La prigione di una volta… e la detenzione oggi Il Mattino di Padova, 24 gennaio 2012 Per dare un’idea di come sono cambiate le carceri negli ultimi trent’anni, e di quanto oggi si rischi di tornare al peggio del passato, a carceri-dormitori da dove la gente può uscire più pericolosa di quando ci è entrata, abbiamo provato a raccontare brevemente e confrontare le galere degli anni 70 e quelle attuali. Gli anni settanta e i “delinquenti” Un detenuto “di lungo corso”, E. D., uno che alla fine degli anni Settanta è finito in galera con una condanna a trent’anni, un “delinquente vero”, di quelli di una volta, della mala milanese, con una progressione criminale dal furto, alle rapine, al traffico d’armi, oggi racconta perché il carcere di allora non permetteva in alcun modo di cambiare. Ma era, invece, una autentica scuola del crimine, quello che rischia di tornare a essere oggi, con la gente di nuovo “parcheggiata” a non far niente, e i continui trasferimenti che si chiamano “sballamenti” perché il detenuto è “imballato e sballato” come una merce (una volta capitava ai delinquenti veri, oggi sono gli immigrati a venire più frequentemente “sballati”). È un racconto interessante quello di E. D., perché fotografa questo carcere in continuo movimento, dove l’idea della rieducazione proprio non esisteva. Eppure… eppure i padri costituenti che la galera l’avevano sperimentata sulla propria pelle non avevano pensato la rieducazione solo per i detenuti con reati di limitata gravità, no loro avevano intuito che non si deve dare per perso nessuno, che non ci sono, neppure in galera, “vuoti a perdere”. “Negli anni Settanta e fino a dopo la metà degli anni Ottanta le galere erano non una sede in cui scontare una pena, ma un luogo perennemente provvisorio. Appunto per lo stato di violenza che dominava all’interno era difficile rimanere anche un solo anno nello stesso carcere. Quelli come me che avevano condanne lunghe, “i pericolosi”, li lasciavano fermi al massimo un anno e poi li mandavano in un altro istituto, per evitare che prendessero confidenza con le guardie o che si unissero coi compagni per predisporre rivolte o piani di fuga. Anche perché non avevamo niente da perdere, vi era la certezza quasi assoluta che le pene venivano scontate tutte per intero senza possibilità di progettare un futuro, di pensare al reinserimento, una parola che proprio non esisteva nel vocabolario carcerario”. Oggi la discarica sociale dei “più fragili” Oggi si parla sempre meno di carcere dei delinquenti, quelli davvero pericolosi, e sempre più spesso di carcere come “discarica sociale”, il carcere dei “poveracci”, che però è una definizione triste, che aggiunge esclusione a esclusione. Qualche volta le parole fanno male, e stare in galera, e immaginare di appartenere alla categoria dei “poveracci”, e sentirsi come l’immondizia che riempie quella discarica dove ficcano tutto quello che si ritiene irrecuperabile, non è esattamente una situazione gradevole. Chiamiamolo allora il carcere di chi sta vivendo una condizione di debolezza, di fragilità, e al primo posto ci sono senza dubbio i tossicodipendenti. Che si stanno facendo sempre più anni di galera, nonostante intorno a loro tutti continuino a dire la solita formula che “i tossicodipendenti in carcere non ci dovrebbero stare”. Il fatto è che sono loro gli autori di buona parte dei reati di “allarme sociale”, furti, scippi, rapine, e sono loro i plurirecidivi, e la legge cosiddetta ex Cirielli li bastona in nome della sicurezza, fingendo di colpire davvero “i più cattivi”, quelli che non meritano niente perché non fanno altro che uscire dal carcere e tornare a commettere reati. La “cattiveria sociale” oggi impedisce di vedere che si può essere recidivi senza alcuna “malvagità”, senza alcuna capacità criminale, e lo racconta bene F. F., uno dei circa 25.000 tossicodipendenti che popolano le carceri italiane. “Io per tanti anni ho usato droghe e ciò purtroppo veniva sopra tutto: gli affetti e le persone a me più care o coloro che si ostinavano a tentare di aiutarmi, nonostante me. A distanza di anni la droga, con il suo richiamo, il suo essere un potente anestetico per i mali dell’anima, è ritornata spesso prepotentemente ed in modo devastante anche per me. Ad esempio all’origine di quest’ennesima mia detenzione, c’è una rovinosa ricaduta con la droga, di circa un mese, dopo anni in cui ero riuscito a restare “pulito”. Inoltre ho rischiato anch’io parecchie volte di morire, e ho visto tante volte la disperazione e l’impotenza della mia famiglia e delle persone che mi hanno voluto anche solo un po’ di bene”. A fianco dei tossicodipendenti, nella categoria dei più deboli ci stanno le persone con disagio psichico, e sono tante, anche perché la chiusura dei manicomi spesso non è stata accompagnata dalla creazione di strutture adeguate, e molti soggetti con disturbi psichiatrici sono rimasti senza “rete di protezione” e ad accoglierli poi hanno trovato solo il carcere. A questo si aggiunge che è il carcere stesso che influisce sull’insorgere o l’aggravarsi di una patologia psichiatrica, e nelle condizioni di solitudine, che caratterizzano oggi la detenzione, la sofferenza da galera si fa sempre più pesante, e sempre più difficile diventa far fronte al rischio suicidi. Gli extracomunitari: Case circondariali e i senza futuro Ci sono carceri, dove si arriva all’80, e anche al 90% di presenze di detenuti stranieri: sono le Case circondariali, dove vive una umanità complicata, fatta di ragazzi appena arrestati, di gente che spesso resta dentro appena qualche giorno, ma intanto comincia lentamente a rovinarsi la vita. Certo in carcere oggi non ci finiscono solo gli immigrati poveri, e sarebbe una semplificazione banale non analizzare altri aspetti della presenza dei migranti in galera: è infatti anche il sogno della “bella vita” e delle scorciatoie per raggiungerla che contribuisce a rendere ancora più pesante il sovraffollamento. La storia, in fondo, si ripete: negli anni Ottanta erano i figli dei meridionali immigrati a Milano o a Torino che inseguivano i sogni dei soldi facili, che si infrangevano ben presto nelle aule dei tribunali, oggi sono i ragazzi stranieri che si fanno tentare nel vedere gli amici, che in una sera tirano su con lo spaccio più soldi che in un mese di duro lavoro in fabbrica. E finiscono a rovinarsi la vita presente, ma anche a perdere qualsiasi possibilità di costruirsi un futuro, estranei ormai al loro Paese d’origine e al Paese dei loro sogni. La gente comune e il “non mi capiterà” A me non capiterà mai: è da qui, da questa certezza nell’immaginare che il carcere non ci riguardi, che nasce la distanza abissale che c’è tra la società e gli “ospiti” delle carceri. È una distanza causata soprattutto da quella informazione, che si esercita a creare i “mostri” e a far nascere l’illusione che siano sempre “gli altri” a finire in carcere. Se questa illusione aveva delle fondamenta in passato, quando davvero i reati che portavano in galera erano prevalentemente reati dovuti a una scelta di vita, alla voglia di fare soldi in fretta, riscattandosi magari da una condizione di marginalità, oggi espone invece a enormi rischi. Perché sono sempre di più le persone che provengono da ambienti “regolari” e che hanno però comportamenti sul filo dell’illegalità. I loro sono i reati legati all’uso di sostanze, che portano in galera sempre più persone giovani, ma anche gli omicidi colposi, che pure sono spesso commessi da giovani, e i reati in famiglia. Il carcere dei nostri giorni rischia di tornare al peggio del passato, e alla negazione di quello che aveva affermato, nella seduta del Senato del 7 luglio 1975, quando venne approvata la riforma penitenziaria, il relatore di quel disegno di legge. “La società, nel particolare momento in cui l’imputato diventa condannato, ha il dovere di proteggerlo e di assicurargli se non una vita che si svolge in piena libertà, almeno quella condizionata semplicemente dalla perdita di questo sommo bene, ma non gravata da altre condizioni che possano farlo considerare come una sottospecie di uomo”. Una sottospecie di uomo: a questo purtroppo rischiamo di arrivare, sembra la fotografia del “detenuto ai tempi del sovraffollamento”. Giustizia: il ministro Paola Severino denuncia “così le carceri sono solo luogo di tortura” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 24 gennaio 2012 Il ministro della Giustizia Paola Severino ieri è tornata in carcere. Un’altra prigione dove c’è stato un suicidio, il 7 gennaio scorso, a Sollicciano, Firenze. Un’altra visita dolorosa. “Il carcere è sì un luogo di espiazione, ma che non deve perdere i diritti dell’uomo. L’uomo in prigione è un uomo sofferente che deve essere rispettato. Oggi invece il carcere è una tortura più di quanto non sia la detenzione”. Il ministro Severino si era commossa, uscendo. Aveva visto anche i bambini in cella con le loro madri. “Un bambino non si può svegliare al mattino e vedere davanti a sé le sbarre di una cella”, ha detto il ministro Severino spiegando che pensando