Giustizia: denuncia Associazioni diritti detenuti; 186 morti in cella e 66 suicidi nel 2011 Ansa, 3 gennaio 2012 Nel corso del 2011 sono stati 186 i morti tra i detenuti nelle carceri italiane. La loro età media non arrivava a 40 anni (39,3). Gli ultimi due solo nella notte di San Silvestro: alle Vallette di Torino un romeno si è impiccato poche ore prima delle mezzanotte con un lenzuolo, un altro detenuto è morto nel penitenziario di Trani per cui è stata aperta un’inchiesta. Il 2012 ha già segnato un nuovo caso, in un ospedale psichiatrico giudiziario: a Barcellona Pozzo di Gotto un internato è morto a 56 anni. Il suo è stato il terzo decesso negli ultimi mesi nella struttura carceraria. La fotografia sulla situazione dell’anno appena trascorso è stata resa nota da Ornella Favero di “Ristretti Orizzonti”, da Patrizio Gonnella di “Antigone” e Luigi Manconi per “A Buon diritto” che chiedono di fermare la strage e puntano il dito contro il sovraffollamento: in tutti gli istituti nei quali si è registrato più di un suicidio il sovraffollamento era superiore alla media nazionale. Caso limite, quello di Castrovillari (Cosenza) con due suicidi sui 285 detenuti presenti e una media di sovraffollamento del 217%. A livello nazionale il tasso medio è del 150% (68 mila detenuti per 45 mila posti). Dei 186 morti nelle carceri del 2011, 66 sono stati i suicidi, 23 invece le cause da accertare per le quali sono in corso indagini giudiziarie, 96 le cause naturali e un omicidio. A togliersi la vita sono stati 45 detenuti italiani e 21 stranieri. In prevalenza uomini (64), due le donne. Molto bassa l’età media, che non arriva a 38 anni (37,8). Si sono impiccati 44 reclusi; 12 hanno invece inalato gas da bombolette di butano; 6 si sono avvelenati con farmaci, droghe o detersivi; 4 infine hanno scelto di mettere fine alla loro vita soffocandosi con un sacco infilato in testa. Tra i morti suicidi, 46 erano carcerati in sezione “comune”, 9 internati in ospedale psichiatrico giudiziario e uno in una casa di lavoro; 4 si trovavano in isolamento; 3 nella sezione “protetti”; 2 in quella “infermeria” e 1 nella sezione di “alta sicurezza”. Dei 66 detenuti suicidi del 2011, 28 erano stati condannati con sentenza definitiva, 27 erano in attesa di giudizio, 3 condannati in primo grado e 8 invece avevano una misura di sicurezza detentiva. Di seguito gli istituti penitenziari dove sono avvenuti suicidi nel 2011, il numero dei detenuti e il tasso di sovraffollamento: - Torino: 4 suicidi, (1.650 presenti, 146% affollamento) - Padova C.R.: 3 suicidi, (840 presenti, 184% affollamento) - Genova Marassi: 3 suicidi, (760 presenti, 170% affollamento) - Bologna: 2 suicidi, (1.150 presenti, 220% affollamento) - Cagliari: 2 suicidi, (540 presenti, 157% affollamento) - Castrovillari: 2 suicidi, (285 presenti, 217% affollamento) - Livorno: 2 suicidi, (500 presenti, 175% affollamento) - Opg Aversa (Ce): 2 suicidi, (350 presenti, 135% affollamento) - Opg Barcellona P.G.: 2 suicidi, (350 presenti, 80% affollamento) - Perugia: 2 suicidi, (370 presenti 165% affollamento) - Poggioreale (Na): 2 suicidi, (2.600 presenti, 160% affollamento) - In altri 40 istituti: un suicidio ciascuno. Giustizia: morire di carcere... il nuovo anno inizia malissimo di Alessandro Calvi Il Riformista, 3 gennaio 2012 Un silenzio impenetrabile avvolge i morti di carcere come fosse nebbia. E li tiene lontani dai vivi. Eppure, anche a Capodanno, i morti di carcere non sono mancati ma non bastano i radicali, e forse non bastano neppure Giorgio Napolitano e Benedetto XVI, a restituire la voce a chi l’ha perduta. Quante parole in questi giorni se ne sono andate per raccontare delle dita saltate via per i botti di fine anno, e dei due morti che quei botti si sono portati via; tante davvero. Quelle rimaste per raccontare altri morti, gli uomini morti in carcere mentre ovunque in Italia si festeggiava l’anno nuovo, sono state invece davvero poche. Eppure, l’anno vecchio finisce in modo drammatico. In carcere si continua a morire. Anche la notte di Capodanno; quando ha perso la vita Gregorio Durante. Sono stati 18 3 i morti da inizio 2011, e di questi 66 sono stati i suicidi, mentre un migliaio di aspiranti suicidi è stato salvato, spesso all’ultimo momento. Gregorio Durante, il morto numero 183, era nato trentaquattro anni fa a Nardo, Lecce; ed era detenuto nel carcere di Tra-ni. “Me lo hanno ucciso, me lo hanno fatto morire in cella da solo come un cane”, ha detto la madre. “Quando siamo andati a trovarlo a Natale - ha proseguito - era su una sedia a rotelle, aveva gli occhi chiusi, non parlava e si faceva persino la pipì addosso, aveva ai polsi persino i segni delle corde con le quali veniva legato al letto e mi dicevamo invece che stava simulando”. Secondo i parenti di Durante, l’uomo avrebbe subito una punizione perché accusato di aver simulato una malattia, e questo avrebbe peggiorato il suo stato di salute già minato. L’uomo era in cella di isolamento e i suoi familiari avevano chiesto più volte il trasferimento in una struttura compatibile con le sue condizioni. Sarà la magistratura a far luce su cosa è accaduto. Oggi verrà eseguita l’autopsia. A quanto si apprende, si indaga per concorso in omicidio colposo e sarebbero già stati notificati 13 avvisi di garanzia ad altrettanti medici. Sarebbe indagato anche il direttore del carcere di Trani. A quanto pare, la direzione aveva disposto il trasferimento sollecitato dai familiari ma non c’è stato il tempo per dar corso alla decisione. A chiedere la verità, però, non c’è soltanto la famiglia di Durante. A farlo c’è anche Patrizio Gonnella, presidente della associazione Antigone. “Pare - ha affermato - che la sua situazione fosse stata spiegata alle autorità penitenziarie. Pare anche che non sia stato creduto e che il ragazzo sia stato punito perché avrebbe simulato la sua malattia. Delle due l’una: se è vero che simulava allora non è vero che è morto per malattia. Ma se invece è morto per malattia si individuino le responsabilità di chi non gli ha creduto”. Durante non è stato l’unica vittima di Capodanno. Alle Vallette di Torino è morto un rumeno di 37 anni: suicidio. Sono invece stati salvati un trentasettenne italiano che aveva tentato di impiccarsi con le lenzuola nel carcere di Vigevano, e un venticinquenne tunisino che si era tagliato le vene dei polsi con una lametta da barba. Una strage. E non è ancora tutto. Ieri, infatti, è morto un internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. “Era malato da molto tempo - ha spiegato Ignazio Marino, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario nazionale - e in quel luogo non aveva mai trovato le risposte sanitarie adeguate ai suoi problemi. Con ogni probabilità quell’uomo non era più pericoloso socialmente eppure le sue misure di sicurezza erano state reiterate molte volte”. Ieri Marino ha incontrato il presidente del Consiglio Mario Monti proprio per discutere di Opg. “La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - ha anticipato - potrebbe entrare nel decreto sulle carceri e avvenire così in tempi rapidissimi”. Già, perché è ormai imminente l’esame parlamentare del pacchetto-carceri del Guardasigilli Paola Severino, inclusa la norma che estende a 18 mesi il residuo di pena che si potrà scontare ai domiciliari e che potrebbe mandare a casa oltre 3mila detenuti. Giovedì se ne parlerà in commissione Giustizia al Senato. In quella sede la politica potrebbe almeno provare a dare qualche risposta, se non alle domande che incessantemente reiterano i radicali - l’amnistia -quanto meno alle inquietudini espresse anche in questi ultimi giorni da Benedetto XVI, il quale si è recato in visita nel carcere di Rebibbia a Roma, e da Giorgio Napolitano il quale, nel discorso dell’ultimo dell’anno, è tornato a parlare della “condizione disumana delle carceri e dei carcerati”. Giustizia: malati e carcerati… di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 gennaio 2012 Me l’hanno ucciso. Era malato ma invece di curarlo lo imbottivano di sedativi e lo legavano. Ora spero solo che si individuino presto i responsabili di questa assurda morte”. Ne è sicura la signora Virginia, moglie di Gregorio Durante, detenuto di 34 anni morto in circostanze ancora di chiarire nell’ultimo giorno dell’anno nel reparto infermeria del carcere di Trani, in Puglia. Ieri la procura, che aveva subito aperto un fascicolo, avrebbe già recapitato i primi avvisi di garanzia per omicidio colposo. Secondo l’associazione Antigone, infatti, tra i diversi indagati ci sarebbero uomini del “personale sanitario in servizio nel penitenziario durante il periodo in cui è stato recluso l’uomo, il direttore dell’istituto e alcuni medici del reparto di Psichiatria dove Durante era stato ricoverato e poi dimesso. Il detenuto, secondo i suoi familiari, sarebbe anche stato posto in regime di isolamento perché accusato di aver simulato la malattia. Ma il nuovo anno è cominciato anche con un’altra assurda morte, questa volta nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, dove vivono 310 internati e lavorano 220 persone, tra agenti di polizia, operatori sanitari e amministrativi (al costo di 4,7 milioni di euro l’anno). Michele Veronese, calabrese di 53 anni, semi infermo di mente, alcolista, gravemente malato da tempo, costretto ormai a far ricorso periodicamente alle bombole d’ossigeno, è stato trovato cadavere nella sua cella alle prime ore dell’alba di ieri. Dal 2009 non era più considerato “socialmente pericoloso” ma per ben dieci volte consecutive si era visto