Giustizia: no alla privatizzazione delle carceri voluta dal governo Monti di Patrizio Gonnella MicroMega, 23 gennaio 2012 Vecchia e brutta storia quella della privatizzazione delle carceri. Nata negli anni del reaganismo ha trovato terreno fertile in Inghilterra. In Italia dal 1999 in poi ci sono stati molti tentativi di togliere il monopolio pubblico della esecuzione della pena. Iniziò Piero Fassino, quando era Guardasigilli, a dare messaggi in questa direzione. Poi ci provò il leghista Castelli dando vita a una società, la Dike Aedifica, che doveva vendere carceri vecchie e comprare carceri nuove nonché fare affari penitenziari di varia natura. Non se ne fece nulla. Si avviarono le inchieste giudiziarie nei confronti dei consulenti edilizi del ministro ingegnere Castelli. Per la Corte dei Conti la società non esisteva, essendo stata illegalmente costituita. Poi Berlusconi, di rientro da un viaggio in Cile, disse che l’Italia avrebbe dovuto copiare il modello penitenziario privato cileno. A seguire fallì il tentativo di assegnare alla comunità di Muccioli una casa lavoro in Emilia. Nell’ultimo decennio sono stati annunciati leasing immobiliare e project financing. Venerdì scorso, pare che nel decreto liberalizzazioni, sia comparsa la seguente norma: “Al fine di realizzare gli interventi necessari a fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri, si ricorre in via prioritaria alle procedure in materia di finanza di progetto. È riconosciuta a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell’infrastruttura e per i servizi connessi, a esclusione della custodia, determinata in misura non modificabile al momento dell’affidamento della concessione. È a esclusivo rischio del concessionario l’alea economico-finanziaria della costruzione e della gestione dell’opera. La concessione ha durata non superiore a venti anni”. Una norma pericolosa, non conforme alla mission costituzionale del sistema penitenziario, inaccettabile dal punto di vista del diritto interno e internazionale. Dal 1990 le Nazioni Unite condannano quei Paesi, Usa in primis, che hanno adottato programmi selvaggi di privatizzazione. I diritti umani in quelle carceri sono considerati un optional accidentale. Nessuno può mettere naso nei bilanci e nelle politiche delle multinazionali della sicurezza. Sono ricomparsi i lavori forzati nel nome del lucro dei carcerieri. Le politiche penali le fanno le società private che hanno bisogno di detenuti per riempire le loro galere. Così negli Usa siamo arrivati a 2 milioni di prigionieri. Ora anche in Italia compare una norma che conferisce ai privati la possibilità di costruire un carcere e gestirlo, previa concessione governativa. Ovviamente un imprenditore fa un investimento del genere se sa che poi quel carcere si andrà a riempire. E dalla gestione della prigione che quell’imprenditore ci guadagna denaro. Le politiche penali messe nelle mani della cricca non sono proprio una bella cosa. In questo modo il sovraffollamento esploderà nel nome del profitto. Giustizia: galera sì, galera no… di Fabio Marcelli Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2012 Marco Travaglio torna sulla questione dell’indulto rispondendo a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone che svolge una meritoria opera di monitoraggio sullo stato disastroso delle carceri italiane e la costante violazione dei diritti fondamentali che ivi si consuma, e così facendo apporta qualche sostanziale chiarimento al suo pensiero in materia. La questione mi sembra importante, non perché si tratti di solleticare istinti repressivi ma perché lo strumento penale, ivi compresa l’irrinunciabile, al momento, componente carceraria, costituisce parte integrante di ogni apparato statale degno di questo nome. Il problema è come usare questo strumento. La legge e, soprattutto, la Costituzione e anche la folta rete di accordi internazionali di cui il nostro Paese è parte offrono a tale riguardo alcuni orientamenti fondamentali. La questione è, anzitutto, quella di garantire degne condizioni di vita a tutti i reclusi. Infatti, il diritto internazionale dei diritti umani - seppure non rispettato da alcuni Stati-guida, a cominciare dagli stessi Stati Uniti d’America, che continuano a mantenere in piedi la vergogna di Guantanamo (territorio, sia detto per inciso, sottratto a Cuba in modo internazionalmente illecito) - impone il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone incarcerate, quale che sia il motivo della loro incarcerazione, la durata massima della detenzione preventiva, il divieto della tortura ma anche di trattamenti disumani e degradanti. Non v’è dubbio che in quest’ultimo concetto rientrino, come più volte sottolineato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, organo del Consiglio d’Europa, le condizioni di vita davvero indegne di un Paese civile imposte ai reclusi per effetto del sovraffollamento carcerario. Non è tollerabile che in Italia, come afferma proprio il Rapporto “Prigioni malate”, redatto da Antigone, vi siano 67.428 detenuti per un totale di 45.817 posti con un tasso di sovraffollamento del 147%, il più alto d’Europa dopo la Serbia, situazione insopportabile che fra l’altro determina un suicidio ogni cinque giorni fra i carcerati. Qual è dunque la soluzione? A mio avviso occorre modificare le leggi, limitando l’uso del carcere a crimini di effettivo allarme sociale. Da questo punto di vista ritengo che la proposta di Travaglio di escludere da determinati benefici coloro che si rendano colpevoli di crimini di corruzione, mafia, finanziari e fiscali vada nella giusta direzione. Si tratta infatti di soggetti particolarmente spregevoli, per la condizione di privilegio in cui operano, e per il danno inestimabile che arrecano al Paese, specie in un momento di crisi come l’attuale, laddove la corruzione, per non parlare delle mafie, si stima costi a noi tutti somme ben maggiori di quelle che il buon Monti si arrabatta a raggranellare scippandole ai poveri pensionati e lesinando i soldi per servizi essenziali, ovvero liquidando a prezzi spesso irrisori patrimoni comuni fondamentali. Va tenuto conto inoltre del fatto che sempre di più criminalità mafiosa e criminalità dei colletti bianchi si compenetrano, dato il carattere particolarmente sofisticato dei reati e l’intreccio fra mafie e finanza. Di questo dovrebbe prendere atto il Parlamento, non questo affollato di servi sciocchi e complici di mafiosi e camorristi, ovviamente, ma quello che prima o poi i partiti e Napolitano ci consentiranno finalmente di eleggere, a meno che pensino di soprassedere in eterno alla democrazia finanche nel suo aspetto rappresentativo. Altri reati viceversa assolutamente bagatellari, affollano le galere di poveracci, spesso migranti, pari a ben il 31,8% della popolazione carceraria complessiva, che hanno avuto spesso il solo torto di rientrare fra i bersagli delle leggi fasciste e razziste che portano i nomi di Fini, Bossi, Giovanardi e illustre compagnia cantante. Sono persone che dovrebbero essere immediatamente liberate, così come coloro che vanno in carcere per piccoli furti, spesso dovuti a questioni di sopravvivenza, come i pensionati che rubano nei supermercati e che i carabinieri, prima di dover arrestarli, invitano a cena o a pranzo. Il reato di clandestinità, poi, voluto dai nazirazzisti della Lega, dovrebbe essere immediatamente abolito, in omaggio fra l’altro agli spunti contenuti nella giurisprudenza costituzionale. Depenalizzare “reati” dovuti solo alla condizione sociale di chi li commette consentirebbe evidentemente di liberare molto spazio nelle galere, senza doverne costruire di nuove. E, mi permetto di aggiungere, non sarebbe neanche necessario dover espellere, operazione il più delle volte impossibile per i costi o per altri motivi, gli stranieri scarcerati. Basterebbe dotarsi di una politica di accoglienza degna di questa nome, la cui attuazione costituisce del resto un obbligo ben preciso del nostro Paese, così come