alle case famiglia sta cercando una soluzione anche a questo problema dei bambini e delle mamme. Per l’altro problema, il sovraffollamento dei penitenziari italiani, ha già redatto un provvedimento di legge in discussione al Senato. Siamo arrivati a un record di detenuti nelle prigioni italiane inimmaginabile fino a pochi anni fa. Ci sono oltre 68mila persone rinchiuse oggi nelle prigioni nostrane, a fronte di 45.654 posti disponibili. Quasi uno su due (il 42%) è in attesa di giudizio. Le donne sono soltanto 2mila e 600 (il 4% del totale), ma dietro le sbarre ci sono anche 70 bambini. In alcune carceri il sovraffollamento tocca picchi che non hanno nulla a che fare con un Paese civile. Quelle pugliesi, fra queste. A Lecce, ad esempio, ci sono 1.441 detenuti per 680 posti letto. Ma nella terza sezione del carcere di Bari c’è una situazione che è difficile da credere. L’ha denunciata Maria Giuseppina d’Addetta, presidente del Tribunale di sorveglianza: 44 detenuti stipati in solo due celle. Anche a Bolzano le carceri scoppiano. E ieri per questo un gruppo di detenuti ha messo in atto una rivolta: sei celle della seconda sezione sono state completamente distrutte dalla rabbia dei carcerati e dalle fiamme. I detenuti hanno poi spaccato finestre e distrutto i bagni, bloccando anche alcuni medici, poi rilasciati. Per sedare la rivolta sono intervenuti polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria. Pur di risolvere il problema dell’affollamento ieri il ministro Severino non ha esitato a parlare anche di amnistia, anche se ha precisato: “Per poter far questo occorre l’accordo di tutti i partiti”. Anche per il cosiddetto provvedimento “svuota carceri” i partiti stanno cercando un accordo. È in Senato il provvedimento. La commissione Giustizia tornerà a occuparsene oggi nel pomeriggio, dopo uno stop della scorsa settimana per l’intervento polemico in Aula di Francesco Nitto Palma, senatore Pdl ed ex Guardasigilli. Contestava l’eccessivo ricorso alla custodia a domicilio per gli arrestati in flagranza in attesa di convalida o di processo per direttissima. Adesso in Senato si sta cercando un compromesso che potrebbe essere rappresentato da una lista di reati esclusi dal beneficio dei domiciliari. Giustizia: il ministro Severino dice “sì” all’amnistia… “se la vuole il Parlamento” Il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2012 “Il punto di partenza risiede in un accordo tra le forze parlamentari che riesca a raggiungere una maggioranza qualificata”, ha detto dopo la visita al carcere di Sollicciano. E sui diritti dei detenuti ha sottolineato: “Si deve pensare subito a misure alternative”. Il ministro della Giustizia Paola Severino torna a parlare di amnistia. E come quando a metà dicembre presentò il decreto svuota carceri dicendo che non avrebbe contrastato un’eventuale indicazione proveniente dal Parlamento, anche oggi, parlando con i giornalisti al termine della visita al carcere di Sollicciano, la titolare del dicastero di via Arenula ha ribadito la necessità di “una maggioranza parlamentare estremamente qualificata”: “se questa maggioranza parlamentare si verificherà, si cimenterà - ha spiegato la Severino - certamente sarà possibile anche realizzare l’amnistia”. “Il punto di partenza - ha specificato il ministro - non è in questo caso un progetto, ma un accordo tra le forze parlamentari che riesca a raggiungere una maggioranza qualificata”. Nella struttura fiorentina il ministro ha incontrato operatori e detenuti, ascoltando e confrontandosi sulle varie questioni aperte. “Il carcere è, sì, un luogo di espiazione, ma non deve perdere di vista i diritti dell’uomo, ha detto la Severino sottolineando che “l’uomo in carcere è un uomo sofferente, che deve essere rispettato” e questo oggi non accade visto che “attualmente il carcere è una tortura più di quanto non sia la detenzione che deve portare invece alla rieducazione”. “Con i detenuti - ha proseguito Severino - abbiamo anche pensato al cammino che si sta percorrendo, che vorrebbe mettere insieme un insieme di piccole misure. Che, però tutte riunite potrebbero dare un sollievo alla situazione carceraria. Quello che si deve fare in una proiezione futura - ha proseguito il ministro - è mettere insieme una serie di forme alternative alla detenzione. Che rendano effettivo il principio per cui la detenzione deve essere veramente l’ultima spiaggia, da attivare quando le altre strade non si possono più percorrere”. Si tratta di “un rovesciamento di proporzioni” in cui diventa “normale” la misura alternativa ed “eccezionale”, quindi “espressamente motivata”, quella “carceraria”. Severino si concentra anche sulla situazione delle madri detenute che si trovano in carcere con i propri bambini: “Gli ultimi dieci minuti della mia visita li ho passati nel nido - ha detto il ministro - Credetemi, è straziante vedere dei bambini che con le loro madri in carcere. Anche lì la soluzione non è facile - ha aggiunto - Ma le case famiglia, l’attivazione di sistemi alternativi al carcere credo che siano la vera soluzione praticabile”. Perché “non si può pensare che al compimento dei tre anni venga strappato dall’unico luogo che ha conosciuto e dalla madre, con la quale ha vissuto i primi tre anni della sua vita, e portato via”. Oggi - ha concluso il ministro - si cerca di alleviare con gli asili nido. Ho incontrato operatori straordinariamente bravi, che aiutano le mamme. Ma non è quella la strada principale”. Ma nello stesso giorno in cui il ministro apre a una politica conciliante nei confronti dei detenuti, a Bolzano si registra una rivolta che ha coinvolto una cinquantina di carcerati. La situazione è tornata sotto controllo, ma nel pomeriggio i detenuti erano riusciti a prendere il controllo di un intero piano della casa circondariale di via Dante. A seguito della protesta 20 dei 60 detenuti della II sezione saranno trasferiti in altre case circondariali, come riferito dalla direttrice del carcere Anna Rita Nuzzaci, che ha confermato: “Non ci sono feriti”. La protesta - ha precisato - è iniziata alle ore 15 e consisteva nell’appiccare piccoli focolai e fare rumore con pentolini alle grate delle finestre. Dopo un primo intervento gli agenti penitenziari e l’invito di redigere un promemoria la situazione sembrava già sotto controllo ma poco dopo la situazione è degenerata. “A questo punto - ha riferito la direttrice - abbiamo dato l’allarme e chiesto l’intervento delle forze dell’ordine”. Sul posto sono intervenuti polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria, in tutto una settantina di persone. “La situazione - ha detto il questore Dario Rotondi - è velocemente tornata sotto controllo”. Giustizia: decreto legge sulle carceri, lo sbaglio di Travaglio di Mauro Palma (ex presidente del Comitato europeo contro la tortura) Il Manifesto, 24 gennaio 2012 Oggi il senato riprende la discussione sul decreto Severino sulle carceri. Un provvedimento, va detto subito, giudicato parziale e poco ambizioso, che però negli ultimi giorni si è attirato critiche tanto feroci quanto disinformate da parte del Fatto quotidiano e del suo vicedirettore. In un editoriale di sabato scorso sul suo giornale, Marco Travaglio denunciava un “indulto più o meno mascherato” e invitava ad aprire una discussione sul carcere. Benissimo. Però partiamo dai fatti. E innanzitutto rimettiamo un pò a posto le parole, sulla base dei loro significati. Il provvedimento proposto dal ministro della giustizia che estende a 18 mesi la possibilità di espiare l’ultima parte della pena nel proprio domicilio o in altre idonee strutture ricettive, ha tre caratteristiche precise: 1) non è uno sconto di pena ma è un’esecuzione penale anche se avviene in luogo diverso dal carcere; 2) non si applica a tutti perché ne sono esclusi coloro che rispondono di un reato di particolare gravità (uno di quelli elencati nell’ampio articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario) o che sono sottoposti al regime di particolare sorveglianza; 3) è una misura disposta caso per caso dal magistrato che acquisisce una relazione del carcere sulla condotta tenuta dall’interessato durante la sua detenzione. Queste tre caratteristiche rendono il provvedimento ben differente da un indulto. Perché allora viene presentato come tale da commentatori, quali Marco Travaglio sul Fatto, che pure con procure e carte giudiziarie hanno familiarità? Errore o dolo? E come si motiva la violenta reazione di Travaglio alle parole del presidente di Antigone che sul manifesto di venerdì scorso ha lamentato il ricompattarsi di un fronte - non formalmente organizzato ma certamente coeso - pronto a leggere ogni alternativa alla centralità e unicità del carcere come rinuncia all’attività punitiva dello stato, pronto a inseguire la richiesta sociale di sicurezza con la falsa rassicurazione dell’estensione della detenzione? C’è un sapore di vecchio in queste urla che si alzano ogni volta che si cerca di ragionare sulla finalità della pena e sull’improduttività di un sistema che cerca di esorcizzare i problemi