prorogare la misura di sicurezza perché non aveva più una casa dove tornare. Lo denuncia Dario Stefano Dall’Aquila, dell’associazione Antigone, e lo conferma al manifesto lo stesso direttore dell’Opg, Nunziante Rosania, che accusa: “È colpa dell’inefficienza dei servizi sociali e di una politica che non difende i più deboli. Così gli Opg, che vanno sicuramente superati, diventano la discarica della discarica, il posto dove si rinchiudono le persone malate difficili da gestire nel mondo esterno”. Rosolia non aveva più una famiglia che lo accogliesse perché in carcere c’era finito appunto per un omicidio commesso tra le mura domestiche, reato da cui venne poi prosciolto per incapacità di intendere e volere. “Nel corso degli anni - racconta ancora Rosania, abbiamo tentato di coinvolgere i servizi territoriali per trovargli un luogo adatto dove trascorrere quella che noi chiamiamo la “licenza finale di esperimento”, un periodo di transizione prima della liberazione. Le sue condizioni di salute non erano compatibili secondo noi con un regime di detenzione, ma purtroppo il suo non è un caso isolato”. Infatti, racconta Rosania, tra i 1.400 internati dei sei Opg italiani, “di cui molti insufficienti mentali più che malati psichici, si registrano patologie fisiche gravi di vario tipo”. Ed è proprio questo il punto: “Sono persone malate che per la maggior parte dei casi arrivano in carcere per reati modesti ma che essendo difficilmente gestibili in ambito socio-sanitario ordinario finiscono per essere internati negli Opg”. Strutture che lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano aveva definito “una vergogna per un Paese appena civile”. Li vorrebbe “superare” anche lo stesso direttore Rosolia, che ieri però ha chiesto una proroga alla Commissione d’inchiesta sul Ssn presieduta dal senatore Pd Ignazio Marino riguardo il termine ultimo perla ristrutturazione dei padiglioni sigillati la scorsa estate dopo un’ispezione. “Il problema però è a monte - conclude Rosania: il malato deve tornare al centro delle politiche di welfare che non può essere affrontato solo in maniera contabile”. Un nodo che viene al pettine anche nel caso della morte di Trani. La madre e la moglie di Gregorio Durante, assistite dall’avvocato Nicola Martini, da tempo avevano sollevato l’incompatibilità con il carcere del loro congiunto malato di encefalite virale. “Nei carceri di Lecce e Bari - accusa la signora Virginia - era ben curato ma da quando nell’aprile scorso era stato trasferito a Trani gli avevano tolto le medicine di cui aveva bisogno perché, ci spiegava il dirigente sanitario, l’Asl non le passava”. Durante un colloquio, il 10 dicembre, i familiari assistettero ad un attacco epilettico di Gregorio che già da qualche settimana soffriva di crisi di questo tipo. “Scongiurai il dirigente sanitario di ricoverarlo in ospedale, cosa che chiese con urgenza anche il medico che lo curava dal 2003, 0 professor Specchio dell’ospedale di Foggia”. Lettere, richieste, telefonate a nulla valsero. L’uomo venne ricoverato per qualche giorno in un reparto di Psichiatria ma venne dimesso “perché dissero che necessitava di cure neurologiche, non psichiatriche”, continua la signora Virginia. “Il 24 dicembre, quando lo vidi per l’ultima volta, era su una sedia a rotelle, imbottito di sedativi, con gli occhi chiusi, magrissimo, e sul corpo aveva i segni di corde. Gli altri detenuti mi dissero che lo legavano per contenerlo. Mi riferirono anche che era stato tenuto in isolamento per tre giorni”. Poi il trasferimento in infermeria, dove è morto l’ultimo giorno dell’anno. La verità è tutta da appurare. È il decesso numero 186 nelle celle italiane. Giustizia: Anastasia (Antigone); sovraffollamento record, servono misure urgenti di Carmine Alboretti La Discussione, 3 gennaio 2012 Più delle statistiche sui suicidi in carcere e degli allarmi delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria è stata la recente visita di Benedetto XVI a Rebibbia a riportare al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica il problema del sovraffollamento degli istituti di pena. Davanti al ministro della Giustizia Paola Severino e ad una folla di detenuti il Santo Padre ha sottolineato la necessità di “promuovere uno sviluppo del sistema carcerario, che, pur nel rispetto della giustìzia, sia sempre più adeguato alle esigenze della persona umana, con il ricorso anche alle pene non detentive o a modalità diverse di detenzione”. Ma il 2012 si è aperto nel peggiore dei modi: un detenuto si è tolto la vita nel penitenziario delle Vallette a Torino, un altro ha tentato di uccidersi a Vigevano. Prima ancora a darsi la morte è stato un sottufficiale della polizia penitenziaria. Di questo e di altro abbiamo parlato con il professor Stefano Anastasia, ricercatore di Filosofia e Sociologia del diritto nell’Università degli studi di Perugia, curatore, insieme a Franco Corleone e Luca Zevi, del volume “Il corpo e lo spazio della pena Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie” (Ediesse editore). È stato tra i fondatori dell’associazione “Antigone”, che ha presieduto dal 1999 al 2005. Ha pubblicato numerosi volumi sul tema e, tuttora, collabora con l’Ufficio del Difensore civico del sodalizio di cui è stato presidente. Professore, ormai non passa giorno che non venga annunciata una morte tra le sbarre. Cosa sta succedendo? Sta succedendo che le nostre carceri offrono condizioni di vita terrificanti, chiaramente contrarie a quel minimo di dignità che deve essere garantito a qualsiasi essere umano. Questo quadro emerge nella disperazione di chi vive e di chi lavora in carcere. Tutto questo dipende da condizioni di sovraffollamento eccezionale. Siamo ai massimi storici per la presenza di detenuti negli istituti di pena. Un vero e proprio record per quanto concerne la storia della nostra Repubblica. Ce ne sono circa 23mila in più di quanto le singole realtà possano trattenere. Le nostre carceri sono state progettate per ospitarne al massimo 45mila, mentre, invece, gli internati superano la soglia delle 68mila presenze. Non solo mancano spazi adeguati e strutture di accoglienza per le persone detenute. In molte strutture, tanto per dare l’idea di quello che accade giorno per giorno, i detenuti dormono sui materassi per terra perché manca il terzo letto a castello. Ma c’è di più e di peggio. In che senso? Il sovraffollamento comporta, inevitabilmente, anche una penuria di risorse professionali e di mezzi finanziari. Gli stanziamenti previsti dallo Stato sono quelli che erano previsti per una popolazione carceraria di 45mila unità e non sono sufficienti a garantire servizi adeguati. Anche il personale della polizia penitenziaria non è adeguato ad affrontare tutta questa presenza sovrabbondante di detenuti. Pensi che ci dovrebbe essere un educatore ogni 50-100 carcerati. Invece accade che lo stesso operatore abbia una utenza di 300-400 detenuti, per cui veda i suoi assistiti una volta ogni sei mesi o, addirittura, una volta all’anno. Tutto questo rende il sistema non governato. E la macchina sopravvive solo grazie ai sacrifici del personale che fa quello che può con i pochi mezzi a disposizione. Nel corso della sua recente visita a Rebibbia il Santo Padre Benedetto XVI ha richiamato l’attenzione di tutti sul sovraffollamento e sul degrado che possono rendere ancora più amara la detenzione e comportare che ì detenuti si trovino a scontare “una doppia pena”. Quali correttivi sì possono adottare per far sì che vengano soddisfatte le esigenza sociali alla punizione dei colpevoli e la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti? Di fronte alla situazione in cui siamo il rimedio che è stato prevalentemente seguito, ossia quello di progettare nuovi istituti penitenziari, non è sufficiente. Piuttosto che investire tutte le risorse che si era progettato di spendere in questo campo, necessarie per l’adeguamento degli istituti e per garantire che gli stessi siano funzionali al reinserimento sociale, bisognerebbe lavorare alla riduzione della presenza della popolazione carceraria. E come? Sostanzialmente lavorando su tre direttrici. La prima è quella di far fronte ad una anomalia tutta italiana, ossia la presenza in cella di persone in attesa di giudizio. Più del 40 per cento della popolazione carceraria è in attesa di giudizio, mentre, invece, la media europea è intorno al 20 per cento. Dovremmo dimezzare il numero delle persone. Questo obiettivo lo si può raggiungere trattenendo i fermati nelle celle di sicurezza fino alla udienza di convalida, ma, soprattutto, evitando l’abuso della custodia cautelare in carcere. La seconda direttrice è quella della riduzione di alcune fattispecie penali che prevedono la detenzione in carcere in maniera sostanzialmente immotivata. Pensiamo a chi viene arrestato per detenzione di droga in misura lievemente superiore alla modica quantità. Un quarto delle persone detenute si trova in carcere per questo motivo, ma solo una piccola parte deve risponde di spaccio di sostanze stupefacenti o partecipa ad associazioni a delinquere finalizzate al traffico di droga. Dulcis in fundo occorre agire sulle misure alternative. In Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti il rapporto tra popolazione detenuta e persone soggette a misure alternative è di uno a due, in Italia è l’opposto. Inoltre, nel nostro Paese, si ragiona ancora nell’ottica della concessione di queste misure come premio. Solo così potremmo alleggerire la presenza nelle carceri. In attesa di questi cambiamenti di sistema si