figlia, nata in Italia. Invece, il giorno in cui ha finito di scontare la pena, la polizia lo ha preso all’uscita dal penitenziario e l’ha portato fino a Trapani. Lo Stato italiano deve ancora riuscire a identificare una persona che è stata un decennio fra le sbarre. L’articolo 15 del Testo Unico sull’Immigrazione prevede che lo straniero autore di un reato venga identificato contestualmente alla reclusione in carcere. Ma questa norma non è mai applicata. E oltre la metà dei reclusi nei Cie, in qualche centro anche l’80 per cento, sono ex detenuti. Un modo semplice per tenere i centri sempre pieni. Il risultato è che nella stessa gabbia convivono onesti lavoratori, giovani migranti appena entrati illegalmente, persone nate in Italia da genitori stranieri che per qualche motivo non hanno la cittadinanza italiana e persone che hanno compiuto crimini più o meno gravi. Iran: allarme di “Iran Human Rights”, presto giustiziati 8 detenuti Aki, 11 giugno 2012 Otto detenuti iraniani, tra cui cinque di etnia araba originari della provincia sud-occidentale di Ahwaz, rischiano di essere giustiziati nei prossimi giorni nella Repubblica Islamica. A lanciare l’allarme è Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights (Ihr), un’Ong che si batte contro la pena di morte. Secondo Amiry-Moghaddam, “la pressione della comunità internazionale è l’unica speranza” che hanno questi detenuti per evitare la morte. Fonti in Iran, citate in una nota da Ihr, hanno riferito che nelle ultime ore cinque “prigionieri politici” dell’Ahwaz sono stati trasferiti nel braccio della morte. Già a marzo, diverse Ong avevano lanciato l’allarme sulla loro imminente esecuzione. Tutti i detenuti in attesa di essere giustiziati sono stati arrestati lo scorso anno durante manifestazioni anti-governative e sono stati incriminati per aver l’omicidio di un poliziotto. Gli altri detenuti in attesa di essere condannati a morte sono una donna di 28 anni, Safieh Ghafouri, che si trova rinchiusa nel carcere Abel Abad di Shiraz e due iraniani accusati di omicidio e rapina a mano armata che potrebbero essere giustiziati già oggi a Bushehr, nel sud del Paese. Libia: inviati Cpi arrestati; accusati di spionaggio, resteranno almeno 45 giorni in carcere Ansa, 11 giugno 2012 I quattro membri di una delegazione della Cpi (Corte penale internazionale), detenuti da giovedì in Libia dove si erano recati per incontrare in carcere Saif al-Islam Gheddafi, sono stati posti oggi in detenzione preventiva per 45 giorni. Lo riferisce una fonte dell’ufficio del procuratore generale libico. Ajmi al-Atiri, capo della brigata di Zintan che ha imprigionato i quattro, ha detto che gli inviati della Cpi, detenuti finora in una casa, sono stati “trasferiti da ieri in una prigione su ordine del procuratore generale”. Secondo fonti della Corte penale, i quattro sono stati arrestati giovedì scorso a Zintan, a 170 km a sud-ovest di Tripoli, dove erano arrivati per incontrare in carcere il figlio di Muammar Gheddafi, Saif al-Islam. Sulle loro teste peserebbe l’accusa di spionaggio per avere cercato di consegnare alcuni documenti a Saif. Ieri il rappresentante della Libia nella Cpi, Ahmed Jehani, ha precisato che soltanto due membri dell’equipe: l’avvocato australiana Melinda Taylor e il suo interprete, Helen Assaf, erano stati arrestati, mentre gli altri due (un russo e uno spagnolo) sono rimasti con lei volontariamente. Perduca: Italia interceda immediatamente per rilascio “Oltre che accertarsi che quanto battuto poco fa dalle agenzie corrisponda al vero, e cioè che una delegazione di quattro persone della Corte Penale Internazionale sarebbe stata fermata nella città di Zintan nel sud della Libia da una milizia locale. Il fermo sarebbe avvenuto dopo che un esponente della delegazione, l’avvocato australiano Melinda Taylor, è stata trovata in possesso di documenti sospetti destinati a Saif al-Islam Gheddafi, detenuto, ma forse sarebbe meglio dire sequestrato da non si sa bene chi, proprio in quella città. Occorre che l’Italia, che da subito ha inteso confermare col Cnt libico gli ottimi rapporti sempre esistiti col regime di Gheddafi, si adoperi per sostenere la dichiarazione del presidente della Cpi Song Sang-Hyu liberando la delegazione e consentendo loro di fare il proprio lavoro per garantire a Saif Al Islam possa i diritti umani di cui gode anche se detenuto e un giusto processo di fronte alla corte dell’Aia. Egitto: ex presidente Hosni Mubarak in coma, ma resta rinchiuso in carcere Ansa, 11 giugno 2012 L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak è entrato in coma. Le critiche condizioni cardiocircolatorie di Mubarak, hanno richiesto fino ad ora due interventi di defibrillazione operati nell’ospedale della prigione dove è detenuto. Il paziente ha anche perso e riacquistato più volte coscienza e ha sistematicamente rifiutato di nutrirsi. Le autorità del carcere di Tora hanno accolto la richiesta dell’ex rais di avere i suoi figli vicino dopo il peggioramento delle sue condizioni di salute. Gamal e Alaa Mubarak sono entrambi detenuti nello stesso penitenziario. La famiglia ha chiesto formalmente il trasferimento in un ospedale del Cairo, ma la richiesta non è stata fin qui accolta perché potrebbe innescare un’ondata di proteste degli attivisti anti regime, proprio alla vigilia del secondo turno delle elezioni per il successore dell’ex presidente egiziano. Le autorità hanno ripetutamente detto che Mubarak sarà “trattato come tutti gli altri detenuti” ed è difficile fare macchina indietro. Il legale di Mubarak, Farid al-Deeb, ha, tuttavia, detto che “riterrà il ministero dell’interno e la procura responsabili se il suo assistito dovesse morire in carcere”. L’84enne, condannato all’ergastolo per la repressione delle proteste contro il suo regime che ha provocato 850 morti, soffre di depressione acuta, di pressione alta e ha difficoltà respiratorie, e le sue condizioni sono peggiorate da quando lo scorso 2 giugno è stato trasferito nella prigione di Tora.