Giustizia: carceri e polemiche, il lusso della sicurezza Europa, 7 gennaio 2012 Cosa c’è dietro lo scontro tra i ministri Severino-Cancellieri e la polizia? E chi ha ragione? Per la cronaca: ieri notte un detenuto tunisino ha tentato il suicidio nel carcere di Voghera. Sono già sei i detenuti salvati dagli agenti di sorveglianza dall’inizio di questo 2012. In 66 invece, nello scorso anno, sono “riusciti” a togliersi la vita dietro le sbarre. È quanto emerge dai dati dell’Osservatorio permanente elaborati da Ristretti orizzonti. La premessa è d’obbligo perché aiuta, dovrebbe aiutare a capire la situazione esplosiva dei nostri istituti di pena giunti a contenere 68.500 detenuti, almeno un terzo in più del consentito. Se l’emergenza si dà per scontata ma non se ne traggono le conseguenze - come ha fatto il governo Berlusconi limitandosi a decretarla senza fare altro che aumentare il numero dei reclusi -, è difficile capire e assecondare le ragioni del decreto varato dal governo per tamponare le condizioni disumane di chi viene recluso così come di chi in carcere ci lavora. Come? Evitando che gli arrestati in flagranza in attesa di processi per direttissima transitino negli istituti di pena e vengano tenuti nelle camere di sicurezza di polizia, carabinieri e guardia di finanza. La schietta audizione del vicecapo della polizia, prefetto Piccirillo, in commissione giustizia al senato in rappresentanza di tutte le forze dell’ordine - secondo il quale “le celle di sicurezza sono inadatte alla detenzione e i braccialetti sono insufficienti e vetusti” e dunque “i detenuti stanno meglio in carcere” - ha provocato un duro botta e risposta con il ministro della giustizia Severino e degli interni Cancellieri che, in perfetta sintonia, hanno ribadito di andare avanti perché trattasi di norme “condivise” anche dai vertici delle forze di polizia. È ovvio che le forze dell’ordine, decimate dai tagli che si susseguono da anni, mostrino preoccupazione per l’ulteriore carico di lavoro: la Silp-Cgil invita il governo a “mantenere il contatto con la realtà” (leggi: tagli); il Siap parla di “pastrocchio all’italiana”, per il Siulp i detenuti cadranno “dalla nota padella alla brace ardente”. In realtà le camere di sicurezza vengono già utilizzate per le direttissime davanti al giudice monocratico: con il decreto varato si aggiungono gli arrestati in attesa di convalida davanti al giudice collegiale, quelli per i reati più gravi. Certo, bisognerà trovare le risorse per rendere agibili le camere di sicurezza vetuste e per far fronte anche al vitto delle persone che vi transitano poiché spesso i buoni pasto degli agenti vanno a beneficio degli arrestati (“cosa alquanto antipatica” ha fatto notare Piccirillo). Ma forse è il caso anche di iniziare a chiedersi, nell’ottica di limitare quantomeno il fenomeno delle sliding doors - entrare in carcere per due-tre giorni comporta una serie enorme di adempimenti burocratici - “quanto incidono gli arresti facoltativi sulla situazione attuale? Il problema delle “statistiche” ha un serio effetto anche sugli arresti della polizia giudiziaria?”. Sono, tra le altre, le domande poste dalla capogruppo Pd in commissione, Della Monica, a Piccirillo che però ha rimandato al capo del Dap, Franco Ionta, che verrà audito martedì. Nel nostro sistema c’è un controllo sulla legittimità dell’arresto e un altro sulla vigenza di esigenze cautelari (gravità del fatto, pericolosità del soggetto): l’arresto magari è legittimo ma non sussiste l’esigenza del carcere. “Per questo ho chiesto i dati - spiega a Europa la senatrice Della Monica - per fare una riflessione e aprire un osservatorio. Certo, in una linea di intervento politico si potrebbe anche dare direttive, visto che il carcere scoppia, di evitare gli arresti non assolutamente necessari. Sarebbe utile fare tutti un esame di coscienza e verificare davvero se, culturalmente, il carcere viene visto come extrema ratio”. Altrimenti, l’altra “soluzione”, sempre in prima linea dei Radicali, è l’amnistia con tutti i pro e i contro che comporta e che spetta al parlamento. Ma questa è tutta un’altra storia. Giustizia: un duello tra tecnici, Manganelli conosceva il dossier con i dubbi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 gennaio 2012 Quando i governi sono composti da politici e propongono provvedimenti che hanno ricadute logistiche e organizzative, è abbastanza normale che i tecnici svolgano i loro rilievi per illustrare meglio la situazione, e magari suggerire eventuali modifiche. Ma se il governo è tecnico quasi per definizione - come quello in carica, dove il ministro della Giustizia è un avvocato e dell’Interno un prefetto - suona strano che altri “esperti di settore” critichino le novità introdotte dall’esecutivo. Così quello di questi giorni è il primo inedito scontro, anche se gli stessi interessati si sforzano di ridurne la portata, tra addetti ai lavori; tra chi ha il compito di trovare soluzioni a un problema e chi è chiamato a metterle in pratica. Anche per questo desta scalpore l’audizione in Senato del vicecapo della polizia Francesco Cirillo, che in passato ha guidato uffici e questure importanti come quelle di Palermo e Bologna prima di approdare ai vertici dell’istituzione. Un investigatore e dirigente esperto, dall’approccio pragmatico. Il quale al di là delle frasi colorite sui braccialetti elettronici che sarebbero costati meno da Bulgari o sugli arrestati che stanno meglio in carcere che nelle camere di sicurezza, ha fotografato la situazione di sua competenza che probabilmente conosce più da vicino rispetto a un prefetto, un avvocato o ad altri tecnici come quelli che lavorano negli uffici legislativi dei due ministeri. Senza le espressioni a effetto pronunciate davanti ai senatori, la relazione scritta consegnata da Cirillo, di cui era a conoscenza il capo della polizia Manganelli, contiene le stesse preoccupazioni espresse a voce dal vicecapo. Che le camere di sicurezza di questure, caserme e stazioni non siano adeguate alla permanenza fino a due giorni o anche più, e dunque non siano pronte ad accogliere la massa di arrestati che secondo il decreto governativo non dovrebbe più entrare in prigione prima dell’udienza di convalida in tribunale, sembra un dato di fatto. E che per adeguarle e attrezzarle bisognerebbe avere a disposizione, oltre al tempo necessario, anche i soldi per pagare gli interventi che in tempi di ristrettezze come gli attuali non ci sono, pare altrettanto evidente. Basti pensare ai servizi igienici, al vitto, al personale che dovrebbe sorvegliare e comunque assistere i fermati, sottratto ad altre incombenze. Ma oltre a svolgere queste considerazioni, lo stesso Cirillo ha assicurato che le forze dell’ordine “compiranno fino in fondo il proprio dovere” e sono “assolutamente disponibili a fare tutto quanto richiesto da governo e Parlamento per affrontare l’emergenza detenuti”. Anche custodendo gli arrestati nei propri uffici. Ma ciò non significa negare o nascondere la realtà, che insieme al vicecapo ha denunciato pure l’Associazione nazionale funzionari di polizia. Il segretario Enzo Letizia ha inviato una lettera al presidente della commissione del Senato Berselli per denunciare che nelle camere di sicurezza non sarebbe possibile salvaguardare “la dignità e il rispetto dei cittadini detenuti”, con numeri e calcoli simili a quelli snocciolati dal vicecapo. Alla lettera Letizia ha allegato la fotografia di una camera di sicurezza scattata in una grande questura del Meridione, per rendere più esplicite le condizioni in cui versano le strutture e il conseguente allarme. Il paradosso è che un altro sindacato di categoria, il Sappe degli agenti penitenziari, ha al contrario attaccato Cirillo perché “se dice che i detenuti stanno meglio in carcere significa che non conosce la grave emergenza delle carceri italiane” accusa il segretario Capece. Che ricorda come esista già una norma del codice secondo cui spetta a chi procede all’arresto in flagranza condurre direttamente dal giudice le persone accusate, senza farle passare dalla prigione. Ma il fatto che quella norma sia generalmente disattesa oltre l’arco di ventiquattr’ore - si replica dall’altra parte - è l’ulteriore dimostrazione che le strutture a disposizione di polizia e carabinieri non consentono di fare altrimenti. Anche perché nelle grandi città le udienze per le “direttissime” si svolgono tutti i giorni, ma nei centri medi e piccoli la frequenza è minore, e questo comporterebbe una più lunga permanenza degli arrestati nelle celle di sicurezza “inadeguate”. Una sorta di guerra tra poveri, insomma. Una corsa a denunciare la condizione peggiore che lascia capire quanto l’emergenza detenuti, che a questo punto non si limita all’emergenza carceri, sia reale e grave. Chissà se l’inusuale conflitto fra tecnici innescato dall’intervento in Parlamento di uno degli esponenti di punta delle forze dell’ordine, oltre ad accendere qualche polemica tra gli apparati, aiuterà la classe politica a prenderne coscienza e individuare gli strumenti giusti per affrontarla. Giustizia: vita da cani… di Valentina Ascione Gli Altri, 7 gennaio 2012 “Vita da cani”, come a dire un’esistenza dura, misera. Simile, dunque, a quella vissuta da migliaia di persone nelle nostre carceri sovraffollate. Destini, quelli dei cani e dei detenuti, a cui può anche capitare di incrociarsi sotto i peggiori auspici di quella realtà parallela chiamata galera. Com’è accaduto nella Casa Circondariale di Castrovillari, in Calabria. Dove cani randagi e detenuti avrebbero dovuto darsi una mano, reciprocamente, e dove invece si sono trovati a condividere la stessa sventura: quella di una cattività e di una reclusione in condizioni intollerabili, per gli uomini e per le bestie. Del Progetto Argo si inizia a parlare nel 2003, grazie a un’idea dì due operatori di polizia penitenziaria, messa a punto per lenire la solitudine e rendere meno arida la quotidianità del carcere, e a uno studio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria secondo cui non solo la compagnia degli animali farebbe bene alle persone recluse, come alla maggior