Giustizia: maggioranza in difficoltà, si blocca il decreto “svuota carceri” di Liana Milella La Repubblica, 20 gennaio 2012 Doveva essere una passeggiata. Sta diventando uno psicodramma. La maggioranza si divide sul carcere e sulle celle di sicurezza. La Lega ne approfitta, impone un voto, e al Senato raddoppia i suoi consensi grazie a 27 dissidenti. Il Guardasigilli Paola Severino è costretta a incassare uno stop, anche se solo di pochi giorni (se ne riparla martedì), al suo decreto di Natale che, per gli arresti in flagranza per reati non gravi, offre al pm la chance della permanenza negli uffici di polizia senza passare per il carcere. Ma proprio sulle camere di sicurezza e sui domiciliari, si registra l’aperto dissenso dell’ex Guardasigilli Nitto Palma, ma anche quello dell’ex pm e senatore del Pd Felice Casson. Dice il primo: “Non voterò mai una norma che mette ai domiciliari rapinatori e scippatori”. E il secondo: “Non si può tornare indietro di 20 anni, il mio no alle celle di sicurezza è deciso”. Capita così che l’intesa sulla giustizia raggiunta da Pdl, Pd e Terzo polo solo martedì sulla relazione della Severino, anche se limitata a quel “visto, ai approvi” senza dettagli sui contenuti, sfuma subito quando si affronta una questione delicata. Neanche due ore. Per la maggioranza è débâcle. In aula il decreto. Che viene da una movimentata permanenza in commissione Giustizia, tant’è che i due relatori, Filippo Berselli (Pdl) e Alberto Maritati (Pd), firmano un primo emendamento che dà i domiciliari a tutti gli arrestati, e in subordine le celle e poi il carcere. Severino pretende una modifica: domiciliari, celle, carcere, ma solo per i reati da giudice monocratico. L’uso delle camere di sicurezza passa in secondo piano. Ma in aula ecco la sorpresa. Palma, con gli ex sottosegretari Caliendo e Casellati, torna al carcere obbligatorio e in subordine ai domiciliari, com’è già oggi. Celle ammesse solo per gli arresti facoltativi. A questo punto insorge il Pd. Anna Finocchiaro accusa Palma di essere “un Marco Antonio che porta sulle braccia il cadavere del decreto”. Gaetano Quagliariello capisce l’aria e propone il rinvio. Si vota solo sulla proposta del leghista Mazzatorta che vuole cancellare d’un colpo tutto l’articolo sul carcere. Qui la maggioranza perde i pezzi, ben 52 i sì, oltre il doppio dei senatori del Carroccio, 198 i no, 3 astenuti. Chiosa ironico l’ex Guardasigilli Roberto Castelli: “La super maggioranza non va avanti perché ci sono grossi malumori nel Pdl per un esecutivo sempre più di sinistra”. Si corre ai ripari. Riunione nella sala del governo con Severino, Palma, Caliendo, i relatori, la capogruppo Pd in commissione Silvia Della Monica che difende il ricorso alle celle come “una valida alternativa all’umiliazione dell’ingresso in carcere”. Tutti assistono a un violento scontro tra Palma e il capogruppo Pdl Maurizio Gasparri che contesta all’ex ministro le sue scelte in aula. Finisce con Severino che lascia l’incontro e dice: “Mi rendo conto che c’è un problema politico nel Pdl, conviene attendere che quel nodo sia sciolto prima di passare alle decisioni tecniche”. No ai domiciliari per i rapinatori in villa (Ansa) C’è un emendamento dei relatori Filippo Berselli e Alberto Maritati (1.700/200), presentato al dl svuota-carceri del governo, che darebbe la possibilità, tra gli altri, a rapinatori, scippatori, a chi ha commesso furti in villa, a responsabili di omicidio colposo arrestati in flagranza di reato, di attendere ai domiciliari la convalida dell’arresto. A sottolinearlo è il senatore del Pdl Filippo Saltamartini che annuncia voto contrario. Secondo lui e un nutrito gruppo di senatori berlusconiani, per evitare il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli”, denunciato dal Guardasigilli al momento della presentazione del decreto, “la norma più utile” è quella contenuta in un altro emendamento che obbligherebbe anche i giudici ad essere reperibili come i Pm tutti i giorni della settimana, anche di sabato e di domenica. “In questo modo - insiste Saltamartini - i tempi di convalida dell’arresto sarebbero molto più corti e dunque la permanenza in carcere o nelle camere di sicurezza sarebbe minima. Ma che un rapinatore, colto in flagranza di reato venga portato a casa sua in attesa della convalida dell’arresto è davvero inaccettabile”, prosegue il parlamentare. E d’accordo con Saltamartini è anche il capogruppo dell’Idv in commissione Giustizia di Palazzo Madama, Luigi Li Gotti. “Si tratta di un emendamento folle che trasformerebbe di fatto i poliziotti in tassisti per i criminali”, spiega annunciando, anche lui, il voto contrario alla norma. “Per fortuna - prosegue - il decreto verrà cambiato e speriamo per il meglio perché le camere di sicurezza, previste dal ministro come primo posto dove portare i fermati, sono assolutamente insufficienti. E infatti nella pratica questa previsione difficilmente è stata eseguita. Quasi sempre si è continuato a portarli in carcere”. “Con la norma che obbliga i giudici ad essere presenti anche il sabato e la domenica - incalza Saltamartini - il problema della permanenza negli istituti penitenziari di queste persone sarà minima e consentirà di risparmiare molti soldi. È stato calcolato infatti - prosegue il senatore del Pdl - che per ogni giorno di detenzione nelle camere di sicurezza servono 10 agenti per ogni detenuto. Speriamo che martedì prossimo si arrivi ad un’intesa sul punto perché la proposta di modifica, peraltro già corretta visto che prima i relatori avevano proposto i domiciliari per tutti i tipi di reato, sarà respinta o profondamente modificata”. Giustizia: sulle carceri Pdl spaccato… vota contro se stesso di Matteo Bartocci Il Manifesto, 20 gennaio 2012 Il Pdl “non tiene, o tiene male”. Suona paradossale ma questa constatazione proviene dal Pd, alleato pro tempore del partitone berlusconiano. Nell’aula del senato il governo Monti registra la sua prima vera battuta d’arresto. Almeno 27 “franchi tiratori” del Pdl hanno votato insieme alla Lega contro il decreto “svuota carceri” della ministra Severino. Spaccatura e tensioni hanno costretto la guardasigilli a chiedere il rinvio del provvedimento a martedì. Un passo falso per ora innocuo ma che allarma il governo alla vigilia di liberalizzazioni e sospensione del “beauty contest” tv. Nel Pdl sono stati soprattutto i “falchi” guidati dall’ex ministro Nitto Palma a scatenarsi contro il decreto e in particolare contro l’art.1, quello che concede i domiciliari o la detenzione nelle camere di sicurezza per i primi giorni dopo l’arresto. Un problema non certo secondario, visto che secondo il Dap nel 2010 le persone trattenute in carcere per un massimo di tre giorni sono state 21.093, il 36% degli ingressi totali. La rivolta pidiellina rischiava di far deragliare il provvedimento, tanto che tra i banchi per riportare l’ordine è dovuto intervenire il vicecapogruppo Quagliariello e lo stesso Nitto Palma avrebbe subìto una lavata di testa (telefonica) da parte del suo capogruppo Gasparri. Il voltafaccia dell’ex ministro non è piaciuto nemmeno alla capogruppo Pd Anna Finocchiaro, che ha chiesto duramente il voto e alla fine ha visto l’offensiva non arrivare fino in fondo. La ministra Severino lavora a una mediazione con i due relatori: Berselli (avvocato, Pdl) e Maritati (ex magistrato, Pd). A Palazzo Madama però l’interpretazione più in voga è che l’ira del Pdl è diretta più al governo Monti che al merito del decreto. La spaccatura nella vecchia maggioranza è tanto più vistosa e ipocrita se si aggiunge che in commissione molte modifiche (migliorative) sono passate all’unanimità e, soprattutto, che uno dei cardini del provvedimento è una semplice prolunga di una norma già votata da Pdl e Lega nel 2010. Il decreto infatti porta da 12 agli ultimi 18 mesi di pena la detenzione domiciliare. Una previsione prevista da Alfano un anno fa di cui hanno già usufruito 3.800 detenuti, ai quali il ministero stima ora di aggiungerne altri 3.327, risparmiando 375.318 euro al giorno (137 milioni l’anno). La norma è piccola ma funziona: il 99% dei beneficiari ha rispettato l’obbligo del domicilio. Il sovraffollamento italiano sembra inarrestabile. A fine 2011 nei 206 istituti italiani c’erano 66.897 detenuti (fonte Dap), il 50% più del massimo tollerabile. Per alleviare almeno in parte le condizioni di