Giustizia: servirebbe un’amnistia per 23 mila detenuti, non la cosiddetta “svuota-carceri” di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 9 gennaio 2012 A pochi giorni dall’entrata in vigore del decreto legge voluto dal ministro della Giustizia Paola Severino per fronteggiare il sovraffollamento galoppante, l’unico dato certo che abbiamo sulle scarcerazioni riguarda gli effetti della legge Alfano dell’anno precedente (legge n. 199 del 2010) che prevedeva la possibilità di concedere la detenzione domiciliare a chi avesse ancora un anno di pena da scontare, purché non si fosse macchiato di crimini ritenuti di particolare gravità. Al 31 dicembre del 2011 ne hanno usufruito 4.304 detenuti. Le previsioni erano ben più ottimistiche e parlavano di oltre 8 mila persone quali possibili beneficiari. L’impatto ridotto è dovuto a vari motivi: un po’ perché i magistrati di sorveglianza, gli assistenti sociali e gli educatori penitenziari non sono in numero sufficiente per istruire le pratiche e per verificare se la persona ha una casa dove andare (unico requisito extra-giuridico richiesto), un po’ perché una parte delle persone recluse non ha una residenza fuori dal carcere né una qualunque forma di sostegno socio-abitativo. Uno dei due pilastri del decreto legge in attesa di conversione prevede l’estensione da 12 a 18 mesi del residuo pena sotto il quale è possibile chiedere la detenzione domiciliare. Si pensi che ad oggi sono circa 13 mila le persone che hanno da scontare meno di un anno e mezzo di carcere e che potrebbero ottenere la detenzione domiciliare. Più o meno 3 mila di queste però incorrono in vincoli legislativi che vietano la concessione di qualsiasi beneficio. Un altro terzo dei 13 mila è costituito da stranieri privi di documenti validi di soggiorno e di riferimenti affettivi esterni. Rimangono circa 6-7 mila che nel giro di un anno e mezzo potrebbero uscire seppur a ritmi lenti. Rispetto quindi alla legge Alfano si è allargata di 3 mila unità la platea di potenziali beneficiari della detenzione domiciliare. C’è però da considerare che prima dell’entrata in vigore della legge Alfano (dicembre 2010) i detenuti erano di numero più o meno uguale a quelli contati all’inizio del dicembre 2011. La mancata deflazione carceraria, nonostante le 4 mila scarcerazioni e la riduzione del tasso di delittuosità nel Paese, si spiega per almeno tre ragioni. 1) il grosso impatto numerico della legge sulle droghe che porta a ingressi continui di giovani e meno giovani nel circuito penitenziario; 2) il crescente uso della custodia cautelare che ci porta al triste record europeo del 42,5% della popolazione detenuta composta da persone recluse ma non definitivamente condannate; 3) la decisione dei giudici di sorveglianza (in grande affanno essendo meno di 200 per oltre 67 mila detenuti) di sostituire il più efficace affidamento in prova al servizio sociale con la più controllata detenzione domiciliare. Pertanto il numero complessivo delle persone in misura alternativa resta più o meno stabile. Si può quindi ragionevolmente presumere che non sarà questa parte della legge a ridurre drasticamente i numeri penitenziari e il surplus di 22 mila unità del nostro sistema. Si tenga conto, inoltre, che la legge sulla detenzione domiciliare cesserà di vivere nel 2013, limite temporale non messo in discussione dal decreto Severino. Meno facile da quantificare è l’effetto del secondo pilastro del decreto legge, ossia quello diretto a evitare il passaggio carcerario delle persone fermate per reati non gravi le quali dovranno essere condotte nella fase pre-cautelare non più in carcere ma nelle camere di sicurezza dei commissariati e delle caserme dei carabinieri. In questo caso l’effetto numerico si misurerà in termini di mancati ingressi di coloro ai quali non sarà confermata dal giudice la misura della custodia cautelare in carcere. Qualora le forze dell’ordine interpreteranno il provvedimento come una forma di dissuasione da fermi non necessari, l’effetto potrà essere particolarmente significativo e potremmo anche avere un sensibile calo di detenuti nel medio periodo. Certo è che una amnistia e un indulto di tre anni generalizzati farebbero uscire in un sol colpo dalle patrie galere circa 23 mila persone, proprio quelle che ci consentirebbero di tornare nella legalità penitenziaria. Giustizia: carceri, condizione disumana di Laura Coci Il Cittadino, 9 gennaio 2012 Il degrado delle carceri italiane è tale da “rendere ancora più amara la detenzione”, considerati il valore rieducativo attribuito alla pena dall’articolo 27 della Costituzione e il rispetto che si deve alla dignità di ogni persona, a prescindere dalla sua condizione e dal suo agito. Sono parole di Benedetto XVI, in visita alla Casa di reclusione di Rebibbia il 18 dicembre scorso, due giorni dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un pacchetto di misure urgenti in risposta allo stato di emergenza in cui versa il sistema penitenziario italiano. È il primo provvedimento di natura non economica assunto dal nuovo governo: “il sovraffollamento è il primo dei miei pensieri”, ha dichiarato Paola Severino, ministro della Giustizia, che non ha escluso la possibilità di ricorrere ad amnistia e indulto, “strumenti utili per alleviare l’affollamento nelle carceri”. Nei giorni immediatamente successivi, i media hanno forzato la natura del decreto, di alleggerimento di una situazione penitenziaria ormai ingestibile, denominandolo impropriamente “svuota carceri”. Come noto, a fronte di una capienza regolamentare di meno di 45mila posti, in Italia si contano oltre 68mila detenuti (di questi, 28mila sono in attesa di giudizio e 44mila scontano una pena o un residuo di pena inferiore a tre anni - fonte: Antigone). La nuova norma consentirà di scarcerare circa 3.300 persone nel 2012: le prigioni italiane saranno perciò soltanto un poco meno affollate di quanto non lo siano ora. Un primo piccolo passo, comunque significativo. La misura di alleggerimento sarà resa possibile portando da 12 a 18 mesi la pena residua da poter scontare in detenzione domiciliare ed evitando la traduzione in carcere agli arrestati in flagranza di reato, i quali saranno trattenuti nelle celle di sicurezza dei posti di polizia in attesa del processo per direttissima, che dovrà essere celebrato entro 48 ore (sono ben 21mila in un anno le persone ristrette in carcere per pochi giorni). Tra i provvedimenti previsti, vi sono poi la detenzione domiciliare in prova, i lavori socialmente utili per pene fino a 4 anni, la depenalizzazione dei reati irrisori, un disegno di legge per trasformare in illecito amministrativo i reati che prevedono la sola pena pecuniaria (con esclusione di quelli in materia di edilizia e ambiente, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica), norme per rendere più veloce il processo civile e per revisionare le circoscrizioni dei giudici di pace. Altri piccoli passi, di cui occorre non sottovalutare l’importanza: d’altra parte, e per definizione, sul terreno dell’esecuzione penale il passo non può essere che di formica. Di contro, in negativo, nessun passo indietro in materia di edilizia carceraria e nessuna prospettiva di abolizione o revisione di leggi criminogene tutte italiane: il nostro è infatti il paese che conta il maggior numero di persone ristrette per violazione della legge sulle droghe e di migranti criminalizzati in ragione del loro status, ed è anche il paese che colpisce con maggiore durezza la recidiva. Riguardo alla detenzione domiciliare, una precisazione è doverosa: si tratta comunque di detenzione, ovvero di privazione della libertà. Che è indubbiamente preferibile scontare nella propria abitazione (se questo è possibile), o all’interno di una casa di accoglienza, piuttosto che in uno spazio di pochi metri quadrati, condiviso con altri cinque o sei “concellini”, dove si mangia, si orina, si vive; tuttavia le restrizioni della detenzione domiciliare sono reali e comportano difficoltà di ordine pratico e psicologico che non possono essere taciute. Per questo è auspicabile che l’impegno civile di singoli e associazioni si traduca in un supporto concreto alle persone in detenzione domiciliare, ristrette per quanto fisicamente fuori dal carcere: il reinserimento, ovvero la finalità prima della pena, non può infatti prescindere dalle dimensioni dell’affettività e della socialità e, soprattutto, dall’opportunità del lavoro. Il lavoro rappresenta un’opportunità straordinaria, di cui tuttavia è arduo parlare in tempo di crisi economica. Ma non parlarne è impossibile, e non solo perché la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Il nuovo