parte delle persone, ma l’affido e la cura di un cane contribuirebbe perfino alla loro riabilitazione e al reinserimento, anche lavorativo. La proposta era dunque quella di allestire delle strutture esterne alle celle, ma all’interno della cinta muraria dove ospitare i randagi da far accudire ai detenuti che ne avessero fatto richiesta. Enti locali e Asl, già impegnati nella lotta al randagismo, si sarebbero divisi le spese per l’attuazione del progetto. Nessun costo per l’alimentazione dei cani, che avrebbero beneficiato degli avanzi del vitto dei detenuti. Al momento del lancio, la “pet therapy” raccoglie il favore di numerosi istituti di pena del Paese, che si mobilitano per offrire questa nuova opportunità ai propri detenuti. Tra questi anche il carcere di Castrovillari , che annuncia l’adesione al Progetto Argo attraverso un protocollo d’intesa tra Comune e Casa Circondariale previsto nel 2005, siglato e perfezionato nel 2007. Il lancio ufficiale dell’iniziativa avviene invece due anni più tardi, nel novembre del 2009. Ma oggi, a poco più di due anni da quell’annuncio, si scopre grazie a un’ispezione dei radicali che la mutua assistenza tra animali e detenuti a Castrovillari è rimasta lettera morta. Unici superstiti del progetto, un canile fatiscente e una quindicina di cani in stato di semiabbandono, riferiscono la deputata Rita Bernardini e il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti. Rinchiusi tra i propri escrementi in gabbiette piccole, troppo piccole, proprio come le celle di 2 metri per 3 che nel carcere calabrese ospitano fino a tre reclusi. Animali innocenti costretti a scontare una pena che, nell’attesa che qualcuno - come previsto - si prenda cura di loro, potrebbe rivelarsi un ergastolo. Un’ingiustizia inaccettabile, anche in un sistema penitenziario che riduce gli uomini a vivere come e peggio delle bestie. Giustizia: la cella del prigioniero bambino di Luigi Manconi L’Unità, 7 gennaio 2012 Gli spazi ristrettissimi non sono casuali ma rispecchiano l’ideale feroce di chi ha immaginato il sistema penitenziario: ridurre ai minimi termini l’identità del recluso portandolo a una dimensione infantile. Secondo Mauro Palma, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il sistema penitenziario ha davanti a sé due prospettive: quella della responsabilizzazione e quella della infantilizzazione. La prima richiama una strategia virtuosa e razionale che può fare del carcere qualcosa di diverso dalla macchina criminale e criminogena che oggi è. La seconda corrisponde alla tendenza dominante, che vuole mantenere il recluso in uno stato di mortificazione della personalità. Aggiungo che quel termine, infantilizzazione, è così pertinente da presentarsi come l’espressione più palpabile della realtà carceraria contemporanea: come la sua più concreta traduzione materiale. Qualche anno fa, mi capitò di visitare il carcere di una città toscana, ricavato da un antico edificio medievale, destinato in origine ad alloggio per la servitù. Il carcere era stato realizzato su quella struttura e ne riproduceva le misure. Tutto in scala ridotta, ridottissima: la cappella sembrava un confessionale, le celle erano come altrettanti loculi di un pazzoide condominio giapponese, la cucina uguale a quella di Barbie. Si avvertiva la sensazione che tutto ciò non fosse casuale e che quella galera degna di un gioco da tavola (che so? Il Piccolo galeotto), fosse la rappresentazione plastica dell’ideale feroce di chi ha immaginato il sistema penitenziario. E ciò sembra confermare che lo scopo finale del carcere, ma anche la sua pre-condizione, sia la riduzione ai minimi termini dell’identità del recluso. Una riduzione che passa anche attraverso un processo di rimpicciolimento del suo spazio vitale, delle sue possibilità di movimento, del suo campo visivo e del suo campo d’azione. A tale processo di ri-dimensionamento corrisponde, fatalmente, un meccanismo di infantilizzazione. Se è vero che la prigione come istituzione della privazione delle libertà è, per sua stessa natura, una condizione di minorità e di dipendenza, tutto ne consegue: i reclusi, come i bambini, godono di una libertà limitata e di una parziale capacità di autodeterminazione. I loro stessi gesti quotidiani, nei tempi e nei ritmi, sono regolati da altri e tutta la loro vita sembra ispirata ad una pedagogia coatta. Simbolo massimo, più rappresentativo e beffardo, di quella condizione è la procedura delle richieste. Sarà un caso, ma qualunque esigenza e qualunque necessità, qualunque contestazione e qualunque diritto, passano attraverso un metodo di interpellanza scritta alla direzione del carcere, che non si chiama domanda, ma domandina. Quel diminutivo vezzeggiativo è davvero eloquente. E questo rende quanto mai importante un ragionamento sul rapporto tra individuo recluso e istituzione della custodia, quale quello affrontato nel libro curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi (Il corpo e lo spazio della pena, Ediesse 2011). L’idea di fondo del libro è che tra luoghi, spazi e natura della pena vi sia un legame non aggirabile : la compressione degli spazi e il dimensionamento (sempre più elefantiaco) degli istituti penitenziari cambiano la qualità della pena. Se anche si raggranellassero tutti i fondi necessari a dare seguito all’originario e improbabile piano di edilizia penitenziaria (la realizzazione di ventiduemila posti letto), resterebbe elusa la domanda di fondo: una volta che l’istituto di pena fosse ridotto a mero contenitori di una umanità in eccesso, non ne verrebbe alterata la stessa idea di pena. Progettazione architettonica e pianificazione urbanistica ci obbligano invece a fare i conti con la qualità della vita offerta a chi deve vivere in quei luoghi, e dunque con l’idea di pena che abbiamo. Sulla copertina del libro in questione è riprodotta l’immagine del giardino degli incontri progettato da Giovanni Michelucci per la casa circondariale di Sollicciano: uno spazio per le visite familiari a due passi dal muro di cinta, ma che vorrebbe essere già fuori, a tenere insieme chi è detenuto e chi ne aspetta il rilascio. Dunque, se quello del carcere è, essenzialmente, un problema di “anatomia politica dei corpi”, come scrive Eligio Resta, non si può prescindere dalla technè architettonica nell’affrontare il rapporto tra corpi individuali e spazi collettivi. All’esame delle forme storiche e progettuali degli istituti di pena e della loro collocazione urbanistica corrispondono, pertanto, le esigenze di riforma, per una pena rispettosa della Costituzione, nella consapevolezza che il senso della pena non può essere altro che la fine della pena. Post Scriptum Il rapporto tra infanzia e prigione conosce una sua ulteriore manifestazione nel fatto che, a tutt’oggi, nelle carceri italiane si trovano “reclusi”, insieme alle loro madri, mediamente 50-60 bambini da 0 a 3 anni. Uno scandalo, se possibile ancora più atroce, nello scandalo. Giustizia: sì alle misure alternative, quando non è possibile cura adeguata e completa in carcere Altalex, 7 gennaio 2012 Corte di Cassazione Sezione Quarta Penale - Sentenza n. 46479 del 14.12.2011. Il Tribunale di Taranto ha respinto l’appello proposto dal detenuto T.P. avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Lecce che ha rigettato l’istanza, avanzata ai sensi dell’art. 275, comma quattro bis, cod. proc. pen., di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari. L’ordinanza impugnata da atto che la disposta perizia ha consentito di appurare che il ricorrente non è al momento affetto da malattia particolarmente grave ed incompatibile con la detenzione ma necessita di gestione tecnicamente adeguata e di alcuni controlli urgenti che possono essere eseguiti in ambito penitenziario. Solo alcuni esami come la scintigrafia e la tac, quando se ne presenterà il bisogno, dovranno essere eseguiti presso strutture sanitarie esterne. La patologia da cui il detenuto è affetto consiste in una infezione cronica delle vie urinarie in soggetto che ha subito nefrectomia. Al momento la condizione clinica non è però grave perché si evidenzia l’infezione ma non la compromissione infiammatoria del rene superstite. I rischi connessi a tale patologia possono essere minimizzati da una sorveglianza clinica attenta. Alla luce di tali elementi di giudizio si perviene alla conclusione che si è in presenza di soggetto non affetto da una malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione e tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. Infatti il protocollo medico indicato dal perito è attuabile in regime di detenzione ed eventuali particolari esigenze potranno essere soddisfatte presso presidi esterni di cura. Tale trasferimento è espressamente previsto dall’art. 11 dell’ordinamento penitenziario e giustifica la reiezione dell’appello anche alla luce della giurisprudenza di legittimità in materia. Si conclude, analizzando il contenuto della consulenza tecnica di parte che, pur giungendo sostanzialmente alle medesime conclusioni cui è pervenuto il perito d’ufficio, enfatizza il rischio di un’evoluzione negativa della patologia che però non è giustificata dalle attuali condizioni di salute e che allo stato appare meramente ipotetica. Ricorre per cassazione l’imputato, lamentando che la valutazione compiuta dal Tribunale non è conforme alla giurisprudenza di legittimità che impone di valutare anche la prevedibile evoluzione del quadro clinico e la potenziale incidenza in modo irreparabile della detenzione sulla salute del paziente. Si assume che le condizioni del paziente vadano valutate non solo al momento dell’accertamento ma anche e soprattutto sulla base della prevedibile evoluzione del quadro clinico. Tale probabile evoluzione è stata evidenziata sia dal perito d’ufficio che dal consulente di parte. D’altra parte, il diritto alla salute va tutelato anche al di sopra delle esigenze di sicurezza sicché, in presenza di gravi patologie, si impone la sottoposizione al regime degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in idonee strutture. L’ordinanza del Tribunale si pone in contrasto con la disciplina legale