detenzione, il decreto stanzia 57 milioni per ristrutturare le carceri più fatiscenti (presi dall’8permille). Tra le modifiche più rilevanti fatte dalla commissione la possibilità per tutti i parlamentari europei di ispezionare le carceri italiane e, soprattutto, la soppressione dei 6 Opg. Gli ospedali psichiatrici giudiziari (vedi il manifesto del 13 e 14 gennaio) attualmente rinchiudono 1.400 persone. Almeno il 40% di queste non è socialmente pericoloso e potrebbe essere trattato dal Ssn in strutture protette più piccole e più vicine al luogo di residenza. Giustizia: il carcere, un laboratorio per imporre ordine e disciplina all’intera società di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 20 gennaio 2012 Il carcere è il luogo in cui il potere affina le sue tecniche di controllo oltre le sbarre delle celle. In un saggio pubblicato alla fine degli anni Ottanta, inedito in Italia, Zygmunt Bauman mostrava la circolarità del rapporto tra il carcere e lo spazio pubblico. Se all’inizio gli istituti penitenziari erano stati concepiti come corpi separati dalla società, dotati di una struttura, di un’organizzazione, e di una configurazione propria, a lungo termine avevano finito per influenzare la pianificazione dello spazio urbano. La regolarità a scacchiera dei quartieri moderni, l’illuminazione notturna quasi ossessiva, la riduzione degli spazi pubblici a luoghi recintati e circospetti, riproduce infatti la monotonia e prevedibilità degli spostamenti, funzionali ad un progetto disciplinare attraverso il quale si dispiega il controllo capitalistico dei corpi e, parafrasando Foucault, delle anime. La società contemporanea, che fa del controllo sociale la sua cifra, trasformando i luoghi di produzione, scambio e circolazione in spazi della paura, espelle il carcere dal suo corpo vivo, situandolo in luoghi sempre più inaccessibili al normale cittadino e sempre più fortificati. In questo contesto, come si pone il rapporto tra pena e società? Come si può, all’interno di spazi sempre più disumanizzati, declinare parole quali “rieducazione” o “reinserimento”? A queste domande tenta di rispondere il lavoro collettaneo “Il corpo e lo spazio della pena” (Ediesse, pp. 260, euro 13), curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi. Contributi forniti da studiosi di diverso background scientifico (sociologi, urbanisti, giuristi, esperti di tematiche penitenziarie) guidano il lettore in un percorso che va dalla disamina dei diversi modelli di carcere al rapporto tra la pena e la società. Emerge così il fatto che, malgrado la rimozione a cui viene quotidianamente sottoposta, la questione penitenziaria si ripresenta continuamente come la soglia critica della società contemporanea, che ne contiene tutte le contraddizioni più acute. In uno dei contributi, Mauro Palma delinea due differenti tipologie di istituzioni penitenziarie. La prima è quella contenitiva, destinata ad alloggiare il detenuto e a contenerlo fino alla sua estinzione del debito con la società. La seconda tipologia riguarda quelle carceri che al loro interno posseggono quegli spazi preposti ad ospitare le attività educative, sanitarie e di socializzazione. Tuttavia, e questo rappresenta un aspetto da sottolineare, anche all’interno di quest’ultima tipologia è possibile operare una differenziazione significativa. Se nei paesi nordici, negli ultimi anni, si sono costruiti della carceri responsabilizzanti, vale a dire strutture che differenziano gli spazi, consentono ai detenuti libertà di movimento e di scelta rispetto alle attività rieducative che intendono seguire, l’Italia continua a seguire il modello infantilizzante. Questo consiste nel concentrare tutti gli spazi nei singoli padiglioni, obbligando così i carcerati ad essere sottoposti al continuo controllo delle autorità carcerarie, alle quali debbono chiedere il permesso per spostarsi, e dalle quali continuano a dipendere per ogni minima esigenza vitale. Il problema delle carceri, tuttavia, non è riconducibile soltanto alla tipologia di architettura, bensì alla volontà politica e all’orientamento sociale che ne sottendono l’edificazione e le finalità amministratrici. L’intervento di Stefano Anastasia puntualizza come, al di là del debito pubblico che affligge il nostro paese, la costruzione di nuove carceri, anche se seguisse il modello scandinavo, non risolverebbe il problema del sovraffollamento, le cui origini vanno piuttosto rintracciate nelle leggi criminogene contro i migranti e i consumatori di sostanze stupefacenti, varate sotto la spinta securitaria dei primi anni novanta. Questo tema rappresenta il vero nodo gordiano da sciogliere, alla luce del fatto che, sottolinea Patrizio Gonnella, la costruzione di nuove carceri, dettata dai soliti criteri emergenziali, nel corso degli anni non ha fatto altro che creare un circolo vizioso tra istituti di pena e sovraffollamento. A Milano, Bollate ed Opera furono costruite per decongestionare San Vittore. Vent’anni dopo, anche le nuove prigioni milanesi sono sovraffollate. Inoltre, l’edilizia penitenziaria si connota con un vero e proprio business, da cui possono scaturire sia episodi articolati di corruzione, come le carceri d’oro degli anni Ottanta, sia tentazioni privatizzatrici, come successo nel Regno Unito e negli Usa, la cui conseguenza è quella di una proliferazione di subappalti gestiti da compagnie che antepongono il profitto all’implementazione dei diritti dei detenuti. Al tempo di Monti, questa tentazione, sarebbe il caso di rifuggirla, e di impegnarsi piuttosto a cancellare le leggi criminogene, a varare misure alternative alla detenzione e ad impegnarsi per un provvedimento di amnistia. In altre parole, di rendere il carcere meno necessario possibile. Giustizia: far funzionare le direttissime e mandare in carcere solo chi deve andarci di Giovanna Quasimodo La Sicilia, 20 gennaio 2012 È un tema delicato quello della fattibilità e scorrevolezza dei giudizi per direttissima ed è anche una delle priorità che il nuovo procuratore di Catania Giovanni Salvi ha dato al proprio ufficio sin dal momento del suo insediamento, il 10 novembre scorso, ancor prima ancora che si parlasse di decreto svuota carceri. E proprio col procuratore Salvi cerchiamo di capire, soprattutto in una realtà come quella locale, quanto importante sia il problema e perché. Prendendo spunto dalle obiettive difficoltà registrate quotidianamente dalla cronaca sulla possibilità di svolgimento delle direttissime e sulla difficile applicabilità della nuova normativa, può dirci come il suo Ufficio intende risolvere la questione? Ci siamo messi in moto già prima dell’entrata in vigore del decreto del Governo, facendo anche una serie di riunioni col Tribunale per riorganizzare il lavoro affinché si possa arrivare a svolgere un numero di direttissime congruo e proporzionato col numero degli arrestati. Sono ogni anno 1.400 le persone che nel circondario vengono arrestate in flagranza, circa 900 delle quali sono soggette al cosiddetto sistema delle porte girevoli, nel senso che finiscono in cella per uscirne dopo pochi giorni. Di fronte a tutto questo noi dobbiamo evitare che chi non ha ragione di finire in carcere, ci finisca. Inoltre, sempre in riferimento ai 1.400 arrestati in flagranza, sappiamo che due terzi di loro andrà processato col rito ordinario: ecco, noi vorremmo che la proporzione si ribaltasse, cioè che solo un terzo vada col rito ordinario e i rimanenti vengano invece processati per direttissima. Quali sono le ragioni etiche e tecniche per cui il problema delle direttissime le sta così a cuore? Vari ordini di motivi: nell’interesse della collettività, nell’interesse dei diritti dei detenuti e anche per evitare di pesare sull’affollamento delle carceri. Ma andiamo per ordine; certamente risponde a un interesse forte della collettività il fatto che ci sia un giudizio rapidissimo e che l’arrestato venga condotto immediatamente davanti al giudice, ottenendo risposta immediata circa la sua responsabilità; in questo modo si potrebbe nel contempo ottenere un effetto deterrente sulla criminalità. Quanto ai diritti degli arrestati dobbiamo fare in modo di evitare di farli entrare in carcere se non è necessario, specie se si tratta di detenuti primari, cioè che hanno commesso il primo reato, perché finire in cella vuol dire entrare inevitabilmente in contatto con un ambiente