può pensare anche a misure di emergenza come la costruzione di nuovi padiglioni detentivi o provvedimenti di amnistia o di indulto. L’emergenza carceri ha anche un costo economico legato alle sempre più frequenti condanne che il nostro Paese subisce ad opera della giustizia comunitaria. C’è un modo per limitare i danni? Questo è un grosso problema. Per la Corte europea dei diritti umani la detenzione in meno di tre metri quadri a testa è di per sé un trattamento inumano o degradante. Questo era il caso del detenuto bosniaco che fece ricorso nel 2003. Attualmente sono pendenti alcune centinaia di ricorsi del genere. Alcuni tribunali di sorveglianza, come, ad esempio, quello di Lecce, hanno adottato lo stesso parametro per i detenuti in condizioni di sovraffollamento. II rischio di una moltiplicazione delle vertenze legali è esponenziale, perché potrebbero chiedere il risarcimento quasi tutti i detenuti, tranne quelli che si trovano in isolamento. Come Difensore civico di Antigone quali casi ha dovuto fronteggiare? Mi è capitato di trattare il caso di un detenuto del “Pagliarelli” di Palermo che, essendo stato condannato ad una pena detentiva lunga ed avendo una prospettiva lunga di permanenza in carcere ha fatto ricorso al giudice per essere alloggiato in un posto per detenuti definitivi, perché gli capitava di essere collocato in condizioni di fortuna vicino a persone in attesa di giudizio. Nonostante la decisione del Tribunale che ha riconosciuto il suo diritto ad essere alloggiato in una struttura di detenzione l’amministrazione penitenziaria lo ha lasciato lì dov’era. Siamo al paradosso: lo Stato che viola un ordine del giudice! Giustizia: se non c’è posto… non vai in galera di Dimitri Buffa L’Opinione, 3 gennaio 2012 Mancano i posti letto? Non entri in galera. In fondo le carceri sono come gli ospedali: un servizio che lo stato dà ai cittadini che pagano le tasse, e anche a quelli che non le pagano, e li deve tutelare anche quando loro malgrado sono obbligati ad usufruirne. L’idea per primo in Italia, ma solo in Italia, ce l’ha avuta Riccardo Arena, storico conduttore della trasmissione “Radio carcere”, in onda su Radio Radicale ogni martedì alle 21. Una trasmissione che da mesi vede ospite fisso Marco Pannella che da lì, oltre che dalle proprie chilometriche conversazioni di ogni domenica con Massimo Bordin o con Walter Vecellio, dà afflato verbale alla propria battaglia per “l’amnistia per la Repubblica”. Cioè un provvedimento, subordinato alla riparazione del danno da parte del colpevole rispetto alla vittima del reato, che serva a deflazionare soprattutto “le scrivanie dei magistrati”. E quindi più favorevole a chi il reato lo subisce rispetto alla prescrizione “di classe e di massa”. Ma se Riccardo Arena è stato il primo in Italia a lanciare questa proposta, trovando anche terreno favorevole negli ambienti di Magistratura democratica e in alcuni convegni ad hoc sulle patrie galere cui hanno partecipato i magistrati della pubblica accusa e i giudicanti, all’estero questa “trovata” è già una realtà conclamata. Questa estate la Corte suprema americana è arrivata a chiedere allo stato della California di scegliere 40 mila detenuti dei meno pericolosi da scarcerare e mandare agli arresti domiciliari per evitare che gli altri subissero le privazioni del sovraffollamento che viene considerato foriero di possibili reati da parte della amministrazione pubblica, tra cui la tortura, i maltrattamenti e l’induzione al suicidio. Anche in Germania recentemente la Corte federale ha sancito principi analoghi e in Danimarca, Svezia e Norvegia, paesi proverbialmente più civili di quelli latini e mediterranei, il paragone tra posti letto carcerari e ospedalieri viene dato per scontato. Da noi purtroppo no, e viste le ultime tragiche notizie di fine 20111, due suicidi in cella e una morte sospetta, sembra strano che qualche pm o qualche gip, magari anche con il secondo fine di farsi un pò di pubblicità e di apparire in tv e sulle prime pagine dei giornali, ancora non abbia fatto la stessa cosa. Certo, ora come ora, difficile dare torto a Pannella quando argomenta che l’Italia in materia di giustizia civile e penale, e di carceri segnatamente, è ormai “il criminale professionale che si aggira per l’Europa”. E diventa sempre più difficile sostenere un’ottusità burocratica che non vuole riforme, non vuole amnistie e crede di potersela sbrigare con il concetto di carcere come discarica sociale. Ma se i miasmi iniziano a inquinare anche la vita pubblica di chi carcerato non è? Come la mettiamo? Solo lo scorso Capodanno il bilancio è stato questo: un romeno di 37 anni, A.C., si è impiccato nel carcere delle Vallette di Torino. Era un giocatore della Drola, squadra di serie C composta solo da detenuti. Un altro morto nel penitenziario di Trani e due ulteriori detenuti hanno tentato di togliersi la vita a Vigevano e Vasto. Poi si ammazzano anche gli agenti di custodia e di direttori delle prigioni. Per la cronaca al 30 settembre 2011 i detenuti erano 67.428 (di cui 2.877 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 45. 817 posti, con indici senza confronto in Europa: la media italiana è del 148,2% (con una punta del 303%), contro la media europea del 98,4%. Sono soltanto 37.213 i reclusi con condanna definitiva (meno della metà), a testimoniare l’uso e l’abuso della custodia cautelare. Al contrario, nel 2010 in Italia si sono si denunciati 4. 545 reati ogni 100 mila abitanti, contro i 8.481 della Germania, i 7.436 del Regno Unito, i 5.559 della Francia. Sentito al telefono da “L’opinione”, Riccardo Arena, che ha rilanciato questa proposta, che solo con un uso molto infantile del linguaggio giornalistico si può definire “provocazione”, anche nel blog di Luca Sofri, si dichiara convinto della bontà della cosa. “Un pm che chiede un arresto e un gip che lo concede non possono rendersi implicitamente complici di reati quali il maltrattamento degli esseri umani”. Insomma se non si possono trasportare i maiali in gabbie che siano meno larghe di due metri quadrati, per citare Pannella, “non si può nemmeno stipare i porci umani”, secondo la accezione qualunquista e forcaiola che molti hanno dei detenuti, in spazi anche più stretti. Certo per un giudice che arresta ci sarà sempre l’esimente di avere agito per motivi di alto valore morale e sociale come la lotta alla criminalità, organizzata e non, ma quando ci si sarà spinti oltre al limite della umana sopravvivenza, e siamo vicini, molto vicini, tanto che è veramente un miracolo che non si siano ancora registrate rivolte carcerarie violente, anche questa esimente non potrà più essere opposta. A meno che i magistrati non vogliano tutti trasformarsi in tanti piccoli potenziali Eichmann che chiudendo gli occhi si giustificano dicendo: “io ho solo eseguito gli ordini”. E visti sotto questo aspetto, anche la provocazione della stella gialla di Pannella e il paragone delle carceri italiane, ed europee, a “nuclei consistenti di Shoà”, non sembrano tanto campati in aria. Giustizia: Roberto Giachetti, deputato del Pd, ci spiega perché l’Italia è una fabbrica di carcerati Il Foglio, 3 gennaio 2012 “È l’una e cinquanta circa, Fabrizio, coriaceo agente del G8 di Rebibbia, si toglie il gusto di una domanda che, si vede, ha sulla punta della lingua da quando Pannella è entrato per visitare il suo reparto: “Scusi onorevole ma a lei a 82 anni, con tutto quello che ha fatto, chi glielo fa fare di stare qui a quest’ora il giorno di Capodanno?”. Inizia con le parole di un secondino il racconto sulla pagina Facebook di Roberto Giachetti, deputato del Partito democratico, sulla sua notte in carcere con il leader dei Radicali, Marco Pannella. “Entrare in carcere con lui è un’esperienza incredibile”, dice al Foglio Giachetti, “c’è un’interazione familiare tra lui, i carcerati e gli agenti di custodia. I detenuti mettevano fuori gli specchietti per vedere a che punto del corridoio si trovasse, per sapere quando sarebbe toccato a loro parlarci”. Nel complesso di Rebibbia sono reclusi 1.735 detenuti, il cinquanta per cento in più di quelli che potrebbe contenere la struttura. A lavorarci come secondini ci sono cinquecento persone. Ne servirebbero almeno mille. Per Giachetti il sovraffollamento di Rebibbia non è nulla in confronto alle condizioni dell’altra casa circondariale di Roma, Regina Coeli, dove “non si violano i diritti umani, ma anche quelli animali”. E dove, secondo chi c’è stato il giorno di Natale, “basterebbe una visita della Asl per mettere i sigilli”. Alla base del problema c’è il sistema giudiziario italiano, per Giachetti “una fabbrica di carcerati”. L’amnistia, “alla quale sono comunque favorevole”, è tuttavia una condizione “necessaria ma non sufficiente”. Secondo il deputato pd è un provvedimento che incide “sul nucleo principale, quello dell’azzeramento del carico dei processi e la sua diretta conseguenza, il sovraffollamento. Ma è necessario intervenire con modifiche legislative serie sulla causa di tutto questo”. Per esempio, la depenalizzazione: “Il legislatore si muove a seconda dell’emergenza più grossa in quel momento. Con l’indulto è stato dimostrato che gran parte di quelli che erano in carcere non sono rientrati. Ma se uno poi viene beccato a farsi una canna torna dentro. C’è bisogno di commutare le pene, di affrontare il problema degli stranieri (a Rebibbia sono il quaranta per cento dei detenuti), di usare gli arresti domiciliari con equilibrio e creare delle reti alternative alla detenzione”. Giachetti è critico anche sull’obbligatorietà dell’azione penale, argomento caro al Pd, che “incide molto in questo circolo infernale. La magistratura non può aprire un fascicolo per ogni sospetto, è necessario creare un ordine di priorità, e non tralasciare dunque neanche la giustizia civile”. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, con il suo pacchetto svuota carceri è stata “più coraggiosa di Alfano”, ma “il malato è grave, e ha bisogno di una medicina adatta”. Non basta quindi, finché non si mette in piedi un’amnistia ragionata “e non gratis, come fu l’indulto”. Ieri mattina un cinquantaseienne calabrese è morto nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Il 31 dicembre altri due detenuti sono riusciti a togliersi la vita, uno nelle Vallette di Torino e l’altro a Trani, e un altro ha tentato di impiccarsi. Secondo la Uil Penitenziari nel 2011 ci sono stati 66 suicidi e circa mille tentativi di suicidio nelle carceri, oltre a circa 5.400 atti di autolesionismo grave. Giustizia: Monti a Fini e Schifani; l’8 x 1.000 solo alla protezione civile e alle carceri Ansa, 3 gennaio 2012 L’otto per mille per il 2011 è destinato solo alla Protezione Civile e all’edilizia carceraria. Non è possibile inviare alle Camere un decreto contenente altre ripartizioni a causa della limitatezza di tali fondi. Lo scrive il premier Mario Monti in una lettera inviata oggi ai presidenti delle Camere Renato Schifani e Gianfranco Fini. Nella missiva, il professore spiega che comunque non sono stati toccati gli stanziamenti già previsti per il ministero dei Beni culturali. Nell’importo in questione, pari a circa 145 milioni di euro, oltre la metà è stato destinato alla Protezione Civile per le esigenze della flotta aerea antincendi dal precedente governo. La rimanenza è stata invece destinata dall’attuale esecutivo “alle esigenze dell’edilizia carceraria e per il miglioramento delle condizioni di vita nelle prigioni”. Non sono stati toccati quindi i fondi del ministero per i beni culturali - spiega Palazzo Chigi - né sono state tradite in alcun modo, né da questo né dal precedente esecutivo, le attese degli italiani che hanno destinato la quota dell’otto per mille alle esigenze dello Stato: tali sono la Protezione Civile e l’edilizia carceraria. A causa della mancanza di disponibilità finanziaria - si legge in una nota diffusa dal governo - pertanto nessuno dei progetti presentati con scadenza 15 marzo 2011 è stato ammesso a contributo. Nella nota si ricorda che le risorse relative alla parte dell’otto per mille che gli italiani hanno destinato alle esigenze dello Stato vengono ripartite tra importanti iniziative di interesse nazionale, quali le calamità naturali, i restauri, l’assistenza ai rifugiati o la fame nel mondo. Pertanto, è il ragionamento fatto da Palazzo Chigi, la scelta se effettuare interventi a pioggia o concentrare l’investimento prioritariamente in alcuni dei settori di pubblica utilità viene effettuata in ragione della disponibilità del bilancio e dell’impellenza delle necessità. Giustizia: carceri più vivibili, vertice tra Monti e il senatore Marino Il Giornale di Napoli, 3 gennaio 2012 Carceri, dal presidente del Consiglio Monti “arriva un segnale positivo”, un “segnale di sensibilità quello che ha dato il premier ricevendo il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, senatore Marino”. Lo dice Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale e presidente onoraria dell’associazione Luca Coscioni dopo il colloquio tra il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione parlamentare dì inchiesta. E ovviamente questo segnale potrebbe essere positivo anche e soprattutto per le carceri napoletane, che sono perennemente sul punto di scoppiare. “Monti - aggiunge la deputata radicale - si è voluto informare sulle questioni principali emerse durante l’attività di inchiesta e in particolare le condizioni di vita e cura all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Questi ultimi costituiscono insieme una vergogna e una barbarie, opportunamente denunciata il 28 luglio scorso dal presidente della Repubblica Napolitano”. E Maria Antonietta Coscioni cita, a questo proposito, “l’ultimo episodio di cui giunge notizia: il decesso di un internato a Barcellona Pozzo di Gotto di 56 anni. È necessario che si giunga in tempi rapidi alla chiusura di questi veri e propri manicomi giudiziari e al tempo stesso si assicuri a persone malate la doverosa assistenza che viene invece loro negata, nonostante i lodevoli sforzi del personale e dei volontari. Su questa vicenda - conclude - ho già presentato un’interrogazione urgente ai ministri della Sanità e della Giustizia”. Giustizia: senatore Ignazio Marino; chiusura degli Opg potrebbe entrare nel decreto sulle carceri Tm News, 3 gennaio 2012 “La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari potrebbe entrare nel decreto sulle carceri e avvenire così in tempi rapidissimi”. Lo ha detto Ignazio Marino, Presidente della commissione di inchiesta sul servizio sanitario nazionale, a Popolare Network, dopo l’incontro avuto oggi con il Premier Mario Monti. “Il presidente del consiglio - ha detto il senatore Marino - mi ha fatto molte domande per delineare un percorso di chiusura rapida degli ospedali psichiatrici giudiziari. Una delle idee è di inserire il disegno di legge che la commissione di inchiesta ha firmato all’unanimità, nel decreto sulle carceri e arrivare così alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in pochissimi mesi. Il presidente del consiglio verificherà la fattibilità con i ministri della giustizia Severino e della salute Balduzzi”. Ospedali psichiatrici giudiziari: sono 1.400 gli internati Sono 1404 le persone internate nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari italiani (Opg), di cui 446 dimissibili. Ma solo 160 sono stati dimesse tra luglio e novembre 2011, mentre per 281 è scattata la proroga e 5 sono morte. È il quadro che emerge dai dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, che auspica che il governo Monti adotti quanto prima il provvedimento che disponga la chiusura definitiva di questi istituti, viste le condizioni di estremo degrado in cui versano molti di loro. Tra il 1 luglio e 14 novembre 2011, secondo i dati della Commissione presieduta da Ignazio Marino, gli internati degli Opg erano 1404. Di questi 446 (pari al 31,7%) sono dimissibili, ma finora ciò si è verificato solo per 160 di queste persone (cioè il 35% dei dimissibili), mentre per 281 (63%) c’è stata la proroga e 5 (di cui 3 a Barcellona Pozzo di Gotto) sono deceduti. L’Opg che ha dimesso più pazienti è stato Castiglione delle Stiviere (40), mentre quelli che ne hanno rilasciati di meno sono stati Montelupo Fiorentino (8) e Secondigliano (19). Il maggior numero di proroghe lo ha avuto invece Barcellona (74), seguita da Aversa (44). Il 26 gennaio scade il termine previsto dalle ordinanze della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Ssn, per i due opg di Barcellona Pozzo di Gotto e Montelupo fiorentino, per svolgere gli interventi di adeguamento alla normativa antincendio e ai requisiti minimi per le strutture psichiatriche riabilitative. Se per quella data gli interventi non saranno stati fatti, la Commissione potrà chiudere integralmente le due strutture. Lo scorso settembre il Senato ha approvato all’unanimità una risoluzione, su proposta della Commissione, che impegna il governo a una riforma del sistema della detenzione psichiatrica negli Opg e alla loro chiusura. Il governo si è impegnato ufficialmente a lavorare per la loro chiusura e lo scorso dicembre Marino ha depositato a palazzo Madama un ddl, firmato da tutti i membri della Commissione, che indica il 31 marzo 2012 come data di chiusura degli Opg. “Auspichiamo che il contenuto del nostro disegno di legge sia assorbito dall’esecutivo in uno dei prossimi decreti, per dargli immediata operatività”. Giustizia: stesso delitto, ergastolo o 5 anni… la beffa tra Italia e Germania di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 gennaio 2012 Tutti insieme, nel 1989 hanno ucciso a Milano un assicuratore bolognese, prima addormentandolo con un sonnifero e bruciandolo vivo in auto, e poi, siccome era riuscito a scendere tra le fiamme, massacrandolo nel bagagliaio a colpi di cric in testa. Ma i giudici milanesi, che per il delitto hanno condanna-. to uno dei tre killer all’ergastolo (il canadese Clemente Rhodius), hanno dovuto rassegnarsi a dichiarare il “non luogo a procedere” contro gli altri due assassini tedeschi (Peter e Conrad Walz) perché sul medesimo omicidio già giudicati nel 1994 a Monaco e tornati liberi dopo una pena di appena 5 anni e mezzo. Una disparità che “desta turbamento” nella stessa giudice milanese che pure spiega ora nella sentenza come a determinare il paradosso, in questo romanzo “pulp” internazionale, sia l’affermarsi del “principio del ne bis in idem” (nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto) “come diritto del cittadino europeo senza eccezioni”, rispetto al quale ogni Stato Ue deve accettare l’applicazione del diritto penale vigente negli altri Paesi Ue, anche nei casi in cui il proprio diritto condurrebbe a soluzioni ben diverse. È la notte tra l’8 e 9 marzo 1989 quando ad Albairate, in provincia di Milano, viene trovato il corpo a pezzi di un broker navale bolognese, Elvio Burulli, atteso l’indomani a Londra per chiudere un affare da decine di miliardi di lire con un suo ex socio che conosceva con un falso nome, non con quello vero di Klaus Walz. È stato Klaus, racconterà nel 1992 alla