in genere delle Potenze occidentali che hanno prosperato per secoli grazie al colonialismo e allo sfruttamento del Terzo Mondo. E nello spazio rimasto libero mettiamoci pure i criminali col colletto bianco, come suggerisce Travaglio. Il problema però è, ancora prima, poterli adeguatamente perseguire, grazie a forze di polizia e magistrati dotati entrambi dei necessari requisiti di professionalità, come peraltro già ne esistono e operano fortunatamente nel nostro Paese. Nei cortei degli anni Settanta si gridava: “Fuori i compagni dalle galere, dentro i padroni e le camicie nere”. Mutatis mutandis… Giustizia: l’amnistia non è l’unica soluzione per le nostre carceri di Giuseppe Mele L’Opinione, 23 gennaio 2012 Con quasi 70mila detenuti (66.897), l’Italia del 2012 si è avvicinata pericolosamente al numero di poco più di 70mila (73.330) del 1866 quando gli italiani erano meno della metà di oggi. Nel 1926 i detenuti erano soltanto 42.840 (142,8 ogni 100mila abitanti). Nel 1936 erano saliti a 45.185. Nel 1956 si erano dimezzati a 27.280, solo 68,2 per 100mila abitanti. Il dato rifletteva ancora l’amnistia Togliatti del 1946, che aveva ridotto di 10mila detenuti le carceri sovraffollate, il decreto Andreotti del 1948 che ne prolungò l’effetto, e l’amnistia Azara del 1953. Nel 1976 erano calati a 53,2 ogni 100mila, a 30mila effettivi sempre sotto l’effetto di altre amnistie, del 1966 e del 1070. Nella Repubblica, il colpo di spugna, cruciale per chi avesse piccoli problemi con la giustizia (fino ai 3-4 anni di reclusione), e per le anime pietose, passò sui casellari ben 7 volte in un mezzo secolo. Contando anche le amnistie del ‘78, ‘81 e ‘90, se ne aveva una ogni 6 anni. Era un metodo improprio per correggere l’errore di un sistema concepito come sistema assoluto, capace di perseguire obbligatoriamente ogni reato, di poter contare sempre su un numero adatto di adatti con la dovuta produttività, di trovare la verità vera e la giustizia giusta. Tra la voglia di sangue dei nemici politici per i quali giustizia era solo la morte dell’avversario, l’amnistia non era una soluzione strutturale, laica e moderna, ma un mezzuccio “da preti”. Non a caso la fine della Dc e del blocco laico suo alleato, avvezzo negli anni al compromesso, ha inaugurato gli anni ad alta detenzione, il 1996 con più di 50mila detenuti, il 2009 con 64mila, fino ai numeri di oggi. Paradossalmente è la pattuglia iper laica dei radicali, i sostenitori di uno Stato sempre coerente con se stesso, coloro che gridano all’illegalità, che vorrebbero correggerla con un altro atto fuori dalla norma: il cattolico miserere che non dichiara né colpevole né innocente ma umanamente conclude - lassamo perde. Il problema è che amnistia ha oggi il significato politico di rinunciare a perseguitare sul piano giudiziario gli esponenti del centrodestra ed insieme di aprire le porte agli immigrati rinchiusi per una serie di norme emanate nel tempo dalla Turco e dai Napolitano, Fini e Bossi. Come fu ai tempi dell’amnistia Togliatti dopo le mattanze di destra e di sinistra, i processi sommari per strada e quelli dei rispettivi Tribunali speciali, le parti contrapposte vorrebbero amnistia per sé e carcere per gli altri. Oggi non c’è un attore terzo, come fu il mondo cattolico all’epoca, a cercare di tirare una riga al loop infinito. L’unica amnistia il centrodestra ha ottenuto è quella strisciante delle prescrizioni penali, circa 200mila l’anno (4 volte di più rispetto alle 56mila del ‘96). Un’amnistia che lascia la vittoria morale a magistrati e giustizialisti con tutto l’uso politico che poi ne possono fare. Non è la prima volta che il mondo laico, nella sua logica intelligenza, si avviluppa su se stesso. Nel 1890 con il codice Zanardelli questa Italia laica, moderna e razionale abolì la pena di morte, facendo norma dell’amnistia generale del 1878 di Umberto I. La decisione chiudeva un’epoca, sanguinosa e terribile, in cui gli stessi legislatori, tanto pietosi con una mano, con l’altra grazie alla legge 1409/1863 Pica in un biennio avevano ucciso 14mila cosiddetti briganti meridionali di ogni età e sesso, civili e religiosi, deportandone altrettanti. La legge Pica, ovvero Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, introdusse il domicilio coatto e molte parole, tic ed interpretazioni, sopravvissute ai giorni nostri. Poiché le insurrezioni, spesso di ordine religioso, fiscale o di leva proseguirono per un decennio per spengersi solo con l’emigrazione di massa, la distruzione di villaggi e la resa alla forza bruta, probabilmente i laici sarebbero potuti arrivare alla conclusione che il Sud non approvava i metodi del governo centrale. Di tale dissenso non si accorsero neppure i deputati laici meridionali. Oggi che lo stesso Sud ha sviluppato ad arte le capacità di aggirare le norme sempre più severe dello Stato, e che ha divulgato in tutto il paese i relativi skill, ugualmente a capo della principale città meridionale siede un campione della legalità, del rigore morale e del carcere. A proposito, l’iter Zanardelli si è chiuso solo nel 2007 quando il divieto assoluto di pena di morte nell’ordinamento civile e militare penale italiano è divenuto norma costituzionale. All’attenzione delle cronache è lo stato disperante in cui versano i detenuti. I 206 istituti esistenti, come ha evidenziato Gianluca Perricone, dovrebbero a norma custodire 21mila persone in meno. Dato il numero di carcerati, anche se le 38 carceri in stato di completo abbandono fossero ripristinati, ne mancherebbero sempre altri 60. Ne esce un quadro contrastante. Da un lato lo Stato divenuto repressivo come e più di Bava Beccaris, dall’altro, il pressapochismo confusionario inguaribile della gestione pubblica. Le statistiche internazionali ci condannano per il primo aspetto. Credono all’incessante campagna della repressione in atto, dei rischi di costituzione di un regime tirannico che ha sempre imperversato sui media e che nell’ultimo decennio si è rivolta, prima dell’attuale crisi economica, prima ancora degli scandali sessuali, contro Berlusconi ed il suo governo. Anche l’attuale grido all’illegalità per le carceri, di cui sarebbero colpevoli Stato e società, rientra in questo tipo di campagna. All’estero non credono che uno Stato possa perdersi per strada le carceri come un’organizzazione senza né capo né coda. Ma malgrado l’ovvia pietà, le accuse di illegalità e di regime liberticida, non valevano ieri come oggi. Non in un mondo tutto in tendenza repressiva, con 2,1 milioni di carcerati Usa e 1,9 milioni nei 47 paesi del Consiglio di Europa, dove spiccano il milione russo, i 155mila ucraini, gli 86mila turchi. L’Unione Europea, quasi il doppio della popolazione Usa, ha un terzo dei detenuti (633.909) grazie ai relativamente pochi 78mila detenuti tedeschi; ma non sono pochi i 90mila detenuti polacchi, né gli 80mila inglesi ed i 65mila francesi. L’Italia, questo paese cosiddetto illegale è in buona compagnia di Francia dove il 25% dei detenuti è in custodia cautelare, e ad altri 18 del Consiglio di Europa dove i detenuti non hanno posti letto. L’Italia è la più condannata (4,3% di tutti i 4mila casi annuali) con Russia, Ucraina, Tirchia per la fama che si è conquistata, cui hanno contribuito giuristi e magistrati nostrani che poi lavorano con questa giustizia internazionale. Altri paesi occidentali, con il lavoro forzato gratuito, più evasioni, più omicidi, non vengono condannati grazie all’adeguata pressione diplomatica o minaccia di tagli dei fondi. L’Italia invece invita gli organismi a condannarla di più così da usare le sentenze nella lotta politica. Addirittura con la legge Pinto si è costruito un iter semplificato ed un fondo speciale utili a indennizzare dalla malagiustizia dovuta alla lentezza dei processi che costano allo Stato cifre ingenti ed enorme danno di immagine. La giustizia italiana, disastrosa in generale sia per faziosità che per costi strutturali - 4 miliardi l’anno - costa politicamente e non anche in