avendo trascurato l’impossibilità di eseguire in ambito penitenziario la tac con contrasto, la scintigrafia e l’ecografia renale. Tale incompleta capacità di fronteggiare la situazione da parte della struttura penitenziaria avrebbe imposto l’accoglimento della richiesta. Giustizia: Osapp; il vero problema non sono le poche carceri… ma i troppi detenuti Adnkronos, 7 gennaio 2012 “In Italia, la politica, prima o poi, dovrà prendere atto che i 45.700 posti disponibili nelle carceri italiane devono bastare e persino avanzare”. A dichiararlo in una nota è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, per il quale destano più di una perplessità le dichiarazioni del viceministro alle Infrastrutture Mario Ciaccia riguardo alla possibilità di utilizzare il project financing per la costruzione di nuove carceri e per il rilancio dell’economia nazionale, i cui appalti, a parte vicende oscure degli anni passati, soprattutto al Sud, potrebbero destare gli appetiti mai sopiti delle associazioni criminali’. Secondo il sindacalista “i 66.800 detenuti oggi presenti nelle carceri italiane, con probabile aumento nei giorni a venire, sono una vera e propria anomalia frutto delle patologie del sistema giudiziario e di scelte errate in materia di politica criminale”. “D’altra parte - sottolinea Beneduci - basta prendere atto che circa il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo e il 23% attende il primo grado di giudizio, per rendersi conto che nel nostro paese quella del carcere non può essere la migliore scelta a tutela della collettività ma solo estrema ratio da destinare alle situazioni di maggiore allarme e pericolosità sociale”. “Per rilanciare l’economia e dare un senso e una finalità al carcere - conclude il leader dell’Osapp - più opportune ed utili iniziative destinate a creare posti di lavoro per i giovani, per i disoccupati e per quei detenuti che scontata la propria pena, per sopravvivere, sono obbligati a tornare a delinquere”. Giustizia: l’avvocato di Lele Mora scrive al presidente Napolitano Agenparl, 7 gennaio 2012 Riceviamo e trasmettiamo di seguito la Lettera dell’Avv. di Lele Mora al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Ill.mo Sig. Presidente, io avvocato Giampaolo Cicconi del Foro di Camerino, con studio a Macerata, affetto da diabete mellito dal 1998, con la presente istanza c h i e d o un Suo immediato intervento, quale garante della Costituzione, onde valutare se le gravi patologie alle quali è affetto il detenuto sig. Dario Mora (detto Lele), siano o meno compatibili con il regime carcerario. Infatti, il predetto - affetto da diabete e da ipertensione arteriosa - non può essere curato adeguatamente in carcere. A tale proposito, giova premettere: - che il problema della gestione della persona diabetica in carcere è di fondamentale importanza, perché ogni individuo, ai sensi dell’art. 32 della Costituzione Italiana, ha diretto alla assistenza ed alla salute. Infatti la gestione del paziente recluso è fondamentale perché il 4,5% dei detenuti in Italia risulta affetto da diabete mellito, su una popolazione carceraria di circa 70.000 unità (per oltre il 95% di sesso maschile); di questi, il 30% è in terapia con insulina. La percentuale è analoga a quella degli Usa, dove su oltre 2 milioni di detenuti si stima che circa 90.000 siano diabetici. - che la carcerazione è un momento di stress per la persona affetta da diabete perché la perdita di libertà e l’ambiente ostile, costituiscono motivo di scompenso glicometabolico; - che, inoltre, in pazienti in condizioni di restrizione della libertà, seppur con la possibilità di un’ora d’aria al giorno, la possibilità di mantenere una “life style” adeguata” è impossibile, perché è impossibile svolgere un programma sufficiente di attività fisica, specie dove la Casa Circondariale non è attrezzata; - che si aggiunga che l’alimentazione del carcerato potrebbe non essere quella giusta, nel senso che una persona con diabete a casa può gestire al meglio la sua alimentazione, curando al massimo la qualità e la quantità della sua dieta per il diabete e così ottenendo un buon controllo glicemico. Per quanto riguarda l’alimentazione, è utile sottolineare che le tabelle vittuarie ministeriali non consentono una personalizzazione della dieta. Infatti anche se ogni detenuto diabetico ha un menù che prevede un introito di 1800 kcal giornaliere, il cibo del carcere è a contenuto di grassi elevato e con modesto apporto di verdure e dunque di fibre (cfr dieta e fibre). Stando così le cose, il paziente che già non ha autostima e vive la sua giornata in branda, finisce per ingrassare e scompensare le sue glicemie. Se il paziente assume anti-diabetici orali del tipo di quelli che danno secrezione insulinica (segretagoghi es. glibenclamide) si può configurare il rischio di crisi ipoglicemiche. Inoltre un’altra difficoltà deriva dal fatto che non è possibile un controllo delle complicanze del diabete, sia delle complicanze microangiopatiche ( La retinopatia diabetica Speciale sulla retinopatia diabetica, prevenzione e cura La nefropatia diabetica nefropatia diabetica : la cura La neuropatia diabetica, cioè i dolori agli arti e non solo! Dolore alle gambe e diabete, fai il test e scopri se è neuropatia. La neuropatia diabetica, le varie manifestazioni sistemiche) e macroangiopatiche (L’arteriopatia obliterante cronica ostruttiva L’ictus cerebrale ) nel paziente detenuto, a meno che non si dispongano delle visite periodiche presso centri attrezzati, cosa che si ignora accada anche presso la struttura ospedaliera del Carcere di Opera). La persona diabetica carcerata deve essere sottoposta al momento della reclusione ad una valutazione clinica, allo scopo di garantire al massimo la sicurezza del paziente, con riferimento all’identificazione immediata di tutti i pazienti a maggior rischio di complicazioni metaboliche acute (ipo-e iperglicemia, chetoacidosi). - che ancora la persona ristretta in carcere ha diritto ad una terapia farmacologica continuata senza interruzione (gestione di uno schema insulinico a tre o quattro somministrazioni, ipoglicemizzanti somministrati con i pasti, evitando i segretagoghi a lunga emivita) nonché ad una dieta personalizzata, ad un controllo glicemico attento e ad un personale di vigilanza e sanitario istruito e attento alle problematiche connesse col diabete; - che il nuovo cod. proc. penale ha attribuito una notevole rilevanza allo stato di salute del soggetto sottoposto ad indagini, cosicché l’elemento della condizione di salute da criterio sussidiario è divenuto criterio principale, potendo anche da solo giustificare la concessione del beneficio. Una condizione di grave malattia, o di infermità fisica, per esempio un tumore, un grave scompenso cardiaco impediscono di fatto l’adozione o il mantenimento della custodia cautelare e l’inizio o la prosecuzione dell’esecuzione della pena, si parla cioè di “condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere”; - che in ogni caso, è impossibile compilare una casistica sulle patologie fisiche che possono portare all’incompatibilità, proprio perché in questo ambito vige un grande potere discrezionale in capo alle autorità competenti e nonché ai medici tenuti a relazionare sulla situazione clinica del detenuto, in quanto non hanno nessuna “guida ufficiale” da seguire (sul punto, neppure la Cassazione riesce ad emettere delle decisioni uniformi), ma solo la loro esperienza e il loro buon senso. Per tali rilievi, si confida in un Suo fattivo interessamento, al fine di valutare se le condizioni di salute del detenuto Dario Mora siano o meno compatibili con la detenzione, auspicando che -ove non lo fossero- provveda, nell’ambito dei poteri ad Ella attribuiti,. ad intervenire con urgenza presso i giudici del Tribunale di Milano, i quali - previa Ctu - provvedano - quanto meno - a concedere a costui la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. Lettere: da tre anni vivo paralizzato in cella… www.radiocarcere.com, 7 gennaio 2012 Pubblichiamo la lettera, arrivata a Radiocarcere e letta nella puntata di ieri, scritta da una persona detenuta nel carcere di Agrigento che da ben 3 anni resta abbandonato in cella perché paralizzato. Una lettera che dimostra chiaramente, al di là del sovraffollamento, l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario. “Cara Radiocarcere, mi trovo in carcere da circa 3 anni e da allora vivo la mia pena sdraiato su una branda, in quanto sono paralizzato. Il carcere mi ha dato l’assistenza di un piantone che sta con me per 3 ore al giorno, ma il resto della giornata resto solo, sdraiato su questa branda e senza nessun aiuto. Consideri che non mi lasciano a disposizione neanche la sedia a rotelle per tutto il giorno, con la conseguenza che da tre anni non vado a fare l’ora d’aria, né posso recarmi in chiesa. In poche parole sono murato vivo. Tra l’altro ho chiesto più volte al medico del carcere di poter fare la fisioterapia prescritta dai medici, ma nessuno mi ha mai risposto, come non hanno mai ottemperato all’obbligo di portarmi in ospedale per sottopormi alle visite specialistiche di cui ho bisogno. In pratica sono abbandonato sul letto della mia cella. Inoltre, la mia famiglia vive in Calabria e per ragioni economiche non può venire fino a qui. Ragion per cui, non solo sono disperato perché non vedo i miei cari, ma sono anche vestito come un barbone, dato che non ricevendo visite, non ho neanche un pacco di vestiti puliti con cui cambiarmi. Sono tre anni che vivo così e ora sono davvero arrivato all’esasperazione. Non chiedo la libertà, ma come persona detenuta paralizzata chiedo cure e la vicinanza della mia famiglia. È forse chiedere troppo? Vi saluto con tanta stima”. Antonio, dal carcere di Siracusa Bari: si riapre caso di Carlo Saturno; ritrovato del sangue in una scarpa consegnata ai familiari di Nazareno Dinoi Corriere del Mezzogiorno, 7 gennaio 2012 C’è un nuovo indizio che potrebbe riaprire il caso sulla morte di Carlo Saturno, il detenuto manduriano trovato in fin di vita il 29 marzo del 2011 nel carcere di Bari e ricoverato in rianimazione dove morì otto