ordine economico e sociale, a livello planetario, esclude ferocemente dal benessere e dalla stessa possibilità di sopravvivenza la “zona sociale carceraria” (così definita da Vincenzo Ruggiero), ovvero devianti ed emarginati, materiale di risulta ormai ingrossato da senza casa ed ex detenuti, migranti e inoccupati, giovani precari e pensionati sociali. L’opportunità del lavoro si traduce - è evidente - in sicurezza sociale: incoraggiata dalla corresponsione di contributi alle cooperative e alle imprese che assumono persone detenute (dentro e fuori dal carcere), la misura alternativa del lavoro non può che essere incrementata da una politica lungimirante e accorta. Come noto, chi usufruisce delle misure alternative alla detenzione cade nella recidiva assai meno di chi sconta interamente la pena in carcere (22% contro 69% - fonte: A Buon Diritto). Il recente stanziamento di 48mila euro per il territorio lodigiano da parte della Regione Lombardia va in questa direzione: consentire la prosecuzione di progetti finalizzati al reinserimento lavorativo delle persone in esecuzione penale, il “Lavoro debole” per primo. Un piccolo passo anche questo, ma anche questo significativo. Il 2011 è stato un “annus horribilis” per le carceri italiane: 66 suicidi di detenuti (e 5 di agenti di polizia penitenziaria), circa 1.000 tentati suicidi e 5.400 atti di autolesionismo grave. Complessivamente 186 morti in carcere, morti di carcere, la cui età media non tocca i 40 anni (fonte: Ristretti Orizzonti). E il 2012 si apre con la morte di un internato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, strutture (sei in Italia) che rappresentano “una vergogna per un paese appena civile”, secondo le parole di Giorgio Napolitano. Eppure un piccolo passo nella direzione della giustizia è annunciato anche a questo riguardo: la chiusura degli Opg potrebbe infatti essere inserita nel decreto sulle carceri sottoposto all’esame del Parlamento in questi giorni, e, dunque, avvenire in tempi assai rapidi. Il sistema penitenziario italiano è ancora in stato di “emergenza” - come ha dichiarato il presidente della Repubblica nel suo intervento di fine anno - considerata “la condizione disumana delle carceri e dei carcerati”. L’emergenza, tuttavia, può essere superata. A piccoli passi. Giustizia: Coisp; camere sicurezza? pronti a chiedere parere Amnesty International Agi, 9 gennaio 2012 “Siamo pronti a chiedere l’intervento di Amnesty International affinché verifichi senza pregiudizi se le camere di sicurezza possono essere luoghi in cui un essere umano può essere trattenuto anche solo per 48 ore”. Franco Maccari, segretario generale del Coisp, Sindacato indipendente di polizia, rilancia la polemica sul ricorso alle camere di sicurezza previsto dal decreto svuota-carceri. “Quella dei detenuti nelle camere di sicurezza - attacca Maccari - è solo l’ennesima operazione di facciata, fatta senza tener conto della realtà che questa volta è davvero tragica. Lo abbiamo detto nei giorni scorsi, lo ripetiamo ora. La questione delle carceri italiane e la conseguente soluzione trovata e cioè di trattenere i detenuti nelle camere di sicurezza, non può diventare una “guerra tra poveri”, né un mezzo per acuire uno scontro di cui nessuno sente il bisogno. Però non ci piace questo atteggiamento impositivo assunto senza nessun criterio logico. Una soluzione, quella assunta dal governo, che tale non è perché non risolve i problemi né dei detenuti, né delle carceri, né tanto meno delle forze dell’ordine”. “Si spoglia un santo per vestirne un altro - conclude il segretario generale - così diceva un antico adagio. Ma la questione è davvero troppo seria per interrompere i canali della discussione e del confronto salendo su un ideale Aventino, senza tener conto di chi opera quotidianamente sul campo, tra mille difficoltà che sono evidenti”. Giustizia: Uno bianca; concessa la semilibertà a Marino Occhipinti Ansa, 9 gennaio 2012 Era stato condannato all’ergastolo per omicidio guardia giurata. Marino Occhipinti, uno dei componenti della “banda della Uno Bianca” ha ottenuto la semilibertà dal Tribunale di sorveglianza di Venezia Occhipinti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, compiuto durante un assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio (Bologna) il 19 febbraio 1988. Occhipinti, ex poliziotto della Squadra mobile di Bologna, è in carcere a Padova dal 1994 ed ha già usufruito di un permesso nel 2010. Parenti delle vittime: “Siamo fuori dalla grazia di Dio” - Questa la reazione di Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, informata della semilibertà ottenuta da Marino Occhipinti. “Gli auguro solo - ha detto - di non pentirsene”. La notizia “amareggia” l’associazione, anche se dopo la richiesta fatta nei giorni scorsi “io me lo immaginavo, ma speravo che tenessero conto di quello che lui ha fatto. Ne prendo atto, ma sono perplessa. Non so cosa dire”. Forse la decisione del tribunale è dovuta, ha detto ancora Zecchi, “a questa cosa che vogliono liberare le carceri”. Occhipinti, ha sottolineato la presidente dell’associazione, “ha ucciso una persona, un giovane. Poi si è dissociato dicendo che fu un atto di debolezza. Ma non è stato così: è stato zitto per sette anni. Se avesse parlato, altri si sarebbero potuti salvare. Lui sapeva che cosa agiva nella questura di Bologna”. Padre di Beccari: “Marcisca in galera” - “Non accetto niente. Lui deve star dentro, deve marcire dentro”. Così Luigi Beccari, anziano padre di Carlo, ucciso dalla Banda della Uno Bianca, ha commentato la notizia della semilibertà ottenuta da Marino Occhipinti. Che è stato condannato all’ergastolo proprio per l’omicidio della guardia giurata, compiuto durante un assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio, alle porte di Bologna, nel 1988. “Sono avvelenato, siamo tutti avvelenati”, ha spiegato Beccari. “Mi hanno detto - ha aggiunto - che sua madre vuole venire in casa mia, a chiedere perdono. Ma quale perdono, quali scuse? Io ho un figlio morto, e ora sono solo, in una carrozzina. Mia moglie è in una casa di riposo e non abbiamo nessuno. Quel delinquente lì deve stare dentro”. Madre Occhipinti: “Non so nulla, ma mi fa piacere” - “Non ne so nulla, ora cercherò di chiamare mio figlio in carcere”. Solo poche parole, pronunciate con un filo di voce essendo stata operata da poco, da parte di Graziella Baldi, la madre di Marino Occhipinti, che abita a Santa Sofia nel Forlivese. Nei giorni scorsi la donna aveva detto di comprendere il dolore dei familiari delle vittime, ma allo stesso tempo che il figlio oggi è “un’altra persona” e perciò sperava di riabbracciarlo a casa. Alla domanda, quindi, sulla semilibertà ottenuta, ha risposto: “Certo che mi fa piacere. Ora però la saluto”. Legale: “Applicazione rigorosa della legge” - “L’unica cosa che posso dire è che è stata fatta una applicazione rigorosissima della legge in fatto e in diritto, così come era stato fatto quando venne irrogata la sanzione più dura che la legge italiana prevede, cioè l’ergastolo”. Con queste parole Milena Micele, avvocato del foro di Bologna che assiste Marino Occhipinti, ha commentato l’ottenimento della semilibertà per il componente della banda della Uno bianca. La misura alternativa di detenzione per Occhipinti significherà uscire dal carcere di Padova la mattina per andare a lavorare, per poi rientrare. “È una modifica profonda - ha aggiunto il legale - per una persona che è in carcere da quasi vent’anni, come si può facilmente capire”. L’avvocato ha voluto anche sottolineare “l’assoluto e massimo rispetto per i famigliari delle vittime”. Lombardia: dalla Regione 2 milioni di euro per aiutare i carcerati a reinserirsi Ansa, 9 gennaio 2012 Due milioni di euro per aiutare i detenuti in condizioni di particolare fragilità e accompagnarli nel percorso di reinserimento nella società. È quanto prevede la delibera approvata dalla giunta regionale della Lombardia su proposta dell’assessore alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale Giulio Boscagli. Linee Di Azione - Il provvedimento stabilisce inoltre che Regione Lombardia intende promuovere un modello che implementi il coinvolgimento delle diverse Direzioni Generali, delle Fondazioni e degli Enti pubblici, chiamati a collaborare per dare attuazione alle “Linee di azione 2012” in base alle quali si prevede di favorire il potenziamento degli interventi finalizzati al inserimento lavorativo, promuovere progetti personalizzati che rispondano ai reali bisogni della persona e della sua famiglia attraverso interventi finalizzati alla tutela dei diritti delle persone in esecuzione penale con particolare attenzione