che probabilmente non li aiuterà a ritornare sul percorso della legalità. Ecco, anche per questo vorrei che la privazione della libertà fosse il più breve possibile. Ma torniamo alle difficoltà di applicazione del Decreto e del difficile svolgimento delle direttissime. Vi sono intanto problemi organizzativi, uno dei quali sta nell’utilizzazione delle camere di sicurezza che, come si sa, sono state soppresse, ma vi sono anche difficoltà di ordine amministrativo e organizzativo, perché gli uffici giudiziari sono in grande sofferenza, sia sotto il profilo degli organici sia sotto quello delle strutture. Ma su questi due problemi il Governo sta cercando di intervenire mentre noi a Catania stiamo riorganizzando il nostro lavoro. C’è anche il fatto che le camere di sicurezza locali non sono a norma di legge e non garantiscono la sicurezza del detenuto, né mettendolo al riparo da eventuali abusi, né da gesti di autolesionismo. A parte il fatto che gli abusi si possono verificare anche in carcere - ma per questo ci sarà il controllo del Tribunale di Sorveglianza - è sempre meglio rimanere poche ore in una cella di sicurezza che cinque giorni in carcere. D’altronde per sistemare le camere di sicurezza non servono grandi risorse economiche, basta davvero poco in rapporto a quello che l’Amministrazione della Giustizia riuscirebbe a risparmiare se solo si svolgessero le direttissime. Dunque il suo giudizio sul recente decreto del Governo è chiaramente positivo. Sì, secondo me l’idea del nuovo Governo è giusta perché finalmente individua problemi reali che possono contribuire a una Giustizia più veloce ed efficiente. Si pensi per esempio alla gran mole di processi ordinari pendenti sugli uffici del Tribunale, si tratta di procedimenti che si trascinano tra un rinvio e l’altro e restano in circolo per anni rendendo pesante il funzionamento degli uffici. Ma far funzionare le cose sarà davvero così facile? Far funzionare le direttissime fa parte di quelle piccole modifiche che si possono realizzare con un forte impegno professionale ma senza grandi rivoluzioni, nella consapevolezza di ottenere un effetto benefico sulla collettività e assicurando che vada in carcere solo chi davvero deve andarci. Giustizia: le carceri italiane sono un “orrore inaccettabile” di Massimo Romano La Provincia di Como, 20 gennaio 2012 Il costo del cibo per ogni detenuto italiano è di 3,8 euro al giorno. Colazione, pranzo e cena. Il Comune di Roma ne spende 4,5 per ciascun ospite dei canili. Basterebbe questo dato per raccontare di una tragedia italiana. La tragedia di carceri trasformate in luogo dove, a dirla con le parole del presidente della Repubblica Napolitano, “si materializza l’estremo orrore inconcepibile in un Paese civile”. Il ministro della Giustizia, Paola Severino ne ha riferito in Parlamento, snocciolando i dati di quella che non è più considerabile come un’emergenza, ma una criticità rispetto alla quale lo Stato sembra essersi arreso. Il racconto di quello che accade nelle carceri italiane potrebbe essere il contenuto di un’interminabile romanzo dell’orrore. A San Vittore in celle di sette metri quadrati, faticano a respirare sei detenuti per 20 ore al giorno. A Poggioreale ne ammassano anche una dozzina per ogni gabbia. Nell’anconetano Montacuto i reclusi sono costretti a fare i loro bisogni in appositi “pappagalli”, perché i bagni sono sufficienti per 178 ospiti e non per i 448 esseri umani che ci vivono. Ma l’estremo orrore è stato scoperto in quelle carceri dentro le carceri che sono gli ospedali psichiatrici, dove gli ospiti vengono legati ai letti e privati dei farmaci. Le 206 prigioni italiane scoppiano e non da oggi; 68mila detenuti sono stipati in strutture destinate a non più di 45 mila. La qualità della vita si è abbassata notevolmente anche perché dal 2007 al 2010 la spesa annua è stata ridotta da 13.170 euro pro capite, a 6.275. Ventottomila detenuti sono in attesa di giudizio, il 42% dell’intera popolazione carceraria. “Siamo di fronte ad un’emergenza - ha detto il ministro Severino - che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, perché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità umana”. Parole da sottoscrivere, ma che possono essere solo la giusta premessa a decisioni che non possono essere rimandate nemmeno di un giorno. I 66 suicidi di detenuti nel 2011 ne sono la prova inconfutabile. Ma può essere considerato davvero costituzionalmente rieducativo un mondo carcerario nel quale il rischio suicidio, è venti volte superiore a quello della popolazione “libera”? Dove l’indice di sovraffollamento medio è del 149%, contro il 99% europeo? Quanti altri morti dovranno esserci per convincere il Parlamento della necessità di decisioni immediate e coraggiose? Negli anni ottanta e novanta abbiamo assistito a rivolte violente negli istituti di pena. Da anni questo non accade più, se non sporadicamente. I detenuti hanno scelto, fortunatamente, altre strade. Ma per quanto ancora? Aggiungere dolore a chi è già stato privato del bene primario, la libertà, non è accettabile per un Paese civile. Di fronte all’ipotesi di un’amnistia il ministro Severino non ha obiettato. Ha giustamente sottolineato come una decisione in questo senso richieda una maggioranza qualificata in Parlamento. E allora che siano le forze politiche a decidere di chiudere definitivamente il romanzo degli orrori. Giustizia: inchiesta sugli Ospedali psichiatrici giudiziari… luoghi fuori dal diritto di Egle Mugno www.eilmensile.it, 20 gennaio 2012 È ufficiale. Entro, e non oltre, il 31 marzo 2013 tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia saranno chiusi. I detenuti verranno trasferiti in centri, finalmente, adeguati alla cura delle patologie che affliggono queste persone. Una vittoria, seppur tardiva, della minima dignità che ogni Paese civile dovrebbe riservare ai suoi cittadini più preziosi: quelli a cui ha tolto la libertà. In Italia sono sei e rinchiudono 1.500 persone. Quattrocento dovrebbero essere già fuori. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un territorio dimenticato in cui ogni dignità è annullata. Il Parlamento ha fatto un passo verso la chiusura, ma ancora non basta Un uomo di 58 anni, rinchiuso da otto nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, una notte va in bagno e con un lenzuolo trasformato in corda si uccide. Poche ore prima aveva saputo che la sua pena era stata prorogata ancora una volta e che, nonostante da tempo fosse stato giudicato non più “socialmente pericoloso”, sarebbe rimasto rinchiuso lo stesso. Maurizio, 30 anni, nel 2004 viene arrestato per aver guidato contromano con il motorino. Finisce in un Opg dopo aver dato segnali di psicosi. Di proroga in proroga sono passati sei anni. Per lui non c’è nessuna cura e la sua attesa sembra senza fine. I manicomi sono stati aboliti davvero? Il 27 settembre il Senato ha approvato all’unanimità la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino, testo che impegna il governo a chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture nate nel 1975, in seguito alla riforma penitenziaria, per sostituire i vecchi manicomi giudiziari. In Italia attualmente ce ne sono sei e ospitano 1.500 internati: ad Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). Si tratta di centri che accolgono persone che hanno commesso un reato ma sono ritenute mentalmente inferme. Una via di mezzo tra un carcere e un ospedale, un limbo dove il detenuto o - più correttamente - l’internato sconta la sua pena e contemporaneamente affronta un percorso riabilitativo per superare i disturbi psichici che lo hanno reso pericoloso per se stesso e per la società. L’ispezione Nel luglio 2010, i membri della commissione d’inchiesta hanno ispezionato a sorpresa le sei strutture, con una videocamera, scoprendo che in questi luoghi il tempo si è fermato e che assomigliano pericolosamente ai manicomi fascisti degli anni Trenta. Nella relazione finale si legge che “gravi e inaccettabili sono le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli Opg, a eccezione di Castiglione delle Stiviere”; che “tutti presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale”; che “la dotazione numerica del personale sanitario appare carente in tutti gli Opg rispetto alle necessità clinico-terapeutiche dei pazienti affidati a tali istituti. Le modalità di attuazione osservate