rinchiudendoli lontano dal contesto sociale. Vecchio, perché su di esso molti partiti hanno cercato di costruire consenso e si sono ritrovati a misurarsi con un problema raddoppiato: quello dell’insicurezza crescente anziché diminuita e quello di condizioni di detenzione che, oltre a essere giudicate indegne dalla nostra tradizione di civiltà giuridica e dalla più alta carica dello stato, hanno esposto l’Italia a dure condanne da parte degli organismi internazionali. Vecchio, perché fa regredire il significato della pena a un retributivismo superato da secoli e totalmente improduttivo sul piano della riduzione della recidiva. Poiché questi argomenti sono noti a chiunque abbia almeno balbettato qualcosa di diritto, il loro periodico risorgere sembra essere motivato soltanto dalla ricerca di un facile consenso irriflessivo: qui nasce quell’accusa di populismo su cui Travaglio ironizza, leggendolo come nuovo stigma, ma che va letto invece come compiacimento acritico verso un pensiero che non si misura con la complessità dei problemi e insegue gli umori più timorosi di una società spaventata dal ridursi della rete di diritti e tutele. L’operazione è chiara: l’insicurezza sociale viene “restituita” come inseguimento di una mai raggiunta sicurezza individuale con politiche che finiscono col colpire duramente i soggetti deboli, visti come potenziali aggressori. Del resto, nei suoi articoli, il Fatto stesso ha più volte individuato nella leggi “riempi carcere” - dalla ex Cirielli a quelle sulle droghe e sull’immigrazione - i fattori che determinano l’ampiezza e la particolare composizione sociale dell’attuale mondo della detenzione in Italia. Il nominare possibili “inciuci”, di cui non si capisce bene se coloro che appoggiano provvedimenti deflattivi sarebbero consapevoli contraenti o stupidi strumenti, porta al di là del semplice rimettere le cose a posto. Diventa indice di un retro pensiero che coloro che da sempre si occupano di legalità, anche e soprattutto nel luogo - il carcere - dove verso tale valore si dovrebbe essere reindirizzati, rifiutano con ironia prima ancora che con un bel po’ di sdegno. Tanto più se lo si condisce con la ridicola accusa rivolta a questo giornale di essere compiacente poiché “prende soldi dallo stato”. Qui il dotto ragionamento di stretta legalità che il nostro fustigatore voleva proporre lascia spazio a uno stile politico di bassa fattura; sembra un suo ritorno indietro ai tempi - secondi anni Novanta non cento anni fa - in cui il consenso lo cercava più facilmente nell’animoso pubblico della destra che non nei raffinati salotti tv. Questioni di stile. Su cui questo giornale può permettersi di sorridere con noncuranza, ritornando al tema vero dei provvedimenti per ridare dignità a chi è in carcere. Cauti e timidi quelli proposti dal governo, troppo: altro che indulti mascherati. Giustizia: una lettura travagliata dell’amnistia di Massimo Bordin Il Riformista, 24 gennaio 2012 Mentre Pannella chiede da Radio Radicale al presidente della Repubblica un messaggio alle Camere sullo stato della giustizia e delle carceri, il dibattito sulla proposta di amnistia avanzata dai radicali è praticamente fermo. L’informazione televisiva, per quanto formalmente richiamata al dovere di cronaca e approfondimento dall’autorità per la comunicazione, ha continuato a disinteressarsene. E così la scorsa settimana è stato Travaglio a occuparsi, a suo modo, della questione. Prima ha scritto un pezzo da cui traspariva la sua la preferenza a far restare accatastati in galera qualche migliaio di poveri cristi rispetto al rischio di non farci entrare qualche decina di “colletti bianchi”. Poi ha parzialmente rettificato dialogando con il responsabile dell’associazione “Antigone” e addebitando il sovraffollamento carcerario alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione, alla Giovanardi-Fini (ancora lui) sulla droga e alla Cirielli sulla recidiva. Giusto. Infine Travaglio chiede, per discutere di amnistia, l’esclusione dei reati di mafia e quelli dei “colletti bianchi”. Per i primi già “l’indultino “ di Prodi li escludeva, per il resto una maggioranza parlamentare non sarebbe impossibile. Ma la questione sta nella lettura della amnistia come prima misura per ripristinare lo stato di diritto ed evitare il record di condanne all’Italia presso la Corte Europea. Dimensione che sfugge a Travaglio come all’ex ministro e magistrato Nitto Palma. Due facce della stessa medaglia. Giustizia: intervista a Francesco Maisto; sovraffollamento per colpa di leggi “carcerogene” di Alberto Laggia Famiglia Cristiana, 24 gennaio 2012 Un mese per metter fuori dalle carceri migliaia di detenuti. Bisogna fare qualcosa subito, “a leggi ferme”, prima che sia troppo tardi”. Decongestionare le carceri non è più una delle tante emergenze della giustizia italiana, ma l’emergenza prioritaria, assoluta. L’appello ultimativo è quello del presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Emilia Romagna, Francesco Maisto. C’è stato un tempo in cui le nostre carceri non soffrivano di sovraffollamento? “Certo. E non troppi anni fa. Prima dell’ultimo indulto del 2006, i detenuti in carcere erano 40 mila e altrettanti erano i sottoposti a misure alternative. Senza che si lamentassero problemi d’aumento di criminalità. Poi s’è fatto crescere un carcere diverso da quello uscito dalla riforma e da quello descritto dal dettato costituzionale”. Quali sono le cause del drammatico sovraffollamento carcerario attuale? “Nasce dalle cosiddette “leggi carcerogene” approvate in questi ultimi anni: leggi, cioè, che hanno previsto ipotesi di reato che prima non esistevano, o che hanno inasprito le pene per reati già esistenti. O, ancora, che impediscono la sospensione dell’ordine di esecuzione che bloccava per molti reati l’ingresso in carcere in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza”. Così l’afflusso nei penitenziari è diventato abnorme... “E ciò è stato deciso senza sapere se si sarebbe riusciti a gestire questa nuova situazione. Senza riflettere sugli effetti per le condizioni di vita dei detenuti, diventati dei numeri e trattati come animali. L’unica preoccupazione diventa quella della sicurezza: la prevenzione dell’evasione”. Condizioni disumane che stanno alimentando il fenomeno dei suicidi in cella... “Le leggi carcerogene hanno trasportato in carcere il malessere delle categorie sociali più emarginate: tossicodipendenti, alcolisti, pazienti psichiatrici, senza fissa dimora. La cosiddetta “detenzione sociale”. Un esempio? Nel carcere bolognese della Dozza i Padri Dehoniani hanno scoperto che il 90 per cento dei detenuti non tiene neanche cinque euro sul conto bancario. Queste persone, desocializzate già prima, finiscono per non trovare prospettive in carcere. Così la cella diviene l’anticamera dell’autolesionismo e del suicidio. Ma oggi il malessere è così generalizzato che colpisce duramente anche le guardie carcerarie: i suicidi tra la Polizia penitenziaria sono una triste novità”. Questo sistema, oltreché inefficace dal punto di vista della rieducazione e del recupero in società, a leggere le percentuali della recidività, pare essere anche anti-economico. È così? “Sicuramente. Basta fare un semplice confronto: per ogni detenuto lo Stato paga dai 150 ai 250 euro al giorno. Un ex detenuto che viene ospitato, invece, dall’associazione Papa Giovanni XXIII, per esempio, costa solo 30 euro al giorno. Non diventa, questa, un’opzione preferibile al carcere? Come si può conciliare, poi, una politica che riempie le prigioni con i tagli drammatici alla spesa pubblica? Insomma: in questo caso, la miglior politica è quella a minor prezzo”. L’amnistia o l’indulto possono essere una soluzione? “No. Sono contrario. L’amnistia è deresponsabilizzante, sebbene avrebbe il grande vantaggio di liberare il tavolo dei giudici dai fascicoli dei processi. Senza opportunità fuori dal carcere, in breve l’ex detenuto torna dentro. Bastano le misure alternative, poche pratiche virtuose, e far andare a regime i Tribunali di sorveglianza”. Che giudizio dà dei provvedimenti nel cosiddetto “pacchetto Severino” allo scopo di decongestionare gli istituti di pena italiani? “Finalmente si esce dalla logica dei Pacchetti sicurezza e si comincia a intravedere un orizzonte di efficienza della giustizia penale e di efficacia delle pene, nel rispetto della dignità delle persone condannate. Le soluzioni normative (Decreto Legge e Disegno di legge) corrono, però, il rischio di non produrre subito gli effetti di riduzione delle carcerazioni inutili. Senza immediati strumenti operativi le riforme resteranno lettera morta. Buona, allora, mi pare la scelta di fare di regola i processi per direttissima, nei casi di arresto in flagranza, ma sarebbero utili i supporti socio-assistenziali per la presa in carico dei tanti arrestati per reati lievi in condizione di marginalità sociale, psichica, tossicodipendenti, eccetera”. Giustizia: decreto legge sulle carceri in aula Senato, accordo in dirittura di arrivo Affari Italiani, 24 gennaio 2012 Contrastare il fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nasce con questo obiettivo il decreto legge in discussione al Senato. Primo passo, il divieto di condurre la persona arrestata alla casa circondariale, divieto cui è possibile derogare solo qualora non sia possibile assicurare altrimenti la custodia dell’arrestato da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, ad esempio per l’indisponibilità di locali idonei, per ragioni di salute e per ogni altra ragione di necessità. Nei casi in cui sia il pubblico ministero, a presentare l’imputato al giudice monocratico per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo, viene soppressa, per fini acceleratori, la disposizione che consente di fissare l’udienza non entro le quarantotto ore dall’arresto. L’udienza, stando al provvedimento in esame, andrà fatta entro le quarantotto ore successive alla richiesta del pubblico ministero. “Queste modifiche - si legge nel decreto del Governo - consentiranno di limitare - significativamente il numero dei detenuti che vengono condotti nelle case circondariali per periodi di tempo brevissimi”. Previsione importante del provvedimento, l’integrazione delle risorse finanziarie da destinare al potenziamento delle strutture penitenziarie. Risorse che saranno rinforzate anche da un ulteriore modifica del decreto legge in esame, ossia l’innalzamento da dodici a diciotto mesi della soglia di pena detentiva per l’accesso alla detenzione presso il domicilio. Innalzamento che “può determinare risparmi di spesa pari a 375.318 euro al giorno, per un numero aggiuntivo di 3.327 detenuti”. Altra novità di grande rilievo che sarà votato dall’aula, è la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, i vecchi manicomi criminali. Gli internati dovrebbero essere affidati alla sanità regionale, le vecchie strutture vendute per finanziare la costruzione di sedi idonee al trattamento dei condannati malati psichiatrici. Staderini (Radicali): la giustizia è in bancarotta, serve amnistia “Apprezziamo la sensibilità del ministro Severino perché la situazione è grave”. È il commento di Marco Staderini (Radicali) alla riforma della giustizia, in diretta a Tgcom24. E sul tema dell’amnistia aggiunge: “Il problema sarà l’opposizione demagogica di Lega e Idv che sbandiereranno la messa in libertà di detenuti. Di fatto noi siamo convinti che l’amnistia sia l’unico modo plausibile per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. L’amnistia non è rivolta solo alle condizioni disumane de detenuti e delle guardie carcerarie, bensì alla bancarotta del sistema italiano, diminuendo l’enorme numero dei processi”. Mantovano-Crosetto (Pdl): meno sicurezza con svuota carceri È calato il livello di sicurezza nel primo mese di applicazione del cosiddetto decreto svuotacarceri. Lo rilevano i deputati Alfredo Mantovano e Guido Crosetto (Pdl), che hanno presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, e al ministro della Giustizia, Paola Severino. Nei primi 30 giorni di applicazione delle nuove misure, in particolare quella che reintroduce le camere di sicurezza per i gli arrestati in flagranza di reato, c’è stato, secondo i due parlamentari, “un calo del numero degli arresti in flagranza, preferendosi al loro posto la denuncia a piede libero; quindi, un corrispondente calo del livello di sicurezza, derivante dalla permanenza in libertà di persone che, nel contesto normativo antecedente, sarebbero state tratte in arresto; a ciò si aggiunge il disagio nel dover comunque organizzare ex novo il servizio delle camere di sicurezza, distogliendo risorse umane e finanziarie dai compiti propri delle forze di polizia, in un momento in cui i tagli impongono l’uso più razionale delle risorse medesime”. Per questo Mantovano e Crosetto chiedono ai due ministri informazioni con riferimento: al confronto fra il numero degli arrestati in flagranza nel primo mese di applicazione e il numero degli arrestati nel mese precedente; al numero delle camere di sicurezza oggi disponibili e alle condizioni nelle quali si trovano; alle spese finora sostenute per tale allestimento e a quelle che si prevede debbano sostenersi per la piena funzionalità del nuovo sistema; al numero di unità di Polizia di Stato e di Carabinieri impegnati quotidianamente per la sorveglianza e per la funzionalità delle camere di sicurezza, dal momento dell’entrata in vigore del decreto, e ai compiti dai quali per tale impiego sono stati sottratti. Giustizia: i detenuti di Sollicciano al ministro Severino: “non siamo numeri da macello Redattore Sociale, 24 gennaio 2012 In un discorso al ministro della giustizia Severino, i reclusi di Sollicciano hanno espresso le loro ragioni: “Negli istituti di pena si muore. Condizioni vergognose e disumane. Abbiate la coscienza di prendere la cosa sul serio”. “Per favore, abbiate la coscienza di prendere la cosa sul serio, non siamo numeri da macello ma ci sentiamo esseri umani”. Si conclude così uno degli appelli rivolti questo pomeriggio dai detenuti di Sollicciano al ministro della giustizia Paola Severino. Bruciano ancora, tra i reclusi dell’istituto penitenziario fiorentino, i due suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno. “Negli istituti di pena si muore - hanno spiegato i detenuti al ministro - Le condizioni vergognose e disumane che ognuno deve affrontare sono per molti croci troppo pese da portare. Quando si arriva a tanto ci si deve chiedere il perché. Tutti voi dovete riflettere sulle ragioni, magari quelle persone avevano bisogno di un’attenzione maggiore, di applicargli pene alternative o poterle far andare in strutture più idonee. Quando in un posto di muore, si sta male, si lotta per non impazzire, lo Stato e chi lo rappresenta devono assumersi le responsabilità di essere arrivati a un punto di non ritorno. Tocca però a voi dimostrare il contrario, senza però i soliti discorsi che si sciolgono come neve al sole”. Giustizia: Carfagna (Pdl); basta con bambini che crescono nei penitenziari Adnkronos, 24 gennaio 2012 “Ha ragione il ministro della Giustizia, Paola Severino, a sostenere che è straziante veder crescere bambini, cioè esseri innocenti per definizione, in carcere”. Così Mara Carfagna, deputato Pdl, in merito alle dichiarazioni del Guardasigilli in visita al nido del carcere di Sollicciano. “Proprio per cercare di mettere fine a questa situazione, penosa per mamme e figli - sottolinea Carfagna - il precedente governo, grazie all’allora ministro Angelino Alfano, ha chiesto al Parlamento di approvare una legge che permetterà alle madri di scontare la pena insieme ai loro figli in strutture apposite, fuori dalle carceri. Le strutture destinate alle madri detenute, grazie a questa legge, dovrebbero entrare in funzione, laddove non ci sono già, a gennaio 2014”. “Se il ministro proporrà una soluzione che consenta di anticipare l’entrata in vigore della nuova disciplina, troverà certamente l’appoggio mio e del Popolo della libertà”, conclude la parlamentare Pdl. Terre Des Hommes: bimbi rischiano fino a 6 anni L’organizzazione Terre des Hommes afferma di condividere le commosse parole di rammarico espresse dal ministro della Giustizia Paola Severino sulla condizione dei bambini in carcere detenuti con le madri e chiede che venga al più presto stilato il regolamento di attuazione della nuova legge 62/2011 per scongiurare il rischio che bambini rimangano all’interno del carcere anche fino ai 6 anni. “Questo rischio, infatti, ci è stato paventato da operatori di diverse strutture detentive, in quanto la legge approvata - dichiara Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes, - non impedisce alle mamme detenute con figli al di sotto dei 6 anni di permanere in carcere anche in via cautelativa, come più volte evidenziato dalla nostra organizzazione. Al fine di rendere più certo e protetto il destino di questi bambini, chiediamo che sia approvato quanto prima il regolamento di attuazione della nuova legge, così che possano essere chiariti i requisiti delle case famiglia protette che dovrebbero accoglierli insieme alle madri. La presenza di bambini in strutture penitenziarie è in evidente contrasto con la Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia, nonché con la nostra Costituzione”. Terre des Hommes confida pertanto che il ministro Severino provveda al più presto a colmare le lacune della legge. Giustizia: Bagnasco (Cei): detenuti non sono vite a perdere, affrontare emergenza Italpress, 24 gennaio 2012 “Ci permettiamo, proprio nella nostra veste di Pastori, di sottolineare, fra le molte istanze, la necessità di approntare un piano carceri che sia degno di un Paese della nostra tradizione giuridica e umanistica. Anche un solo suicidio, che avvenga per le condizioni disumane cui sono soggetti i carcerati, è di troppo”. Così il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella sua prolusione per l’apertura della Conferenza episcopale italiana, che aggiunge: “Non è vero, e non si può pensare che quelle dei carcerati siano vite a perdere. Se un pensiero simile dovesse albergare