a giovani adulti, donne, immigrati e minoranze etniche, promuovere progetti di giustizia riparativa e iniziative di mediazione interculturale che favoriscano il dialogo, l’interscambio e l’interazione tra le diverse culture contribuendo a garantire pari opportunità e la non discriminazione. I Progetti - “Uno degli aspetti qualificanti - ha sottolineato l’assessore Boscagli - è il raccordo degli interventi all’interno del carcere con il territorio per favorire il percorso di uscita e di ammissione a misura alternativa nonché l’accesso alla stessa misura direttamente dalla libertà: in questo senso intendiamo elaborare e sostenere progetti finalizzati a rafforzare la funzione educativa e di accompagnamento per favorire i percorsi di inclusione sociale dei detenuti in uscita e per sostenere le loro famiglie”. Il piano di azione prevede interventi dentro e fuori dal carcere. All’interno dell’ istituto di reclusione sarà favorita la Responsabilità di Impresa coinvolgendo il mondo imprenditoriale nella realizzazione di progetti di inserimento lavorativo (Progetti di formazione raccordati con la dote lavoro finanziata dalla Direzione Istruzione, Formazione e Lavoro e specifici progetti di formazione sul campo e Progetti di inserimento lavorativo e Laboratori professionalizzanti). All’esterno della casa circondariale saranno sostenute iniziative di inserimento lavorativo con l’ abbinamento della persona al possibile posto di lavoro. Il contributo regionale sarà distribuito alle Asl della Lombardia. Ecco in dettaglio la ripartizione: Bergamo 170.000; Brescia 168.000; Como 120.000; Cremona 82.000; Lecco 60.000; Lodi 48.000; Mantova 68.000; Milano 392.000; Milano 1 200.000; Milano 2 174.000; Monza-Brianza 164.000; Pavia 168.000; Sondrio 40.000; Varese 146.000. Basilicata: Uil-Pa; carceri, il dramma lucano www.ilquotidianoweb.it, 9 gennaio 2012 Il resoconto della Uil sulla situazione delle case circondariali di Potenza, Matera e Melfi. Il sindacato contro le colpe di governo, Regione e amministrazione penitenziaria. È un lungo elenco di carenze che racconta il dramma degli istituti penitenziari anche in Basilicata il resoconto della Uil provinciale di Potenza relativo all’anno 2011. La regione è tra le ultime nel recepimento della normativa relativa al trasferimento della medicina penitenziaria al sistema sanitario nazionale con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 1 aprile 2008. Dopo tre anni l’iter burocratico non è stato ancora concluso, le infermerie presso le carceri sono abbandonate a se stesse, e l’osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria dopo l’istituzione, non era mai stato più convocato fino al mese di novembre scorso. La nostra Regione doveva essere capofila (nel concludere l’iter burocratico) presentando i dovuti progetti, mediante il quale costruire un sistema definitivo di presa in carico regionale dell’assistenza sanitaria in carcere, la costituzione di un gruppo di coordinamento regionale inter istituzionale per la salute, visto la presenza sul territorio di pochi strutture penitenziarie, a differenza delle altre regioni che presentano un sistema carcerario più complesso con maggiori Istituti e un alto indice di popolazione detenuta. Nonostante tutto, le realtà più grandi (come la Toscana - Emilia Romagna - Piemonte - ecco) sono letteralmente più avanti della Basilicata, anche il Molise, quest’ultima che si avvicina molto alla Basilicata per territorio e strutture carcerarie presenti, ma ha una marcia in più. “È la dimostrazione - secondo la Uil - della poca attenzione e sensibilità locale, dimostrata da chi esercita responsabilità amministrative e politiche verso un settore di estrema importanza, verso persone che seppur soggetti a limitazione della libertà personale, hanno il diritto di essere assistite. Negli uffici sanitari presso le strutture carcerarie, nulla è cambiato”. La medicina penitenziaria è ancora priva di una precisa pianta organica. La Uil segnala pure che “nonostante tutti gli sforzi sindacali ancora oggi persiste una situazione conflittuale nell’apertura di un reparto “protetto” per i detenuti, presso il nuovo Ospedale Madonna delle Grazie di Matera, anche se la spesa dove essere sostenuta dalla regione”. Il sindacato chiede un modello organizzativo per la Medicina Penitenziaria, da inserire nel piano sanitario regionale, con l’istituzione di una struttura operativa regionale della medicina penitenziaria con funzioni di coordinamento e monitoraggio del sistema carcerario, con le aziende sanitarie locale da garante ai servizi. L’auspico è che “con i nuovi direttori sanitari generali, si prenda cognizione subito della realtà carceraria e che nel più breve tempo possibile le parole dell’assessore regionale diventano realtà”. Sulla medicina penitenziaria, “anche l’amministrazione penitenziaria regionale non può sottrarsi alle proprie responsabilità, totalmente assente”. “Abbiamo avuto l’ennesima conferma dell’assenza e insensibilità dell’A.P., con la mancata presentazione al convegno del provveditore regionale che aveva dato la propria disponibilità; si è sottratto al dialogo e confronto senza dare nemmeno un preavviso”. In regione sono presenti quasi 500 detenuti su una capienza regolamentare (disponibile) di 349 posti, con un indice di sovraffollamento pari al 38,7%, di fronte a una carenza di personale di 40 unità in base al decreto del 2001 che stabilisce le piante organiche. “Un decreto oggi non attendibile, poiché non rispecchia più la realtà degli istituti”. Potenza e Melfi continuano ad essere le situazioni più complesse e pericolose. Gli Istituti lucani rispecchiano quello che è il dramma carcerario. Per Potenza va aggiunto che si tratta di una struttura del ‘58 fatiscente e pericolante, che perde pezzi giorno dopo giorno, carente di spazi, con il personale costretto a lavorare in ambienti insalubri privi di igiene, qui. L’edilizia penitenziaria regionale è da anni bloccata, nel recente piano carceri, il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria non ha minimamente inteso investire anche in questa regione, neanche in manutenzione straordinaria. “Più che nuove carceri, c’è bisogno di un carcere nuovo, un modello diverso di gestire il sistema. Prima che vengano costruiti i nuovi istituti si corre il rischio che le vecchie ci crollano addosso. Ci sono problemi strutturali che potrebbero mettere a rischio l’incolumità dei detenuti e del personale”. “Il Governo deve intervenire sul mondo carcerario con il sostegno di tutta la classe politica che appare ancora molto lontano da problemi non più rinviabili”. Firenze: detenuto 31enne si impicca, vittima della legge ex Cirielli e del degrado carcerario www.radiocarcere.com, 9 gennaio 2012 Un detenuto di soli 31 anni, si è impiccato verso le ore 7.30 di ieri nel bagno della sua cella del carcere Sollicciano di Firenze. L'uomo soffriva di una grave forma di depressione, ragion per cui, fino a pochi mesi fa, si trovava in detenzione domiciliare nell’attesa che terminasse il processo a suo carico in ordine al reato di furto. Poi, una volta diventata definitiva la condanna, al Giudice non è rimasta altra scelta che rimetterlo in carcere nonostante il suo precario stato psicologico. Un automatismo imposto dalla legge ex Cirielli per chi è recidivo. Un automatismo che, togliendo discrezionalità al giudice che non può più decidere caso per caso, produce ingiustizia e, come in questo caso, anche la morte. Tant’è che la mattina del 7 gennaio, l'uomo è entrato nel bagno della sua cella verso le 7 e 30 e si è impiccato. Proprio perché depresso era sottoposto a una stretta sorveglianza da parte degli agenti. Agenti che però nella sezione del carcere di Sollicciano dove era detenuto l'uomo sono solo 4 per un totale di 400 detenuti. “Dall’inizio del 2012 - sottolinea Donato Capece, segretario del Sappe - contiamo già 3 morti in carcere e 6 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria. Una emergenza nell’emergenza sovraffollamento carcerario rispetto alla quale il Sappe torna a chiedere urgenti provvedimenti a Governo e Parlamento”. Comunicato Coordinatore Garanti regionali dei detenuti Salvo Fleres, Coordinatore nazionale dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti, su suicidio a Sollicciano: “Il nuovo anno è appena iniziato e nelle carceri si è già verificato il terzo decesso del 2012”. “È ormai improcrastinabile un intervento del Governo mirante alla soluzione delle numerose problematiche che affliggono il pianeta carcere. In soli sette giorni tre reclusi sono morti e sei hanno tentato il suicidio. Questo è un chiaro segno del malessere presente all’interno di tutte le