negli Opg (di contenzione o coercizione fisica) lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi farmacologici di uso improprio rispetto alla finalità terapeutica degli stessi”. Il rapporto parla di edifici sporchi, abbandonati, con gravi carenze strutturali e igieniche, celle claustrofobiche, personale medico quasi inesistente, agenti penitenziari che spesso sopperiscono all’assenza di operatori qualificati, internati sedati con psicofarmaci. L’immagine di un uomo chiuso in cella, legato mani e piedi a un letto di metallo con un foro centrale per far cadere feci e urina direttamente in un pozzetto ricavato nel pavimento, è sconvolgente. Altri flash agghiaccianti: nei bagni alla turca bottiglie d’acqua da bere depositate nel water d’estate per mantenerle fre­sche, d’inverno per evitare che i topi risalgano dalle fogne. I “mai” che scandiscono il racconto di Francesco Cordio, il regista del documentario girato per la Commissione, raccontano meglio di ogni altra cosa l’abisso di degrado in cui è dovuto entrare: “Ho lavorato in molte situazioni gravi e deprecabili, ma mai in un posto come questo. Non ho mai provato nulla di simile. Sono luoghi orribili, ho faticato a riprendere le cose che avevo davanti, preferivo guardarle attraverso la telecamera”. Ignazio Marino lo definisce “un viaggio nell’Ottocento” mentre per il presidente Napolitano questi uomini sono “vittime di contenzione e di un degrado indegno anche di un Paese appena appena civile”. Albertina Soliani, una delle senatrici della Commissione d’inchiesta, è netta: “Gli Opg, nonostante la legge Basaglia del 1978, sono rimasti un territorio dimenticato, un cono d’ombra. È il momento per affrontare la questione in via definitiva, dopo questa risoluzione il governo non ha più alibi”. La questione è nota da tempo. Già nel 2005, Gil Robles, primo commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, dopo una visita agli Opg italiani aveva detto con chiarezza che per ogni internato andava chiesta una perizia psichiatrica approfondita e che per nessuna ragione i malati-detenuti sarebbero dovuti restare rinchiusi per mancanza di strutture esterne in grado di prendersene cura. Robles, già sei anni fa, sollevava il problema delle “proroghe” che attualmente non è stato ancora risolto. Capita spesso che persone accusate in passato di reati minori, come furti o rapine, a causa di una perizia psichiatrica sbrigativa finiscano internati negli Opg per un periodo ben più lungo della pena stabilita. Dimenticati Questo è il caso di Davide, 32 anni, cinque dei quali passati nell’Opg di Reggio Emilia, che un giorno, a Udine, tenta una rapina prendendo una coppia in ostaggio; le forze speciali intervengono e li liberano senza fare feriti. In base alla perizia psichiatrica che segue il suo arresto, durata sette minuti, è giudicato affetto da psicosi delirante. Davide viene internato di nuovo, per due anni che poi diventeranno sette. Di storie simili se ne potrebbero raccontare tante, purtroppo. A Napoli, un detenuto-paziente, internato per essersi presentato davanti una scuola vestito da donna, venne condannato a due anni. Ne sono passati venticinque, lui è ancora lì. Questo accade perché fuori non c’è nessuno - non la famiglia né la struttura sanitaria territoriale - che sia in grado di prendersi cura di lui. Un’agente penitenziaria in servizio presso l’Opg di Napoli lo conferma: “Per il 40 per cento degli internati la pericolosità sociale è venuta meno. Il problema è che i magistrati di sorveglianza non sanno dove mandarli e prorogano all’infinito la loro permanenza”. Infatti sono quattrocento, un quarto del totale, gli internati giudicati “dismissibili” fin da subito perché non più socialmente pericolosi che però si trovano ancora rinchiusi. La questione è stata sollevata nuovamente, nel 2008, dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani e degradanti del Consiglio d’Europa, dopo una visita in Italia: “Alcuni pazienti sono stati trattenuti nell’Opg più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni, altri, invece, oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine d’internamento”. Il governo italiano si giustifica: “La legge non prevede un limite per l’esecuzione di misure di sicurezza temporanee non definitive”. Strano, perché la certezza della pena, la definizione della durata del periodo da scontare per un reato, è uno dei fondamenti di ogni democrazia moderna. In questo caso, evidentemente, si tratta di un optional. Obiettivo abolizione “Un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2008 impone la chiusura degli Opg a favore di strutture territoriali a carico del Sistema sanitario nazionale”, spiega la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, autrice del libro-inchiesta “Matti in Libertà - L’inganno della Legge Basaglia”, la quale ricorda che “se da un lato la risoluzione votata all’unanimità è un importante passo avanti, dall’altro non è stata presentata nessuna denuncia ai dan­ni del ministero della Giustizia e di quello della Sanità, colpevoli di non essere intervenuti concretamente in tutti questi anni”. Sullo stesso punto insiste il comitato Stop Opg, composto da venticinque associazioni che da tem­po si battono per la chiusura di queste strutture. “Il nostro obiettivo non è il miglioramento degli Opg, ma la loro abolizione perché sono una risposta sbagliata e incivile, proprio come lo erano i manicomi. Noi continuiamo a fare pressione su governo, regioni, Asl e dipartimenti di salute mentale responsabili di organizzare la presa in carico delle persone internate, come previsto dalle norme e da diverse sentenze della Corte Costituzionale”. Nessuno sa quanto tempo dovrà passare prima che il governo si decida a chiudere definitivamente gli Opg e a restituire dignità ai malati e alle persone che ci lavorano. Quanto si dovrà aspettare perché le istituzioni pongano fine all’inferno in cui vivono centinaia di invisibili. Un inferno che un agente di polizia penitenziaria che deve bastare, da solo, per trenta internati, riassume così: “Non dormono mai e c’è chi grida senza motivo. Io accorro, vado a vedere se sta male. Certo che sta male, ma dentro e io non so cosa fare, non posso fare nulla. Ormai quelle voci me le sento dentro, me le porto a casa. Le sembra giusto?”. Giustizia: Margara; possibili alternative all’Opg, che garantiscano legittimità Ristretti Orizzonti, 20 gennaio 2012 Il garante dei detenuti interviene sull’emendamento Marino e dopo le posizioni della Lega. Il suicidio a Solliccianino: “In carcere sempre più persone con problemi psichiatrici”. “Le misure di sicurezza possono essere applicate in modo diverso, e in quelle condizioni di legittimità effettive che oggi gli ospedali psichiatrici giudiziari non possiedono”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Alessandro Margara interviene nella vicenda che ha visto il senatore Ignazio Marino presentare un emendamento per la chiusura degli Opg entro il 2013 e successive prese di posizione della Lega. “Questi istituti sono vecchi e lo dimostrano - prosegue Margara - e non offrono la possibilità di soluzioni che siano dignitose e decorose”. Margara è intervenuto anche riguardo al nuovo caso di suicidio che si è verificato nel carcere di Solliccianino (Firenze). “Purtroppo rileviamo come sia sempre più alto il numero delle persone che hanno problemi di ordine psichiatrico - ha detto - e che vengono messe in carcere. Si calcola che circa il 20% della popolazione carceraria sia in cura psichiatrica”. E riguardo all’ultimo caso, il garante ha spiegato che il suicida aveva visto recentemente una psicologa e che era stato approntato per lui un inserimento comunitario per la tossicodipendenza, ma che evidentemente ciò non è bastato a rassicurarlo. Giustizia: Cassazione; anche pregiudicato deve avere risarcimento per ingiusta detenzione Apcom, 20 gennaio 2012 Il pregiudicato ingiustamente detenuto deve essere risarcito, come chi non ha mai avuto precedenti penali. A stabilirlo la Corte di Cassazione, che si è espressa su un caso di errore di detenzione. Importante precisazione dei Supremi giudici sulla riduzione dell’indennizzo di una persona con la fedina penale sporca, ma ingiustamente detenuta. La vicenda analizzata da piazza Cavour fa riferimento al ricorso di un pregiudicato contro la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, che aveva ridotto a 43 mila euro il risarcimento per ingiusta detenzione. L’uomo infatti era stato assolto, dopo 239 giorni di custodia in carcere, per “per non aver commesso il fatto”. Un’assoluzione che, secondo il giudice di merito, non dava diritto ad un pieno risarcimento. Con la sentenza n. 112 pubblicata il 9 gennaio 2012, la Corte di legittimità aveva capovolto i verdetti dei giudici di merito, che avevano giustificato la riduzione del risarcimento, con “l’assuefazione” al carcere da parte di chi è abituato a frequentarlo. La Corte d’Appello aveva affermato, infatti, che chi è gravato da precedenti penali subisce un’afflizione minore rispetto a chi è incensurato, in caso di una carcerazione immeritata. Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che la domanda di indennizzo per detenzione ingiusta, presentata da chi ha già subito condanne penali, deve essere esaminata dando al richiedente le medesime possibilità di essere risarcito di chi non ha mai avuto precedenti penali. Nel caso di specie, dunque, la Cassazione ha ritenuto illegittima la riduzione applicata alla domanda risarcitoria, considerato che è stato “omesso ogni pur possibile riferimento all’eventuale minore afflittività della carcerazione per una persona la cui immagine sociale risulti compromessa da precedenti condanne”. Giustizia: project financing per nuove carceri, nella bozza del “decreto infrastrutture” Il Velino, 20 gennaio 2012 “Si introduce una nuova disciplina in materia di concessioni che individua il partenariato pubblico-privato quale strumento da privilegiare per la realizzazione di nuove strutture carcerarie; in particolare si fa riferimento ad un modello di partenariato pubblico-privato secondo il quale i costi di realizzazione della struttura sono finanziati interamente con capitale privato reperito attraverso strutture bancarie, che può essere integrato, in misura non inferiore al 20%, con il finanziamento da parte di investitori istituzionali (fondazioni di origine bancaria)”. È quanto si legge nella bozza del dl Infrastrutture all’esame del Consiglio dei ministri. La disposizione è volta a favorire la realizzazione di nuove strutture carcerarie, rese quanto mai necessarie dal problema del sovraffollamento dei detenuti, in un periodo di estrema difficoltà di reperimento delle risorse pubbliche che richiedono il maggior utilizzo possibile di strumenti che prevedano l’impiego del capitale privato. È previsto che l’amministrazione debba comunque in via preliminare effettuare un’analisi sulla convenienza economica e verificare la possibilità della copertura del contributo pubblico da erogare in conto gestione al concessionario”. Giustizia: nuove agevolazioni per il lavoro dei detenuti, c’è una proposta di legge “bipartisan” www.ilsussidiario.net, 20 gennaio 2012 Proposta di legge bipartisan in Parlamento per dare una seconda chance ai carcerati. L’iniziativa è portata avanti dal vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, (Pdl) e dal vicesegretario del Pd, Enrico Letta. Che spiegano: “in tempi di crisi drammatica dell’economia reale e del lavoro, porre l’attenzione sul reinserimento occupazionale dei detenuti rischia di trasformarsi in un boomerang se non si chiariscono in profondità la specificità del problema e soprattutto i costi sociali ed economici della recidiva, che pesano ogni anno e in modo ingente su tutta la collettività”. Per i due firmatari della proposta di legge, “agire su questo fenomeno è una responsabilità che investe direttamente la dimensione dell’intervento pubblico, che ha il compito di favorire a ciascuno - anche a chi ha sbagliato e ha pagato con la reclusione i propri errori - una seconda possibilità. Un’altra chance per farcela attraverso il lavoro, con tutto il portato di fatica e soddisfazione, passione e sacrifici che esso può recare con sé”. L’intento, spiegano ancora, “è semplice: riprodurre, all’interno delle carceri, un modello di lavoro imprenditoriale più qualificato”. Mosca (Pd): aiutare i detenuti fa risparmiare lo Stato La Commissione lavoro della Camera ha approvato la proposta di legge che ha come intento quello di ridurre l’incidenza della recidiva e favorire l’integrazione nella società di chi ha scontato la propria pena. Una legge che idealmente viene a sostituire l’attuale ordinamento legislativo noto come legge Smuraglia in funzione dal 2000, allargandone i contenuti e portando a compimento diversi passaggi che l’attuale situazione carceraria ha reso drammaticamente urgenti. Un disegno di legge bipartisan, nato inizialmente con una proposta a firma del senatore Treu e poi perfezionato e portato a compimento dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, composto da appartenenti alle diverse forze politiche. Per Alessia Mosca, deputato del Pd, membro dell’Intergruppo e relatore della proposta di legge, che ha risposto ad alcune domande de Ilsussidiario.net sul tema, “il ruolo dell’Intergruppo per la sussidiarietà è stato determinante nell’arrivare a questo obbiettivo”, che è aumentare le agevolazioni per imprese e cooperative sociali che favoriscano l’inserimento lavorativo dei detenuti. “A parte lodevoli esperienze come quella che si registra, ad esempio, nel carcere di Padova - aggiunge Alessia Mosca - siamo purtroppo davanti a una scarsa partecipazione delle imprese nella realtà carceraria”. In questo senso la proposta di legge, che dovrebbe essere sottoposta al voto nelle prime settimane di febbraio, vuole proprio essere una risposta a questa situazione. Onorevole, quale ruolo ha avuto l’Intergruppo per la sussidiarietà nell’elaborare il disegno di legge? Un ruolo determinante. La proposta di legge infatti nasce all’interno dell’Intergruppo in seguito a una visita fatta al carcere di Padova circa un paio di anni fa. Va detto che questa proposta di legge nasce anche su spinta dell’elaborazione sul tema del senatore Tiziano Treu, che aveva inizialmente depositato la proposta a sua firma. La proposta è stata poi depositata a firma di esponenti di tutti gli schieramenti, cosa che poi è successa anche alla Camera con identico risultato. Un percorso dunque che ha visto insieme i diversi schieramenti politici. Esattamente. C’era poi stato anche l’intervento dell’onorevole Renato Farina che aveva presentato una proposta di legge analoga, tesa anche al medesimo scopo e firmata da diversi parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Quindi l’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà ha raccolto tutto questo lavoro facendolo suo e arrivando al testo che abbiamo presentato l’altro giorno in Commissione Lavoro. Siamo dunque a un passo dall’obiettivo finale. Come crede che il Parlamento voterà, al momento di farlo? Non possiamo certo ancora cantare vittoria, almeno fino a quando arriveremo al momento finale dell’approvazione. Sappiamo però bene come passare in Commissione sia molto importante perché significa avere tutte le precondizioni per poter arrivare rapidamente a un’approvazione anche in Aula. Si sente ottimista? Sono molto ottimista, dato che abbiamo già la calendarizzazione del voto prevista la prima o seconda settimana di febbraio. Essendo stata votata a grandissima maggioranza in Commissione da tutti i gruppi non credo proprio possa venire poi bocciata. Entriamo nel dettaglio della vostra proposta. In che modo si supera il precedente ordinamento detto legge Smuraglia? Si tratta di fatto di una modifica migliorativa della legge Smuraglia, in quanto va ad allargare e allungare i benefici per coloro che partecipano al lavoro nelle carceri. In che modo? E chi è che ha diritto a questi benefici? Si tratta di tutte quelle aziende e anche cooperative sociali che accettano di investire sul lavoro dei detenuti. I benefici prevedono l’aumento del credito di imposta a cui si ha diritto (innalzato a mille euro) per ogni detenuto che lavora. Viene anche allungato il periodo entro cui questo credito di imposta resta in vigore, che si allunga anche per 24 mesi dopo la scarcerazione. Un risultato importante. Siamo anche riusciti a ottenere, e questo è davvero importante, un aumento del tetto della copertura finanziaria. Questo grazie all’impegno del ministro del Lavoro e di quello della Giustizia, i quali hanno considerato la proposta come valida e quindi hanno dato il loro via libera per coprire i costi previsti dalla legge. Giustizia: ‘ndrangheta; finti depressi per uscire dal carcere, arrestati anche due medici di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 20 gennaio 2012 Sei ordini di custodia per il boss Giuseppe Pelle (già in carcere), la moglie, il figlio, un avvocato e due sanitari. Le intercettazioni e le rivelazioni di un pentito svelano il sistema per tornare a comandare nel territorio. Già prima di essere arrestato, il boss Peppe Pelle aveva lavorato per prepararsi l’uscita dal carcere. Per mesi aveva accumulato certificati medici, visite specialistiche e terapie. Tutte false. E non era l’unico. Gli uomini della ‘ndrangheta sapevano bene come procurarsi la chiave per aprire le celle dei penitenzieri e tornarsene a casa. La parola magica era per tutti “depressione maggiore”. Certo bisognava recitare un pò, chiamare il 118 e qualche volta fingere di essere matti, simulando persino tentativi di suicidio. Ma funzionava. Funzionava quasi sempre. I giudici difficilmente si assumevano la responsabilità di tenerli dietro le sbarre. Non di fronte alle diagnosi di medici e specialisti. All’alba di oggi gli uomini del comando provinciale e del Ros dei carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato sei persone e svelato la messa in scena del capoclan di San Luca. In manette, oltre al boss (già detenuto) sono finiti anche la moglie, il figlio, un avvocato e, soprattutto, due medici. Francesco Moro, in servizio al 118 di Bianco, nella Locride, e Guglielmo Quartucci, responsabile della clinica Villa degli Oleandri (in provincia di Cosenza). Il trucco è stato scoperto grazie alle microspie piazzate dal Ros a casa Pelle in occasione dell’inchiesta Reale. Per settimane i carabinieri hanno ascoltato il boss discutere con il suo amico medico. Avevano pianificato ogni cosa. A partire dal ricovero in clinica e fino al momento esatto in cui chiamare il 118. Ossia quando di turno ci sarebbe stato proprio Moro. Minuzioso anche l’elenco dei sintomi che la moglie e il figlio avrebbero dovuto descrivere al centralino. Malori improvvisi, svenimenti, ansia e, appunto, il tentativo di suicidio. Meglio se manifestato davanti ai sanitari stessi. Si organizzavano su cosa fare e quando farlo, non sapendo che le telecamere stavano registrando tutto, compreso l’arrivo dell’ambulanza a sirene spiegate. Un riscontro formidabile che si è poi incastrato perfettamente con il racconto di un pentito, Samuele Lovato. Il collaboratore di giustizia ha spiegato che per poter uscire dal carcere per motivi di salute è necessario avere la disponibilità al ricovero da parte di una delle cliniche che fanno parte del sistema: “Io so che parecchie persone che appartengono alla ‘ndrangheta fanno richiesta. E pilotano la loro uscita dal carcere facendo avere, tramite i loro avvocati, delle richieste per finire a Villa degli Oleandri. Una volta arrivati in clinica gonfiano le patologie, riportano sopra le cartelle farmaci che non vengono assolutamente somministrati, falsificano dei test”. Proseguendo nel discorso, Lovato spiegava che in questi casi è necessario che venga diagnosticata una patologia ben precisa, la “depressione” e ne spiegava le ragioni: “La depressione è una patologia non riscontrabile oggettivamente”. Dice infatti: “È una di quelle patologie astratte... tu non sai mai dire se uno sta fingendo o non sta fingendo. E non è una patologia tipo un braccio rotto che tu dici se è guarito, è guarito”. Ed ecco come funziona, secondo il collaboratore: “Allora siamo in carcere, si fa in modo che la persona vada a finire in una di queste cliniche. Una volta che sei in questa clinica, tu devi uscire per poter tornare quantomeno nella zona, anche con i domiciliari a casa e poter riprendere il controllo sul territorio. Che cosa succede, succede che la versione dei medici è quella: dici ha avuto dei miglioramenti rispetto a quando è arrivato... Per curare questo tipo di patologia il paziente necessita di stare vicino agli affetti familiari, causa scaturente della depressione in funzione a quando lui è stato carcerato, rendo l’idea?”. Da qui in poi il passo è breve: “Allora il Tribunale comincia a valutare il fatto. Dice ma alla fin fine è in clinica, ed in clinica è ai domiciliari, mandarla ai domiciliari a casa questa persona non è che ci sia niente di ... sempre ai domiciliari è questa persona. E questa, diciamo, era la cosa cioè diciamo quella a cui miravano tutti quanti”. E in tanti in passato ci sono riusciti. Imperia: Fabio?... me l’hanno ucciso in carcere Secolo XIX, 20 gennaio 2012 Parla Barbara, fidanzata del savonese morto in prigione: “A Imperia non vigilano, non hanno impedito l’overdose”. “Fabio non si è ucciso. Non si sarebbe mai ammazzato. Era tutto pronto per il matrimonio. Me l’hanno ucciso da dentro al carcere. Come è possibile morire per un’overdose, un abuso di farmaci a base di oppiacei dove ti dovrebbero controllare? Non si erano accorti che aveva perso una ventina di chili?”. Barbara Mazza, 19 anni da compiere il 25 giugno, si sarebbe dovuta sposare con Fabio Parodi, 27 anni, martedì in carcere a Imperia “alle 11”. “Non è vero che avevo un altro, o che volevo lasciarlo e che avevo fatto saltare il matrimonio. Non è vero”. E per dimostrarlo ieri nel tardo pomeriggio, Barbara ha aperto la porta di casa sua in via Chiavella, dove si è rinchiusa da lunedì. Da quando un’amica dei genitori di Fabio le ha telefonato per dirgli che il fidanzato - “mio marito” - era morto. “Ho pensato subito ad uno scherzo e mi sono attaccata al telefono del carcere e ho chiamato un’operatrice. Mi ha detto che era successo qualcosa di grave, ma al telefono non poteva aggiungere altro. Nessuno mi ha detto altro”. Mostra l’abito da sposa rosso fiammante: “Quello bianco per il matrimonio in chiesa non appena Fabio fosse dal carcere, per lui era pronto un vestito alla Scarface”. Poi le bomboniere, le partecipazioni, i cartoncini. “Tutto fatto”. Sul giallo emerso dalle ricostruzioni effettuate dalla Procura di Imperia che ha aperto un’inchiesta con un indagato per la morte di Fabio, valutando anche l’ipotesi del suicidio. “Lunedì scorso alle 10 avevo telefonato al comune di Imperia per disdire il matrimonio. Era un modo per dire a Fabio di smetterla con la droga, altrimenti non l’avrei sposato. Fabio però era già morto da ore. Non poteva saperlo”. Barbara non lesina accuse. “Fabio aveva avuto problemi in passato con la cocaina, ma ne era uscito, come è possibile che in carcere dove doveva essere controllato potessero girare dosi e farmaci a base di oppiacei come il Contramal che lui stesso mi diceva che rubava dai magazzini dei farmaci?”. La fidanzata conserva scatole piene di lettere e di fiori che lui le spediva. Anche le boccettine dei medicinali che prendeva. Mostra l’ultima lettera che Fabio le ha scritto prima di morire. È datata 11 gennaio. “Avevamo deciso di sposarci il 24 gennaio perché era il nostro numero, il nostro anniversario. Ci eravamo messi insieme il 24 aprile del 2009. Fabio era innamoratissimo di me, e io non avevo avuto altre storie quando stavo con lui”. Dal carcere la polizia penitenziaria aveva raddoppiato turni e monitoraggio quando Parodi era al Sant’Agostino di Savona dopo le voci di una storia della sua fidanzata con un altro detenuto. Barbara aveva notato, e segnalato al personale del carcere che qualcosa non andava negli ultimi colloqui avuti: “Fabio era dimagrito tantissimo, aveva perso tanti chili, e io mi preoccupavo per lui. Era agitatissimo. L’abuso di Contramal in carcere gli aveva procurato delle crisi epilettiche in passato”. Il matrimonio era già saltato una volta in precedenza, quando Fabio l’estate scorsa era detenuto al Sant’Agostino di Savona. “Sì, è vero, ma poi avevamo superato tutto. I problemi che avevamo erano stati legati alla tossicodipendenza, ma erano stati superati”. Non crede all’ipotesi del suicidio. “Aspetto di essere chiamata e sentita dalla magistratura che ha aperto un’inchiesta sulla sua morte. Non credo al suicidio. Penso piuttosto ad un gioco finito male. Fabio come riusciva a procurarsi così tanti farmaci?”