trasferta. Come è peculiare dell’Italia spendere di più, 58mila l’anno pro capite, per offrire al detenuto una vita da tortura, quando in Germania se ne spendono 32.364, in Francia 26.412 in Inghilterra 27.528, in Spagna 17.112. Sotto altri capitoli, il costo della giustizia raddoppia. Con sguardo realistico e laico, ci si chiederebbe perché partecipare ad un’organizzazione inutile come il Consiglio d’Europa, nata in funzione difensiva antisovietica ed oggi doppione delle associazioni all’Unione; perché sovvenzionare con le tasse la Corte di Strasburgo che non è un organo dell’Unione, perché farsi giudicare 1.744 volte in un decennio (dal ‘98 al ‘08), in 180 casi l’anno con 80 condanne medie e costi di 30 milioni l’anno. Perché l’interventismo presidenziale, tanto visibile in politica, non insorge come spetterebbe istituzionalmente al capo Csm per rifare dall’interno la macchina della giustizia e come mai nessuno lo richiami a questo dovere. Perché infine urlare all’amnistia e fare parte del blocco politico degli onesti, sostenitore di questa giustizia e di queste carceri. È il comportamento dei laici progressisti italiani spesso usi, quando si va ai fatti, a tradire se stessi. Giustizia: Orlando scrive a Pisanu, su boss che si fingevano depressi per uscire dal carcere Il Velino, 23 gennaio 2012 “È compito della Commissione che presiedo acquisire ogni utile elemento di conoscenza e valutazione e, altresì, segnalare a chi di competenza, per eventuale seguito, anomalie che producono effetti negativi sul funzionamento e sui costi del Ssn e che determinano condizioni ambientali, funzionali e organizzative incompatibili con la regolarità di tutela del diritto alla salute”. È quanto dichiarato dal presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori e i disavanzi sanitari regionali Leoluca Orlando, che ha scritto al presidente della Commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu, in merito all’uso spregiudicato di diagnosi e terapie al fine di agevolare mafiosi. Analoga missiva è stata inoltrata al Presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, sollecitandolo ad inviare alla Commissione errori sanitari, una relazione sulle eventuali iniziative di competenza intraprese, in particolare su eventuali provvedimenti cautelari o sanzionatori adottati. Secondo quanto emerso da intercettazioni ambientali e reso noto da organi di stampa, nell’ambito dell’operazione Ippocrate, condotta dai Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio Calabria, due medici ed un avvocato sono stati arrestati con l’accusa di falsità ideologica commessa nelle vesti di pubblico ufficiale e con l’aggravante delle finalità mafiose. Avrebbero prodotto false certificazioni mediche finalizzate a far uscire di carcere boss della ‘ndrangheta detenuti, dando vita a quello che il Gip ha definito come “bacato reticolo di rapporti”. Giustizia: Fp-Cgil; no alla privatizzazione delle carceri, è un eccesso di liberismo Apcom, 23 gennaio 2012 “Da tempo l’immobilismo delle istituzioni ha creato una vera e propria emergenza umanitaria nel sistema penitenziario. Con il decreto legge sulle liberalizzazioni e la previsione dell’ingresso dei privati per la realizzazione e la gestione di strutture penitenziarie attraverso il project financing, lo Stato italiano dichiara definitivamente il proprio disimpegno. Siamo alla privatizzazione delle carceri. Il Governo dei tecnici ha trovato una soluzione per l’emergenza: esternalizzare i problemi per ridurre i costi. Un errore sul quale chiediamo un immediato incontro con la Ministra Severino”, con queste parole Fabrizio Fratini, Segretario Nazionale Fp-Cgil, commenta il contenuto dell’art. 44 del decreto legge sulle liberalizzazioni. “Mettere sul mercato la gestione di strutture in cui le persone vengono private delle proprie libertà ci sembra francamente un eccesso di liberismo. Lasciando da parte la totale assenza di garanzie che traspare dai tre scarni commi dell’articolo 44, dichiariamo la nostra totale contrarietà a questo disimpegno da parte dello Stato. Il paradosso - continua Fratini - è che questa scelta arriva nella fase più critica per il sistema, con il numero di detenuti ormai pericolosamente vicino alla soglia dei 70mila, e all’indomani della sostanziale impasse registrata sul ddl carceri. Da un lato non si interviene per limitare le storture del sistema, molte delle quali causate dai provvedimenti propagandistici del Governo Berlusconi e dell’ex ministro Alfano, soprattutto per quel che riguarda i detenuti in attesa di giudizio o ad esempio quelli ristretti a causa delle leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi. Dall’altro non si investe nel sistema e lo si lascia in pasto ai privati, ignorando il richiamo della Corte dei Conti che sul tema delle esternalizzazioni ha chiaramente fatto emergere il maggior costo per la collettività rispetto alla gestione pubblica. Si lascia il campo con disonore - conclude il sindacalista - un disastro”. Giustizia: Sap; necessarie modifiche al decreto carceri, non solo su camere di sicurezza Adnkronos, 23 gennaio 2012 “Riteniamo di poter dire che nei prossimi giorni, durante la conversione in legge del decreto svuota carceri, ci saranno correttivi. Al di là dell’importante questione delle camere di sicurezza, bisogna intervenire pure per modificare l’emendamento approvato in Commissione Giustizia al Senato che prevede la possibilità di utilizzare, nei tribunali, gli ufficiali di polizia giudiziaria al posto dei cancellieri nelle giornate festive. Un emendamento inaccettabile”. È quanto afferma Nicola Tanzi, segretario generale del sindacato autonomo di polizia Sap. “Nei giorni scorsi - ricorda Tanzi - abbiamo incontrato il ministro Anna Maria Cancellieri, chiedendo a lei e al Governo di affrontare e dare risposte ad alcune problematiche irrisolte che stanno particolarmente a cuore al personale e che sono fondamentali per l’efficienza e la qualità dell’attività delle forze dell’ordine. Il ministro ha garantito il proprio impegno e ne abbiamo preso atto positivamente. In ogni caso - assicura il segretario - l’azione di controllo e pressione del Sap continua e andrà avanti a tutti i livelli”. Lettere: project financing per nuove carceri? non è edilizia “sostitutiva” ma “aggiuntiva” di Riccardo Polidoro (Presidente “Il Carcere Possibile Onlus”) Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2012 L’art. 44 del decreto sulle liberalizzazioni, approvato venerdì dal Consiglio dei Ministri, prevede l’intervento dei privati per l’ edilizia penitenziaria. Nel 2007 “Il Carcere Possibile Onlus” aveva già proposto concretamente questa soluzione. Le società di progetto dovranno chiedere alle banche una partecipazione ad almeno il 20% del capitale. La concessione non potrà avere durata superiore a venti anni, in deroga all’articolo 153 del Decreto Legislativo 12 aprile 2006, N. 163, che prevede una durata di quaranta anni. Condizioni, modalità e limiti del project financing saranno disciplinati con decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e dell’economia e delle finanze. Vedremo tempi e effettiva applicazione di tale norma, intanto ci fa piacere ricordare che nel 2007 “Il Carcere possibile Onlus” - unitamente all’Associazione Costruttori Edili Napoletani e alla Facoltà d’Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli - bandì un concorso di idee progettuali per un modello di carcere vivibile, che prevedeva proprio il project financing e soprattutto la possibilità di strutture eco-compatibili e in grado di autogestirsi da un punto di vista economico. All’epoca furono depositati sei progetti e gli autori di quello premiato, alla presenza del Provveditore della Campania dell’Amministrazione Penitenziaria, ebbero un premio di € 5.000,00 messo a disposizione dall’ Associazione Costruttori Edili Napoletani. I progetti furono poi inviati all’Amministrazione Penitenziaria per una valutazione complessiva di fattibilità. Dopo cinque anni, dunque, la