strutture penitenziarie del nostro Paese. Non sono più tollerabili interventi miranti a risolvere le singole emergenze, è necessario invece affrontare complessivamente i numerosi problemi iniziando dal sovraffollamento per proseguire con le assunzioni del personale di polizia penitenziaria, l’adeguamento degli organici di tutti gli altri soggetti che a qualsiasi titolo prestano la loro attività all’interno degli Istituti ed anche il superamento delle ormai note carenze della sanità penitenziaria. Per quanto di mia competenza presenterò numerosi emendamenti al nuovo decreto in discussione in Senato, che affrontano quanto appena evidenziato”. Siracusa: detenuto paralizzato da 3 anni sconta le sue ore sulla branda della cella Redattore Sociale, 9 gennaio 2012 Nel carcere di Siracusa, ha l’aiuto di un piantone solo per 3 ore al giorno. Da 3 anni non fa l’ora d’aria, non ha le visite specialistiche e le fisioterapie di cui ha bisogno. La famiglia non può raggiungerlo e “non ho vestiti puliti con cui cambiarmi” È paralizzato, e da tre anni vive in carcere. Sconta le sue ore sdraiato su una branda, con l’assistenza di un “piantone” soltanto per 3 ore al giorno. Il resto della giornata resto solo, sdraiato su questa branda e senza nessun aiuto. Abbandonato a se stesso. È la condizione di Antonio, detenuto nel carcere di Siracusa, raccontata in una lettera scritta alla redazione di Radiocarcere. Una vicenda capace di raccontare, al di là del problema del sovraffollamento, tutta l’inadeguatezza del sistema penitenziario italiano, drammaticamente incapace di stare nel solco del dettato costituzionale che chiede la finalità riabilitativa di ogni pena. “Non mi lasciano a disposizione neanche la sedia a rotelle per tutto il giorno - dice Antonio - con la conseguenza che da tre anni non vado a fare l’ora d’aria, né posso recarmi in chiesa. In poche parole sono murato vivo”. Antonio ha chiesto più volte al medico del carcere di poter svolgere la fisioterapia prescritta dai medici, “ma nessuno mi ha mai risposto, come non hanno mai ottemperato all’obbligo di portarmi in ospedale per sottopormi alle visite specialistiche di cui ho bisogno. In pratica sono abbandonato sul letto della mia cella”. Inoltre, la famiglia di Antonio vive in Calabria e per ragioni economiche non può raggiungerlo: “Ragion per cui, non solo sono disperato perché non vedo i miei cari, ma sono anche vestito come un barbone, dato che non ricevendo visite, non ho neanche un pacco di vestiti puliti con cui cambiarmi. Sono tre anni che vivo così e ora sono davvero arrivato all’esasperazione. Non chiedo la libertà - prosegue nella sua lettera il detenuto -, ma come persona detenuta paralizzata chiedo cure e la vicinanza della mia famiglia. È forse chiedere troppo?”. Torino: al carcere delle Vallette catena di suicidi, viaggio dentro un malessere La Repubblica, 9 gennaio 2012 I suicidi del 2011 a Torino hanno rialzato l’allarme sulle condizioni dietro le sbarre. La causa è addebitata spesso al sovraffollamento. Troppo spesso. Perché se è vero che le carceri esplodono, sondando tra pareri e umori di chi il carcere lo vive, la situazione pare più complessa. Per esempio l’ultima morte di Capodanno, quella di Aurel Condrea, romeno di 37 anni, spiazza le previsioni. Perché Condrea era ben inserito, faceva parte della squadra di rugby e viveva nella sezione Arcobaleno, che dovrebbe garantire le migliori condizioni: celle singole, spazi aperti, maggiore libertà. “Sul carcere si continua a ragionare secondo schemi vecchi”, sostiene un detenuto: “è vero che dal punto di vista delle strutture sempre insufficienti - il carcere non cambia, ma sono radicalmente cambiate le subculture. Per esempio la tradizionale, magari omertosa, solidarietà è scomparsa, travolta da logiche di clan e nazionali”. Nelle carceri piemontesi gli stranieri sono circa la metà, con punte del 60 per cento a Biella. Le varie comunità fanno gruppo a sé e anche gli italiani tendono a isolarsi. “La realtà così diventa difficile da capire e in questo modo il lavoro di educatori e volontari è ostacolato: scade la qualità degli interventi, aumenta il disagio”. E con il disagio l’aggressività: “In questi anni si assiste a una recrudescenza di metodi coercitivi violenti che si credeva superata”, dice Claudio Sarzotti, docente di Sociologia del diritto e coordinatore in Piemonte dell’associazione Antigone: “Non avrei mai immaginato di sentire parlare ancora di squadrette punitive”. “Parlando di carcere - continua il detenuto bisogna sempre considerare quattro elementi: spazio limitato, tempo infinito, affettività negata e, di conseguenza, aggressività dilagante. Ora, nell’isolamento di clan e nella crisi delle relazioni, per un carcerato il soggetto più facile su cui sfogare la propria aggressività è sé stesso”. “E infatti - chiosa Sarzotti - la percentuale impressionante di atti di autolesionismo costituisce una radiografia statisticamente ancora più allarmante di quella dei suicidi”. Anche le regole poi faticano ad adattarsi ai tempi: per esempio il divieto di chiamare cellulari da dentro il carcere finiva per isolare molti stranieri nei confronti di familiari che non dispongono di un telefono fisso. Anche questa è stata causa di suicidio. “Da un annetto questo problema superato - dice Aldo Fabozzi, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria- Ma molto si potrebbe fare per ammodernare. Per esempio si potrebbero potenziare gli impianti di videosorveglianza: se ne guadagnerebbe in sicurezza e si alleggerirebbe il carico di lavoro del personale”. Ma idee come queste rimangono sogni nel cassetto di fronte alle esigenze di bilancio. Per quest’anno il budget affidato a Piemonte e Valle d’Aosta è salito: da 22 a 26 milioni. Ma, mentre sono aumentati i fondi per il vitto dei detenuti e il pagamento delle utenze, le altre voci di bilancio hanno subito decurtazioni del 40%. In particolare gli investimenti per le attività dei detenuti. “Con l’aumento delle quote per vitto e utenze andiamo appena a ripagare i debiti accumulati”, commenta Fabozzi. Non è un mistero, per esempio, che ci fossero migliaia di euro di bollette non pagate o che molti generi di prima necessità siano consegnati dal volontariato finanziato dall’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, o ancora che per il cibo si debba fare appello anche al Banco alimentare. Per sbarcare il lunario, ci si affida alla solidarietà del mondo esterno e alla creatività dei singoli direttori: c’è chi riesce a farsi regalare un tir di vernici per rinfrescare le pareti delle celle e chi scopre giacenze invendute nei magazzini delle fabbriche con cui approvvigionare le dispense. Le ristrettezze, poi, si fanno evidenti se si analizza la spesa per i detenuti a livello nazionale, drammaticamente calata negli anni. “La crisi incide in vari modi - osserva Sarzotti. Da una parte diminuiscono i lavoretti “interni” per i detenuti, pagati dall’amministrazione. Poi si tagliano attività, come la consulenza psicologica che viene pagata a parcella. Infine le cooperative che portano lavoro dall’esterno a causa delle difficoltà generali riducono le commesse e gli investimenti in carcere”. Il lavoro, sia perché occupa la testa sia perché dà autonomia economica, è tra i fattori più efficaci nel prevenire i suicidi. Le ultime indicazioni del dipartimento sono di attivare nei confronti dei più fragili non un controllo stretto, ma una rete di relazione e di attività. “Sui suicidi esistono troppi stereotipi”, sostiene Pietro Buffa, direttore del carcere Lorusso e Cutugno: “Non tutti gli istituti sono strutturati per gestire situazioni di rischio, così molti detenuti sono trasferiti in quelli che si sono attrezzati: in 700 giorni sono stati trasferite da noi 576 persone (tra cui anche Condrea) con problemi di questo genere. Questo dice la capacità di Torino di reggere la pressione”. A Torino per prevenire il disagio è stato avviato un progetto di “peer support”, con detenuti formati per aiutare l’inserimento dei compagni di cella più fragili. Anche perché l’emulazione è uno dei maggiori fattori scatenanti. Detto questo, è pur vero che la popolazione detenuta è maggiore di quella che le strutture potrebbero contenere. “I provvedimenti del governo, come l’obbligo di usare le camere di sicurezza prima delle direttissime, non sono incisivi contro il sovraffollamento”, attacca il segretario del sindacato Osapp, Leo Beneduci: “Meglio sarebbe depenalizzare certi reati, come quelli legati alle droghe e assolutamente evitare pene per la clandestinità”. Torino: contro l’affollamento delle prigioni sei celle nel commissariato, ma la polizia protesta La Stampa, 9 