polizia di Colonia il fratello Peter Walz, a ideare l’omicidio dal Brasile, coinvolgendo anche il nipote Gordon (figlio di Peter) e il canadese Rhodius, che a dire di Peter Walz saprebbe pure di un banchiere svizzero murato in una villa in Portogallo, di un immobiliarista belga sepolto in un campo a Lisbona, e di un ricco brasiliano ucciso nella propria villa. Klaus fugge per mesi e poi, per non farsi catturare una volta individuato, si barrica in una casa con una bomba a mano, prende in ostaggio alcuni poliziotti per 9 ore, strappa loro una delle pistole d’ordinanza e si uccide. Il 2 febbraio 1994 la Corte di Karsruhe condanna a 5 anni e 6 mesi gli altri due Walz, ricercati dall’Italia dal 1992-1993. Ma solo il 12 febbraio 2008, quando la Procura di Milano apprende che Gordon Walz risulta essere stato controllato 5 giorni prima ma non arrestato per eseguire il provvedimento italiano, ci si avvede che intanto i due Walz erano stati già processati in Germania nel 1994 e condannati (ad appena 5 anni e mezzo) per l’omicidio per il quale Milano chiedeva il loro rinvio a giudizio accanto a quello del canadese Rhodius, che a Milano aveva già avuto l’ergastolo. Ma i legali italiani dei due tedeschi, Alessandro Pistochini e Salvatore Scuto, pongono la questione - pressoché inedita perché fino ad oggi con un solo caso comparabile a Reggio Calabria - del valore anche a livello europeo del principio del ne bis in idem. Per il sì propende l’articolo 54 della Convenzione di Schengen, per il no l’articolo 55 che ammette che un Paese contraente, al momento della ratifica, possa unilateralmente dichiarare (come l’Italia nel 1993) di non vincolarsi all’operatività del ne bis in idem quando i fatti oggetto della sentenza straniera siano avvenuti in tutto o in parte sul suo territorio. Ma la giudice milanese Micaela Curami conclude che “il principio del ne bis in idem si configura come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo” da quando “l’ha sancito l’articolo 50 della Carta di Nizza (2000) che ha rango primario dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2007) ed è dunque vincolante per tutti gli Stati membri, senza eccezioni”. E siccome ai fini del riconoscimento del ne bis in idem non è necessario che il reato riceva analogo o identico trattamento sanzionatorio nell’ordinamento italiano e in quello straniero”, nel caso dei Walz “non può nascondersi che la mitezza, se non l’eccessiva esiguità della pena (5 anni e 6 mesi) inflitta dal tribunale di Karsruhe agli odierni imputati possa destare turbamento, soprattutto se posta in correlazione con la pena dell’ergastolo comminata dall’autorità italiana al correo” Rhodius. “Eppure, la considerazione non può certamente influire sulla valutazione della piena operatività del principio del ne bis in idem” a livello europeo. Se mai, tutta italiana è la successiva beffa nel caso dei due assassini tedeschi che a Milano si salvano anche dal reato (di competenza solo italiana) di incendio doloso: qui, infatti, a graziarli è l’intervenuta prescrizione. Giustizia: “pellegrinaggio” di Alfonso Papa (Pdl) nelle carceri milanesi di Opera e S. Vittore Il Velino, 3 gennaio 2012 Nella giornata di oggi martedì 3 gennaio il deputato del Pdl Alfonso Papa si recherà nelle carceri milanesi di San Vittore e Opera insieme all’esponente radicale Annalisa Chirico. L’appuntamento con i giornalisti è previsto per le ore 16 dinanzi alla casa di reclusione di Opera (via Camporgnago, 40). “La vera notizia di questo 2012 - dichiara l’onorevole Papa - è che l’anno comincia com’è finito tra suicidi in carcere e indifferenza della politica verso l’amnistia e verso l’aspirazione di migliaia e migliaia di vittime a carceri che non siano dei lager”. “Come ho già detto - continua Papa - il senso della mia missione politica sarà quello di testimoniare cristianamente nelle carceri di tutta Italia quello che tutti gli occhi vedono e tutte le orecchie sentono, ma nessuna voce può raccontare”. “Milano è solo la seconda tappa - conclude Papa - di un pellegrinaggio che finirà solo quando il Parlamento affronterà il problema del carcere e l’esigenza di porre fine ai sequestri e ai suicidi di Stato”. “Nelle carceri italiane si consuma un suicidio ogni cinque giorni. Il bilancio del 2011 è di 66 suicidi. C’è uno Stato in flagranza di reato, ormai criminale professionale in senso tecnico; è per questo che chiediamo innanzitutto l’amnistia per la Repubblica, il rientro nella legalità”, dichiara Annalisa Chirico del Comitato Nazionale di Radicali Italiani. “Il 42% dei detenuti, inoltre, sono in attesa di giudizio, presunti non colpevoli, vittime di una tortura legalizzata. L’istituto della carcerazione preventiva, di cui i magistrati abusano al fine di anticipare la pena ed estorcere confessioni, richiede un intervento immediato della politica”. Genova: detenuto si impicca in una stanza dell’ospedale dove era ricoverato Italpress, 3 gennaio 2012 Bruno Baldini, 54 anni, si è impiccato in una stanza dell’ospedale Villa Scassi. L’uomo era ricoverato al reparto grandi ustionati dallo scorso 4 dicembre, quando, dopo aver tentato di uccidere l’ex moglie e il suo nuovo compagno, si era dato fuoco nella canonica della chiesa di San Teodoro, in Valbisagno. “Volevo punirla perché mi aveva lasciato e per ripicca si era messa con quell’altro”, aveva detto l’uomo ai magistrati che lo avevano indagato per tentato duplice omicidio e per la ricettazione della pistola - risultata rubata - che si era inceppata quando aveva cercato di sparare all’ex e al suo nuovo compagno. Lo rende noto il Sappe. L’uomo ad inizio dicembre aveva tentato di uccide l’ex moglie e il suo nuovo compagno, ma per loro fortuna si era inceppata la pistola. Poi si era dato fuoco per suicidarsi, rimanendo gravemente ustionato. “Era ricoverato in Ospedale, nel reparto ustionati del Villa Scassi di Sampierdarena, controllato saltuariamente dalla polizia penitenziaria” spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Il giudice competente - aggiunge il sindacalista - ne aveva disposto, appunto, controlli saltuari. E nulla faceva presagire il tragico gesto: il detenuto sembrava infatti tranquillo. Ma si tratta comunque della ennesima drammatica morte di una persona ristretta, la quarta dall’inizio del 2012 in una struttura di pena. Ieri a Trani e Torino, oggi a Barcellona Pozzo di Gotto e Genova. E altri tentativi di togliersi la vita sono stati sventati in queste ultime ore dagli uomini della Polizia Penitenziaria a Messina e Vigevano. Se la già e critica situazione penitenziaria del Paese non si aggrava ulteriormente è proprio grazie alle donne e agli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, che tra il 2010 ed il 2011 sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita a più di 2.000 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che gli oltre diecimila atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze”. “Il Corpo di Polizia Penitenziaria, i cui organici sono carenti di oltre 7 mila e 500 unità, ha mantenuto fino ad ora l’ordine - aggiunge Martinelli - e la sicurezza negli oltre duecento Istituti penitenziari a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato, lavorando ogni giorno, ogni ora, nel difficile contesto penitenziario con professionalità, senso del dovere, spirito di abnegazione e, soprattutto, umanità”. “L’unico appello che ormai ci sentiamo di fare - conclude Martinelli - è al Capo dello Stato, sempre sensibile alle criticità delle carceri. Penso che solamente la sua autorevolezza e la sua costante attenzione ai problemi del carcere, e quindi anche a quelli dei poliziotti penitenziari, possano contrastare l’indifferenza della politica alle problematiche del sistema”. Messina: un internato di 56 anni muore nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto La Sicilia, 3 gennaio 2012 Era malato “da molto tempo” Michele Veronese, l’internato di 56 anni, originario della Calabria, morto nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Il suo è il terzo decesso nel giro degli ultimi sei mesi avvenuto in quella struttura , dopo due suicidi avvenuti l’estate scorsa; e l’undicesimo negli ultimi 12 mesi a livello nazionale. “Con ogni probabilità quell’uomo non era più pericoloso socialmente eppure le sue misure di sicurezza erano state reiterate molte volte”, ha detto Marino; “quattordici”, riferisce l’associazione Antigone, secondo cui proprio questo dato è la dimostrazione di “come il sistema delle proroghe possa trasformarsi nella pratica in una pena senza fine”. Cancellati solo sulla carta dall’ultima riforma della sanità penitenziaria, gli Opg sono sei e vi sono rinchiuse 1400 persone : oltre a quello in provincia di Messina, che ha 271 internati, gli altri sono a Castiglione delle Stiviere (Mantova), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino (Firenze), Aversa (Caserta), Secondigliano (Napoli). In molti di loro “non ci sono le più elementari condizioni igienico-sanitarie - ha denunciato qualche mese fa Marino - mentre non si contano i casi di costrizione fisica in letti ottocenteschi a cui i pazienti vengono legati come se fossero in un girone infernale”. Trani: 14 indagati per omicidio colposo dopo la morte di un detenuto gravemente ammalato Adnkronos, 3 gennaio 2012 Il pm della Procura di Trani, Luigi Scimè, ha iscritto nel registro degli indagati 14 persone per la morte del 34enne Gregorio Durante, avvenuta nel carcere di Trani lo scorso 31 dicembre. Il reato ipotizzato dal pubblico ministero è omicidio colposo. Sotto inchiesta il