strada intrapresa potrebbe essere quella giusta, ma va immediatamente chiarito che non è quella per risolvere il problema del sovraffollamento (che ha altre soluzioni), ma per chiudere finalmente strutture fatiscenti, in cui l’Ordinamento Penitenziario non può trovare applicazione. Non è corretto, come si legge nel Decreto che tale norma deve essere finalizzata a “realizzare gli interventi necessari a fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri”, sarebbe stato meglio scrivere che “lo scopo della Legge è eliminare le condizioni di degrado in cui si trovano a vivere i detenuti in alcune strutture esistenti, che vanno soppresse”. Piemonte: visite ispettive dei Radicali nelle carceri di Asti, Cuneo e Torino Adnkronos, 23 gennaio 2012 Un gruppo di Radicali piemontesi, insieme con il senatore Marco Perduca, effettueranno tra domani e martedì una serie di visite ispettive nelle carceri di Asti, Cuneo e Tornino per rilanciare la richiesta che la Regione nomini finalmente un garante per i diritti dei detenuti. Igor Boni e Salvatori Grizzanti, dirigenti dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta di Torino sono in sciopero della fame da oltre 10 giorni per chiedere che venga dato seguito alle delibere del consiglio di sette anni fa. Martedì al termine della visita al carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, si terrà una conferenza stampa presso la sede dell’Associazione, in via Botero 11/f. Molise: interrogazione Sel sull’assistenza sanitaria ai detenuti di Larino Ansa, 23 gennaio 2012 Avere delucidazioni in merito all’assistenza sanitaria notturna presso il carcere di Larino (Campobasso). È il contenuto di una interrogazione che il consigliere regionale Filippo Monaco (Sel), insieme ad altri cinque esponenti della minoranza, ha inviato al presidente della Regione, Michele Iorio. “Le difficoltà della sanità regionale - spiega Monaco - sono note a tutti i cittadini che si rivolgono alle strutture pubbliche, costretti a lunghi tempi di attesa delle prestazioni, se non addirittura privati di servizi fondamentali. In questa situazione di disagio, le fasce più deboli ed emarginate della popolazione, come detenuti e tossicodipendenti, si trovano a fronteggiare una condizione drammatica, nell’indifferenza generale”. “Tale iniziativa - aggiunge - si è resa indispensabile dopo che le organizzazioni sindacali hanno denunciato al prefetto la sospensione del servizio di assistenza sanitaria notturna presso la Casa circondariale dovuta alla carenza di personale. Inoltre, da più parti si lamenta la scarsità di risorse del Sert che rende impossibile effettuare esami ed analisi per il monitoraggio della popolazione tossicodipendente in trattamento. Se le cose stessero davvero in questi termini saremmo di fronte ad una situazione aberrante in cui cittadini, già penalizzati per le proprie condizioni di vita, si vedrebbero negato il diritto fondamentale alla salute”. “È bene sottolineare - sottolinea il consigliere - come la politica di riduzione di questo tipo di servizi comporti, in realtà, un aumento dei costi sociali e una diminuzione della sicurezza per l’intera cittadinanza, poiché riduce l’efficacia dell’intervento terapeutico per il recupero dei tossicodipendenti e rende necessaria la degenza ospedaliera per i detenuti affetti da gravi patologie, con i relativi disagi per gli altri utenti presenti nelle strutture sanitarie”. Torino: Osapp; boss clan Stolder ha tentato di impiccarsi con lenzuolo legato a grate Ansa, 23 gennaio 2012 Il camorrista Raffaele Stolder, boss dell’omonimo clan del rione Forcella di Napoli, ha tentato di uccidersi oggi nel carcere di Torino. Lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. Stolder sarebbe stato trovato legato a un lenzuolo annodato alle grate nella cella. Ora è ricoverato in osservazione nell’ospedale Maria Vittoria di Torino. Stolder è detenuto nella IV sezione del blocco A della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. “Poteva essere il sesto suicidio in carcere del 2012 - dice Beneduci - e solo il tempestivo intervento del personale di polizia penitenziaria l’ha evitato”. “Non sappiamo - prosegue il segretario dell’Osapp - fino a quando potremo continuare a svolgere il nostro servizio a tutela della legalità ma anche della vita delle persone in carcere visto che il numero dei detenuti è tornato a quota 67mila in Italia e di agenti in servizio ce ne sono 1.250 in meno rispetto al 2011, compresi i 21 che sono deceduti per vari motivi”. Perugia: processo morte Aldo Bianzino, forse richiesta per nuova perizia Adnkronos, 23 gennaio 2012 Si torna in aula per il processo in cui è imputato Gianluca Cantoro, la guardia penitenziaria del carcere di Perugia accusata di omissione di soccorso nei confronti di Aldo Bianzino, il falegname 43enne che morì in una cella del penitenziario perugino il 14 ottobre del 2007. Per domani sono previsti gli ultimi due testimoni e l’esame dell’imputato stesso che si è sempre dichiarato innocente. In un primo momento la procura della repubblica di Perugia aprì anche un fascicolo per omicidio volontario, che qualche mese dopo venne archiviata suscitando lo scontento dei familiari del falegname che nel 2007 era stato arrestato insieme alla compagna Roberta Radici per possesso di droga. Il processo iniziato neanche un anno fa si avvia dunque alle sue fasi conclusive, sempre che i legali di parte civile non chiedano e ottengano una nuova perizia medico legale super partes. Per fugare i dubbi che potrebbero essere emersi nella scorsa udienza del 16 gennaio quando i consulenti medico legali della procura hanno detto una cosa e quelli della parte civile un’altra. Tra gli esperti lo scontro è quasi totale. Se concordano sulla presenza di una emorragia e di una lesione al fegato riscontrate sul corpo di Aldi Bianzino, su tutto il resto non c’è convergenza. Ed è emerso in tutta la sua portata lo scontro in atto. Non tanto, come si potrebbe immaginare, tra procura e difesa, ma tra parte civile e le altre parti in aula. Per i famigliari di Aldo infatti le lesioni che gli vennero riscontrate sono sospette. E ai giudici Giancarlo Massei, Paolo Micheli e Daniele Cenci, le letture dei fatti dei loro medici legali lo hanno reso evidente nella massima misura. Per i consulenti del pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, i dottori Luca Lalli e Anna Aprile, Aldo Bianzino è morto a causa dell’emorragia cerebrale subaracnoidea provocata da un probabile aneurisma e la lesione al fegato è stata causata durante la manovra di rianimazione. Non riescono con le loro analisi però a stabilire a che ora l’emorragia possa essere iniziata ma individuano una finestra di tempo che va dalle due ore precedenti il suo ritrovamento la mattina del 14 ottobre alle 8, fino alle otto ore prima. Sostengono che l’ipotesi più probabile della stessa sia la rottura di un aneurisma, ma non escludono anche una fessurazione, cioè una lacerazione di minore entità. Anche per il fatto che l’aneurisma non è stato individuato in sede autoptica. Il professor Vittorio Fineschi invece, medico legale di parte civile, sostiene che, fermo restando la presenza dell’emorragia subaracnoidea che ha provocato la morte e la presenza della lesione al fegato, per lui la causa è diversa. Per Fineschi l’emorragia, che inizialmente fu di modesta entità perché non avrebbe inondato di sangue le parti più profonde del cervello, potrebbe anche essere stata provocata da un trauma: una torsione della testa, uno scuotimento, qualcosa che abbia causato una lacerazione e un’uscita di sangue. Per il medico questa affermazione è possibile vista l’assenza del rinvenimento dell’aneurisma stesso. Quanto alla lesione al fegato ha sostenuto, studi alla mano, che la stessa risulta classificata come molto rara nelle manovre rianimatorie. E generalmente correlata anche da altri traumi classificati come meno rari. Per Fineschi insomma la lesione al fegato, su un soggetto morto, con un versamento di sangue