. Un indagato c’è già nell’inchiesta condotta dal procuratore capo di Imperia Lorenzo Fornace. Il detenuto che gli avrebbe passato i medicinali. Per volontà dei genitori la salma arriverà questa mattina alle 11 e 45 al cimitero di Zinola. Firenze: Radicali; dopo il suicidio a Solliccianino la Regione intervenga sulla sanità penitenziaria Agenparl, 20 gennaio 2012 “Innanzitutto anche a nome dei compagni Radicali Maurizio Buzzegoli, Emanuele Baciocchi e Ilaria Sborgi coi quali domenica scorsa abbiamo visitato l’istituto Gozzini, esprimo le mie più sentite condoglianze alla famiglia del ragazzo che ieri si è tolto la vita nella sua cella”. Così in una nota il Senatore Radicale Marco Perduca, membro della Commissione giustizia. “Era l’unica persona colla quale nel giro di tre ore non abbiamo parlato perché era rimasto in cella a fumare. Esprimiamo anche la nostra vicinanza alla dottoressa Michelini Direttrice dell’istituto e a tutto l personale che ci ha accompagnati nel giro cella per cella perché sappiamo quanto tentassero di esser vicini e di conforto a qualcuno che comunque da tempo manifestava forti sintomi di depressione. Ci appelliamo quindi al Presidente della Regione Rossi perché faccia ogni sforzo straordinario per la sanità penitenziaria, perché là dove non arriveranno le misure che governo e parlamento si accingono ad adottare, arrivi almeno la qualità dell’assistenza sanitaria toscana. In particolare occorre potenziare la presenza di psicologi e psichiatri per aiutare i detenuti a vivere in condizioni sempre più spesso oltre la legalità - non a Solliccianino per fortuna - con un minimo di dignità psico-fisica. Allo stesso tempo occorre lanciare progetti pilota di assistenza psicologica anche per gli agenti che son costretti ad agire in contesti di forte stress fisico ed emotivo. Sappiamo che la Ministro Severino è ben intenzionata al riguardo, si colga l’occasione”. Padova: nuove indagini sulla morte di Graziano Scialpi, il giudice Sonia Bello non archivia il caso Il Gazzettino, 20 gennaio 2012 Non andrà in archivio l’inchiesta sulla morte di Graziano Scialpi, l’ex giornalista quarantottenne deceduto per tumore nel carcere di strada Due Palazzi il 15 ottobre 2010. I familiari di Scialpi, assistiti dall’avvocato Annamaria Alborghetti, si sono opposti all’archiviazione chiesta dal pubblico ministero Emma Ferrero. Il giudice delle indagini preliminari Sonia Bello ha ordinato nuove indagine nei confronti dei medici indagati per la morte del detenuto. Sono stati i familiari dell’uomo a far avviare l’inchiesta. Secondo i parenti, Graziano Scialpi sarebbe stato lasciato solo per oltre un anno, senza la possibilità di poter fare nemmeno una visita specialistica. E i testimoni che ha indicato l’avvocato Alborghetti sono pronti a confermare le tappe del calvario del detenuto. Tra i testimoni ci sono i genitori dell’ex giornalista e alcuni volontari che operano nella casa di reclusione e che erano a conoscenza del travaglio subito dall’uomo. La morte di Scialpi è stata al centro anche di un’interrogazione parlamentare della deputata Radicale Rita Bernardini, che aveva chiesto all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano se, al di là dell’inchiesta della magistratura, non si ritenesse di dover verificare, attraverso un’approfondita indagine interna, se il trattamento sanitario previsto nell’istituto di reclusione abbia corrispondenza con le leggi dello Stato. I primi segni della malattia erano apparsi nel novembre 2008, all’epoca Scialpi, in carcere per aver ucciso la cognata e reso cieca la moglie, godeva del regime della semilibertà e di giorno lavorava all’esterno del carcere, così quando usciva si comprava degli antidolorifici per il mal di schiena. Già allora aveva chiesto il permesso di farsi visitare, ma non gli sarebbe stato concesso. I problemi erano arrivati qualche mese dopo, quando al detenuto era stata revocata la semilibertà, perché gli avevano trovato nel sangue le tracce di quegli oppiacei che aveva assunto per calmare il dolore. Tornato dentro non gli avrebbero fatto prendere nemmeno il Voltaren. Modena: lettera dagli internati della Casa di Lavoro di Saliceta “noi, miserabili dimenticati” Dire, 20 gennaio 2012 “Scriviamo dalla Casa lavoro di Saliceta San Giuliano di Modena, dove al momento risultiamo essere una settantina di internati. Forse sarebbe più appropriato dire che questa lettera vi perviene dal girone dei miserabili dimenticati, perché è così ormai che abbiamo denominato questo posto”. Tre fogli scritti con grande accuratezza, e una cinquantina di firme disordinate in calce: sono le storie dei condannati al cosiddetto ergastolo bianco, una sorta di pena senza fine per chi non ha più legami con la società civile. Per trovare il “girone dei miserabili” non bisogna andare lontano: la casa di lavoro si trova in provincia di Modena, a Saliceta San Giuliano. La lettera, firmata da 55 dei 70 detenuti, è stata letta ieri sera in occasione dell’incontro con la senatrice Pd, Angela Finocchiaro. Gli internati sono coloro che, pur avendo concluso la pena, non avendo un luogo e una vita a cui tornare, non possono uscire dalla struttura penitenziaria perché considerati ancora pericolosi, in quanto potrebbero potenzialmente reiterare reati. “Noi tutti assistiamo con sgomento e preoccupazione agli ultimi risvolti politici in tema di materie penitenziarie”, scrivono, sottolineando il sollievo nel vedere la problematica del sovraffollamento all’attenzione del Parlamento. “Quello che ci lascia sgomenti è che non abbiamo assistito a una sola discussione dove fosse posta al centro della questione anche la ‘Casa lavorò e coloro che ne sono ospitati, gli internati - proseguono - ci rifiutiamo di credere che essere una sparuta minoranza in quest’oceano di problematiche carcerarie ci condanni e confini nel limbo del dimenticatoio”. Eppure, “occorre sapere che per noi internati è già di difficile comprensione accettare il principio che regola la materia penale della casa lavoro: essere privati della libertà solo in funzione di una prognostica ipotesi di reiterazione del reato. Perché, e forse in pochi lo sanno, è questa la sola ragione che ci tiene rinchiusi qua dentro”, fanno sapere. “L’internato altri non è se non un ex detenuto. Destinato alla casa lavoro, quindi ad un’ulteriore privazione della libertà, dopo aver espiato per intero la pena detentiva per cui era stato destinato per una violazione penale”, spiegano gli ospiti di Saliceta. “È un po’ come dire: vado dal salumiere, pago per ciò che acquisto e quando mi ritrovo nel parcheggio in procinto di tornare a casa appare qualcuno che mi impone di pagare di nuovo per le stesse cose già acquistate”, spiegano. E la beffa è che dentro la casa lavoro, che avrebbe come fine il recupero, non c’è né lavoro né recupero. “Dove sono queste strutture, questi corsi formativi, questo lavoro? Dove li avete dimenticati? Pretendete forse da noi di cercarli nell’oziosità delle nostre giornate?”, domandano. “L’auspicio è che queste rimostranze riescano a scuotere le coscienze sociali affinché qualcuno si faccia portavoce delle nostre istanze, in modo che questa materia sia almeno posta all’attenzione del dibattito politico, con il fine preciso di rivederne il principio e l’applicazione – concludono - i diritti dei più deboli non sono diritti deboli”. Modena: carcere ormai al collasso, il caso della nuova ala Gazzetta di Modena, 20 gennaio 2012 Il Pd presenta la situazione degli istituti penitenziari: “Il padiglione di Sant’Anna non potrà servire a nuovi ingressi, ma a migliorare la condizione attuale”. Sì al nuovo padiglione del carcere Sant’Anna, ma solo per migliorare la sistemazione dei detenuti già presenti a Modena, e non per ospitarne altri”. È questo il monito che il Pd ha lanciato in occasione di uno degli approfondimenti che il Forum Sicurezza Pd ha dedicato alle emergenze della nostra città. Primo punto: il carcere. In quello di Modena, oggi i detenuti sono quasi il doppio rispetto alla capienza prevista (411 contro 220), e due su tre sono stranieri, mentre circa la metà è in attesa di giudizio. Per quanto riguarda l’organico di polizia penitenziaria, invece, all’appello mancano 51 agenti rispetto al numero previsto. La metà dei mezzi di servizio, inoltre, è fuori uso. Il convegno di ieri sera “Carceri, uscire dall’emergenza” è partito da questi dati non proprio rassicuranti. Si tratta di una situazione allarmante, che il segretario comunale del Pd, Giuseppe Boschini, non esita a definire “un inferno”, al punto che all’interno della struttura, “anche le guardie finiscono per scontare la pena: basti pensare al numero dei suicidi degli agenti”. Ma la