personale sanitario in servizio nel penitenziario che ha avuto in cura la vittima, il direttore del carcere e i medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Bisceglie dove il 34enne di Nardò era stato ricoverato, prima di essere dimesso il 31 dicembre. L’iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto per permettere a tutti di partecipare all’autopsia che sarà eseguita domani dal medico legale Biagio Solarino. L’autopsia servirà a chiarire le cause della morte e soprattutto se il decesso potesse essere evitato come sostiene la famiglia della vittima, che ha presentato la denuncia. Secondo i parenti di Durante, il 34enne stava male e non doveva restare in carcere, bensì doveva essere trasferito in una struttura sanitaria, così come era stato chiesto lo scorso 15 dicembre attraverso un’istanza di sospensione dell’esecuzione della pena. Dino Marino: ora si chiudano Ospedali psichiatrici giudiziari “La morte, nel carcere di Trani la notte di San Silvestro, di Gregorio Durante è l’ennesimo decesso, stavolta avvenuto in un Ospedale psichiatrico giudiziario, che riaccende i riflettori su queste strutture che rappresentano una vergogna per il nostro Paese e per questo vanno chiusi, così come ci aveva già ricordato l’estate scorsa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano”. È dura, durissima, decisa, la presa di posizione del consigliere regionale Dino Marino (Pd) sull’episodio avvenuto nel carcere di Trani. Una presa di posizione che è, insieme, un monito ad innalzare l’attenzione e un richiamo alle Istituzioni. Marino ricorda che “i parenti e i legali di Durante avevano chiesto da tempo la sua scarcerazione per incompatibilità con il regime carcerario in seguito ai postumi di un’encefalite virale che l’aveva colpito”, poi, pone due questioni: “la prima, chiudere immediatamente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, cancellati solo sulla carta dall’ultima riforma della sanità penitenziaria, non ci sono le più elementari condizioni igienico-sanitarie mentre non si contano i casi di costrizione fisica in letti a cui i pazienti vengono legati come se fossero all’inferno. “La seconda - continua Marino - è che in Puglia dopo che abbiamo nominato il Garante delle persone private delle libertà; bisogna verificare seriamente il protocollo d’intesa tra Regione Puglia e Ministero della Giustizia per la sanità carceraria. Casi come questo si evitano anche dando piena attuazione alla riforma della sanità penitenziaria”. Garante detenuti. Il riferimento del consigliere piddino è a Pietro Rossi, la cui nomina, l’anno scorso, era stata salutata a politica benedicente e fra cori di giubilo a questo punto esagerati. “Più volte abbiamo denunciato le drammatiche situazioni in cui versa la sanità penitenziaria, trasferita dal 2008 dallo Stato alle Regioni, anche quella mattina (il giorno della nomina di Rossi ci fu un altra morte misteriosa in carcere a Trani) ne abbiamo sottolineato l’inadeguatezza e quell’ultimo episodio dimostra quanto fosse necessaria alla Puglia la figura del Garante per i detenuti. A lui - calca la mano Marino - abbiamo assegnato il compito di restituire dignità alle persone private di libertà, ripristinando alcuni diritti fondamentali come quello della salute”. Domanda. “Ma - si chiede Marino - da allora il dott. Rossi è stato messo nelle condizioni di operare? Questo è l’interrogativo che pongo alla giunta regionale della Puglia. Nella nostra Regione non possono avvenire queste morti per inciviltà, non possiamo avere l’anima in pace solo perché da qualche mese abbiamo nominato il garante pugliese. Non basta, non è giusto. Quando muore una persona in carcere siamo di fronte ad una sconfitta per tutti, per lo Stato, per quelli che potrebbero fare qualcosa e invece, continuano a chiudere gli occhi ed ignorare che c’è bisogno di una vera riforma carceraria e per tutti quei cittadini che credono di popolare un Paese civile”. Torino: un nuovo tentativo di suicidio nel carcere delle Vallette Ansa, 3 gennaio 2012 Prosegue la triste scia di tentati suicidi nelle carceri italiane. A distanza di due giorni dall’ultima tragica morte, un altro episodio nel penitenziario delle Vallette, già nell’occhio del ciclone per il sovraffollamento nelle celle. Il sindacato Ugl ha fatto sapere che i detenuti sono 1.536, contro i 900 di capienza massima previsti, troppi per le scarse risorse degli agenti. Oggi un marocchino di 35 anni, Ramzi H., recluso nella sezione B del carcere torinese, ha ingerito un mix letale di alcol e candeggina. Subito soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria, ha rischiato la vita e ora si trova in prognosi riservata all’ospedale Maria Vittoria. Desta molta preoccupazione la frequenza di casi di simili, solo nel 2011 i suicidi sono stati cinque. L’ultimo, il sesto, è morto la notte di Capodanno: Aurel Contrea, 36 anni, in attesa di giudizio per furti e prostituzione, non ha voluto aspettare il nuovo anno. Il 31 dicembre poco prima della mezzanotte, si è impiccato con un lenzuolo nella sua cella. Bari: tra scabbia e docce gelate, i carcerati vivono in 3 metri, il sovraffollamento è del 183% di Francesca Russi La Repubblica, 3 gennaio 2012 Le celle sono grandi 13,50 metri quadrati e in ognuna vivono quattro detenuti. La finestra interna con le sbarre ha una grata molto fitta e la stanza è buia. Nella cella manca anche l’interruttore interno per accendere la luce. Il riscaldamento non esiste e quando piove entra l’acqua. È l’inferno delle carceri pugliesi, teatro di suicidi e morti misteriose. È in questo spazio di tre metri quadrati per ciascuno che i detenuti devono trascorrere 20 ore al giorno. Nelle restanti ore possono lavarsi e andare in bagno: nella toilette però non ci sono finestre e le docce non hanno l’acqua calda. Nel carcere infatti non ci sono celle per la socialità e il campo sportivo è inaccessibile dal 2006. “Sono condizioni inumane”. Così undici detenuti del carcere di Taranto hanno deciso di fare ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. A sostenerli c’è l’associazione per i diritti dei detenuti Antigone che negli scorsi giorni ha presentato l’ultimo rapporto sulle carceri. È la Puglia, secondo i dati del dipartimento di amministrazione penitenziaria, la regione dell’emergenza. Con un tasso di sovraffollamento del 183 per cento guida la classifica nazionale delle carceri più sovraffollate. La capienza totale degli 11 istituti penitenziari presenti in Puglia è di 2mila 458 posti ma i detenuti sono 4mila 486. Quasi il doppio. Le donne sono 221 e gli stranieri 919. Il carcere più a rischio è quello di Lecce: i posti letto a disposizione sono 680 eppure i detenuti sono 1441. L’indice di sovraffollamento è del 212 percento. Segue, distaccato per pochi punti percentuali, il carcere di Taranto: su 315 posti ci sono 655 persone, il tasso è del 208 percento. Situazione tragica anche a Foggia dove i detenuti sono 705 ma i posti 371, la percentuale di sovraffollamento arriva a 190 punti. Il dramma delle carceri si consuma ogni giorno sulla pelle dei detenuti. In cella si suicida una persona ogni mille. Fuori dal carcere una persona ogni ventimila. I numeri raccontano una tragedia quotidiana fatta di violenza e disperazione. La dignità, in carcere, è una parola che non esiste. Lo dimostrano le storie di contagio di tubercolosi e scabbia, malattie ormai dimenticate, nel penitenziario di Lecce; i casi di autolesionismo nel carcere di Brindisi dove un detenuto ha tentato di morire ingoiando un rasoio; i suicidi nelle celle di Foggia e di Bari dove due detenuti l’hanno fatta finita con cappi artigianali: si sono impiccati attaccando al letto un lenzuolo e un paio di pantaloni. Ammalarsi è quasi inevitabile. “Alti tassi di sovraffollamento, forzata promiscuità, fatiscenza delle strutture e insalubrità degli spazi, limitazione dei movimenti e della vita all’aperto - denuncia l’associazione Antigone - sono tutti fattori che rendono quanto mai difficoltoso il tentativo di migliorare le condizioni sanitarie”. Ad attaccare la malasanità carceraria è anche il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria: “In una situazione carceraria che è divenuta una discarica sociale, ove oltre la metà dei detenuti soffre di patologie medio gravi, casi come quello accaduto a Trani possono e potranno accadere in qualsiasi momento, considerato che in tanti casi il poliziotto penitenziario, da solo nelle sezioni detentive, deve vestire anche gli abiti dell’infermiere e dello psicologo, tutti compiti che gli sono piovuti addosso grazie anche ad una sanità che non assicura un’assistenza adeguata”. L’emergenza sovraffollamento ha avuto una risposta, parziale, con il piano carceri che prevede la costruzione a Bari di un nuovo carcere da 450 posti e tre nuovi padiglioni da 200 posti l’uno a Trani, Taranto e Lecce. Si arriverebbe così a 1050 nuovi posti letto. Ma il problema non sarebbe ancora risolto. Perché il surplus di detenuti è di duemila. Così Antigone ha disegnato una mappa delle carceri fantasma: tutti quegli istituti penitenziari che negli ultimi venti anni sono stati costruiti, spesso ultimati, a volte anche arredati e vigilati, che però sono inutilizzati, sotto utilizzati o in totale d’abbandono. “Anziché varare un nuovo piano carceri non poteva essere più utile e meno costoso, a seconda dei casi, ultimare, mandare a pieno regime questi istituti o adattarli alle nuove necessità?” denuncia l’associazione. In Puglia sono 12 le strutture: ad Accadia un penitenziario consegnato nel 1993, ora di proprietà