giorni dopo. In una delle sue scarpe sono state trovate macchie di sangue di cui s’ignorava la presenza. Il giovane che aveva 22 anni, fu trovato impiccato alla sbarra del letto e non presentava ferite sanguinanti. A scoprire le tracce sono stati i familiari quando hanno ritirato gli effetti personali dal penitenziario barese. Il sangue, copioso e oramai raggrumato ma, a quanto dicono i parenti, riconoscibilissimo, si troverebbe all’interno della scarpa e non all’esterno “come se qualcuno avesse provveduto a pulirla”, sostengono i fratelli di Saturno che hanno depositato il reperto alla procura della Repubblica di Bari dove è ancora in corso un inchiesta per istigazione al suicidio condotta dai pubblici ministeri Pasquale Drago e Isabella Ginefra. L’avvocatessa Tania Rizzo, del foro di Lecce, che rappresenta una delle sorelle Saturno, ha già chiesto una perizia che identifichi la natura ed eventualmente l’appartenenza del sangue. Saturno era in carcere perché accusato di furto ed era, tra l’altro, vittima-testimone nel processo in corso a Lecce a carico di nove agenti di polizia penitenziaria dell’istituto minorile accusati di violenze su di lui ed altri minori detenuti avvenute nel 2006. Il suo presunto suicidio non convinse il magistrato di turno che chiese l’esame autoptico il cui esito non è ancora noto ai familiari né ai loro legali. Il giorno prima che s’impiccasse, Saturno aveva avuto un furioso scontro con due agenti di custodia. Per quella colluttazione che ad una delle guardie costò la frattura di una mano, il detenuto incassò un nuovo ordine di carcerazione. Questa vicenda alimentò i sospetti dei parenti che arrivarono ad ipotizzare un pestaggio seguito dall’omicidio del loro congiunto. Accusa questa sempre respinta dalla categoria con le stellette. “Voglio ricordare che l’inchiesta è ancora in corso - risponde l’avvocatessa Rizzo - e i sindacati della polizia penitenziaria farebbero bene a vigilare per isolare e denunciare gli episodi di aggressività che molti processi e sentenze stanno portando alla luce. Questo anche a tutela della loro stessa categoria”. Padova: detenuto morto, medico nei guai… scambiò l’infarto per una gastrite di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2012 Rischia il processo la dottoressa Orizia D’Agnese: per ben tre volte aveva prescritto antidolorifici. La vittima, Federico Rigolon, rinchiuso al Due Palazzi, aveva chiesto invano il ricovero in ospedale. Lamentava un fortissimo dolore nella regione epigastrica, la parte superiore dell’addome. Un dolore acuto, penetrante. Un dolore che non passava nonostante la terapia farmacologica prescritta dal medico del carcere. Così per ben tre volte nell’arco di appena ventiquattr’ore Federico Rigolon, 37 anni originario di Montecchio Vicentino, era tornato nell’infermeria del Due Palazzi, la struttura penitenziaria per i detenuti giudicati in via definitiva. E aveva insistito: quel male era sempre più lancinante e non passava. Si era anche arrabbiato, forse era stato un po’ irruento: più che comprensibile quando senti di star sempre peggio e non hai la possibilità di rivolgerti a un altro medico perché sei dietro le sbarre e la tua libertà è limitata. Poche ore più tardi Federico era stato trovato senza vita in cella: a ucciderlo un infarto miocardico acuto. Il ricovero in un’Unità coronarica avrebbe potuto salvargli la vita. Così non è stato. Quel malessere dipendeva solo da problemi di stomaco secondo la dottoressa Orizia D’Agnese, 41enne originaria di Avellino, in servizio nella casa di reclusione Due Palazzi. Anzi, nel diario clinico il medico aveva segnalato che il detenuto si era comportato con arroganza, aggressività e mancanza di rispetto nei suoi confronti: comportamento forse comprensibile in un uomo che stava per morire e che, nonostante la richiesta di essere accompagnato in ospedale, si era sentito rispondere di assumere altri antidolorifici e di smettere di fumare. A otto mesi dal tragico evento, il pubblico ministero padovano Orietta Canova ha chiuso formalmente l’inchiesta e ha sollecitato il processo a carico della dottoressa Orizia D’Agnese (difesa dall’avvocato Lorenzo Locatelli), per il reato di omicidio colposo. Sulla richiesta si pronuncerà il gup Paola Cameran. Federico Rigolon, un passato di tossicodipendenza, si rivolge alla guardia medica dell’istituto il 16 aprile per un dolore epigastrico avvertito pure in passato. L’indomani si ripresenta in infermeria alle 7,45 per lo stesso problema, nonostante l’assunzione di farmaci per trattare la patologa gastrica. A questo punto chiede di essere trasferito in ospedale ma la dottoressa gli prescrive ranitidina per curare una gastrite acuta e Buscopan per fronteggiare il dolore. Alle 11.40 Rigolon torna dal medico perché va peggio. E il medico prescrive un altro antidolorifico (Contramal), suggerendo al paziente di non fumare più: si limita solo a prenotare in ospedale un esame endoscopico. Che cosa avrebbe dovuto fare? Bastava un elettrocardiogramma per individuare con certezza l’infarto in atto. È quanto emerso dalla consulenza tecnica svolta dal professor Gaetano Thiene e dal medico legale Claudio Terranova, consulenti della procura. Sarebbe stata necessaria una coronarografia con angioplastica coronarica e l’applicazione di uno stent per salvare Federico. Invece, nel tardo pomeriggio, per lui, da solo in cella, è arrivata la morte. Padova: dall’Asl progetto per riaprire il Reparto detenuti all’interno dell’ospedale Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2012 Progetto preliminare approvato dal dg Cestrone, individuata l’area al terzo piano del Monoblocco L’operazione costerà 700mila euro: previsti una guardiola, l’ambulatorio e lo spazio per le degenze. A dieci anni esatti dalla chiusura del bunker dell’azienda ospedaliera, il terzo piano del monoblocco si prepara a lasciar spazio ad un reparto interamente dedicato ai detenuti: il progetto si svilupperà su 280 metri quadrati ed avrà sette posti letto. Costo totale dell’operazione, poco meno di 700mila euro. Il progetto preliminare è stato appena approvato dal direttore generale di via Giustiniani Adriano Cestrone e sarà avviato nel corso del 2012. L’incipit del documento con cui viene istituito il nuovo reparto “per pazienti in regime di detenzione” sottolinea l’impellenza di trovare una soluzione rapida per i detenuti che devono essere ricoverati: nel decennio di limbo in cui è stato chiuso il bunker i pazienti provenienti dal Due Palazzi venivano ricoverati nei reparti ordinari. Una situazione che nel migliore dei casi provocava qualche imbarazzo. È recente però il tentativo di evasione di un detenuto, con tanto di rocambolesca fuga di fronte agli occhi atterriti dei pazienti. Ma avevano provocato non pochi mal di pancia pure le maxi misure restrittive destinate ad un paziente in regime di 41 bis ricoverato a Padova. Il reparto, progettato dallo Studio Striolo, Fochesato & partners di Padova, prevede un’area di ingresso controllata, un’ulteriore zona dove verrà installata la guardiola, che sarà dotata di servizio igienico; poi si aprirà lo spazio destinato alle degenze, con sette posti letto. All’interno dell’area troverà spazio una zona definita “neutra” ed una farmacia dedicata, poi una serie di locali destinati ad ambulatori per visite e medicazioni. Il progetto, che prevede un costo di 690 mila e 200 euro, è appena stato inviato alla Regione, destinato alla direzione edilizia e finalità collettive, per la sua approvazione e per la richiesta di finanziamento dell’intervento “al fine di non aggravare il bilancio aziendale, fermo restando una preliminare imputazione finanziaria al bilancio aziendale 2012, necessaria per l’approvazione della progettazione preliminare”. Dopo la chiusura del bunker del Giustinianeo nel 2002, struttura obsoleta e totalmente fuori norma, i vertici della sanità avevano stabilito il trasferimento della degenza per detenuti all’ospedale Sant’Antonio. Di quel progetto non se n’è fatto nulla ed i pazienti in regime di detenzione hanno continuato per dieci anni ad essere ricoverati in reparto. Una soluzione che scontentava tutti: i malati “ordinari” ed i loro familiari, che non hanno mai accettato di buon grado la presenza di guardie carcerarie a presidio dei reparti. Ma pure gli agenti di custodia hanno sempre sostenuto la poca sicurezza e la difficoltà di gestione della situazione. E pure i dipendenti di via Giustiniani hanno sempre invocato una soluzione che permettesse loro di lavorare in sicurezza. Trani: Sel su morte detenuto; la politica non si interessa di chi non produce consenso elettorale Quotidiano Italiano, 7 gennaio 2012 Il problema del sovraffollamento delle carceri italiane come uno dei fattori responsabili dell’alto numero dei suicidi e decessi in circostanze ambigue avvenuti nel recente periodo. L’ultimo, proprio nella sesta provincia pugliese, nel penitenziario di Trani, dove la mattina del 31 dicembre un detenuto 34enne di Nardò è stato trovato privo di vita nella sua cella. Una nota di Sinistra, Ecologia e Libertà di Andria firmata dai coordinatori Michele Lorusso e Valentina Lomuscio pone una serie di riflessioni sull’argomento che attualmente è oggetto di discussione sui banchi del Senato italiano. “Le questioni che non hanno appeal elettorale-inizia il comunicato- molto spesso sono abbandonate o poco discusse dalla Politica, che è sempre più alla ricerca frenetica del consenso dimenticandosi che il ruolo che dovrebbe svolgere non è solo quello di cercare consenso, ma è anche quello di lottare per una propria idea di società. Nei dibattiti non sentiamo quasi mai parlare di chi non può contribuire, elettoralmente parlando, alla crescita del consenso di questo o di quel partito. Infatti, non sentiamo mai parlare per esempio dei problemi delle carceri italiane, affrontati qualche volta, in maniera davvero “folkloristica”, dai radicali. La Politica deve tornare a parlare anche di quelle fasce di persone che, in qualche modo, non contribuiscono all’aumento del consenso, ma che fanno comunque parte della nostra società. Ed è proprio sul problema delle carceri, che dobbiamo