come quello di Bianzino solleva più di una perplessità. Di avviso diametralmente opposto Aprile e Lalli che sui punti specifici sollevati da Fineschi avevano ribattuto dicendo che per loro l’emorragia subaracnoidea non può derivare da traumi quali torsione o scuotimento. Anzi la zona in cui si è verificata depone per una nascita spontanea della stessa. Per Lalli e Aprile inoltre non c’è letteratura che parli di emorragie di quel tipo senza segni esterni, o inondazione di sangue nelle zone sottocutanee. Quanto al fegato Aprile interpreta in senso contrario rispetto a Fineschi: per lei, la quantità di sangue isolata e dovuta a quella ferita è troppo piccola per essere di una persona in vita. Ha un senso invece come quantità per una persona deceduta il cui cuore durante le manovre rianimatorie pompa comunque sangue, specialmente in un organo quale il fegato. Lo scontro sulle questioni medico legali è stato il tema caldo di tutto il processo anche se formalmente, vista l’imputazione di omissione di soccorso, non sono neanche parte in causa. La parte civile con l’avvocato Anselmo che fu già legale della famiglia Cucchi punta forse a riscrivere tutta la storia della morte di Aldo Bianzino, per questo potrebbero richiedere una nuova perizia da affidare a periti super partes. Sempre che la corte la conceda. Lucca: il carcere di San Giorgio è un inferno, impossibile il “trattamento” dei detenuti di Nadia Davini Il Tirreno, 23 gennaio 2012 Dicono che il rumore più ricorrente in carcere sia provocato dalle chiavi. Battono insieme in continuazione causando quel tintinnio che diventa suono e melodia, mentre aprono e, subito dopo, chiudono portoni, cancelli, cancelletti, porte, sbarre e ancora porte. E dicono che sia più forte anche del vociare dei detenuti, “ospiti” del San Giorgio, la “piccola” casa circondariale infossata nel centro cittadino, a due passi dai palazzi istituzionali, dai luoghi di incontro prediletti dai lucchesi e dalle Mura. Anzi, è proprio dalle Mura che è possibile vederne il cortile, riconoscerne le finestre con i panni appesi dall’interno e immaginare la vita-non vita che si consuma là dentro. Sovraffollamento, spazi insufficienti, la piaga della detenzione preventiva (il 60 per cento è in attesa di giudizio), mancanza di attività alternative (se non quelle garantite dai volontari) per tentare un processo di rieducazione e riabilitazione del detenuto e prospettive future molto vicine allo zero. Il carcere di via San Giorgio assomiglia sempre di più ad una discarica sociale: immigrati, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici riconosciuti e la totale impossibilità di essere seguiti come dovrebbero, con sostegni adeguati. Non c’è neppure il garante per i detenuti, figura prevista dalla legge e qui totalmente ignorata. “Non è possibile eseguire il trattamento del detenuto - spiega Alfredo Cacciatori, segretario provinciale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Diciamo pure che al San Giorgio il trattamento non c’è e non viene fatto, perché manca di tutto, dai soldi (i tagli dei fondi statali continuano impietosi, meno 38% rispetto al 2010) alla struttura, alla mancanza di personale che non ci permette di lavorare con dignità: gli agenti in servizio sono 83, ma dovrebbero essere 125”. Il carcere di Lucca è un luogo dove detenuti e agenti condividono una disperazione sotterranea e invisibile al resto della società, che spesso sfocia in atti di autolesionismo, violenza e, ancora peggio, suicidio. Come si può parlare di umanità e di rieducazione in una casa circondariale dove convivono, in totale promiscuità senza differenziazione di trattamento, 185 detenuti, più del doppio del numero consentito? Le celle da due sono diventate da quattro, in quelle da quattro ci stanno in otto e nei periodi particolarmente difficili, dove il numero supera di gran lunga quota 200 (come l’estate scorsa), c’è chi finisce col dormire per terra o nella palestra della struttura, inutilizzata per inagibilità del tetto e mai aperta (è stata inaugurata vent’anni fa, dopo un investimento di 250 milioni di lire) per mancanza di personale. Ma non finisce qui: l’aula per i colloqui è puntellata e sorretta da pali di legno, perché rischia il crollo e chi va a fare visita ai detenuti deve aspettare il proprio turno nello spiazzo antistante, all’aperto e in piedi, anche per mezzore, con il sole o con la pioggia; talvolta l’ora d’aria salta perché gli agenti in servizio sono insufficienti per garantire la sicurezza nel cortile (un rettangolo asfaltato, chiuso ai quattro lati da corridoi coperti dove poter camminare), mentre d’estate sono molteplici le presenze di zecche e ratti, che scorrazzano indisturbati nei piazzali interni, creando problemi dal punto di vista sanitario. E molto c’è da dire anche per quanto riguarda la cura e il supporto della persona, con le docce comuni ai limiti della decenza, tra le pareti che trasudano umidità e un forte odore di muffa e di sudore, lo scarso numero di educatori, la presenza di un solo psicologo per quasi duecento detenuti e la quasi assenza dello psichiatra, attivo per qualche ora a settimana, nonostante che siano frequenti i casi di autolesionismo e la percentuale di persone con problemi psichiatrici raggiunga quote consistenti. “In carcere funziona così - continua Cacciatori - se il detenuto sta bene, sta bene anche l’agente, visto che siamo quelli più a stretto contatto con la situazione carceraria e con i ristretti: ma qui di valvole di sfogo non ce ne sono molte, tutto è concentrato nei momenti di uscita, cioè un’ora, al massimo due al giorno. Viene da chiedersi se non sia un fallimento di stato la realtà di un mondo carcerario dove il rischio suicidio è venti volte superiore a quello della popolazione “libera”; dove la recidiva tocca punte del 60% e dove il degrado resta totalmente inascoltato”. Bologna: Uil-Penitenziari a Severino; no a iniziative autoritarie sull’Ipm del Pratello Adnkronos, 23 gennaio 2012 “Questa organizzazione sindacale è certa che la competenza e l’equilibrio degli inquirenti definiranno compiutamente i fatti e le relative responsabilità. Nelle more, però, non possiamo condividere o tollerare iniziative intempestive ed autoritarie che potrebbero appalesare gravi violazioni delle norme contrattuali”. Questo è uno dei passaggi salienti della lettera che questa mattina il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, ha inviato al ministro della Giustizia, Paola Severino, dopo che giovedì scorso è stato pubblicato un interpello per 27 agenti di polizia penitenziaria che dovrebbero essere trasferite all’Istituto Penale per minori di Bologna. La decisione segue all’indagine aperta dalla Procura di Bologna su presunte violenze sessuali e abusi subite da minori ristretti al Pratello. “Possiamo comprendere che in attesa di comprendere cosa sia effettivamente successo al Pratello - scrive Sarno - l’Amministrazione abbia cautelativamente destinato ad altri incarichi i vertici amministrativi e operativi dell’Istituto. Ma avvicendare l’intero contingente di polizia penitenziaria ci pare operazione sproporzionata, illegittima e autoritaria. Si rischia di colpevolizzare una intera categoria di lavoratori senza alcun pronunciamento dell’autorità giudiziaria, mandando a quel paese e il tanto declamato principio della presunzione di innocenza. Ovviamente - prosegue Sarno - l’emanazione dell’interpello ha ingenerato più di una preoccupazione del personale di polizia penitenziaria attualmente in servizio al Pratello”. “Posto che una decina di unità sono certificatamente esenti da qualsiasi responsabilità - sottolinea il leader della Uil Penitenziari - essendo state assegnate dopo il periodo in cui sono avvenuti i fatti contestati, non possiamo non condividere le preoccupazioni del personale in servizio all’Istituto penale minorile di Bologna. Non vorremmo che la massificazione del provvedimento faccia di tutta un’erba un fascio”. “Se alcuni minori hanno abusato sessualmente di