del Comune e mai utilizzato; ad Altamura una delle tre sezioni dell’istituto non è mai stata inaugurata; a Bovino una struttura da 120 posti, già pronta, chiusa da sempre; a Casamassima e a Spinazzola due edifici dimenticati; a Castelnuovo della Daunia un carcere arredato da 15 anni e mai aperto; a Galatina una struttura inutilizzata e a Maglie solo parzialmente utilizzata per detenuti semiliberi; a Minervino Murge e a Orsara case circondariali mai entrate in funzione; a Monopoli l’ex carcere occupato dagli sfrattati, a Volturara Appula una struttura da 45 posti incompiuta. Bologna: “violenti con i più deboli”… gli orrori nel carcere minorile di Luigi Spezia La Repubblica, 3 gennaio 2012 Il racconto choc dei giovani detenuti del Pratello agli ispettori inviati dal ministro della Giustizia Paola Severino, che ha rimosso i direttori della struttura. “Ho paura di addormentarmi prima dei miei compagni, mi dicono che potrebbero abusare di me”. “I bulli ci bruciano i piedi con la carta igienica”. Le testimonianze raccolte a sorpresa dall’ispettore Francesco Cascini dentro la struttura del Pratello fanno pensare a un carcere degli orrori nel centro della civilissima Bologna. Un luogo cupo, violento e isolato dal mondo - perché come ha appurato l’indagine ministeriale, queste violenze non venivano denunciate - dove i diritti dei minori, previsti da convenzioni dell’Onu, come rileva Amnesty International, venivano soffocati da “atti di crudeltà”. Racconta uno dei ragazzi detenuti al super ispettore mandato dal ministro della Giustizia Paola Severino: “Il clima nella mia cella è così brutto che ho paura di addormentarmi prima degli altri, sia per timore di subire la bicicletta che peggio”. Il “gioco della bicicletta” fatto tra adolescenti, come il ragazzo lo spiega al signore venuto da Roma “consiste nel mettere pezzetti di carta igienica tra le dita dei piedi e dargli fuoco mentre uno dorme”. “Rischio degli abusi”. Il ragazzino, che appartiene alla classe delle vittime prese di mira dai compagni di sventura prepotenti, continua: “I miei compagni di cella mi dicono che potrebbero abusare di me. Mi toccano il... anche se dicono che lo fanno per scherzo. Sono preoccupato anche perché prendo la terapia e quindi sono debole”. Ma perché, se vive in questo clima opprimente, il ragazzino non ha mai chiesto aiuto? Lo spiega subito: “Queste cose non le ho dette a nessuno perché mi vergogno”. “Mi ha sfilato i pantaloni”. Una cosa che rende problematico anche il lavoro degli educatori e dei volontari. Quelli dell’associazione Uva Passa scrivono: “Auspichiamo che la giustizia faccia emergere le eventuali inadempienze di cui abbiamo appreso dai giornali e delle quali non abbiamo mai avuto riscontro dai ragazzi”. Nessuno vedeva mai un detenuto con occhi pesti? In mancanza di ascolto, per quel ragazzo tutto è continuato senza aiuto: “Un paio di notti fa ero così stanco che non sono riuscito a resistere, mi sono addormentato prima di loro. Ho sentito che qualcuno cercava di sfilarmi i pantaloni, mi sono svegliato di soprassalto e lui mi ha detto che stava cercando l’accendino, ma non gli ho creduto”. “Dopo la rissa, in isolamento”. C’è un racconto che tre detenuti fanno da angolazioni diverse di una rissa in cella e di una punizione “esemplare”. “La sera del 30 novembre, dopo cena, io e X siamo entrati in stanza e ci siamo azzuffati, facendo molto rumore. I compagni di cella hanno cercato di dividerci, poi sono arrivati 3 o 4 agenti della polizia che hanno aspettato fuori della stanza con il cancello chiuso. Poi è arrivato un assistente della polizia, quello alto e riccio, che non era in servizio in sezione. Hanno aperto la cella e sono entrati. L’assistente ha dato uno schiaffo a me e uno a X, mi hanno fatto mettere in ginocchio. L’assistente e un altro agente grosso hanno preso le manette e me le hanno messe a un braccio. Mi volevano mettere le manette anche ai piedi, li ho supplicati di non farlo che sarei stato zitto e buono, poi mi hanno portato in isolamento. La stanza è situata al primo piano, c’è solo un letto. Volevano staccare le ante delle finestre (in un’altra occasione, come risulta dalle indagini, le hanno staccate, Ndr) ma non l’hanno fatto per le mie suppliche, avrei avuto freddo, non c’era nemmeno una coperta. Sono andati via e io ho urlato tanto pregandoli di togliermi le manette...”. “Ancora non ho il cuscino”. Il fatto è testimoniato da un compagno: “Mi hanno trasferito qui perché Milano era sovraffollato. Sono stato in isolamento per due giorni, in un letto senza cuscino, che non ho nemmeno adesso. Due compagni hanno litigato tra loro (....) gli “assistenti” sono usciti dalla stanza andando verso l’isolamento... io ho intravisto uno che era per terra con le gambe già all’interno della cella e gli stavano mettendo le manette ai polsi... gridava di non metterle, strillava che gli facevano male”. “Chiuso nell’armadio”. Angherie di adulti e di minori su altri minori. Come questa, una claustrofobia non solo di sensazioni: “Oggi alle 14 due ragazzi mi hanno chiuso dentro l’armadietto dei vestiti. Per uscire ho dovuto sfondarlo perché non riuscivo a respirare. Ho urlato tanto, ma il personale di sorveglianza penso non mi abbia sentito. Ho saputo di altri ragazzi chiusi dentro gli armadietti”. Poi c’è tempo di dire anche che “il cibo è veramente cattivo, a volte non lo mangio”. Gela (Ct): nel nuovo carcere 38 detenuti e 58 posti liberi, in servizio solo 32 agenti penitenziari La Sicilia, 3 gennaio 2012 Se le carceri in Italia scoppiano di detenuti, quello di Gela aperto un mese fa è in controtendenza. È usato a metà delle sue potenzialità ricettive perché manca il personale. In servizio sono solo 32 guardie e solo 25 di loro stanno a contatto con i detenuti. Siamo a meno della metà della pianta organica coperta. È il primo e più evidente dato dell’ ispezione parlamentare di ieri alla struttura di contrada Balate aperta un mese fa dopo decenni di attesa e di tante inaugurazioni ufficiali. Sono trentotto i detenuti ospitati di cui 5 gelesi. Gli altri (folto il numero di extracomunitari) sono stati trasferiti qui dal carcere di Brucoli. Trentotto posti occupati a fronte di una struttura che può ricevere 96 detenuti. Ad un mese dall’apertura abbiamo un carcere mezzo vuoto. Non è solo questa l’anomalia riscontrata dalla deputata radicale Rita Bernardini durante la sua ispezione. C’è una limitazione sul tipo di detenuti da poter accogliere. “A Gela possono essere ospitati solo soggetti che non soffrono di gravi patologie - ha detto - perché il servizio di infermeria funziona per 18 ore sono scoperte 6 ore notturne”. Una carenza che non dovrebbe esistere per ovvi motivi ma che invece è reale. Sia l’on. Bernardini che il sen. Salvo Fleres garante per i diritti dei detenuti ( quest’ultimo ha fatto l’ispezione un’ora prima dei radicali accompagnato da Carlo Varchi presidente di Cittadini Attivi da sempre in contatto per la battaglia di riapertura del carcere) hanno evidenziato il vuoto nei servizi rieducativi. “ Un solo educatore peraltro in maternità, non uno psicologo in questo carcere - ha detto il sen. Fleres. “I detenuti - ha aggiunto la parlamentare radicale - non hanno la possibilità di lavorare, studiare o fare palestra” mettendo in evidenza alcune carenze della struttura appena aperta. Due carcerati lavorano come cuochi, un paio come pulizieri, altri vivono l’intera giornata in cella. Se per coprire il vuoto di 52 agenti sia la Bernardini che Fleres e nel pomeriggio pure l’on. Raimondo Torregrossa hanno annunciato azioni per convincere il Dap a inviare il personale dell’ultimo interpello, riguardano all’azione educatrice del carcere, Fleres ha lanciato un appello al volontariato gelese a collaborare con il carcere. Il volontariato dia un contributo insomma. Appello subito raccolto da Cittadini Attivi con l’impegno di Carlo Varchi a donare al carcere attrezzi di giardinaggio che consentiranno ai detenuti di pulire le aree interne ed attrezzarle a verde. L’associazione ha anche segnalato subito al sindaco una perdita fognaria a pochi metri dall’ingresso del carcere. A Gela il volontariato vero c’è. Ritornando all’ispezione sia Fleres sia la Bernardini hanno notato che i detenuti stanno bene, giudicano positivamente la struttura ed il lavoro delle guardie. Queste fanno notevoli sacrifici lavorando oltre il dovuto. Si lamentano però della lentezza dell’attività del magistrato di sorveglianza. La deputata radicale ha incontrato un detenuto della Repubblica Ceca che aspetta invano una risposta alla sua richiesta di scontare la pena restante nella sua terra per poter così vedere i familiari. Risposte che non arrivano perché spesso non ci sono i soldi per coprire le spese del viaggio che consentirebbe al detenuto di fare rientro nella propria patria. Lamezia: domani mattina la premiazione del concorso letterario “Liberi di scrivere” Redattore Sociale, 3 gennaio 2012 Si terrà domani mattina la premiazione del concorso letterario “Liberi di scrivere” bandito dal Rotaract e rivolto ai detenuti del carcere di Lamezia Terme. Il club service lametino guidato da Andrea De Fazio, ha organizzato l’iniziativa in linea con il progetto promosso dal Distretto2100 dal titolo “LiberaMente”, un percorso formativo basato sul concetto fondamentale della finalità rieducativa della pena che deve puntare al reinserimento sociale. Per concretizzare l’idea progettuale, il Rotaract ha promosso per i detenuti lametini una raccolta di volumi usati (prosa, poesia, saggistica, arte) o donati da privati da posizionare