gennaio 2012 Nel commissariato San Paolo entrano in funzione sei celle per arrestare chi viene arrestato in flagranza di reato. Ma i sindacati di Polizia protestano: non siamo agenti di custodia. Rabbia e ironia sui blog dei sindacati della polizia di Stato. Al centro, l’apertura delle camere di sicurezza all’interno di commissariati e caserme dei carabinieri. Da domani le sei celle del commissariato San Paolo saranno operative. Sino a ieri, gli arrestati finivano dritti in carcere, adesso - proprio per allentare la pressione sugli istituti di pena - il governo ha deciso di riutilizzare i mini-carceri. Tutte o quasi le sigle sindacati, Siulp, Sap, Siap, Ugl, sono d’accordo: “Idea sbagliata, non serve a niente e rischia di indebolire ancora di più il sistema di sicurezza”. Ma - in realtà - in questo modo viene solo applicata la legge. E Torino è una delle poche metropoli ad essere in regola, con le sei celle del commissariato San Paolo, costruite di recente. Una situazione controversa. Spiega il consigliere nazionale del Sap, Massimo Montebove: “Ci vorranno 50 agenti ogni giorno per gestire il servizio “carcere”. Non è questo il lavoro dei poliziotti, non ci sono risorse, siamo di fronte a una decisione che rischia di causare una crisi senza sbocco nel sistema di sicurezza. E manca un piano preparatorio, per addestrare gli uomini a una realtà nuova, quella di accogliere delle persone in stato di arresto, assicurare i loro diritti, vigilare sulla loro salute”. Duri il segretario nazionale Siulp Eugenio Bravo, affiancato dal segretario regionale Salvatore Neglia: “Intanto i poliziotti hanno scelto la strada di fare gli investigatori e, con tutto il rispetto per i colleghi della penitenziaria, vorremmo non cambiare direzione. Detto questo, crediamo che le celle del commissariato San Paolo siano le uniche a norma in tutto il Torinese. No, non siamo d’accordo ed è pure mancata un minimo di preparazione per il personale”. Ivan Guarini, dirigente del Siap, è sulla stessa linea: “La gestione delle camere di sicurezza di fatto penalizza le altre attività del commissariato, con una pesante ricaduta per i livelli di sicurezza dello stesso quartiere”. Secca replica dell’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria, per una volta d’accordo con il governo: “A sentire di certe dichiarazioni viene quasi il sospetto che a qualcuno faccia comodo continuare ritenere i poliziotti penitenziari i “parenti poveri” tra le forze di polizia, - spiegano il segretario nazionale Leo Beneduci e il segretario regionale Gerardo Romano - nonostante che a nessuno in Italia possa venire in mente di sostenere che la Polizia Penitenziaria goda di idonee condizioni di servizio con il 20% di personale in meno rispetto ad un organico fissato nel 1992 quando i detenuti erano 35 mila, con missioni e straordinari non pagati da anni be3nché costituiscano il 30% delle prestazioni lavorative e con una età media pro-capite che supera i 42 anni, per fare fronte ad un sovraffollamento che ha superato qualsiasi limite nella storia repubblicana”. Infine: “Riteniamo un vero e proprio schiaffo all’intelligenza continuare a sostenere che si possa andare in carcere, nelle attuali carceri italiane e che vi si possa permane anche per 48 ore senza una disposizione dell’Autorità Giudiziaria emessa nelle sedi e con le modalità riconosciute dalla legge. Le camere di sicurezza vanno gestite da polizia di stato e carabiniere. Come impone la legge”. Cagliari: 187 detenuti oltre capienza, mentre il cantiere nuovo carcere è bloccato da uno sciopero Agi, 9 gennaio 2012 In Sardegna 8 Istituti penitenziari su 12 sono sovraffollati per un totale di 2.160 detenuti (58 donne) contro una capienza regolamentare di 2037 (53 donne). La maggiore sofferenza si conferma nella Casa Circondariale di Cagliari dove ci sono 532 persone private della libertà 187 in più rispetto ai 345 posti letto (pari al 54,2% di esuberi). I dati, che fotografano la realtà regionale al 31 dicembre 2011, sono stati raccolti e diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Numeri che confermano - sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - la drammaticità della situazione detentiva del capoluogo e delle carceri della regione”. L’Istituto cagliaritano di Buoncammino registra infatti nella stessa data, una presenza di 188 imputati (8 donne) e 99 detenuti stranieri (9 donne), pari al 18,61%. Il record di stranieri, con 954 presenze distribuite nei 12 Penitenziari, spetta però alle Colonie agricole, prima fra tutte Mamone (Lodé) con 241 (86,38%). Seguono Is Arenas (Arbus) con 143 (79,89%) e Isili con 141 (74,60%). Una consistente presenza di stranieri, prevalentemente extracomunitari, si registra a Macomer con 55 pari al 61,11%. La Casa Circondariale ospita peraltro il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare ( 90 presenti contro i 46 posti disponibili). Non sta bene neanche Sassari dove il sovraffollamento riguarda le donne 22 contro le 12 regolamentari; gli uomini 189 anziché 178 ma soprattutto i cittadini imputati 90 (7 donne) su 211 ristretti. Nell’ex convento “San Daniele” di Lanusei i detenuti sono “solo” 6 in più rispetto alle norme (50 invece di 44) ma 16 sono in attesa di giudizio e 11 stranieri (pari al 22% ). La Casa Circondariale di Piazza Mannu a Oristano ospita 115 detenuti (29 imputati) superando di gran lunga la capienza regolamentare di 86 posti letto e con 30 stranieri (26,09%). “Niente di nuovo sotto il sole ma purtroppo - sottolinea la presidente di Sdr - non c’è più sordo di chi non vuole sentire. È evidente che tutti i provvedimenti tesi a ridurre la pressione detentiva sono utili. Serve però una decisa azione per consentire ai cittadini privati della libertà di vivere in condizioni dignitose e agli operatori penitenziari, a partire dagli Agenti di Polizia, di ridurre il peso della quotidiana emergenza. L’attuazione dei domiciliari richiede tempi troppo lunghi. Occorre il rafforzamento della Magistratura di Sorveglianza e delle figure professionali necessarie per accelerare le pratiche. C’è il rischio che si ripeta il flop del precedente decreto anche per la tipologia dei detenuti spesso senza casa e senza famiglia, senza dimenticare gli anziani e gli ammalati. Il Parlamento insomma deve intervenire con un atto di coraggio. Un’amnistia e un indulto sono diventati ineludibili altrimenti - conclude Caligaris - il problema del sovraffollamento e del grave malessere dentro le strutture penitenziarie continuerà a produrre storture e vittime”. Nuovo sciopero al cantiere del carcere di Uta Nuovo sciopero al cantiere del carcere di Uta, dove circa quaranta lavoratori sono in assemblea dopo “l’ennesimo ritardo della società Opere Pubbliche nel pagamento degli stipendi”. Lo rende noto la Cgil con una nota nella quale si spiega che le retribuzioni di novembre e dicembre non sono stati pagate e solo alcuni operai hanno ricevuto la tredicesima. “Ci rivolgeremo al ministero che è il committente dell’opera”, ha detto il segretario regionale della Fillea Chicco Cordeddu aggiungendo che “non sono esclusi blocchi stradali nelle prossime ore”. Firenze: Osapp; maxirissa con incendio all’Ipm, encomiabile l’opera della polizia penitenziaria Comunicato stampa, 9 gennaio 2012 L’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), in una nota all’indirizzo del Ministro della Giustizia Paola Severino e del capo del dipartimento della giustizia minorile Bruno Brattoli e a firma del segretario generale Leo Beneduci, esprime il proprio plauso e la propria considerazione per l’alta professionalità espressa dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso l’istituto penale per minorenni di Firenze a seguito della maxirissa, avvenuta ieri 8 gennaio 2012 nella struttura. Si legge, infatti nella nota: “una giornata particolarmente pericolosa e dura per la polizia penitenziaria dell’istituto per minori di Firenze, impegnata a sedare la rissa tra tutti i 22 minori colà ristretti, nello scontro iniziato nel pomeriggio di ieri 8 gennaio tra i 15 di varie nazionalità e i 7 di nazionalità marocchina e che è potuto cessare solo dopo qualche ora”. “Purtroppo - prosegue il sindacalista - i 7 detenuti marocchini, probabilmente non appagati dall’esito incruento degli scontri, nella nottata hanno dato fuco alle celle occupate obbligando il personale a richiedere l’intervento dei vigili del fuoco”. “Da tempo - indica ancora il leader dell’Osapp - le vicende dell’Ipm di Firenze e la scarsa consistenza organica del personale di polizia penitenziaria colà di stanza (mancano 8 unità) sono oggetto di segnalazioni nei confronti dei vertici della giustizia minorile, ad oggi del