loro compagni di detenzione dovrà stabilirlo la magistratura - ricorda Sarno così come i magistrati dovranno accertare eventuali responsabilità in ordine ai paventati mancati controlli. Per ora non abbiamo notizie di indagati o rinviati a giudizio. Attenti a non spargere veleni o far schizzare pozzanghere di fango. Non si possono dare in pasto all’opinione pubblica professionisti che per anni hanno operato in assoluta emergenza , isolati e senza risorse sufficienti”. Da qui, l’appello che la Uil Penitenziari nella lettera di stamani ha lanciato al Guardasigilli, chiedendole “di attivarsi affinché i diritti soggettivi siano pienamente garantiti e non si ceda ad una deriva giustizialista che finirebbe per travolgere, inopportunamente, tutti gli operatori di polizia penitenziaria in servizio presso quella struttura minorile”. Secondo il sindacato, un incontro al ministero o al Dipartimento della Giustizia Minorile favorirebbe un chiarimento e contribuirebbe a placare gli animi. Pordenone: nuovo carcere, torna l’apporto dei privati nel progetto di realizzazione Messaggero Veneto, 23 gennaio 2012 Si riaprono le porte dell’ingresso dei privati nella realizzazione del nuovo istituto penitenziario a Pordenone. Dopo la fallimentare esperienza avviata 10 anni fa, quando il carcere doveva essere realizzato in leasing e alla fine il bando fu bocciato dalla Commissione europea e il ministro Mastella colse la palla al balzo per trasferire i fondi residui a Benevento, ora il decreto sulle liberalizzazioni prevede esplicitamente che il finanziamento di nuovi padiglioni avvenga con la compartecipazione dei privati. Il provvedimento del Governo Monti, infatti, stabilisce “l’apporto in via prioritaria dei capitali privati”, attraverso un meccanismo di concessione massimo di vent’anni. A sostenere i finanziamenti si chiede un grosso contributo da parte delle fondazioni bancarie che devono rilevare almeno il 20 per cento del capitale delle società di progetto. Il canone corrisposto al concessionario, inoltre, deve comprendere gli oneri di costruzione, quelli di gestione e dei servizi, esclusa la parte relativa alla sicurezza e alla custodia dei detenuti. Ammessa anche la residua possibilità di società di progetto con capitale tutto in mano ai privati. Uno scenario che cambia radicalmente le cose e che potrebbe modificare non solo la compartecipazione statale (20 milioni su 40), ma anche quella della Regione (altri 20 milioni) che non sono stati ancora previsti nei capitoli di bilancio dell’ente. Nuove trattative, quindi, con il ministero della Giustizia per ridefinire le procedure, tenuto conto che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha già affidato l’incarico, nel settembre dello scorso anno, per il progetto di massima dell’opera. Gli incentivi al project financing potrebbero favorire anche il lavoro del direttore del Santa Maria degli Angeli, Luciano Zanelli, impegnato a definire la compartecipazione dei privati per 30 milioni sul progetto da 180 relativo al nuovo ospedale in Comina. Un tema che sarà al centro della conferenza tecnica in programma nei prossimi giorni con la Regione. Roma: i detenuti di Rebibbia che riciclano i rifiuti e il Consorzio Innocenti Corriere della Sera, 23 gennaio 2012 Il Consorzio Innocenti opera prevalentemente a Roma e provincia. Nasce nel 2002 intorno ad un’azienda di trasporti di già consolidata esperienza. Le sue attività sono improntate a una convinta attenzione verso il sociale con chiari riscontri nel modo di fare impresa. Gran parte delle aziende del Consorzio, infatti, hanno forma cooperativa. Ed è forte l’attenzione verso iniziative originali e innovative. Nel novembre 2008, per esempio, il Consorzio firma una convenzione quadro con il Ministero della Giustizia e nel 2010 si accorda con l’ amministrazione penitenziaria di Rebibbia. per il trattamento dei rifiuti. La convenzione prevede che venga utilizzata anche la manodopera dei detenuti. Da qui parte un impegno direttamente all’interno del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e viene costruita una piattaforma di smaltimento dei rifiuti urbani. Fino a quel momento, come in altre carceri italiane, a Rebibbia c’erano le attività di falegnameria e di officina meccanica. Dal 2010 prende avvio anche lo smaltimento rifiuti. Con questa iniziativa, i dipendenti del Consorzio si impegnano in un periodo di formazione verso i detenuti interessati al lavoro e, successivamente, partecipano alle attività di recupero e riciclo dei rifiuti. Oggi, fianco a fianco, a Rebibbia operano detenuti di diverse età - sono circa il 20% - e operai del consorzio. I detenuti sono soci dipendenti della cooperativa. Hanno l’opportunità di imparare e praticare un mestiere che sarà utile un volta giunto il periodo di fine pena. Molti di quelli che hanno vissuto questa esperienza sono già occupati, uno di loro direttamente nel Consorzio Innocenti per cui ha lavorato nel periodo della detenzione. Il percorso del reinserimento trova così un’ opportunità virtuosa. E le aziende il loro interesse, in modo saggio e con una sensibilità civile non comune. Treviso: “Bottega Grafica” dell’Ipm riceve 30mila euro dalla Fondazione Veneto Banca Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2012 La Fondazione Veneto Banca ha scelto di sostenere il progetto Bottega Grafica, un laboratorio che consente ai ragazzi ospiti dell’Istituto Penale Minorile (Ipm) di Treviso di acquisire conoscenze e competenze professionali, al fine di promuovere il loro successivo reinserimento sociale. L’iniziativa consiste in una serie di corsi di grafica tenuti dai docenti dell’Engim (Ente Giuseppini del Murialdo) dell’Istituto Turazza di Treviso. Oltre all’attività formativa, il laboratorio prevede anche una dimensione pratica, che coinvolge i ragazzi nella realizzazione di materiali grafici quali locandine, brochure e loghi per enti e associazioni no-profit. Bottega non è un nome scelto a caso: i ragazzi non si limitano ad apprendere competenze professionali, ma interagiscono con realtà no-profit locali e vere e proprie commesse di lavoro, avviando così un cammino che è insieme di riparazione, apprendimento e reinserimento. La donazione della Fondazione Veneto Banca andrà a coprire parte delle spese relative ai formatori, alla strumentazione e ad alcune “borse lavoro”. Il Presidente della Fondazione, Franco Antiga, accettando l’invito dell’Engim, ha incontrato i beneficiari del contributo e ha potuto constatare di persona la validità del progetto. “Sono convinto - ha dichiarato il Presidente Antiga - che sia doveroso incentivare un progetto che valorizza le capacità di questi ragazzi insegnando loro un mestiere, in un’ottica di recupero e non di mera condanna. Bottega Grafica è un’iniziativa di straordinaria valenza educativa e umana, che ha dimostrato di ottenere ottimi risultati. La Fondazione Veneto Banca si riconosce pienamente negli intenti e nelle modalità del progetto, che rispecchiano la sua vocazione di onlus da sempre dedita al sostegno della formazione e della solidarietà”. “Il nostro impegno all’interno dell’Ipm è molto importante - ha affermato Don Renzo Della Vecchia, Direttore dell’Engim di Treviso -, perché coinvolge giovani che rischiano di perdersi nel vuoto di una vita senza valori e senza obiettivi di crescita. Proprio queste condizioni così difficili spingono i nostri operatori a impegnarsi al massimo. Siamo molto grati alla Fondazione Veneto Banca, perché la sua donazione ci consente di svolgere bene la nostra missione”. Firenze: manifestazione dei Radicali a Sollicciano, in attesa del ministro Severino Ansa, 23 gennaio 2012 L’arrivo del ministro della Giustizia è previsto per le ore 13. Sui cartelli slogan del tipo “Due metri quadrati non è dignità” e “Ministra Severino, rivogliamo lo stato di diritto e la democrazia”. Sono circa una quindicina le persone appartenenti al Partito Radicale che stazionano davanti l’ingresso del carcere di Sollicciano, a Firenze, in attesa