cominciare a parlare e a interrogarci su quelle che possono essere le soluzioni a tale problematica, soprattutto alla luce della notizia di diversi suicidi/omicidi di detenuti (l’ultimo è avvenuto proprio a Trani). Nelle carceri italiane vi è circa il doppio della popolazione che dovrebbe risiedervi. Nonostante questa vera e propria violazione dei diritti, vi è anche il taglio sostanzioso delle dotazioni finanziarie, cui vanno, aggiunti i tagli alla spesa sociale. Questa condizione di sovraffollamento sta producendo tutta una serie di situazioni davvero inaudite, di cui qualcuno dovrebbe vergognarsi. A livello regionale, qualcosa per rimettere al centro della discussione, anche gli ultimi, è stato fatto con la sottoscrizione del Protocollo per la tutela della salute dei detenuti, che ha come obiettivo la definizione de forme di collaborazione tra i diversi livelli istituzionali per garantire la tutela della salute ed il recupero dei detenuti adulti e minorenni e assicurare loro l’assistenza sanitaria. A livello nazionale, la discussione sul problema delle carceri è stata affrontata dal Ministro della Giustizia, Paola Severino, non complessiva, ma con una soluzione volta a risolvere “temporaneamente” il problema del sovraffollamento. Questa piaga sociale va affrontata in maniera complessiva e non con interventi tampone che farebbero svuotare le carceri per poi farle riempire nuovamente qualche settimana dopo. Innanzitutto bisognerebbe partire con un’amnistia per risolvere l’attuale drammatica contingenza, da affiancare con una serie di riforme essenziali”. L’intervento di Sel prosegue elencando una serie di proposte che andrebbero valutate: 1. Impossibilita di disporre misure detentive in assenza di posti disponibili nelle strutture carcerarie, in altre parole, tanti detenuti quanti posti-letto. (Proposta dell’Associazione Antigone). 2. In caso di condanne per reati più gravi, arresti domiciliari per chi è già detenuto con condanne più lievi. 3. Introduzione di nuove misure alternative, espansione per quelle già esistenti, da non applicarsi solo ad istanza di parte ma ex lege, automaticamente per reati minori. Sanzioni Pecuniarie, commisurate al reddito, allargamento della detenzione domiciliare, sanzioni prescrittive di lavori socialmente utili, anche solo nei fine settimana, esclusione dai Pubblici Uffici. 4. Depenalizzazione di tutta una serie di reati di minima pericolosità sociale. Revisione della legge ex-Cirielli sulla recidiva che colpisce solo i cittadini a basso reddito. 5. Depenalizzazione dell’uso e del possesso di sostanze stupefacenti per uso personale. Abrogazione della Fini- Giovanardi. 6. Cancellazione dell’incivile reato di Clandestinità. Abrogazione della Bossi-Fini. 7. Revisione profonda delle norme sulla Custodia Cautelare: tassatività ancora più chiara delle condizioni per applicarla, dove alle tre ipotesi di scuola della a)Inquinamento delle prove; b) Reiterazione del reato; c)Rischio di fuga, sia sempre accompagnata la pericolosità sociale, almeno per la custodia in carcere. 8. Introduzione del reato di Tortura, sia fisica che psichica. Politiche serie contro le violenze sui e tra i detenuti. 9. Ripensamento dei “tempi carcerari”, che devono avere un senso, una ragione e, soprattutto uno scopo. Introduzione di luoghi di detenzione per detenuti di bassa pericolosità sociale, dove più che il controllo e la sicurezza, vengano privilegiati percorsi di reinserimento ed acquisizione di capacità lavorative. 10. Obbligo, tranne casi di eccezionale gravità, di arresti domiciliari per tutte le detenute-mamme che abbiano figli minori di 5 anni. I bambini sono sempre innocenti e non devono stare in carcere per non essere traumaticamente separati dalle loro madri”. Conclude il comunicato: “Questo potrebbe essere un buon inizio se si vuole veramente affrontare la problematica delle carceri, se si vuole che la pena assolva pienamente alla funzione di rieducazione del condannato (principio dettato dalla nostra Costituzione) e soprattutto se si vuole ridare dignità e diritti a quei detenuti e a quelle detenute che molto spesso sono trattati come dei rifiuti di cui non occuparsi. Solo se la Politica riesce a trovare soluzioni ai problemi degli ultimi, può risolvere tutti gli altri problemi e assolvere alla propria funzione di dare soluzioni e risposte a tutti i problemi sociali”. Bari: una cella per quattro, ma erano in dieci; detenuto cerca di impiccarsi, salvato La Repubblica, 7 gennaio 2012 L’uomo, in carcere perché clandestino, si era nascosto nel bagno per portare a compimento il gesto di protesta estremo. A Bari, ricorda il Sappe, il penitenziario più affollato d’Italia: 530 detenuti contro 219 posti disponibili. È stato salvato in extremis, aveva già le lenzuola annodate al collo. Un suicidio è stato evitato all’ultimo momento stamane nel carcere di Bari. Ne dà notizia il segretario nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), Federico Pilagatti. È accaduto nella tarda mattinata: un detenuto di circa 40 anni di origine libica, ristretto alla prima sezione, in carcere per reati inerenti l’immigrazione clandestina, era quasi riuscito a portare a compimento il suo gesto di protesta estremo. Dopo aver ricavato una corda dalle lenzuola in dotazione, l’uomo l’ha legata alla finestra del bagno e si è lasciato andare. Si era rifugiato nel bagno per portare a compimento il suo gesto proprio a causa della presenza nella cella (che poteva contenere non più di 4 detenuti), di circa dieci detenuti. “Una condizione umiliante che dovrebbe far riflettere”, afferma Pilagatti. Quando è giunto a soccorrerlo un agente penitenziario in servizio nella sezione, era incosciente e quasi non respirava più. Poco dopo sono intervenuti i colleghi. “Da tempo il Sappe - afferma Pilagatti - sta cercando di accendere i riflettori sul carcere di Bari, il più affollato d’Italia con circa 530 detenuti a fronte di 210 posti disponibili e sugli altri Istituti della Regione Puglia, tra i più affollati della nazione, senza grossi risultati, visto che la situazione non cambia. Ormai i poliziotti penitenziari, oltre ai loro compiti istituzionali che li impegnano in maniera massacrante, si devono sostituire anche alle carenze dovute ad un sistema che fa acqua da tutte le parti”. Il Sappe, è “ormai stanco - continua Pilagatti - di denunciare una situazione che ormai sembra un fiume in piena che ha rotto gli argini e si chiede fino a quando si potrà reggere. Ormai è chiaro che la vita delle persone che lo Stato dovrebbe ritenere sacre, non valgono più nulla, soprattutto se straniere, la costituzione carta straccia, le promesse della politica e delle Istituzione parole vuote senza senso. Persino le richieste del Presidente della Repubblica sulla situazione delle carceri sono diventate di circostanza, per questo motivo preghiamo il Presidente Napolitano a dare una continuità alle sue parole ed iniziare presto un giro nelle carceri nazionali per toccare con mano la desolazione ed il degrado presente. Ormai le responsabilità sono chiare - conclude il segretario del Sappe - in uno Stato che di diritto ha solo il nome. Il Sappe comunque non abbassa la bandiera e continuerà con le sue denunce”. Catania: in piazza Lanza e nell’istituto di Bicocca ormai condizioni al di sotto della vivibilità La Sicilia, 7 gennaio 2012 Di “foto”, alla casa circondariale di piazza Lanza e all’istituto penitenziario di Bicocca, ne sono state “scattate” parecchie. E ogni volta il “soggetto” si è presentato sempre peggio. È avvenuto anche ieri, alla Camera del lavoro, dove è stato presentato “l’VIII rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione” nel nostro Paese, “Le prigioni malate”. Ciò alla presenza di Patrizio Gonnella (presidente dell’associazione Antigone, per i diritti e le garanzie nel sistema penale), Alessio Scandurra (che ha curato il dossier sul pianeta carceri), Angelo Villari (segretario generale della Cgil), Giusy Milazzo (presidente Camera del lavoro), Salvo Fleres (senatore, garante regionale dei diritti dei detenuti), Gaetano Agliozzo (segretario generale Funzione pubblica), nonché degli avvocati Massimiliano Bellini (che assiste i familiari di un detenuto nisseno suicida) e Vito Pirrone, che, fra le altre cose, ha fatto il punto della situazione sulla misteriosa morte di Carmelo Castro, il 19enne di Biancavilla deceduto proprio nel carcere di piazza Lanza. “Dopo due anni - ha riferito Pirrone - è stato finalmente depositato il lenzuolo con cui il Castro si sarebbe impiccato. Abbiamo chiesto un accertamento tecnico, che il nuovo Pm che segue il caso ha subito recepito, che svelerà tutte le compatibilità necessarie per portare avanti il processo”. “Oggi, però - ha proseguito - vogliamo sottolineare le condizioni di invivibilità in alcune celle di piazza Lanza: finestre a bocca di lupo alte cinque metri, impossibilità di vedere l’esterno, spazi di appena due metri per tre a disposizione, niente riscaldamento. Concordo sul fatto che chi ha sbagliato deve pagare, ma se il carcere è indice rivelatore della civiltà di un paese siamo messi male. Senza contare che non serve ammassare la gente in questi istituti, visto che non esiste solo la pena detentiva. Altrimenti diventa impossibile educare e reinserire”. Nella casa di piazza Lanza e nell’istituto di Bicocca la situazione è drammatica. Nel primo caso c’è un sovraffollamento pari al 165,65 per cento, a Bicocca addirittura del 173,76. “E i problemi - spiega Gonnella - non riguardano soltanto i detenuti, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria (e pure educatori e assistenti sociali) ormai sotto organico e in difficoltà nel rapportarsi con questa moltitudine di reclusi”. “Indecente - conclude Fleres - che i colloqui dei detenuti avvengano in condizioni da Terzo mondo: una moltitudine di persone ammassate all’ingresso e poi in sala. Il piante carceri e i suoi satelliti - detenuti, educatori e assistenti sociali, ma pure strutture troppo vecchie e cadenti, attività rieducative ridottissime, codice di procedura penale da ristrutturare - ci offrono un quadro fosco. Occorre fare qualcosa”. “Noi - dicono