nella coscienza di un solo cittadino sarebbe una sconfitta per tutti”. Di Giovan Paolo (Pd): accogliere appello Bagnasco “Mi auguro che l’appello del cardinale Bagnasco sia accolto. Il governo Monti ha dimostrato di voler affrontare questo nodo. Bisogna però fare passi in avanti anche sul fronte della tutela della salute di chi è in carcere”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum della Sanità Penitenziaria. “L’impegno della Chiesa a favore dei carcerati è quotidiano - continua Di Giovan Paolo - Mi aspetto il decreto svuotacarceri proceda velocemente. A questo va accompagnato il ripristino del tavolo per la salute in carcere, coinvolgendo non solo i ministeri della Giustizia e della Salute ma anche le regioni”. Piemonte: Radicali continuano sciopero fame e visite ispettive nelle carceri Ansa, 24 gennaio 2012 I radicali continuano la loro campagna di sensibilizzazione sulle condizioni dei carceri piemontesi: oggi una delegazione ha compiuto delle visite ispettive nelle carceri di Asti e di Alessandria mentre Salvatore Grizzanti e Igor Boni, segretario e presidente dell’associazione radicale Adelaide Aglietta continuano lo sciopero della fame per sollecitare la Regione Piemonte a nominare il Garante dei detenuti, come previsto dalla legge regionale del 2 dicembre 2009. Oggi inoltre, un folto gruppo di consiglieri del Comune di Torino, ha presentato un ordine del giorno - primo firmatario il radicale Silvio Viale, secondo il sindaco Piero Fassino, in tutto sono 26 - proprio per ‘invitare il Consiglio regionale a provvedere al più presto alla nomina del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale ai sensi della legge regionale del 2 dicembre 2009’. Nel corso delle loro visite ispettive di oggi, i radicali hanno sottolineato come le situazioni nelle carceri di Asti e di Alessandria siano leggermente migliorate in quanto a numero di detenuti: ad Asti i detenuti sono passati dagli 385 dell’ anno scorso ai 315 attuali, ad Alessandria da 413 a 388. Inoltre ad Asti sono arrivati 25 agenti in più. Domani mattina una delegazione visiterà il carcere delle Vallette di Torino. Incontro con presidente del Consiglio regionale Cattaneo Potrebbe sbloccarsi domani la situazione in Piemonte, dove i radicali Salvatore Grizzanti e Igor Boni stanno facendo da 10 giorni lo sciopero della fame per chiedere che la Regione nomini il Garante dei detenuti: il presidente del Consiglio regionale, Valerio Cattaneo ha infatti reso noto oggi di volerli incontrare domani. “Ringraziamo Cattaneo e ci auguriamo che finalmente si sblocchi la situazione”, hanno detto oggi i radicali al termine di una serie di visite ispettive nelle carceri piemontesi. Boni e Grizzanti, insieme al senatore Marco Perduca e al presidente dei radicali italiani, Silvio Viale, hanno poi reso noto oggi alcuni dati relativi alle carceri visitate sottolineando “come ci sia stato, negli ultimi mesi, un leggero miglioramento per quanto riguarda il numero dei detenuti” passato ad Asti da 376 a 315 a fronte di una capienza prevista di 207, ad Alessandria da 413 a 388 contro i 263 posti previsti, a Torino da 1.554 a 1.522 (1.092 posti previsti). Bolzano: rivolta dei detenuti, nessun ferito ma celle seconda sezione inagibili dopo incendi Ansa, 24 gennaio 2012 Un gruppo di detenuti del carcere di Bolzano ha messo in atto una rivolta che ha reso necessario l’intervento di una settantina di uomini delle forze dell’ordine. Non sono nuove le proteste nella casa circondariale, cronicamente sovraffollata, ma questa volta si è sfiorata la tragedia. Sei celle sono state completamente distrutte dalla rabbia dei carcerati e dalle fiamme. Una ventina di detenuti sono così dovuti essere spostati in altri carceri per mancanza di spazio a Bolzano. Non vi sono stati feriti. Il carcere, una fatiscente costruzione un po’ nascosta tra il comando provinciale dei Carabinieri in via Dante e i prati del Talvera, risale all’Ottocento. Concepito al tempo degli austriaci per 80 detenuti, ne ospita 130. La protesta ha avuto iniziato alle 15 e consisteva nell’appiccare piccoli focolai e fare rumore con pentolini alle grate delle finestre. Gli agenti penitenziari sono riusciti a calmare gli animi, invitando i detenuti a redigere un promemoria. La situazione sembrava sotto controllo, ma poco dopo è degenerata. “A questo punto - ha riferito la direttrice del carcere Anna Rita Nuzzaci - abbiamo dato l’allarme e chiesto l’intervento delle forze dell’ordine”. Sul posto sono intervenuti polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria. “La situazione - ha detto il questore Dario Rotondi - è velocemente tornata sotto controllo”. La rivolta ha interessato la seconda sezione del carcere. I detenuti hanno incendiato indumenti, hanno spaccato finestre e distrutto i bagni. Per spegnere le fiamme son dovuti intervenire i vigili del fuoco. I detenuti sono poi stati raggruppati nel cortile del carcere e sottoposti a un primo controllo medico. Per venti detenuti si è reso necessario il trasferimento in altri carceri, perché le loro celle erano ormai inagibili e il carcere di Bolzano comunque già sovraffollato. La Provincia di Bolzano da tempo si sta impegnando per trovare una alternativa al carcere di Bolzano. Un’ intesa, siglata un anno fa dall’Amministrazione penitenziaria e dal governatore Luis Durnwalder, prevede infatti una nuova struttura nei pressi dell’aeroporto, con una capienza di 220 posti e con una sezione femminile. Il nuovo carcere costerà una sessantina di milioni di euro e sarà realizzato dalla Provincia di Bolzano, che in permuta riceverà la vecchia struttura nel centro storico della città. Garante: detenuti scossi, seconda sezione inagibile “Molti detenuti del carcere di Bolzano sono ancora molto scossi dopo la rivolta di ieri pomeriggio. Anche chi non ha partecipato, ha comunque assistito all’intervento delle forze dell’ordine e ha respirato il fumo acre dei focolai appiccati”. Lo ha detto Franca Berti, garante per i diritti dei detenuti della casa circondariale di Bolzano. Come ha riferito la psicologa, la sezione 2, nella quale è avvenuta la rivolta, “è tuttora inagibile, manca la luce, manca tutto”. Per questo motivo sono stati sospesi tutti i corsi professionali per i detenuti che dovrebbero permettere un reinserimento nel modo del lavoro dopo la loro scarcerazione. Visto che i lavori per il nuovo carcere a Bolzano sud devono ancora iniziare, Berti auspica “a breve l’applicazione della legge del governo Monti che prevede la possibilità di misure alternative fino a 18 mesi di pena”. Trasferiti 68 detenuti Dopo i disordini scoppiati nel carcere di Bolzano, 68 detenuti della seconda sezione, dove si è originata la protesta, sono stati trasferiti tra le case circondariali di Trento, Vicenza e Verona per metterli in sicurezza. La misura, che si è resa necessaria a tutela della salute dei detenuti, è stata decisa dal capo del Dap, Franco Ionta, dopo che le fiamme di un principio di incendio avevano creato fumo e disagi all’interno della sezione. Sappe: rivolta testimonia drammatica situazione “La rivolta accaduta nel pomeriggio nel carcere di Bolzano testimonia drammaticamente la situazione nella quale versano gli Istituti penitenziari italiani”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, commentando la rivolta di una cinquantina di detenuti scoppiata nel pomeriggio nel carcere di Bolzano. I reclusi hanno appiccato alcuni fuochi in una sezione. Dopo l’intervento delle forze di polizia, che hanno circondato il penitenziario, la situazione è tornata alla normalità. “È ora che tutti - attacca Capece, a cominciare dai vertici nazionali e regionali dell’Amministrazione penitenziaria, abbiano piena consapevolezza del problema ed affrontino l’emergenza in atto con provvedimenti seri e concreti, certo non varando disposizioni allo stato improponibili come la classificazione dei detenuti secondo codici colorati di pericolosità e il permettere loro di girare liberamente nelle strutture detentive, oggi tutte sovraffollate e nel contempo spesso fatiscenti”. Un classico esempio - dice il segretario generale del Sappe - di come la pratica - fatta di rivolte, aggressioni, suicidi e tentativi di suicidio, risse, evasioni e tensioni continue nelle carceri italiane, con i poliziotti penitenziari in prima linea a contrastare la violenza di una parte, ancorché minoritaria, di detenuti - sia ben altra cosa rispetto alla teoria. Forse i vertici del Dap non hanno ben chiara la situazione o sono colpevolmente distratti. E intanto le carceri sono ogni giorno sempre più incandescenti sono i profili della sicurezza”. Capece rinnova alcune proposte del Sappe: “Oggi la polizia penitenziaria ha carenze organiche quantificate in più di settemila unità. Abbiamo bisogno di una nuova politica della pena. Bisogna ripensare il carcere e l’istituzione penitenziaria, favorendo un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici”. “Rendiamo concreta - propone ancora Capece - la possibilità che i detenuti stranieri (come i rivoltosi di Bolzano) scontino la pena nelle