dell’arrivo del ministro della Giustizia, Paola Severino, previsto per le ore 13. La Severino visiterà il carcere e incontrerà il direttore. Diversi i cartelli che i manifestanti hanno preparato. Tra gli slogan osservati: “Amnistia per la Repubblica”, “Due metri quadrati non è dignità”, “Ministra Severino, rivogliamo lo stato di diritto e la democrazia” e anche “Rispettare la dignità degli agenti penitenziari”. Napoli: suor Lidia, l’angelo del carcere nell’inferno di Poggioreale La Repubblica, 23 gennaio 2012 Se stamattina la suorina è già passata davanti a una certa cella o in un certo braccio, te ne accorgi anche vedendo i detenuti che mangiano caramelle. Lei, suor Lidia, l’angelo dei carcerati precipitato da chissà dove nell’inferno di Poggioreale, neanche fa in tempo a offrirgliene una che loro gliene hanno già chiesta un’altra. Diavoli come bambini? “Compro chili e chili di caramelle - racconta suor Lidia, sorridendo - è un modo per recuperare la dolcezza che hanno perduto”. Non solo caramelle. Se sei finito in galera, e ti ritrovi ormai solo con i tuoi guai e i tuoi peccati, allora non ti resta che appoggiarti alle sbarre e aspettare il fruscio della veste grigia di suor Lidia, ogni giorno, qualunque tempo, perché soltanto lei, nell’orrore della prigione, ti regalerà un pizzico della sua allegria e della sua speranza, spazzando via, come per miracolo, e per un attimo almeno, la tua angoscia e i tuoi cattivi pensieri. Qualunque reato. Non importa che cosa tu abbia commesso o se te ne sia pentito o meno. Devi comunque cercare te stesso, scavando e scavando, non solo nella tua mente, ma soprattutto nell’anima tua, l’anima che hai tradito per diventare un criminale. Parola di suor Lidia. E ogni giorno è buono per cominciare. Anche Natale. Anzi, meglio. Perché, quando la solitudine ti morderà la coscienza con più dolore, allora tu stesso, povero carcerato, diventerai un regalo di Natale per chi avrà saputo credere in te e ritrovare la tua umanità perduta. Suor Lidia, appunto. La sua storia è antica e bellissima. Nel carcere di Poggioreale l’angelo vestito di grigio arrivò come assistente volontaria nel 1978. Sembrò un caso, ma non lo era. Nata a Lauro di Avellino nell’agosto del 1937, Maria Carmela Schettino, segno del leone, aveva preso i voti con il nome di suor Lidia nella congregazione dell’Immacolata concezione di Ivrea. Un lungo filo spirituale con quella famiglia religiosa. Aveva frequentato, infatti, la loro scuola, a Sorrento, e già da bambina si era innamorata di quel mondo fatato. I suoi genitori, contrarissimi a quella scelta di vita, fecero di tutto per dissuaderla, arrivando perfino a proibirle di incontrare una zia monaca. Lidia non se ne dette pensiero. Sapeva che per lei non ci sarebbe stato altro futuro. “L’ho capito - dice - quando da sola mi sono consacrata alla Madonna. Avevo tredici anni”. Il papà, maresciallo della Marina, ancora non si arrendeva all’idea di perdere quella figlia. Tutto inutile. Maria Carmela, 28 anni, ormai laureata in Pedagogia, lasciò la famiglia e si trasferì a Roma, accolta nel convento dell’Immacolata concezione di Ivrea. Un anno di apostolato, poi l’abito da novizia, infine i primi voti. L’8 dicembre del 1968 Maria Carmela divenne suor Lidia alla presenza di tutta la sua famiglia, ormai non solo rassegnata ma addirittura orgogliosa di quella scelta di vita. Seguirono anni di insegnamento in varie scuole e in varie città, ma suor Lidia inseguiva sin da allora tutt’altra strada. E scelse di andare a lavorare prima in una comunità per tossicodipendenti e poi in una struttura per gli ammalati di Aids. Una vera missione, ma non ancora la sua. Erano i carcerati i suoi figli prediletti. “Per le carceri - dice - ho una vera passione, vorrei viverci dentro, condividere tutti i momenti dei detenuti, accompagnarli a ritrovare se stessi”. Fu un caso solo in apparenza, dunque, quando nel 1978, ammalatasi una delle sorelle della congregazione che lavoravano da volontarie a Poggioreale, suor Lidia si offrì di prendere il suo posto. E cominciò così la più bella storia d’amore e di carità che sia mai stata vissuta tra le sbarre e i cancelli di un carcere. “La mia missione - afferma - ha radici da qualche parte lassù in cielo. Mi sento privilegiata e credo che sia la volontà di Dio a tenermi in questo ruolo nonostante le difficoltà”. Difficoltà tante, e grandissime. Migliaia di casi giudiziari messi a fuoco con la lente della sua bontà cristiana, un rosario di boss e gregari, colpevoli e innocenti, uomini feroci e uomini disperati. Anche il killer della “Uno bianca”, transitato a Poggioreale negli anni scorsi, è rimasto folgorato dalla sensibilità di suor Lidia e continua a scriverle dal carcere dove è stato trasferito. Un segreto: con i soldi delle offerte, la suora gli ha regalato un computer. Dice Lidia: “È per fargli passare più in fretta le sue giornate all’ergastolo”. Molti la chiamano mamma. E le scrivono migliaia di lettere da tutte le prigioni d’Italia. Lidia le raccoglie e le conserva con cura. Alcune le ha messe insieme in un libro pubblicato di recente che ha intitolato “Nostalgia d’innocenza”. Ecco qualche passaggio per capire il rapporto tra la religiosa e i suoi amici detenuti. Scrive Ciro: “Sei stata per me come una mamma che dona tutta se stessa per il figlio”. Scrive Pasquale: “Adesso so di non essere solo. Signore, non finirò mai di ringraziarti per esserti manifestato attraverso suor Lidia”. Tante storie di vita. Rapinatori, trafficanti, assassini. Un recluso in particolare resta nel cuore di Lidia. “Lui è davvero come un figlio - dice la suora - si chiama Roberto”. Roberto è un ergastolano condannato per mafia. Un ragazzo dal carattere violento e irrequieto. Non lo volevano in nessuna galera. Finì a Poggioreale, dove cominciò uno sciopero della fame e della sete fino alle estreme conseguenze. Rischiò di morire. Una sera gli agenti chiamarono a casa il direttore di allora, Salvatore Acerra, che si precipitò al capezzale del detenuto. “Che fai, figlio mio”, gli disse. E gli sfiorò la testa con la mano. Quel gesto fece scattare una molla nel cuore del detenuto. Acerra chiamò suor Lidia e le affidò il ragazzo. Fu subito casa. Roberto cominciò a cambiare atteggiamento, diventando perfino affettuoso e aprendo piano piano il suo cuore alla forza affettiva del suo angelo vestito di grigio. “Il giorno del suo compleanno - racconta la suora - ho ottenuto dal direttore il permesso specialissimo di pranzare con lui in cella. Portai dolci, candeline e tutto il resto. Era la prima volta che Roberto festeggiava il compleanno in vita sua e fu una gioia per tutti e due”. E ora? “L’hanno trasferito - spiega suor Lidia - ma io sono già andata a trovarlo nelle carceri di Bergamo, di Opera, di San Gimignano e di Fossombrone. Lo seguirò sempre. Roberto mi manda tante lettere, e sulla busta, accanto all’indirizzo, continua a scrivere: alla mia mamma”. Libri: “Il perdono responsabile”, di Gherardo Colombo (Edito da Ponte alle Grazie). di Rosalba Capomacchia Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2012 Nel libro, le riflessioni dell’autore riguardo l’amministrazione in ambito giudiziario, il suo sguardo sul mondo delle pratiche della giustizia, tracciano in apertura un’interessante mappa concettuale delle principali categorie attinenti al Sistema Giustizia: punizione, regola, necessità, perdono privato, perdono “pubblico”, tema quest’ultimo, appunto, di grande valenza pubblica perché sentimento, elemento fondamentale nella scelta dei modelli, delle modalità dei rapporti e delle relazioni sociali. La tensione dialettica, secondo la quale si sviluppano e si svolgono i capitoli del libro ha luogo e trova espressione tra un concetto di pena retributiva e l’acquisizione, invece, di un’idea di giustizia riparativa. Se da una parte vengono considerate ed analizzate le negatività legate ad una concezione retributiva della pena, dall’altra parte il discorso ed il filo argomentativo si orientano in modo positivo