Fleres e Gonnella - siamo pronti a dare il nostro contributo al Governo: non è più il momento di lavorare di fantasia, bensì di sfruttare l’esperienza di chi lavora in questo settore”. Bologna: all’Ipm del Pratello 185mila euro di spesa per la mensa, ma il cibo è pessimo La Repubblica, 7 gennaio 2012 Una rissa alla mensa per contendersi una banana. È successo anche questo al Pratello proprio in questi giorni, dopo il cambiamento dei vertici. Una rissa che dimostra come i problemi non si possono risolvere con un colpo di spugna. Questa volta è stata denunciata alla Procura dei Minori, a differenza delle decine di episodi di violenza nascosti in passato, ma è la conferma di uno dei problemi già emersi durante l’ispezione voluta dal ministro della Giustizia Severino: il cibo. Se ci si batte per una banana, vuol dire che l’alimentazione al Pratello è scarsa e di cattiva qualità, nonostante il contratto di catering nel carcere minorile costi allo Stato 185 mila euro l’anno. Una cifra considerata eccessiva, se si pensa che i detenuti da sfamare tre volte al giorno sono poche decine. L’ispettore Francesco Cascini, mandato dal ministro, era entrato a sorpresa nelle celle di sera e aveva poi scritto nella sua relazione che i detenuti “cenano nelle celle contro il regolamento”. Aggiungeva che c’erano varie lagnanze sulla qualità del vitto e che “i furti di generi alimentari venivano considerati con indifferenza” dal personale. Ciò “aumenta la conflittualità tra i minori e soprattutto recide il legame di fiducia nei confronti degli operatori e dell’intera struttura”. Il cibo spesso veniva rubato dai “più prepotenti” perché merce rara. Il cibo quindi, servito quasi sempre uguale, senza tabelle dietetiche, spesso rifiutato perché cattivo, rappresentava un problema. Oltre alle “modalità di intervento (manette, schiaffi, isolamento)” come punizioni messe in atto da parte degli agenti di Polizia penitenziaria “che rischiano di aggravare ancora di più la distanza tra operatori e minori in balia dei più prepotenti”, ha scritto l’ispettore. Il servizio di catering è ora messo in discussione dalla nuova dirigenza, però il contratto, che era stato firmato dal direttore del Centro giustizia minorile Giuseppe Centomani, ora rimosso, deve essere rispettato. Per rendere meno gravosa la mensa, il nuovo direttore Francesco Pellegrino, che viene da un carcere modello che è Catania, e il nuovo capo della Polizia penitenziaria Alfio Bosco, che gestisce anche Catanzaro, hanno passato molti giorni a Bologna durante le vacanze natalizie e hanno spesso mangiato in mensa insieme ai ragazzi. Le difficoltà, come dimostra la rissa, non sono finite. I nuovi vertici hanno scritto al ministero dicendo che avrebbero bisogno di nuovo personale di fiducia per poter portare avanti un cambiamento alla base, in una situazione che rimane a rischio anche per la sicurezza, come ha messo in luce una parte della relazione degli ispettori. Torino: 262 detenuti al lavoro, in sette cooperative sociali, per 2,4 mln di ricavi Asca, 7 gennaio 2012 Catering per aziende e privati, assemblaggio di lampade a energia solare, sartoria, torrefazione di caffè e cacao, produzione di elementi per l’arredo urbano, serigrafia: sono numerose le attività realizzate dal Polo produttivo della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Sette le cooperative sociali coinvolte: Liberamensa, Ergonauti, Eta Beta, Extraliberi, Pausa Cafè, Puntoacapo, Uno di Due (ex cooperativa Papili factory che a giugno 2011 ha incorporato la cooperativa Orto dei ragazzi). L’Osservatorio sull’economia civile della Camera di commercio di Torino ha effettuato un’analisi che presenta risultati particolarmente significativi per fatturato, numero di detenuti occupati e qualità dei prodotti. I ricavi sono stabili e il numero degli occupati in crescita. A fine 2010 all’interno della Casa Circondariale risultavano impiegati 262 detenuti in attività lavorative: 203 presso l’amministrazione penitenziaria (+7,4% rispetto all’anno precedente) e 59 presso le cooperative sociali del Polo produttivo (+5,4%). Di questi ultimi, il 92% erano uomini, il 54% extracomunitari, il 93% lavorava in cooperativa da meno di 3 anni e il 69% lavorava per almeno 30 ore settimanali. Nel 2010 i ricavi complessivi delle attività produttive è stato di 2,4 milioni di euro, sostanzialmente stabile rispetto allo stesso periodo del 2009: il 46% proviene da ricavi da pubbliche amministrazioni; oltre il 42% da vendita a imprese; il restante 12% da persone fisiche, altre cooperative sociali o organizzazioni non profit. È aumentato il numero dei detenuti occupati. A fine dicembre 2010 erano 59 i detenuti che lavoravano per le cooperative all’interno del carcere (+ 5,4% rispetto al 2009), mentre sono stati 95 quelli che hanno lavorato per almeno un mese nel corso del 2010. Alcuni sono stati inoltre coinvolti in attività di accompagnamento e orientamento, ad esempio, la formazione e il tutoraggio, la valutazione delle competenze, l’accompagnamento alla ricerca di un’attività lavorativa o di una collocazione abitativa a fine detenzione. “I dati che emergono da questo secondo rendiconto sociale ed economico sono estremamente confortanti” ha dichiarato Pietro Buffa, direttore della Casa Circondariale. “Rispetto al 2009 l’ammontare dei ricavi relativi alle attività produttive nel carcere è rimasto sostanzialmente stabile, mentre sono aumentate le persone occupate e il livello degli stipendi, segno di un miglioramento complessivo della condizione lavorativa dei detenuti. Le prospettive di sviluppo sono incoraggianti. Da una recente ricerca del professor Bistagnino del Politecnico di Torino, emergono ampie possibilità di incremento delle produzioni a partire dagli scarti delle lavorazioni attuali ed è in previsione l’apertura di tre nuove attività produttive: una panetteria, una lavanderia e una autofficina”. I dati dimostrano che se da un lato il lavoro in carcere, durante il periodo di detenzione, svolge importanti finalità sociali - che vanno dalla prevenzione del rischio di reiterare il reato, all’inclusione sociale, alla creazione di legami con il territorio -, dall’altro porta ottimi risultati relativi all’occupazione una volta che i detenuti escono dal carcere. Dei 21 detenuti che lavoravano per una cooperativa e usciti dalla casa circondariale nel 2010 oltre il 70% ha trovato un’occupazione. La retribuzione netta mensile che i detenuti hanno ricevuto è stata di 572 euro per un orario di lavoro inferiore alle 30 ore alla settimana e di 1.025 euro nel caso di un orario di lavoro superiore alle 30 ore alla settimana. “La Città di Torino sostiene con convinzione lo sviluppo delle attività produttive nel carcere” ha detto Barbara Graglia dell’Assessorato al Lavoro del Comune di Torino, “e i risultati sono incoraggianti. Tre sono gli aspetti del Progetto del Polo Produttivo che preme sottolineare. Il ruolo attivo della Casa circondariale che non assorbe solo risorse, ma entra nel circuito produttivo realizzando prodotti di eccellenza per favorire opportunità lavorative in soggetti svantaggiati, aspetto che in questo momento di recessione economica è particolarmente significativo. Il ruolo determinante del lavoro come strumento di prevenzione del rischio di reiterazione del reato, attraverso l’inclusione sociale attuata con l’inserimento lavorativo. Infine, la creazione fondamentale di un ponte tra il carcere ed il territorio, sia durante la detenzione, sia durante il delicato momento di reinserimento nella società con l’attività di accompagnamento al lavoro a fine pena”. Pordenone: decreto “svuota-carceri” senza effetti al Castello Messaggero Veneto, 7 gennaio 2012 Il pacchetto di misure “svuota-carceri”, recentemente varato dal governo Monti, non ha presa nella casa circondariale di Pordenone. Tra i detenuti ai quali restano da scontare 18 mesi e che, qualora non vi fossero modifiche, potrebbero espiare il resto della pena ai domiciliari, solo uno, in città, beneficia di tale provvedimento. A ieri gli ospiti della casa circondariale sono 79 anziché i 68 previsti, numeri inversi per il personale della polizia penitenziaria: 44 agenti anziché i 59 previsti dalla pianta organica. Negli istituti penitenziari del centro-sud Italia, per fare un paragone, il rapporto tra personale in servizio e ospiti è decisamente, in percentuale, più favorevole. Il Coisp, sindacato di polizia, ha intanto espresso “solidarietà” agli agenti, ai quali viene richiesto “un lavoro incessante e duro”. Lo “svuota-carceri”, dunque, non ha creato l’effetto svolta in città, tanto che, appunto, solo un detenuto ha potuto lasciare l’istituto penitenziario. Le nuove norme individuano luoghi idonei alla custodia ai domiciliari con reperibilità 24 ore su 24, luoghi dove le forze dell’ordine possano effettuare controlli a qualsiasi ora. Al Castello, mentre ancora lontano è il traguardo di una nuova struttura, gli spazi comuni restano esigui e questo limita la possibilità di attuare progetti di lavori collettivi e attività di socializzazione. Il direttore, Alberto Quagliotto, peraltro, ha inoltrato al ministero della Giustizia una richiesta di sfollamento del piano terra della struttura, ma al momento da Roma non è giunta alcuna risposta. Modena: carcere Sant’Anna; il nuovo padiglione conterà solo su nove nuovi agenti in più? La Gazzetta di Modena, 7 gennaio 2012 È iniziato in Commissione giustizia al Senato l’iter per la conversione in legge del decreto sull’emergenza carceri. Il provvedimento introduce alcune novità tese almeno a tentare di tamponare io sovraffollamento. Ai primi di dicembre, la casa circondariale di Sant’Anna che secondo la capienza regolamentare dovrebbe ospitare fino a un massimo di 221 detenuti, aveva raggiunto quota 424. Secondo la pianta organica su di loro dovrebbero vigilare 221 agenti di polizia penitenziaria: ne mancano una sessantina. “Anche i 17 nuovi agenti che, dopo anni di richieste, sono stati inviati a fine novembre - spiega Sergio Rusticali, responsabile del Forum Sicurezza del Pd modenese - sono già stati almeno in parte riassorbiti, 7 infatti sono già stati trasferiti