in delle scaffalature in modo da creare degli spazi idonei alla lettura, “in pratica una specie di biblioteca dove - spiega Andrea De Fazio - liberare la fantasia, ristorarsi col cibo della mente e trasformare la propria triste esperienza da correttiva in formativa”. Arricchendo la mente dei reclusi con la lettura, il Rotaract è convinto “di fornire un valido contributo formativo ed educativo che permetta ai detenuti di agevolare la comprensione degli errori commessi e acquisire una maggiore coscienza e spirito critico per poter affrontare la nuova vita nella società”. Insieme al progetto della raccolta dei libri, il Rotaract, in sintonia con la direttrice dell’istituto penitenziario lametino Maria Luisa Mendicino, ha ritenuto opportuno bandire un concorso di poesia e narrativa con lo scopo di rendere ulteriormente attiva la popolazione carceraria alla partecipazione dell’iter progettuale. La risposta dei reclusi è stata piuttosto positiva, sono numerosi infatti, gli elaborati presentati alla commissione del concorso. La premiazione degli autori delle opere vincitrici, contestualmente alla donazione dei libri raccolti, si svolgerà domani nella casa circondariale lametina, il club service ha messo in palio una targa e un premio in denaro da devolvere alle famiglie degli autori vincitori. L’istituto penitenziario di Lamezia continua ad avere il triste primato di carcere più affollato d’Italia. Attualmente l’istituto di ospita 78 reclusi, rispetto alla capienza consentita di 45 unità; più della metà dei reclusi sono di nazionalità straniera ( magrebini, rumeni, ucraini). Napoli: terza edizione del progetto “Jonathan Vela”, per il recupero dei giovani detenuti Adnkronos, 3 gennaio 2012 Insegnare a giovani delle sezioni penali l’importanza del rispetto delle regole e la responsabilità nel lavoro di squadra. Con questo obiettivo è stato siglato in mattinata, presso il Comune di Napoli, il protocollo d’intesa che dà il via alla terza edizione del “Progetto Jonathan Vela”, coordinato dall’Associazione Jonathan Onlus. Il Progetto Jonathan Vela rappresenta un’importante variante del Progetto Jonathan attivo dal 1998 nel recupero, e il reinserimento lavorativo, di ragazzi con problemi sociali e penali anche gravi. La finalità dell’iniziativa è preparare i ragazzi selezionati, minori e giovani adolescenti dell’area penale, a gareggiare nella Regata dei Tre Golfi che quest’anno vedrà la presenza di due imbarcazioni dell’Associazione e di altrettanti equipaggi. Jonathan Vela è infatti un programma educativo che, attraverso la vela, offre ai ragazzi la possibilità di costruirsi un’identità adulta intorno a tre parole chiave: disciplina, rispetto delle regole e rispetto dell’altro. Numerosi i partner in campo: l’assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Napoli, il Centro giustizia minorile Campania, la Fondazione Mascalzone Latino, la società Charter Partenope, Indesit Company, Banco di Napoli, Hotel Terme di Agnano e l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa. Indesit Company salirà a bordo con una dipendente degli stabilimenti di Carinaro-Teverola, ex minore della comunità Jonathan che ha già svolto il compito di presa in carico e di accompagnamento dei ragazzi avviati al lavoro e che per questa occasione svolgerà il ruolo di tutor in affiancamento a un operatore sociale. I giovani coinvolti nelle attività di preparazione dell’evento saranno impegnati per 5 mesi in un percorso di apprendimento tecnico e di allenamento fisico e psicologico-comportamentale sotto la guida di un team di esperti messi a disposizione dalla Fondazione Mascalzone Latino e dalla Società Charter Partenope. “La pratica di uno sport come quello velico si inserisce nell’ottica di una ricerca di strumenti innovativi per educare i ragazzi al rispetto dell’altro e alla fiducia reciproca -ha dichiarato Silvia Ricciardi, presidente dell’Associazione Jonathan Onlus -ringrazio di cuore coloro che hanno scelto di sostenerci”. Frosinone: primo evento del 2012 nell’ambito della manifestazione “È Natale per tutti” Il Velino, 3 gennaio 2012 Si è svolto nel carcere di Frosinone il primo evento del 2012 di “È Natale per tutti”, la manifestazione di cultura e solidarietà promossa e realizzata dalla Regione nelle carceri e negli ospedali del Lazio. Oltre cento detenuti hanno assistito insieme all’assessore regionale alla Sicurezza e agli Enti Locali, Giuseppe Cangemi, al concerto del gruppo musicale dei Tiromancino. Dopo l’esibizione la vigilia di capodanno nell’Istituto minorile di Casal del Marmo, anche nel carcere di Frosinone la band, del leader storico Federico Zampaglione, ha proposto le canzoni più famose del proprio repertorio, coinvolgendo tutti i detenuti presenti. Accompagnato dal vicedirettore del carcere, l’assessore Cangemi ha portato i saluti della presidente Renata Polverini, ribadendo l’impegno della Regione nella formazione dei detenuti. “Nel 2012 - ha spiegato Cangemi - ci sarà un impegno ancora maggiore dell’amministrazione regionale per le attività formative dei detenuti. Anche per il carcere di Frosinone - ha annunciato - proporremo la “Scuola di Musica” e l’avvio di appositi corsi di formazione per figure particolarmente richieste, come i tecnici del suono”. Cangemi ha inoltre sottolineato la partecipazione e il successo sempre maggiore che sta riscuotendo “È Natale per tutti”. “Grazie alla disponibilità di artisti famosi - ha proseguito Cangemi - stiamo offrendo un gesto di solidarietà, soprattutto in momenti particolari come il periodo natalizio, a quanti sono costretti a vivere lontano dai propri cari e dalla famiglia, facendoli sentire meno soli. L’augurio - ha concluso - è che l’anno appena iniziato possa essere di riflessione e di riscatto per ognuno di loro”. Cuba: dissidente in sciopero della fame muore per infarto in cella Ansa, 3 gennaio 2012 Un dissidente cubano in carcere, in sciopero della fame per non aver beneficiato dell’amnistia governativa, è morto per un arresto cardiaco. Lo ha annunciato ieri sera la Commissione cubana dei diritti dell’uomo. Renè Cobas, 46 anni, “È morto per un infarto domenica scorsa nella prigione di Boniato”, 900 km a est dell’Avana, ha precisato l’oppositore Elizardo Sanchez, che dirige l’organizzazione umanitaria illegale. “Sentiva di avere i sintomi di un attacco di cuore nella notte tra venerdì e sabato. I medici avevano raccomandato di portarlo in ospedale, ma le guardie carcerarie non l’hanno fatto”, ha detto Sanchez, secondo il quale la morte di Cobas poteva essere evitata. Cobas faceva parte di un gruppo di una ventina di detenuti in sciopero della fame dopo la loro esclusione dall’amnistia annunciata il 23 dicembre scorso dal presidente cubano Raul Castro. Myanmar: con amnistia liberati 7 prigionieri politici, ridotte tutte le pene Adnkronos, 3 gennaio 2012 Almeno sette prigionieri politici birmani sono stati liberati oggi nel quadro di una generale riduzione delle pene, decisa dal governo del Myanmar alla vigilia della Festa dell’indipendenza. Si tratta di un nuovo gesto di conciliazione da parte del primo ministro Thein Sein, anche se l’opposizione sottolinea come diversi suoi leader siano ancora in carcere. Il provvedimento commuta tutte le condanne a morte in ergastoli, riduce a 30 anni tutte le condanne sopra questa soglia, a 20 tutte le condanne fra 30 e 20 anni e taglia di un quarto le condanne sotto i 20 anni. Ne è risultata la liberazione di diversi detenuti, fra cui sette “prigionieri di coscienza”. “È solo una riduzione di condanne, non un’amnistia -ha commentato Nyan Win, portavoce della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) - attivisti politici come Min Ko Naing e Kok Ko Gyi, condannati a 65 anni, si sono visti ridurre la pena a 30 anni”. L’Nld stima che i prigionieri politici siano ancora 591, fra cui Naing e Gyi, leader della protesta degli studenti che assieme ai monaci buddisti manifestarono contro il regime nel 2007. Il nuovo governo civile vicino ai militari, frutto delle elezioni del novembre 2010, ha già liberato 7500 detenuti, fra cui 250 prigionieri politici, lo scorso 12 ottobre. La comunità internazionale chiede il rilascio di tutti i prigionieri politici per poter normalizzare i rapporti con il Myanmar. Intanto l’Nld, escluso dalle elezioni del 2010, si è iscritto partecipare alle elezioni suppletive previste per il primo aprile. Giappone: metà dei prigionieri nel braccio del morte sono trattati con psicofarmaci Ansa, 3 gennaio 2012 Circa la metà dei prigionieri nel braccio della morte in Giappone viene trattata con farmaci a causa dello stress mentale, rende noto il Ministero della Giustizia. In base a quanto dichiarato da un funzionario ministeriale, 56 condannati a morte su 124 accusano sintomi come insonnia e allucinazioni e vengono trattati con psicofarmaci, scrive il Yomiuri Shimbun. Tali sintomi si possono presentare a causa del confinamento in spazi chiusi per lunghi periodi di tempo, e dal momento che alcuni detenuti sono reclusi da più di 30 anni, si sospetta che i sintomi siano il risultato della loro lunga detenzione, spiegano gli esperti. In base alla legge giapponese, se un detenuto del braccio della morte viene dichiarato insano di mente, il Ministro della Giustizia ordinerà la sospensione dell’esecuzione. Tuttavia, un alto funzionario del Ministero ha detto che attualmente nessun prigioniero del braccio della morte è stato dichiarato insano di mente. “Per quel che possiamo dire, non ci sono detenuti malati di mente nel braccio della morte”, ha detto il funzionario.