verso la comprensione, il dialogo, la conciliazione, la socializzazione. Le tesi a favore della pena retributiva sono puntualmente contestate e contrastate, ed invece la scelta del recupero , della riconciliazione, delle pene alternative trova supporto e conferma dall’evidenza e dall’andamento positivo della realtà del mondo carcerario, nel senso che in effetti attraverso tale scelta si compie e si realizza un percorso verso la socialità, l’umanità, la libertà dei detenuti. Le culture giuridiche nel corso del XX° secolo hanno sostenuto questa ipotesi della nuova socialità e partecipazione. “All’inizio del nuovo millennio il criminologo David Garland analizza i mutamenti intervenuti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna nel campo della risposta alla trasgressione: per gran parte del XX° secolo, le misure espressamente retributive o particolarmente severe andavano incontro a dure critiche, erano definite anacronistiche e non trovavano spazio all’interno di un moderno sistema penale”. È ben argomentata, sul piano ideale, la contraddizione fra dignità della persona e pena, mentre, sul piano pratico, si sostiene l’inutilità dell’attuale sistema detentivo. Bellissime ed assolutamente convincenti le pagine sul superamento della pena e sul concetto di responsabilità. A questo proposito è utile citare le parole dell’autore: “Antropologicamente il perdono si iscrive nel circuito del dono: chi perdona si presenta come qualcuno che, liberamente e senza obbligo, fa dono di qualcosa a qualcun altro. Ciò che conta è che il perdono inteso come dono, cioè come atto che implica una restituzione, ha la capacità di rovesciare l’ostilità originaria in una relazione di scambio e di reciprocità, proprio perché fra le due parti in conflitto, sull’originario rapporto di ostilità, viene innestato un dono. Chi perdona ha la responsabilità di ri-accettare; chi è perdonato ha la responsabilità di usare assennatamente ciò che riceve, e cioè di essere ri-accettato. Entrambi hanno cioè la responsabilità della ricucitura della relazione che era stata strappata. Il meccanismo delle reciproche responsabilità legittima regole che abbiano per contenuto il perdono, il quale diventa strumento per il rispetto della persona e per il buon funzionamento della società “. Negli ultimi decenni ha trovato notevole consenso il tema della giustizia riparativa, con atti ufficiali del Consiglio d’Europa nel 1999, dell’Onu nel 2002 con la Decisione Quadro 2001/220 GIA dell’Unione Europea. In Italia si praticano procedure di giustizia alternative a quella retributiva, non esistendo una materia di legge relativa alla giustizia riparativa. Ancora, è molto importante da ricordare la partecipazione dell’autore, come volontario, ad una iniziativa della Asl presso il carcere milanese di S. Vittore, che prevede un progetto di varie e diverse attività proposto a detenuti tossicodipendenti. Il valore dell’impegno, l’etica della responsabilità, costituiscono la parte essenziale di questa esperienza. Inoltre, quale riferimento e modello alternativo esemplare, è naturalmente citata la casa di reclusione di Bollate, che, come appare nel racconto e nella testimonianza, ha voluto appunto porre al centro dei suoi programmi il rispetto della dignità della persona, come disposizione valoriale fondamentale. Complessivamente, nell’ambito di analisi proposto, emerge dunque che la questione giustizia debba riferire le sue problematiche ai generali modelli sociali, culturali e politici, e trovi soluzione in diverse ed alternative modalità di convivenza sociale e politica. In alcuni passi del libro sembra infatti chiaramente delinearsi l’aspirazione ad una nuova ipotesi di società “che si rifà … al riconoscimento, alla dignità, alla gratuità, alla libertà uguale, all’armonia, alla inclusione, all’ordine finalizzato alla realizzazione della persona “. Con le finalità di attuare e realizzare un altro modello di società, un grande cambiamento, una trasformazione sostanziale di paradigmi sociali, per affermare un patto sociale fondato su principi universali fondamentali, sul valore della persona umana, certamente si può dunque cogliere, nelle parole dell’autore, un invito a ricercare, elaborare e formulare nuove categorie politiche e culturali riguardo ad un progetto politico unitario basato sui diritti e sui bisogni della persona, riguardo alle forme istituzionali-statuali, al governo e ai poteri, relativamente alla sovranità generale comune, alla soggettività individuale e sociale, al consenso, alla libera facoltà di decidere. Gherardo Colombo, autore del libro “il perdono responsabile” edito da Ponte alle Grazie - €12,50, ha lasciato la Magistratura nel 2007, ed è oggi presidente della casa editrice Garzanti. Cinema: l’Ucciardone mai visto, nel nuovo documentario di Tamara Djukic di Silvia Andretti www.siciliainformazioni.com, 23 gennaio 2012 Le carceri italiane vantano un triste primato in Europa per sovraffollamento, casi di suicidio, inadeguatezza delle misure di recupero. Ma i fatti di cronaca restituiscono sono una pallida idea della complessità del sistema detentivo e delle reali condizioni di vita dei carcerati in Italia. Per la prima volta a Palermo, un film documentario racconta vita e verità nascoste dei detenuti all’Ucciardone. “La troupe ha lavorato all’interno del carcere per oltre tre settimane - racconta Giuseppe Candura, della casa di produzione Cineanima. Il film racconta le vite di singoli detenuti nella loro cruda realtà quotidiana. I protagonisti persone sfortunate che vivono una condizione difficile, persone che sicuramente hanno sbagliato, che stanno pagando il proprio debito con la società ma che oggi chiedono aiuto, supporto, rieducazione”. Il lungometraggio è stato girato all’interno della casa circondariale tra la fine di novembre e dicembre 2011. Attualmente in fase di post-produzione, il lavoro sarà presentato a fine giugno, anche se già nel mese di marzo sarà possibile visualizzare il trailer sulla pagina Facebook di Cineanima. Il film, un documento sull’idea stessa della pena e del reinserimento sociale, si avvale di una troupe internazionale. Lo sguardo privilegiato di Tamara Djukic - giovane e pluripremiata regista serba che vive a Palermo dal 2008 - è capace di cogliere le peculiarità della realtà siciliana pur mantenendo il distacco di occhi “estranei”. Secondo il produttore, “il lungometraggio non ha un pregiudizio, non parte da un’idea preconcetta: la troupe è entrata all’Ucciardone con la curiosità di sapere e la voglia di capire e ha fotografato una realtà con cui altri potranno confrontarsi”. Il montaggio è affidato a Edoardo Morabito, reduce dal successo del festival del film di Locarno con l’ultimo lavoro di Franco Maresco “Io sono Tony Scott”; il sound al fonico Francesco Vitaliti, mentre la splendida fotografia è firmata da Irma Vecchio, che in passato ha lavorato con Wim Wenders. Fra i progetti futuri della casa di produzione palermitana “ci saranno ancora le sbarre, - anticipa Giuseppe Candura - ma non si tratterà di un carcere questa volta. Cineanima riuscirà ad entrare in un luogo ancora più impenetrabile dell’Ucciardone”. Siria: capo osservatori arabi; più di duemila i detenuti liberati Aki, 23 gennaio 2012 “Sono 2.239 i detenuti liberati negli ultimi due giorni dalle autorità di Damasco”. È quanto ha annunciato il capo della missione di osservatori della Lega araba in Siria, il sudanese Mohmaed Mustafa al-Dabi, nel corso della presentazione al Cairo del suo rapporto alla Lega Araba. “Trentasei testate giornalistiche internazionali lavorano attualmente all’interno del territorio siriano - ha spiegato - e per questo abbiamo visto che c’è una copertura dei fatti che accadono nel paese. Ci sono anche diversi siti Internet attivi dall’interno della Siria e le autorità siriane ci hanno assicurato di garantire loro libertà di espressione. Abbiamo ricevuto però la denuncia di cinque organi di informazione ai quali è stato impedito l’ingresso nel paese”.