tutto vane, anche se la tipologia della struttura rende impossibile la separazione tra i soggetti di varia nazionalità con le conseguenze che la rissa di ieri ha reso di tutta evidenza”. “Ci auguriamo, quindi - conclude Beneduci - che la vicenda di ieri. conclusasi in maniera non drammatica solo grazia alla pur scarsa polizia penitenziaria presente, porti sia il Ministro e sia il capo della giustizia minorile a riconoscere i giusti meriti a personale troppo a lungo sacrificato ed rendere di maggiore sicurezza le condizioni di una struttura fino ad ora abbandonata a se stessa”. Monza: lo sfogo dei detenuti: “in celle peggiori di quelle degli animali” www.mbnews.it, 9 gennaio 2012 Dopo gli appelli lanciati da associazioni, sindacati e da qualche politico, anche i detenuti della casa circondariale di Monza hanno rotto il silenzio e hanno deciso di far sentire la loro voce. A pochi giorni di distanza dalla visita dell’onorevole Renato Farina, che attraverso un messaggio su Facebook aveva denunciato la “situazione spaventosa” di Sanquirico, i carcerati hanno affidato il loro sfogo a un comunicato stampa. “Sostiamo in celle peggiori di quelle concesse agli animali, predisposte per due detenuti - si legge nel documento scritto dal Comitato detenuti della casa circondariale di Monza. Le finestre sono dotate di plastica con enormi fessure. I muri sono bagnati a causa dell’umidità. Il locale adibito alla doccia non è funzionante in parte e sprovvisto di luce. Le infiltrazioni d’acqua sono presenti anche nelle parti comuni dell’edificio spesso dotate di contenitori posti sul pavimento per raccogliere l’acqua”. Poche righe attraverso le quali i detenuti denunciano la loro situazione e la difficile vita dietro le sbarre. “Ripetiamo comunque che non crediamo di essere in vacanza, ma pensiamo che sia giusto salvare un minimo di dignità - hanno sottolineato. Ci sono cose che riteniamo comunque fondamentali come ad esempio le enormi difficoltà che incontriamo nell’interagire con soggetti detenuti, i quali manifestano palesemente disagi di tipo psicologico non solo dovuti alla detenzione, ma spesso con patologie diagnosticate in precedenza. Soggetti che hanno problemi di salute e per i quali gli interventi sanitari arrivano con tempi lunghi. Non vi sono iniziative culturali o comunque attività atte a rendere la permanenza in questo luogo umanamente degna, ad esclusione di annunci o tentativi”. Da qualche giorno i detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame a rotazione. “Ogni giorno quattro celle effettueranno la protesta per la situazione disumana in cui non viviamo - hanno concluso. Tutto questo ed altro merita l’attenzione di chiunque si riempie la bocca, per così dire, di parole come: dignità, umanità, giustizia”. Pisa: Sappe; evasi nella notte 2 detenuti, 1 si è ferito alle gambe ed è stato subito ricatturato Comunicato stampa, 9 gennaio 2012 “È certamente motivo di preoccupazione la notizia dell’evasione di 2 detenuti, un italiano di origine campana ed un tunisino, avvenuta questa notte dal carcere di Pisa. Lo straniero è stati ripreso perché nell’evasione si è ferito alle gambe. L’interesse primario ora è partecipare attivamente alle ricerche in collaborazione con le altre Forze di Polizia per catturare il fuggitivo, di origine campana. Ma è del tutto evidente che questo ennesimo grave episodio conferma ancora una volta le criticità del sistema carcere”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione all’evasione di due detenuti questa notte a Pisa. Capece ricorda che il Sappe, nelle scorse settimane, aveva sollecitato l’Amministrazione Penitenziaria ad intervenire sulle criticità penitenziarie toscane: “Gli ultimi dati penitenziari confermano il gravoso sovraffollamento penitenziario in Toscana che costringe a dure e difficili condizioni di lavoro e stress le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Alla data del 31 dicembre scorso erano infatti detenute nei 18 penitenziari toscani 4.242 persone a fronte dei 3.186 posti letto regolamentari: Pisa ne aveva in carico 365 al posto dei 225 posto letto, il 50% delle quali peraltro persone in attesa di un giudizio definitivo. Gli ultimi dati ufficiali sugli eventi critici dicono che nel corso dell’anno 2010, in Toscana, 4 detenuti sono morti suicidi, ben 171 detenuti hanno tentato il suicidio, riuscendo i nostri bravi Agenti di Polizia Penitenziaria a salvarli in tempo, 792 hanno compiuto atti di autolesionismo e 335 hanno posto in essere ferimenti. 7 detenuti sono morti per cause naturali. È evidente quanto il sovraffollamento delle strutture detentive toscane incida in questi eventi critici. E il costante e pesante sovraffollamento fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza”. Capece sottolinea ancora che “nel 2010, nelle sovraffollate carceri toscane, le 36 manifestazioni di protesta hanno visto coinvolti complessivamente 5.782 detenuti e si sono concretizzate in scioperi della fame, rifiuto del vitto dell’Amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle (la cosiddetta battitura)”. Osapp: ancora libero uno dei due evasi “Tra le 02.00 e le 04.00 di questa mattina presso la Casa Circondariale di Pisa, due detenuti di cui uno di nazionalità italiana e l’altro di nazionalità marocchina, hanno posto in essere una evasione mediante un buco praticato nella cella, approfittando del prospiciente cantiere per il nuovo padiglione, da cui hanno prelevato la scala per superare il muro di cinta “ è quanto comunica in una nota l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). Nell’atto a firma del segretario generale Leo Beneduci si legge inoltre che: “il detenuto di origine marocchina nella caduta da diversi metri ha riportato un frattura alle gambe ed è stato immediatamente accompagnato in ospedale dove è attualmente piantonato, mentre l’altro, un detenuto napoletano di 45 anni, in carcere per rapina ed oltraggio, è riuscito a far perdere le proprie tracce ed è attualmente oggetto di una massiccia operazione di ricerca da parte degli uomini della polizia penitenziaria unitamente a quelli delle altre forze dell’ordine.”. “Quanto accaduto in un carcere che ha da tempo superato la capienza massima tollerabile per oltre il 60% dei detenuti in più rispetto ai posti disponibili e con circa il 30% del personale di polizia penitenziaria in meno - prosegue il sindacalista - conferma, se necessario, i dubbi che più volte avevamo espresso circa l’opportunità di allestire cantieri di lavoro in eccessiva vicinanza alle celle detentive tanto da nasconderne le manomissioni interne ed esterne e da fornire immediati mezzi di fuga ai reclusi”. “Pur nel rispetto delle attività di indagine in corso - conclude Beneduci - non vorremmo che, per un evento, agevolato se non prodotto dalle carenze di personale, dal grave sovraffollamento e dalle discutibili scelte di natura edilizia, come fin troppo spesso accade, le responsabilità ricadano sui poliziotti penitenziari della struttura che oggi e sempre, pur nella assoluta precarietà e nel costante sacrificio , continuano a svolgere i proprio dovere nell’interesse della collettività”. Nuoro: camere di sicurezza… un letto in muratura è meglio del carcere? La Nuova Sardegna, 9 gennaio 2012 Tra una cella di sicurezza e una qualunque stanzetta rettangolare di 6-7 metri quadri ci sono due evidenti differenze: la porta d’ingresso e il letto. La porta è massiccia, in metallo, si chiude con un passante e ha uno spioncino che permette di guardare all’interno. Il letto in realtà è un parallelepipedo in muratura, bianco, attaccato al muro, che con un materasso si trasforma nel giaciglio dello sventurato che dovrà passarci la notte. La cella ha altre tre peculiarità: non ha spigoli, né appigli né alcunché di amovibile (per evitare gesti autolesionistici); ha una finestra che illumina la stanza ma che non si può aprire (il ricambio dell’aria è assicurato da un aspiratore); è videosorvegliata da una telecamera nascosta. La telecamera ha la funzione di impedire che il detenuto possa ferirsi da solo (ma anche che non si faccia del male) o che possa incolpare gli agenti addetti alla sua sorveglianza delle lesioni che si è procurato. Le due celle di sicurezza della questura nuorese sono le uniche a disposizione della polizia di Stato nelle province di Nuoro e Ogliastra. Ovvero in un territorio che si estende per circa un quarto della Sardegna e che conta anche sette commissariati (Siniscola, Macomer, Ottana, Gavoi, Orgosolo, Tortolì e Lanusei) e nove distaccamenti della stradale (Bitti, Laconi, Macomer, Ottana, Nuoro, Fonni, Lanusei, Orosei e Siniscola). Anche tutti i commissariati hanno le celle di