in altre sedi”. Il senatore Pd Giuliano Barbolini: “avevo già rappresentato all’allora Ministro Nitto Palma le fortissime preoccupazioni per la prevista apertura del nuovo padiglione del Sant’Anna, destinato ad ospitare 150 nuove persone, con una assegnazione incrementale di soli 9 uomini di custodia, e dunque l’aggiunta di un aggravio insopportabile. Oggi che dal nuovo ministro Severino sembra emergere una volontà forte ad affrontare, tra le priorità, il tema del sovraffollamento, la questione del carcere di S. Anna va assunta in tutta la sua gravità ed emergenza”. Di tutto questo, ma non solo, si discuterà a Modena il 19 gennaio prossimo nel corso di un incontro organizzato dal Pd le cui conclusioni sono affidate al presidente del gruppo Pd in Senato Anna Finocchiaro. Il titolo della serata - che si terrà nella sala B di Palazzo Europa a partire dalle 20.45 - è “Carceri, uscire dall’emergenza”. Isili (Nu): c’è malcontento tra gli agenti della Casa di reclusione La Nuova Sardegna, 7 gennaio 2012 Bilancio di fine anno amaro per il personale della polizia penitenziaria in servizio nella Casa di reclusione. Finito il 2011, Annus Horribilis, resta e cresce la preoccupazione per il futuro. “Un anno terribile quello appena trascorso - sottolineano gli agenti - un anno colmo di frustrazioni lavorative, di quotidiano disagio professionale e di continua preoccupazione per l’avvenire”. Un mestiere non facile il loro, soprattutto quando non ci sono idonee condizioni di lavoro. I problemi della colonia penale non sono sostanzialmente diversi da quelli che affliggono le altre carceri italiane. Ma questa è una struttura carceraria aperta, dove i detenuti si dedicano ad attività lavorative di agricoltura e allevamento. La popolazione è composta da detenuti e internati, che devono scontare una pena entro i quattro anni o anche condanne inferiori. Ci sono anche soggetti sottoposti a misura di sicurezza, dopo aver scontato la pena, perché socialmente pericolosi. I reclusi sono circa 190 e la percentuale degli stranieri è altissima, l’80%, per una trentina di nazionalità diverse. Si tratta perlopiù di giovani con un’età media di 38 anni. Alta anche la percentuale di tossicodipendenti, circa il 40%. In media una volta all’anno si registrano evasioni o allontanamenti dalla struttura, tutti riassicurati entro poche ore. Benché si tratti di struttura non sovraffollata, le condizioni di lavoro sono rese difficili dalla insufficienza del personale. “Basti pensare che - dice Salvatore Argiolas, segretario regionale dell’Ugl polizia penitenziaria - le unità in servizio sono passate dalle 105 del 2010 alle 76 attuali a seguito dei mancati rinnovi di assegnazioni temporanee a vario titolo, pensionamenti, fruizione di diritti soggettivi vari, quali malattie, permessi e quant’ altro”. A fronte di questi dati non risultano certo diminuiti i turni di servizio: “Il personale è spesso costretto a turni massacranti - spiega Argiolas - a volte anche doppi, con straordinari sovente non pagati; più posti di servizio da ricoprire in ambienti spesso neanche adeguatamente riscaldati e senza una ragionevole programmazione anticipata del servizio”. “Situazioni di stress psicologico che determinano malessere anche nelle famiglie del personale. Per gli agenti - conclude Argiolas - l’amarezza giunge al culmine con la costatazione di non avere un punto di riferimento in quell’Autorità dirigente che rimane completamente insensibile alle continue sollecitazioni da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali”. Bologna: l’Associazione Papillon ricorre al Tar, contro l’elezione del Garante dei detenuti Bologna Today, 7 gennaio 2012 L’associazione bolognese fa ricorso al Tar dopo la nomina di Elisabetta Laganà. Il Comune risponde annunciando ricorso in giudizio per “rappresentare le ragioni di fatto e di diritto che hanno determinato la procedura”. Accolta in maniera burrascosa la nomina di Elisabetta Laganà a Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, continua a sollevare fermenti. Neanche era stata investita del nuovo incarico, che già l’opposizione in consiglio comunale ne chiedeva le dimissioni. Poi è arrivato il ricorso al Tar presentato dall’Associazione culturale Papillon Rebibbia Onlus (costituita da ex carcerati) per chiedere l’annullamento della deliberazione comunale. In risposta, il Comune di Bologna ha ora deciso di intervenire e costituirsi in giudizio contro il ricorso avanzato dagli ex detenuti. Ad annunciare l’ultimo step è Simona Lembi, presidente del Consiglio comunale. La presenza del Comune in giudizio servirà - ha dichiarato - “a rappresentare adeguatamente le ragioni di fatto e di diritto che hanno determinato lo svolgimento della procedura, ed ottenere una pronuncia giurisdizionale di rigetto”. Catanzaro: iniziativa di solidarietà, due giorni dedicati ai figli minori dei detenuti www.catanzaroinforma.it, 7 gennaio 2012 Due giorni dedicati ai figli minori dei detenuti della Casa Circondariale di Catanzaro. Ieri ed oggi, giorno dell’Epifania, tutti i bambini che sono andati a far visita ai propri genitori reclusi presso l’istituto cittadino, hanno ricevuto, al momento dell’accoglienza, un nuovo giocattolo. Un’idea di solidarietà promossa dalla delegazione di Catanzaro dei Cavalieri Crociati - Guardiani di Pace che si è resa possibile grazie alla collaborazione del direttore della Casa Circondariale, Angela Paravati, del comandante e del personale della Polizia Penitenziaria e dei volontari che offrono la loro opera all’interno della struttura. Negli uffici dell’Istituto, l’incontro di presentazione dell’iniziativa. Con la direttrice Paravati, il delegato per la Calabria dei Cavalieri Crociati, Aldo Costa, il Commissario Salvatore Opipari, il vicecommissario Stefania Grano ed alcuni rappresentanti dell’associazione. “Un’idea - ha commentato la Paravati - che si inserisce in un percorso che già abbiamo attivato all’interno del carcere: quello di dare un’attenzione particolare ai familiari dei detenuti e, in particolare, ai bambini che pagano per colpe non loro. Tengo a precisare che non è stato importante il valore economico del regalo, quanto il significato di questo gesto di benvenuto che abbiamo voluto riservare ai bambini che entrano nella struttura in un periodo che, per il clima festoso che lo caratterizza, può far sentire ancora di più la lontananza dai propri cari”. Bambini che vivono, ogni qual volta si avvicina l’appuntamento con il colloquio, momenti di tensione e di ansia a causa dei controlli che necessariamente precedono l’accesso in Istituto. “Essere un padre detenuto - ha proseguito - non è facile. Quattro colloqui al mese ed i continui rapporti epistolari non bastano a rimanere padre in un contesto com’è quello del carcere. Per un minore, poi, le difficoltà aumentano e finiscono per riflettersi anche nella vita di tutti i giorni ed nelle relazioni con i loro simili”. La carenza del personale interno ed i tempi ristretti per l’organizzazione, non hanno impedito la realizzazione e la riuscita dell’iniziativa. Più di un centinaio i pacchi dono realizzati e che sono stati consegnati ai bambini da un Babbo Natale che, per l’occasione, è stato interpretato da un detenuto. “Non è un caso - ha affermato Aldo Costa - che come associazione abbiamo deciso di collaborare con questo Istituto, conoscendo la serietà e la professionalità della direttrice Paravati e di chi lavora con lei. Un momento di attenzione verso una realtà, come quella del carcere, che è ineludibile per la città di Catanzaro. Abbiamo scelto questo periodo di festa nel tentativo di alleviare le difficoltà dei più piccoli che frequentano questo istituto e nella speranza che possano credere che anche i loro familiari, dopotutto, mantengono condizioni di vivibilità all’interno di una ristrettezza”. Roma: donati 100 libri e 35 televisori alle detenute del carcere di Rebibbia Adnkronos, 7 gennaio 2012 Questo pomeriggio, il presidente di Ama Piergiorgio Benvenuti, le Consigliere regionali del Pdl, Isabella Rauti, membro dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale e Chiara Colosimo, Vicepresidente della Commissione Lavori Pubblici e Politica della Casa, la Provveditrice regionale del Lazio, Maria Claudia Di Paolo, il Garante di Roma Capitale per i diritti dei detenuti, avvocato Filippo Pegorari, ed una rappresentanza dell’associazione di volontariato “Noi x Roma”, hanno visitato il Carcere femminile di Rebibbia per donare 100 libri e 35 televisori alle detenute recluse nella casa circondariale femminile della Capitale. I volumi consegnati a Rebibbia sono una parte dei testi raccolti durante l’iniziativa “Ri-Leggo”, promossa da Ama e Roma Capitale. I televisori, invece, fanno parte di quegli apparecchi ancora in buono stato, conferiti gratuitamente dai romani nei Centri fissi di raccolta aziendali e nelle 186 postazioni mobili per la raccolta degli oggetti ingombranti. Per il Presidente di Ama, Piergiorgio Benvenuti, l’iniziativa di oggi con il Carcere di Rebibbia “intende coniugare i valori ambientali e sociali in una giornata simbolo come quella dell’Epifania, in cui è centrale lo scambio dei doni. Televisori ancora funzionanti, attraverso i canali di recupero Ama destinati al riciclo, diventano nuovi oggetti per chi si trova in carcere e libri abbandonati nelle cantine e destinati al macero rivivono in uno spirito eco-solidale, attraverso la pratica del riuso da parte delle mamme recluse e dei loro bambini. Ringrazio i responsabili della struttura carceraria per la disponibilità e aver reso tutto ciò possibile”. Per la consigliera Isabella Rauti “sul Carcere di Rebibbia, che ospita il maggior numero di detenute a livello nazionale, pesano in modo particolare i problemi del sovraffollamento e della carenza di personale, che incidono anche sui bambini di età compresa tra un mese e tre anni detenuti con le loro madri. A loro è dedicata la visita a Rebibbia nel giorno dell’Epifania insieme alla prospettiva della prossima realizzazione di un Istituto di custodia attenuata per madri detenute (Icam), che verrà realizzato nel parco di Aguzzano grazie all’impegno della