carceri del proprio Paese d’origine. Ancora: circa 20mila degli attuali detenuti sono condannati a pene inferiori a tre anni. Questi detenuti con pena inferiore ai tre anni potrebbero essere affidati ai servizi sociali e impiegati in lavori socialmente utili. Mi sembra che il governo Monti, con il ministro Guardasigilli Severino, voglia affrontare questa grave criticità nazionale. Ma si faccia qualcosa, altrimenti - conclude il segretario generale del Sappe - rischiamo davvero l’implosione delle carceri italiane”. Uil: medici in ostaggio, poi rilasciati Nel carcere di Bolzano è in corso da circa un’ora una rivolta messa in atto dai detenuti allocati alla seconda sezione dell’istituto penitenziario. Lo rende noto la Uil Penitenziari, spiegando che “oltre ad una rumorosissima battitura ed all’incendio di materassi ci giunge notizia che in tale sezione è stato bloccato anche personale medico. L’intervento di un assistente capo della Polizia penitenziaria ha favorito il rilascio dei medici bloccati dai rivoltosi”. “Anche se non siamo in grado di riferire notizie ufficiali - dice Eugenio Sarno, segretario del sindacato - è desumibile che la rivolta sia scoppiata per le indegne, inumane ed incivili condizioni strutturali del carcere bolzanino, tra l’altro già denunciate con nettezza dallo scrivente attraverso una relazione redatta a seguito della visita effettuata in data”. “Questo ennesimo evento critico è uno dei tanti segnali che rilevano la prossima implosione del sistema penitenziario. Domani quindi con la discussione del decreto presentato dal Ministro Severino la politica ha una delle ultime occasioni per testimoniare un impegno concreto sul caldissimo fronte delle nostre carceri. Ancora una volta sollecitiamo, supplichiamo, il potere legislativo di fare presto e bene. Oramai ogni istituto è una polveriera pronta a deflagrare e le conseguenze - conclude Sarno - non potranno non pesare su chi non ha saputo, politicamente, impedirne l’esplosione”. Firenze: Opg Montelupo ancora invivibile, non rispettato ultimatum Commissione Sanità Redattore Sociale, 24 gennaio 2012 L’ospedale psichiatrico giudiziario fiorentino non si è adeguato agli standard prescritti dalla Commissione Sanità (l’ultimatum scade il 27 gennaio). La struttura rischia i sigilli. La direzione chiede una proroga. L’Opg di Montelupo non ha ripristinato le condizioni minime di vivibilità, così come aveva richiesto, sei mesi fa, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sanità presieduta dal senatore Ignazio Marino dopo un sopralluogo a sorpresa nella struttura. L’ultimatum di Marino scade fra tre giorni, il 27 gennaio, giorno in cui, secondo quanto prescritto sei mesi fa, l’ospedale dovrebbe essere messo interamente sotto sequestro in caso di mancato adeguamento agli standard ordinati. Dalla direzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario fanno sapere che “non siamo nelle condizioni di dar seguito alle prescrizioni della Commissione”. Ecco perché la direzione dell’Opg ha formulato una richiesta di proroga per l’adeguamento delle condizioni. Nei giorni scorsi i Nas e la Commissione d’inchiesta sulla sanità hanno effettuato alcuni sopralluoghi nella struttura, verificando che nulla di sostanziale è cambiato rispetto a sei mesi fa, quando vennero messi i sigilli a una parte della sezione Ambrogiana, giudicata fatiscente sotto il profilo igenico-sanitario. A questo punto, potrebbero scattare i sigilli a tutto l’Opg, come previsto dalle prescrizioni della Commissione, ma è probabile che, visto l’emendamento del ministro Severino sulla chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013, si possa lasciare tutto invariato per un anno. Con buona pace degli internati. “Non riusciamo ad assicurare il rispetto degli standard minimi - spiega la direttrice dell’Opg Antonella Tuoni - perché la struttura è ancora sovraffollata e perché i nuovi spazi che prevedevamo di rendere utilizzabili, sono ancora inagibili in quanto non sono stati completati i collaudi e deve essere adeguato l’impianto di riscaldamento”. Per quanto riguarda le sezioni più vecchie, “sono stati ripristinati i presidi antincendio ed è stato predisposto l’impianto di areazione, ma sono interventi di natura impiantistica” che non rispondono complessivamente alle richieste della Commissione. Secondo la dottoressa Tuoni, oltre alla carenza di fondi, “il problema principale rimane la carenza di personale sanitario”. “Anche se riuscissimo ad adeguare tutti gli spazi - spiega - verrebbe comunque a mancare l’assistenza sanitaria ai pazienti”. Per fronteggiare tutti questi problemi, la direttrice Tuoni ha “richiesto alla direzione sanitaria di avanzare una proposta di riorganizzazione per aumentare il personale sanitario” e, contestualmente, ha chiesto “la costituzione di tavolo tecnico che coinvolga tutte le istituzioni per arrivare ad una soluzione organizzativa e gestionale sostenibile e in linea con le prescrizioni”. Chiesta proroga anche a Barcellona Pozzo di Gotto Anche l’ospedale psichiatrico giudiziario messinese ha richiesto alla Commissione Marino di posticipare l’ultimatum per ripristinare le condizioni minime di vivibilità. Anche l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, non ha rispettato l’ultimatum della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sanità presieduta dal senatore Ignazio Marino che, sei mesi fa, aveva prescritto il ripristino delle condizioni di vivibilità nella struttura, pena il sequestro. È quanto si evince dalla richiesta di proroga delle scadenze formulata alla Commissione da parte della direzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario siciliano. “A Barcellona Pozzo di Gotto ci sono le situazioni peggiori” aveva detto Marino all’indomani del sopralluogo a sorpresa nell’opg messinese, dove gli internati, spiegò il senatore del Pd, “vengono tenuti legati ai letti con un buco per la caduta degli escrementi”. Durante l’ispezione dello scorso 11 giungo, fu trovato un malato in contenzione (legato al letto). Secondo quanto riferì Marino, la struttura “non ha niente dell’ospedale”. Pistoia: tavolo istituzionale per sovraffollamento carcere di Santa Caterina Agenparl, 24 gennaio 2012 Tenere alta l’attenzione sulle problematiche dei detenuti del carcere di Santa Caterina in Brana. È questo l’obiettivo di Comune, Provincia, Asl e “Cittadini anche in carcere”, i cui rappresentanti si sono riuniti nei giorni scorsi. Per la prima volta l’assessore comunale ai servizi sociali Paolo Lattari, la dirigente del servizio politiche attive del lavoro e politiche sociali della Provincia Anna Pesce, Luigi Rossi direttore della Società della Salute Pistoiese e referente per la salute in carcere della Asl 3 e alcuni componenti del coordinamento di “Cittadini anche in carcere” hanno parlato del sovraffollamento nel penitenziario di via dei Macelli, oltre alla situazione sanitaria e ai diritti dei detenuti. “Il nostro obiettivo - sottolinea l’assessore Paolo Lattari - è di dar vita ad un tavolo di lavoro da convocare, con cadenza mensile, per monitorare le condizioni nelle quali versa la casa circondariale pistoiese e verificare quali azioni le istituzioni possono mettere in pratica per migliorare le condizioni di vita dei detenuti”. “Ogni iniziativa attivata sul tema è importante e ben venga in questo contesto l’azione messa in campo dal Comune - commenta il presidente della Provincia Federica Fratoni - contemporaneamente la Provincia sta lavorando alla conclusione dell’iter procedimentale per l’attivazione di iniziative formative e politiche attive del lavoro all’interno del carcere e, a tal fine, presenteremo al tavolo provinciale la convenzione che a breve andremo a sottoscrivere con il carcere stesso”. “La salute in carcere - sottolinea il direttore della Società della Salute Luigi Rossi - è garantita dal Ssr, al pari di tutti i cittadini, per i livelli essenziali di assistenza (Lea), comprendenti la medicina di base, l’intervento sulle tossicodipendenze, l’assistenza farmaceutica, la vigilanza sull’igiene e la prevenzione. Costruire un tavolo istituzionale dove poter affrontare i temi relativi alla salute dei detenuti e alle condizioni delle strutture e dei servizi offerti, appare una opportunità di lavoro di estrema importanza e una necessità impellente”. “Il coordinamento Cittadini anche in carcere - afferma la responsabile del coordinamento Cittadini anche in carcere Nila Orsi - accoglie con favore la rinnovata disponibilità di Comune, Provincia e Asl di dar vita ad incontri con cadenza temporale per tenere alta l’attenzione sui problemi dei detenuti. Si tratta di un primo passo importante per intraprendere un percorso il cui obiettivo finale è di poter far vivere i carcerati in condizioni un pò più umane perché a oggi le carceri in Italia rappresentano la vergogna di uno Stato che voglia dirsi democratico”. Milano: Sappe; a San Vittore aggredito un agente della Polizia penitenziaria Comunicato stampa, 24 gennaio 2012 “La situazione penitenziaria è sempre più incandescente, lo denunciamo ormai