sicurezza ma non sono utilizzate perché non rispettano le norme, in particolare quelle imposte dal decreto legge 211 del 2011 voluto dal Governo Monti e studiato dal neo ministro della Giustizia Paola Severino, il cosiddetto decreto svuota carceri. Le camere di sicurezza sono al primo piano dello stabile occupato dalla questura, in viale Europa, nella parte che ospita gli uffici della squadra mobile. Le due celle, che appena quattro mesi fa sono state ristrutturate e adeguate alle prescrizioni di legge, sono di fronte alla stanza del dirigente della Mobile, Fabrizio Mustaro. Oltre alle celle c’è un terzo bugigattolo, un bagnetto senza finestra, con lavabo e wc in acciaio sempre ancorati ai muri e a terra. Per legge, nella camera di sicurezza l’arrestato non può essere trattenuto per più di 48 ore. Anche perché altrimenti mancherebbero le condizioni igieniche minime per un soggiorno dignitoso più lungo, dato che il bagno non ha la doccia. Malgrado siano le uniche due celle che rispettano la legge a disposizione della polizia in un territorio così vasto, nel 2011 sono state utilizzate solo cinque volte (ogni camera può ospitare una persona per volta) su ottanta arresti in flagranza di reato durante l’anno passato. E dunque finora le celle hanno soddisfatto in pieno le necessità della polizia nuorese. Al contrario, i carabinieri hanno su un maggior numero di “camere” sparpagliate in varie località del Nuorese e dell’Ogliastra. Oltre che nel comando provinciale di Nuoro, sono nelle nove sedi di compagnia (Bitti, Isili, Jerzu, Lanusei, Macomer, Nuoro, Ottana, Siniscola e Tonara), nelle caserme più importanti (cioè in quelle aperte 24 ore su 24), e nelle stazioni (in tutto 81 nelle due province) che sono state costruite o ristrutturate di recente. E quindi sono presenti anche a Fonni, Mamoiada, Oliena e San Teodoro. In altre caserme, come a Orgosolo, non sono utilizzate perché non sono state adeguate alle norme, mentre in altre stazioni necessiterebbero di una semplice rinfrescata. Per i carabinieri vale lo stesso discorso fatto per la polizia: a Nuoro e in Ogliastra non c’è un numero di arresti così consistente da poter mettere in difficoltà l’Arma rispetto alle nuove prescrizioni appena approvate dal governo. Il problema vero sono i costi che la polizia, la guardia di finanza e i carabinieri dovranno sostenere per il sostentamento dell’arrestato: le spese per il vitto (colazione, pranzo e cena) e per la sorveglianza del rinchiuso. Un aggravio che con gli attuali budget al minimo difficilmente le forze di polizia potrebbero alla lunga sostenere. E poi ci sono i costi per trasportare i fermati a Nuoro: è improbabile, per esempio, che il pubblico ministero della procura di Lanusei decida di trasferire il reo nella cella di sicurezza della questura di Nuoro. Appare molto più plausibile, e infatti è quanto succede nella pratica quotidiana, che decida invece di farlo rinchiudere nel carcere di Lanusei. È più comodo sia per il magistrato che per le forze dell’ordine, e molto spesso anche per lo stesso arrestato. Bologna: Cisl; all’Ipm aggredito agente, sistema sordo al malessere dell’utenza e dei lavoratori Dire, 9 gennaio 2012 Ieri al carcere minorile del Pratello un agente di polizia sarebbe stato aggredito da un detenuto, riportando lesioni guaribili in sei giorni. È quanto riferisce in una nota il segretario regionale Fns-Cisl Gianluca Giliberti: “Tale episodio- si legge- è a nostro avviso la triste riprova di come le colpe per la gestione problematica del carcere del Pratello siano da ricercarsi all’interno di un sistema di lavoro incancrenito e sordo rispetto al malessere manifestato sia dall’utenza che dai lavoratori”. Invece, lamenta il sindacalista, alcune testate giornalistiche “si sono scagliate, in questi giorni, esclusivamente contro la polizia penitenziaria e su coloro i quali, più di tutti, stavano provando a riformare lo status quo, senza averne avuto né il tempo né i mezzi necessari”. Giliberti invita “chi di competenza a valutare tutte le possibili soluzioni affinché il personale di polizia penitenziaria possa essere messo nelle condizioni di poter svolgere i propri compiti istituzionali in piena tranquillità e sicurezza”. Venezia: l’appello del direttore del carcere “accogliete i detenuti senza casa” La Nuova Venezia, 9 gennaio 2012 Solennità dell’Epifania intensa per monsignor Beniamino Pizziol, amministratore apostolico del Patriarcato e vescovo di Vicenza. Alle 16 il vescovo Pizziol ha varcato il portone del carcere maschile di Santa Maria Maggiore accompagnato dal direttore della Caritas monsignor Dino Pistolato, il cappellano carcerario don Antonio Biancotto, alcuni religiosi e il parroco della comunità rumeno ortodossa veneziana Avram Matei. Ad attendere il presule là, dove il tempo sembra infinito, 309 detenuti, 101 italiani e 208 stranieri. Nell’omelia Pizziol ha avuto parole di speranza: “È possibile una vita nuova. Io stesso come vescovo ho dovuto cambiare e riprogettare la mia vita”. Presente il direttore Salvatore Pirruccio che sulle misure del “pacchetto Severino” per affrontare l’emergenza carceraria ha annotato: “È un buon provvedimento. Non è un valore assoluto ma il numero dei reclusi si sta abbassando. A Venezia in 10 giorni ne sono usciti una trentina”. Infine il direttore ha posto una domanda sulla pena detentiva finale, innalzata da 12 a 18 mesi, che potrà essere scontata a casa anziché in carcere: “Ci sono comunità disposte ad accogliere detenuti privi di domicilio?”. L’appello del direttore e le parole di speranza del vescovo rivolte verso quel mondo poliglotta recluso hanno avuto un’eco immediata. Qualcuno si è commosso. Poi una domanda: “In carcere 50 minuti con i nostri figli. Quale paternità?”. E il dono. Pizziol ha ricevuto una borsa confezionata con il materiale riciclato utilizzato a San Giuliano per il palco del Papa. In mattinata in Basilica il presule aveva celebrato la messa per la città. Ecco una riflessione dall’omelia: “Oggi è un evento di luce simbolicamente indicato dalla stella che guidò il viaggio dei Magi giunti dall’Oriente. Il loro cammino è il nostro itinerario di fede, luminoso, affascinante ma anche oscuro e faticoso”. Poi la preghiera simultanea con i missionari d’origine veneziana presenti nel mondo e la consegna della croce missionaria al diacono Tiziano Scatto, 53enne di Borbiago di Mira. A fine febbraio andrà in Bolivia nella casa di accoglienza Santa Maria degli Angeli. “Si prenderà cura di un’ottantina di ragazzi dai 6 ai 17 anni, orfani, poveri, disabili”, ha ricordato Pizziol. Ue: no trasferimento di richiedente asilo in stato membro se rischia di subire trattamenti inumani Altalex, 9 gennaio 2012 Il diritto dell’Unione non ammette una presunzione assoluta secondo la quale gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali dei richiedenti asilo. La politica comune nel settore dell’asilo costituisce un elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione europea di istituire progressivamente uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione. Il regolamento “Dublino II” enuncia i criteri che consentono di determinare lo Stato membro competente a conoscere di una domanda di asilo presentata nell’Unione - in linea di principio, è competente un unico Stato membro. Se un cittadino di un paese terzo chiede asilo in uno Stato membro diverso da quello che risulta competente ai sensi del regolamento, quest’ultimo prevede una procedura di trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente. Nella causa C-411/10, il signor N. S., cittadino afgano, è giunto nel Regno Unito transitando in particolare per la Grecia, ove è stato oggetto di una misura di arresto nel 2008. Le autorità greche lo hanno liberato quattro giorni dopo, ingiungendogli di lasciare il territorio greco entro il termine di 30 giorni. Il signor N.s. Non ha presentato domanda di asilo. Nella sua versione dei fatti, mentre cercava di lasciare la Grecia, è stato arrestato dalla polizia e respinto in Turchia, dove è stato detenuto, per due mesi, in condizioni penose. Sarebbe evaso dal suo luogo di detenzione in Turchia e sarebbe poi giunto nel Regno Unito nel gennaio del 2009, presentandovi domanda di asilo. A luglio il signor N.S. È stato informato che sarebbe stato trasferito in Grecia nel mese di agosto, in applicazione del regolamento “Dublino Ii”. Egli ha allora proposto ricorso contro tale decisione con l’argomento che un suo rinvio in Grecia rischiava di ledere i suoi diritti fondamentali. Il giudice nazionale segnala, infatti, che in Grecia le procedure di asilo presenterebbero gravi carenze, i casi di concessione di asilo sarebbero ivi estremamente