Giunta e del Consiglio regionale”. “La visita di oggi - ha aggiunto - chiude il ciclo che abbiamo aperto a Natale con Regina Coeli e Casal del Marmo e si aggiunge a quelle effettuate in numerose strutture carcerarie italiane , in particolare presso l’Icam di Milano e l’Icam in fase di apertura nella Casa circondariale di Giudecca a Venezia, e completa un lavoro legislativo portato avanti in Aula dal settembre 2010”. La consigliera Chiara Colosimo ha invece auspicato che “per questo nuovo anno si possa finalmente vedere realizzato l’Icam, e, considerando le nostre proposte di legge e la chiara volontà espressa dal Presidente Polverini, sono certa che vedremo concretizzato questo progetto. Non mi fermerò qui, non mi fermerò a questa visita, perché resto fermamente convinta che, come politici, abbiamo il compito di essere tra i più deboli e di riportare nelle carceri del Lazio, il valore della dignità della vita umana”. Rieti: concerto di Marco Masini a chiusura della seconda edizione di “È Natale per tutti” Italpress, 7 gennaio 2012 Si è chiusa con il concerto di Marco Masini nella casa circondariale di Rieti la seconda edizione di “È Natale per tutti” nelle carceri del Lazio, la manifestazione di cultura e solidarietà promossa e realizzata dalla Regione. Circa 120 detenuti hanno assistito insieme all’assessore regionale alla Sicurezza e agli Enti Locali, Giuseppe Cangemi, al concerto del cantautore toscano che ha proposto le canzoni e i brani più famosi del proprio repertorio, coinvolgendo tutti i detenuti presenti. Accompagnato dalla direttrice della struttura penitenziaria, Vera Poggetti, e dal comandante della Polizia locale di Rieti, Enrico Aragona, l’assessore Cangemi ha portato i saluti della presidente Renata Polverini, ribadendo l’impegno della Regione per i diritti e la formazione dei detenuti. “L’anno scorso - ha detto Cangemi - la Regione ha stanziato circa 2 milioni di euro per attività a favore della popolazione detenuta nel Lazio, impegno che garantiremo anche nel 2012. Con particolare riguardo alle attività formative, alla riabilitazione e al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti”. Cangemi ha poi sottolineato la partecipazione e il successo che ha riscosso ‘È Natale per tutti’ negli Istituti penitenziari del Lazio dove si sono svolti i concerti, ricevendo consenso tra la popolazione detenuta. “Per questo - ha aggiunto Cangemi - un ringraziamento particolare va a tutti gli artisti che si sono esibiti in queste settimane. Un gesto di solidarietà che anche grazie alla loro sensibilità e disponibilità siamo riusciti ad offrire a quanti sono costretti a vivere lontano dai propri cari e dalla famiglia”. Stati Uniti: dieci anni fa apriva il carcere di Guantánamo, simbolo dell’era Bush Adnkronos, 7 gennaio 2012 Dieci anni fa, l’11 gennaio 2002, un primo gruppo di 20 prigionieri, vestiti con una tuta arancione, arrivarono dall’Afghanistan nel campo di prigionia della base navale americana di Guantánamo, sull’isola di Cuba. Si apriva così il carcere più controverso del mondo, simbolo degli eccessi della guerra al terrorismo dell’era Bush, che il presidente Barack Obama ha poi invano promesso di chiudere. Ideato per la detenzione e l’interrogatorio di sospetti terroristi stranieri legati alla rete di Al Qaeda, poco dopo l’avvio della guerra in Afghanistan in seguito agli attentati dell’11 settembre 2011, il campo di prigionia fu costituito fuori dal territorio americano in modo da non sottostare al sistema giudiziario statunitense. E l’amministrazione Bush sostenne fin dall’inizio che i militanti islamici non sono soldati di eserciti regolari e non vengono quindi protetti dalla convenzione di Ginevra. Almeno 780 sospetti sono stati detenuti nel campo, che oggi ospita 171 prigionieri. A sorvegliarli gli uomini di una task force congiunta delle diverse branche delle forze armate americane. Oggi esistono diversi livelli di detenzione, con celle di isolamento di massima sicurezza per permanenze di massimo venti giorni, e settori dove i prigionieri possono muoversi più liberamente dietro barriere di plexiglas e seguire corsi d’inglese. Pochissimi detenuti sono stati sottoposti a processo e fra questi solo uno dei 12 prigionieri della prima ora tutt’ora custoditi nella struttura, che è stato condannato all’ergastolo. Diversi gruppi per la difesa dei diritti umani hanno protestato per le scarse garanzie legali offerte ai prigionieri di Guantánamo e per le vere e proprie torture durante gli interrogatori dei sospetti dell’era Bush, fra cui vi sarebbero stati la deprivazione del sonno e, in alcuni casi, anche il water boarding, l’annegamento simulato. Polemiche sono sorte anche per la presenza di minori e persone estranee al terrorismo fra i detenuti. La chiusura di Guantánamo, come modo per ripristinare la legalità, è stata una delle promesse di Barack Obama dopo il suo insediamento nel 2009. Ma l’obiettivo di chiudere il campo di prigionia entro un anno si è scontrato con una serie di problemi tecnici e pratici. Uno dei maggiori ostacoli è stato il rifiuto del Congresso al trasferimento dei detenuti e allo svolgimento dei processi sul suolo americano. E l’anno scorso l’amministrazione americana ha stabilito che una quarantina di prigionieri di Guantánamo non possono essere né processati, né scarcerati, e dovranno rimanere quindi indefinitivamente nel centro di detenzione. Gran parte dei prigionieri sono stati rimandati dopo qualche anno nei paesi d’origine, mentre altri sono stati accolti in diverse nazioni su richiesta americana. L’Italia ha accettato due tunisini, che sono stati rinchiusi in carcere al loro arrivo. Il processo di svuotamento del carcere, già iniziato sotto George Bush ma intensificato con l’avvento di Obama, ha incontrato vari ostacoli. Un esempio è stata la vicenda dei quindici detenuti uiguri (minoranza musulmana in Cina) riconosciuti estranei al terrorismo, ma che rischiavano di essere arrestati al loro ritorno in patria e sono stati dispersi nei diversi paesi che hanno accettato di ospitarli. Lo scorso novembre si è aperto a Guantánamo il processo contro Abd al Rahim al-Nashiri, uno de presunti responsabili dell’attacco terroristico contro la portaerei Uss Cole. Il procedimento, che riprenderà il 17 o il 18 gennaio, è il primo secondo le nuove regole stabilite dall’amministrazione Obama che vietano le prove ottenute con mezzi ritenuti degradanti e inumani, come il waterboarding. Intanto, lo scorso dicembre, il Congresso ha approvato una legge che permette ai militari di arrestare chiunque sia considerato membro della rete di al Qaeda, o di forze ad essa associate, e vieta il trasferimento negli Stati Uniti di detenuti di Guantánamo. Il provvedimento esclude i cittadini americani e prevede che il capo della Casa Bianca possa decidere eccezioni. Infine si impone al ministro della Giustizia di consultarsi con il collega della Difesa e il capo della National Intelligence prima di avviare ogni incriminazione collegata al terrorismo. Obama, sotto la cui amministrazione nessuno è stato inviato a Guantánamo, ha firmato il provvedimento, parte di una più ampia legge di spesa militare, ma ha allegato una lunga nota per sottolineare le sue obiezioni su diversi punti. Iran: 3 detenuti impiccati in pubblico a Kermanshah, accusati di rapina in banca Aki, 7 gennaio 2012 Tre detenuti, accusati di aver rapinato una banca ad agosto, sono stati impiccati in pubblico in piazza Azadi (libertà) a Kermanshah, nell’Iran occidentale. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione Fars, riportando i nomi dei tre condannati: Alireza Ahamdi, 48 anni, Sadegh Eskandari, 33, e Sasan Basami, 36. Secondo Iran Human Rights, un’ong che si batte contro la pena di morte, sono otto le condanne a morte eseguite nelle ultime 48 ore nella Repubblica Islamica. Il 4 gennaio, infatti, altre cinque persone sono state giustiziate in diversi carceri della provincia di Kerman. Siria: prigionieri politici in sciopero della fame per mancaato incontro con osservatori Adnkronos, 7 gennaio 2012 I prigionieri politici rinchiusi nel carcere di Adra, vicino Damasco, hanno dato il via a uno sciopero della fame, dopo che gli osservatori arabi, che hanno visitato il centro giovedì scorso, non hanno avuto modo di incontrarli e hanno visto solo solo prigionieri incolpati di reati comuni. è quanto scrive il quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, che ha raggiunto telefonicamente alcuni detenuti di Adra grazie a cellulari introdotti clandestinamente nel carcere. Si calcola che ad Adra siano detenuti tra i sei e i settemila detenuti politici. La loro protesta perchè le autorità siriane non hanno permesso agli osservatori inviati dalla Lega Araba di accedere al "braccio politico" del carcere. Nei giorni scorsi molti attivisti siriani avevano denunciato che i responsabili della prigione hanno condotto gli osservatori in un finto braccio politico, allestito per l'occasione, in modo da evitare l'incontro con i veri prigionieri politici. Yemen: manifestanti a Sanàa chiedono scarcerazione detenuti politici Aki, 7 gennaio 2012 Decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a Sanàa, la capitale dello Yemen, per chiedere la scarcerazione degli attivisti arrestati durante le proteste per chiedere le dimissioni del presidente, Ali Abdullah Saleh, che vanno avanti da circa un anno. Nel venerdì ribattezzato della “Libertà per i nostri detenuti”, i manifestanti hanno mostrato cartelli con le foto di centinaia di attivisti al momento in carcere, auspicando un intervento della comunità internazionale e delle ong mondiali per favorire il loro rilascio. I dimostranti hanno anche lanciato slogan contro l’accordo di pace siglato tra governo e opposizioni lo scorso novembre a Riad. In base all’intesa, Saleh manterrà la carica di presidente onorario dello Yemen fino alle elezioni del febbraio prossimo, per poi passare i suoi poteri al vice presidente Abde Rabbo Mansur Hadi, in cambio dell’immunità per sé e i membri della sua famiglia. Su quest’ultimo punto l’opposizione sta facendo resistenza e chiede che Saleh sia processato per i crimini commessi.