da molti mesi nella più silente indifferenza. Ogni giorno registriamo manifestazioni e proteste di detenuti sempre più violente. Le istituzioni e il mondo della politica non possono più restare inermi e devono agire concretamente. Dopo gli episodi di protesta e violenza avvenuti negli ultimi giorni in diversi penitenziari del Paese - la rivolta a Bolzano, la maxi rissa a Fossano, la violenta aggressione di Barcellona Pozzo di Gotto ad un nostro Ispettore, al quale è stato staccato con un morso la falange di un dito della mano, solo per citarne alcuni - registriamo una nuova aggressione ieri a Milano San Vittore (un carcere sovraffollato e con gravi carenze di organico nel Reparto di Polizia) dove un detenuto straniero ristretto al VI Raggio ha proditoriamente aggredito un Agente della Polizia Penitenziaria in servizio, ai quali va tutta la nostra solidarietà e vicinanza, procurandogli lesioni e ferite varie guaribili in 5 giorni. Una aggressione violenta ed ingiustificata: la frequenza di questi gravi episodi un po’ in tutta Italia ci allarma, tanto più che essa avviene a pochi giorni da un’analoga aggressione ad una poliziotta nel carcere di Bollate e dall’evasione di una detenuta dall’istituto a custodia attenuata per madri detenuti di Milano”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione all’ennesima aggressione di un appartenente alla Polizia Penitenziaria, avvenuta nel carcere di Milano San Vittore. Capece aggiunge: “Il collega aggredito gestiva contemporaneamente 2 piani detentivi con una presenza di 130 detenuti, prevalentemente stranieri. Non solo: il VI Raggio, dove lui era in servizio, ospita complessivamente 550 detenuti di cui 98 protetti, 5 sorvegliati a vista (da 2 soli agenti!), 2 ad Alta sicurezza: tutto questo controllato da soli 5 Agenti! Sgomenta peraltro constatare la frequente periodicità con cui avvengono queste aggressioni. Credo servano provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse, anche per impedire un pericoloso effetto emulativo. In una situazione di emergenza, come è quella attuale, servono provvedimenti straordinari. Noi, come Sindacato della Polizia Penitenziaria, abbiamo proclamato lo stato di agitazione dei Baschi Azzurri del Sappe in servizio a Milano e in Lombardia. Certo, se non si adottano provvedimenti concreti per fronteggiare l’emergenza penitenziaria, come ad esempio necessari provvedimenti deflattivi, c’è il serio rischio che nelle prossime settimane le già surriscaldate carceri diventeranno roventi, con i soli poliziotti penitenziari - sempre più sotto organico - nella prima linea delle sezioni detentive a gestire le tensioni e le situazioni di pericolo. Milano San Vittore è un penitenziario in cui il 31 dicembre scorso erano presenti 1.600 detenuti rispetto ai circa 700 posti letto regolamentari e in cui mancano circa 250 agenti dagli organici della Polizia Penitenziaria”. Messina: Sappe; aggressione ad assistente Polizia penitenziaria e problematiche varie… Comunicato stampa, 24 gennaio 2012 Ieri 23 gennaio 2012 un assistente di Polizia Penitenziaria è stato improvvisamente aggredito da un detenuto ristretto al cosiddetto “Reparto Medicina” del carcere di Messina. Il collega, nel pieno svolgimento delle proprie mansioni, nel chiudere una cella, è stato improvvisamente e letteralmente preso per il collo, col chiaro tentativo di strangolarlo. Solo la prontezza di riflessi ha consentito all’assistente di svincolarsi ed evitare il peggio, ma che non ha impedito, purtroppo, la necessità delle cure del pronto soccorso del vicino policlinico, ove appunto sono state riscontrate delle “lesioni a livello della regione laterale del collo da tentativo di strangolamento” e “contusione spalla SX con ematoma”. Tutto ciò, rientra in un’escalation di eventi critici che oltre a destabilizzare ordine, sicurezza e disciplina, comportano anche delle conseguenze al personale sia sul piano fisico che psichico, in quanto, oltre a dover espletare l’attività lavorativa in condizioni critiche e disagiate, vi è la conseguenza sul lato umano, con ripercussioni anche nel contesto familiare ed affettivo. Si pensi che solo qualche giorno fa, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, un internato ha aggredito un Ispettore di Polizia Penitenziaria, strappandogli letteralmente con un morso la falange del dito mano destra! Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe esprime piena solidarietà al collega aggredito a Messina. Contestualmente, giova ricordare come negli ultimi anni il Sappe abbia particolarmente monitorato la Casa Circondariale di Messina, ricevendo il più totale ed assordante silenzio da parte degli organi competenti per risolvere alcune tematiche, in particolar modo un sovraffollamento di detenuti che attualmente supera i 400 presenti, ovvero il doppio della capienza regolamentare. Ma ancora più grave è la carenza di personale di Polizia Penitenziaria, più volte denunciata a tutti i livelli ed anche attraverso manifestazioni, ma che a nulla sono valse. Il personale è particolarmente stressato pur di garantire livelli minimi di sicurezza. Non dimentichiamo che alla Casa Circondariale di Messina vi è una carenza di uomini di oltre 100 unità; a queste si aggiungono ulteriori 23 unità necessarie per l’apertura del reparto detentivo presso l’azienda ospedaliera “Papardo” di Messina, a tutt’oggi chiuso proprio per la “diffida all’apertura” che dovrà avvenire solo ed esclusivamente dopo l’invio di adeguato numero di personale. L’occasione è propizia per denunciare ancora una volta la circostanza che il Dap, tra l’anno 2006 e 2007 aveva previsto, con apposite lettere circolari, l’invio di 32 unità in totale presso la Casa Circondariale di Messina. Unità che misteriosamente non sono mai pervenute e di contro si sono avute almeno dieci unità poste in quiescenza. Le esigenze della Casa Circondariale di Messina non possono più essere rinviate, pertanto è stato chiesto dal Sappe al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sicilia Maurizio Veneziano un concreto intervento che garantisca un adeguato sfollamento di detenuti, con priorità proprio per i soggetti che destabilizzano il buon andamento dell’Istituto, per il quale non è tollerabile una loro permanenza allor quando si rendono protagonisti di simili episodi. Altresì, è risaputo che quotidianamente giungono richieste al Prap di integrazione di unità per poter garantire le traduzioni dei ristretti nei vari Palazzi di Giustizia, quindi con dispendio di risorse economiche e che comunque non sono mai sufficienti per poter garantire tutta la movimentazione del Nucleo Provinciale. Naturale conseguenza è il dover distogliere sistematicamente personale dal servizio interno dell’istituto, creando quindi malcontento e soprattutto livelli di sicurezza davvero minimi. Tra l’altro, a distanza di mesi, non si hanno ancora notizie sulla richiesta di disponibilità, in ambito regionale, di personale di Polizia Penitenziaria interessato ad essere distaccato presso il penitenziario messinese. Pertanto, è necessario un autorevole intervento del Provveditore Veneziano affinché si possa prevedere l’invio di un adeguato numero di unità di Polizia Penitenziaria che garantisca migliori condizioni lavorative e soprattutto la tanto invocata sicurezza, e consentire anche la riapertura del Reparto detentivo presso l’ospedale Papardo di Messina sul quale, si ribadisce e si riconferma, la diffida alla riapertura nei confronti della Direzione. Perugia: caso Bianzino; l’imputato “Aldo dormiva nel suo letto e non ha mai chiesto aiuto” di Francesca Marruco www.umbria24.it, 24 gennaio 2012 La notte in cui Aldo Bianzino morì nella sua cella del carcere perugino di Capanne, “nessuno chiese intervento medico, tantomeno Bianzino”. Lo ha detto lunedì mattina in aula l’unico imputato per omissione di soccorso, il sovrintendente della polizia penitenziaria Gianluca Cantoro. Il campanello mai suonato Cantoro, guidato dalle domande del pubblico ministero Giuseppe Petrazzini ha fornito alla corte una ricostruzione di quella strana notte del 14 ottobre 2007 in cui nessun detenuto suonò mai il campanello della sua sezione. Cantoro ha spiegato che in ogni cella c’erano due interruttori, uno per la luce e uno per suonare il citofono che squillava nella guardiola. Un citofono che smetteva di suonare solo se la guardia prendeva la chiamata. Un citofono molte volte suonato “per sbaglio” dai detenuti che invece “volevano accendere la luce”. Ma lui ha escluso categoricamente, il giudice Paolo Micheli glielo ha anche fatto ripetere, che quella notte qualcuno suonò. Nessuna stranezza Cantoro è accusato di non aver attivato i soccorsi necessari per salvare la vita di Aldo Bianzino, entrato in carcere due giorni prima e morto per una emorragia cerebrale. Ma lui dice di non aver ricevuto alcuna chiamata da Bianzino e di averlo visto sempre dormire sul suo letto. Cantoro ha anche riferito di come in una sezione del carcere, se c’è qualche detenuto che sta male e qualche altro detenuto se ne rende conto l’intera sezione si