rari, i mezzi di ricorso giurisdizionale insufficienti e di difficile accesso e le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo inadeguate. La causa C-493/10 concerne cinque persone, senza legami reciproci, originarie dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Algeria. Esse sono transitate per il territorio greco e vi sono state arrestate per ingresso illegale, senza chiedere asilo. Si sono successivamente recate in Irlanda, dove hanno chiesto asilo. Nessuna di loro intende ritornare in Grecia asserendo che in tale paese le procedure e le condizioni per i richiedenti asilo sono inadeguate. In tale contesto, la Court of Appeal of England and Wales (Regno Unito), da un lato, e la High Court (Irlanda), dall’altro, chiedono alla Corte di giustizia se, tenuto conto della saturazione del sistema di asilo greco e dei suoi effetti sul trattamento riservato ai richiedenti e sull’esame delle loro domande, le autorità di uno Stato membro tenute ad effettuare il trasferimento dei richiedenti asilo verso la Grecia (Stato responsabile dell’esame della domanda di asilo conformemente al regolamento) debbano prima controllare se tale Stato rispetti effettivamente i diritti fondamentali. Detti giudici chiedono altresì se, qualora tale Stato non rispetti i diritti fondamentali, dette autorità siano tenute ad accettare la competenza ad esaminare esse medesime la domanda. Sono intervenuti nel procedimento dinanzi alla Corte tredici Stati membri, la Confederazione svizzera, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Amnesty International e l’Aire Centre. È pacifico tra le parti che hanno presentato osservazioni che la Grecia era, nel 2010, il punto di ingresso nell’Unione del 90% circa dei migranti clandestini, di modo che su detto Stato grava un onere sproporzionato rispetto a quello sopportato dagli altri Stati membri e che le autorità greche sono materialmente incapaci di farvi fronte. Nella sentenza odierna la Corte ricorda, in primo luogo, che il sistema europeo comune d’asilo è stato concepito in un contesto che permette di supporre che l’insieme degli Stati partecipanti rispetti i diritti fondamentali e che gli Stati membri possono fidarsi reciprocamente a tale riguardo. È proprio in ragione di tale principio di reciproca fiducia che il legislatore dell’Unione ha adottato il regolamento “Dublino II”, il cui obiettivo principale è accelerare il trattamento delle domande d’asilo nell’interesse tanto dei richiedenti quanto degli Stati partecipanti. Sul fondamento di tale principio la Corte esamina se le autorità nazionali che devono procedere al trasferimento verso lo Stato competente a esaminare la domanda di asilo, designato dal regolamento, debbano prima verificare che in tale Stato i diritti fondamentali dell’uomo siano rispettati. La Corte rileva che una minima violazione delle norme che disciplinano il diritto di asilo non è sufficiente per impedire il trasferimento di un richiedente asilo verso lo Stato membro di regola competente, perché ciò svuoterebbe del loro contenuto gli obblighi degli Stati nel sistema europeo comune di asilo e comprometterebbe l’obiettivo di designare rapidamente lo Stato membro competente. Tuttavia, la Corte considera che il diritto dell’Unione osta a una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che il regolamento designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell’Unione europea. Gli Stati membri, infatti, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro designato come competente quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo la Corte, gli Stati membri dispongono di vari strumenti adeguati per valutare il rispetto dei diritti fondamentali e, pertanto, i rischi realmente corsi da un richiedente asilo nel caso in cui venga trasferito verso lo Stato competente. La Corte aggiunge, peraltro, che, ferma restando la facoltà di esaminare esso stesso la domanda, lo Stato membro che deve trasferire il richiedente verso lo Stato competente ai sensi del regolamento, e che si trovi nell’impossibilità di provvedere in tal senso, deve esaminare gli altri criteri enunciati dal regolamento, per verificare se uno dei criteri ulteriori permetta di identificare un altro Stato membro come competente all’esame della domanda di asilo. Al riguardo esso deve badare a non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente con una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. All’occorrenza, detto Stato è tenuto ad esaminare esso stesso la domanda. Infine, la Corte precisa che prendere in considerazione il Protocollo (n. 30) sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito non ha incidenza sulle risposte apportate. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 21 dicembre 2011, Sentenza nelle cause riunite C-411/10, N.S. / Secretary of State for the Home Department, e C-493/10, M.e. E a. / Refugee Applications Commissioner Minister for Justice, Equality and Law Reform) Afghanistan: rapporto su torture ai detenuti nel carcere di Bagram Tm News, 9 gennaio 2012 Casi di torture e di abusi nella prigione afgana di Bagram, nei pressi di Kabul, gestita congiuntamente da truppe statunitensi e afgane. Lo denuncia un rapporto reso pubblico oggi dal governo afgano. “Nel corso della nostra visita alla prigione, alcuni detenuti hanno denunciato abusi e torture”, ha dichiarato Gul Rahman Qazi, presidente della commissione di sorveglianza della Costituzione, andato a Bagram su ordine del presidente afgano Hamid Karzai. Qazi ha parlato anche di prigionieri “privati di cibo” e di detenzioni andate oltre la pena prevista. Alcuni hanno raccontato di essere stati costretti a svestirsi per essere perquisiti. Secondo Qazi, “il numero maggiore di casi di abusi” è stato registrato nella zona del penitenziario gestito dall’esercito statunitense. Almeno 3.000 detenuti sono ospitati nel carcere di Bagram, in grande maggioranza talebani, ha riferito un militare afgano. La pubblicazione del rapporto arriva due giorni dopo l’ordine dato dal presidente afgano agli americani di trasferire entro un mese l’intero controllo della prigione di Bagram al governo di Kabul. Spagna: in migliaia a marcia per chiedere amnistia prigionieri Eta La Presse, 9 gennaio 2012 Decine di migliaia di manifestanti hanno riempito le strade del centro di Bilbao, in Spagna, per chiedere un’amnistia che permetta ai detenuti dell’Eta di scontare il resto della pena nei Paesi Baschi, piuttosto che in carceri più lontane. La marcia è andata avanti tranquilla, con qualche coro a favore della causa separatista della regione basca. “La soluzione, prigionieri baschi nella regione basca”, si legge in alcuni striscioni. Ci sono circa 700 prigionieri dell’Eta detenuti nelle prigioni sparse per Spagna e Francia; di questi solo una ventina sta scontando la pena nei Paesi Baschi. Iraq: scavano un tunnel di 80 metri ed evadono dalla prigione Asca, 9 gennaio 2012 Sono evasi dalla prigione dopo aver scavato un tunnel di 80 metri. Protagonisti dell’originale fuga 11 detenuti, nella zona nord dell’Iraq. I prigionieri, condannati da cinque anni di carcere fino alla sedia elettrica, per crimini che vanno da reati di droga fino all’omicidio, non sono stati ancora ricatturati e sono in corso delle indagini. “Undici prigionieri sono evasi scavando un tunnel di 80 metri”, ha detto Sagvan Jameel, direttore della prigione di Zirga, a nord della provincia di Dohuk. “I prigionieri - ha aggiunto - non hanno lasciato nessuna traccia, siamo rimasti molto sorpresi”. Il carcere di Zirga, inaugurato nel 2008, ospita circa 600 detenuti ed è gestito dal ministero degli Affari Sociali della Regione irachena autonoma del Kurdistan. Siria: rapporto osservatori; la repressione continua, nelle carceri restano prigionieri politici Ansa, 9 gennaio 2012 Il primo rapporto degli osservatori della Lega araba inviati in Siria afferma che il regime sta applicando male il piano elaborato dalla stessa organizzazione dei paesi arabi per porre fine alla repressione dei moti di protesta. Lo riferisce l’emittente Al Jazira citando stralci del rapporto mentre è iniziata al Cairo la riunione di un comitato ministeriale della Lega araba convocata per esaminare il dossier e decidere come rafforzare l’azione della missione. Il rapporto, precisa la tv panaraba, conferma che le violenze delle forze di sicurezza ai danni dei manifestanti anti-regime continua e che i militari non si sono ritirati dalle città. Il governo siriano, rileva inoltre il dossier, ha rispettato solo in parte la propria promessa di scarcerare i prigionieri politici e ci sono cittadini che denunciano come alcuni siano ancora detenuti in località segrete.