mobilita facendo rumore per far arrivare un sorvegliante. “Ma non prendete le chiamate di soccorso direttamente voi? Che bisogno hanno di far rumore?” chiede l’avvocato di parte civile Fabio Anselmo evidenziando una mezza contraddizione del resoconto di Cantoro. I registri poco puntuali Che comunque non si perde d’animo e per difendersi non esita a dire che anche quella sera ha annotato ispezioni prima che fossero state fatte e che le registrazioni in entrata e in uscita nel penitenziario non sono così rigide e puntuali come si crederebbe. Nel capo d’imputazione sta scritto anche che Cantoro non si vede passare in sezione dalle tre alle sette del mattino. “Io ho fatto i miei giri, i miei controlli, e le telecamere riprendono solo otto secondi ogni due minuti circa”. Possibile che sia passato sempre in quei due minuti circa. Bianzino dormiva nel letto E nei suoi controlli, che per legge deve fare per verificare che i detenuti siano tutti al loro posto, non ha notato nulla di strano né in Bianzino, che lui ha sempre visto “dormire nel suo letto” né nella sua cella, che verrà ritrovata con la finestra spalancata, nonostante fosse autunno inoltrato. Lui si sarebbe avveduto della morte di Bianzino solo dopo aver staccato il turno intorno alle otto di mattina, quando dalla caserma vede l’ambulanza. Solo allora viene a sapere che Aldo Bianzino, 43anni e nessun problema di salute era stato ritrovato morto a terra.Nudo. La richiesta della nuova perizia Bianzino è morto per una emorragia cerebrale. Non è chiaro se per aneurisma o per quale altro fattore scatenante. O meglio diversi correnti di pensiero mediche si sono scontrate sull’argomento. Per questo al termine dell’udienza i legali di parte civile, Fabio Anselmo, Massimo Zaganelli e Cinzia Corbelli hanno richiesto alla corte una nuova perizia medico legale. Per chiarire quando esattamente Aldo si è sentito male e se qualcosa si poteva fare. Alla richiesta si sono opposti avvocatura dello Stato e pubblico ministero che ha definito la richiesta come “estranea a questo processo”. I giudici, dopo un quarto d’ora di camera di consiglio hanno deliberato che decideranno solo alla fine dell’istruttoria, cioè il 27 febbraio prossimo. L’accusa dei figli Mentre i giudici erano in camera di consiglio, i figli di Aldo, Aruna, Elia e Rudra hanno diffuso questa nota: “Dopo che lo Stato ci ha restituiti nostro padre morto, quando viceversa stava benissimo prima del suo arresto, ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso. È incredibile che l’imputato non si è opposto alla richiesta di perizia sulla causa della morte di nostro padre. Si sono invece opposti proprio i massimi rappresentanti dello Stato, PM e l’avvocato del Ministero di Grazia e Giustizia. Noi denunciamo che se l’imputato non teme la perizia, la temono costoro. Ci chiediamo, in tutto ciò, dove sia l’interesse pubblico e della collettività”. Televisione: Speciale Tg7 “La casa di lavoro”, lunedì 30 gennaio su 7 Gold Asca, 24 gennaio 2012 In Italia c’è solo una Casa di lavoro e si trova a Saliceta San Giuliano, in provincia di Modena. Dentro ci sono gli internati, reclusi che dopo aver scontato la loro pena non vengono liberati perché considerati socialmente pericolosi. Ad oggi in tutta Italia gli internati sono alcune centinaia, la maggior parte divisi tra Saliceta e una sezione del carcere di Sulmona, in Abruzzo. Questo genere di “misura di sicurezza” fu introdotto dal regime fascista e non prevede un periodo massimo di detenzione. Per questo lo chiamano “ergastolo bianco”. Per la rubrica “Speciale Tg7” Alberto Maio è andato a Saliceta San Giuliano per capire come funziona una casa di lavoro. Lo Speciale Tg7 “La casa di Lavoro” (28’) - con interviste a operatori e internati della struttura; alla direttrice Federica Dallari; al magistrato di sorveglianza del Tribunale di Modena Roberto Mazza; al costituzionalista dell’Università di Bologna Tommaso Giupponi e alla garante dei detenuti Desi Bruno - andrà in onda lunedì 30 gennaio alle 00.45, dopo il Processo di Biscardi, su 7 Gold. Stati Uniti: l’Onu su Guantánamo; “delusione” per mancata chiusura e impunità Ansa, 24 gennaio 2012 “Profonda delusione” per il fatto che il governo degli Stati Uniti d’America non sia ancora riuscito a chiudere la struttura detentiva della baia di Guantánamo è stata espressa dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Navi Pillay. In una nota la Pillay ha espresso delusione per quello che viene definito un “radicato sistema di detenzione arbitraria” e si è detta “disturbata” dal fallimento nel garantire che i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani, compresa la tortura, commessi in quel posto siano chiamati a rispondere dei propri atti. “Sono passati dieci anni da quando il governo americano ha aperto il carcere di Guantanamo, e ne sono passati tre dal 22 gennaio 2009, quando il Presidente (Obama, ndr) ne ha ordinato la chiusura entro dodici mesi. Eppure, l’impianto continua ad esistere e ci sono individui che restano arbitrariamente detenuti - a tempo indeterminato - li dentro in chiara violazione del diritto internazionale “ ha detto l’Alto Commissario. “A peggiorare le cose - prosegue Navi Pillay - il nuovo National Defense Authorization Act, trasformato in legge nel dicembre del 2011, che ora codifica in modo efficace tale detenzione militare a tempo indeterminato senza accusa né processo. Questa legge viola alcuni dei principi fondamentali della giustizia e dei diritti umani, cioè il diritto a un processo equo e il diritto a non essere arbitrariamente detenuti. Nessuno dovrebbe mai essere incarcerato per anni e anni senza essere processato, condannato o rilasciato”. Pur riconoscendo il diritto-dovere degli Stati di proteggere il loro popolo, la Pillay ha ricordato agli Stati Uniti gli obblighi a cui sono chiamati a rispondere sulla base del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale: “bisogna garantire che le persone private della libertà possano contare su una verifica della legalità del loro arresto di fronte a un Tribunale. Dove esistono prove credibili nei confronti dei detenuti di Guantanamo, questi dovrebbero essere accusati e perseguiti. In caso contrario, devono essere rilasciati”. La Pillay ha poi ribadito con forza il dovere per il governo di Washington di indagare le denunce di tortura e maltrattamenti presentate da ex-detenuti o associazioni per la Difesa dei diritti umani e si è detta infastidita dalla mancata concessione del governo di consentire che esperti indipendenti dei diritti umani monitorassero le condizioni di detenzione all’interno di Guantanamo. In conclusione della nota diffusa ieri alla stampa, vengono riportati due articoli (il 2 e il 12) della Convenzione contro la tortura, ratificata dagli Stati Uniti nel 1994. Nell’articolo 2 si afferma: “nessuna circostanza eccezionale, sia uno stato di guerra o una minaccia di guerra, l’instabilità politica interna o qualsiasi altra emergenza pubblica, può essere invocata come giustificazione della tortura”. Gran Bretagna: nuove norme su droghe, niente carcere a chi consuma con amici Tm News, 24 gennaio 2012 Chi acquista droga per consumarla con gli amici potrà evitare il carcere, stando alle nuove linee guida sui reati per droga presentati oggi nel Regno Unito. La direttiva prevede anche, per la prima volta, che l’uso medico della cannabis venga riconosciuto come attenuante dalle corti di giustizia. Stando a quanto riportano i media, le autorità britannica hanno sollecitato anche pene meno severe per gli spacciatori, spesso donne costrette o sfruttare dalla criminalità organizzata, mentre hanno raccomandato severità contro quanti vendono droghe a minorenni o quanti sono coinvolti nella produzione industriale degli stupefacenti. La normativa indica quindi quattro grandi categorie utili a determinare se l’imputato abbia avuto un ruolo di guida, importante o minore nel traffico degli stupefacenti. La categoria più bassa comprende il possesso fino a 100 grammi di cannabis, 5 grammi di eroina o cocaina e 20 pasticche di ecstasy; la più alta prevede la commercializzazione su vasta scala della droga, con la prospettiva di grossi profitti e la copertura di un’attività imprenditoriale. Kirghizistan: centinaia protestano contro condizioni detenzione con bocca cucita Ansa, 24 gennaio 2012 Oltre 400 detenuti si sono cuciti la bocca in vari carceri dell’ex repubblica sovietica del Kirghizistan per protestare contro le condizioni di detenzione e chiedere libertà di movimento nei luoghi di custodia cautelare. Lo riferisce l’agenzia Interfax, citando il capo dei servizi penitenziari. Dal 2005 le prigioni kirghize sono ripetutamente oggetto di sollevamenti, scioperi della fame e atti di automutilazioni, generalmente per denunciare le pessime condizioni della vita carceraria, come ha riconosciuto anche il capo della commissione legislativa parlamentare. Le autorità kirghize accusano invece il crimine organizzato di orchestrare le rivolte carcerarie per assicurarsi il controllo sui traffici nei luoghi di detenzione.