casa circondariale Sant’Anna, come fa notare Boschini, non è l’unica struttura penitenziaria presente nella provincia. Ci sono anche la casa di recupero di Castelfranco Emilia (mai compiutamente messa in funzione coi suoi percorsi di recupero dedicati per lo più ai tossicodipendenti), e la Casa di Lavoro di Saliceta San Giuliano, dove si sconta il cosiddetto “ergastolo bianco”, cioè la prosecuzione della detenzione anche dopo la fine della pena, per difficoltà di reinserimento nella società. Entrambe le strutture hanno una dotazione di organico insufficiente (rispettivamente -17% e -29%). Secondo il Pd di Modena, la prima cosa da fare è utilizzare il nuovo padiglione del carcere Sant’Anna, che è pronto ad accogliere 150 detenuti, per accogliere quelli già presenti e migliorare le loro condizioni di vita. L’altra condizione, però, è aumentare il numero degli agenti. “Quel padiglione potrà aprire solo a due condizioni: che arrivino altri agenti, e che i 150 posti siano occupati dai detenuti del Sant’Anna, in modo che non si trasformi in un altro inferno”, dice Boschini. “Non si può certo pensare di ospitare altri carcerati provenienti dall’esterno”. “Gli ultimi dati - aggiornati all’inizio di questa settimana - vedono la presenza di 411 detenuti rispetto ai 220 originariamente previsti - fanno sapere Boschini e Davide Baruffi, segretario provinciale - in gran parte si tratta di stranieri (68%)”. Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, secondo i dati forniti dai sindacati di polizia penitenziaria, l’ultima vettura acquistata risale al 2005, mentre la più vecchia è stata immatricolata nel 1994. Ma su 13 mezzi in dotazione, ben sette sono classificati come “fuori uso” o “guasti”. Una situazione a dir poco paradossale. Per Davide Baruffi “tutto questo è stato il frutto di problemi che per anni sono stati accumulati e che ora gestire è difficile. E tutto questo riguarda anche Modena dove i pochi rinforzi di agenti e la situazione di affollamento pesa tantissimo. I modenesi devono capire e sapere che la sicurezza del carcere significa anche sicurezza per la nostra città e che un passo in più va fatto sul fronte della giustizia, troppo lenta rispetto alle carcerazioni: oggi il 48 per cento è in carcere ma in attesa di giudizio”. Firenze: Sappe; detenuto in semilibertà evade da “Solliccianino” Agi, 20 gennaio 2012 Sarebbe dovuto rientrare ieri sera nel carcere di Firenze Mario Gozzini (meglio conosciuto come Solliccianino), e invece non si è presentato. A suo carico è stata diffusa una nota di ricerca. Lo rende noto il segretario generale del Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria) Donato Capece. “L’evasione - spiega Capece - rientra purtroppo tra gli eventi critici che possono accadere. Il detenuto sarebbe dovuto rientrare ieri sera in carcere, ma non si è presentato. Questo non deve certo inficiare l’istituto della concessione di permessi ai detenuti, anche perché gli episodi di evasione sono minimi, ma è evidente che c’è sempre qualcuno che se ne approfitta: nel 2010 sono state complessivamente 15 le evasioni dalle carceri italiane, 38 i mancati rientri, come in questo caso, dopo aver fruito di permessi premio e 12 dalla semilibertà”. Capece sottolinea inoltre come proprio oggi il Sappe abbia sollecitato un incontro con il ministro della Giustizia Paola Severino per un confronto sugli interventi del ministro e del Governo in grado di risolvere le criticità penitenziarie. “L’allarmante dato di 67mila detenuti che sovraffollano le carceri italiane, la cui capienza regolamentare è pari a poco più di 44mila posti - aggiunge il sindacalista della Penitenziaria - impone l’adozione di provvedimenti urgenti. E in questo senso va nella direzione giusta il Decreto Legge attualmente in discussione al Senato”. Bologna. Marzocchi (Regione); pensare a rilancio dell’Ipm del Pratello, assieme a Comune e Ausl Dire, 20 gennaio 2012 Il terremoto istituzionale al carcere minorile di Bologna deve diventare l’occasione per ripensare il Pratello. A sostenerlo è Teresa Marzocchi, assessore regionale alle Politiche sociali, questa mattina a margine di un convegno in Regione. Marzocchi preferisce restare un passo indietro rispetto alle vicende giudiziarie che hanno decapitato il Pratello. Si limita a rilevare che la magistratura “si è attivata con immediatezza e lucidità”. L’assessore regionale si preoccupa di più del futuro e del rilancio del carcere minorile. “Stiamo raccogliendo tutti gli interventi fatti sul Pratello”, spiega Marzocchi, che ha nei giorni scorsi ha incontrato il capo del dipartimento di giustizia minorile, Bruno Brattoli. “A fine mese avremo un nuovo incontro con Brattoli, insieme all’Ausl e al Comune di Bologna - continua Marzocchi - per vedere di fare la nostra parte, in collaborazione con i due garanti dei minori e dei detenuti”. L’assessore pensa a un’opera di “accompagnamento di chi lavora per riprogettare e garantire la rete regionale del carcere minorile. Prendiamo questa occasione per fare un salto in avanti - manda a dire Marzocchi - per fare qualcosa di più innovativo e più rispondente alle esigenze dei ragazzi. Il carcere minorile deve essere un luogo di passaggio, i ragazzi non ci devono tornare, né al Pratello ne in quello per adulti”. Livorno: progetto delle associazioni per ospitare ex detenuti e condannati a pene alternative Il Tirreno, 20 gennaio 2012 Le associazioni di volontariato e promozione sociale, compatte in un unico progetto. Ail, Arci, Auser, ma anche Avis, Svs e Uisp. Non era mai accaduto che le principali realtà laiche di associazionismo si unissero in una rete di sinergie. “Le nostre organizzazioni raggruppano più di 30mila iscritti - spiega Marco Solimano (Arci) - I nostri volontari diventano i principali sensori dei disagi delle fasce deboli”. E lo scenario attuale non è confortante: “Il sistema di welfare vacilla, gli enti non sono più in grado di fornire risposte ai bisogni sociali, le aree di marginalità e povertà si estendono”, svela Fiorella Cateni, presidente di Auser. Le sei associazioni hanno dato vita ad un documento congiunto, avviando un sistema di collaborazioni. “In un momento così delicato di vita civile ed economica - spiega Giovanni Belfiore, presidente di Avis - le organizzazioni storiche della città si sono sentite in dovere di scendere in campo per fornire alla comunità un prezioso contributo, frutto di saperi e competenze accumulati in anni di presenza radicata sul territorio”. Mettere a disposizione le proprie capacità e stimolare l’amministrazione a difendere e valorizzare tali esperienze. “Tutte le associazioni firmatarie - annuncia Cateni - hanno già provveduto a richiedere un colloquio con il sindaco e il direttore generale di Asl. Nessun conflitto o critica all’amministrazione, sia chiaro - tengono a precisare - il nostro obiettivo è quello di far ripartire quell’interlocuzione diretta e propositiva che negli ultimi anni è venuta a mancare”. Ail, Arci, Auser, Avis, Svs e Uisp sottoporranno al Sindaco, un primo progetto condiviso. “Si tratta di un progetto a costo zero - interviene Marco Solimano, che è anche garante dei diritti dei detenuti - finalizzato al reinserimento sociale di ex detenuti attraverso le realtà di volontariato”. Ma la proposta è molto più ambiziosa: “I detenuti - aggiunge - potrebbero portare a termine all’interno delle associazioni percorsi di pena alternativa, contribuendo a decongestionare il carcere”. “Finora abbiamo peccato di individualismo - conclude Vincenzo Pastore, Svs - adesso è giunto il momento di metterci in rete”. Pescara: carcere di San Donato; Di Iacovo (Sel) chiede una nuova struttura Il Centro, 20 gennaio 2012 Il consigliere di Sel Giovanni Di Iacovo lancia la proposta di delocalizzare il carcere di San Donato. Ha presentato, in proposito, una mozione, che verrà discussa in consiglio prossimamente. “Il ministro della Giustizia ha riferito delle gravi situazioni in cui versano le carceri italiane”, spiega Di Iacovo, “anche il carcere di San Donato vive numerose sofferenze e a farne le spese è la dignità della vita dei detenuti e le condizioni di lavoro di tutto il personale penitenziario”. “I due principali problemi”, fa presente, “sono la carenza di personale e il sovraffollamento. Risiedono normalmente nel carcere dai 200 ai 230 detenuti, di cui oltre un terzo stranieri, mentre la capienza è di 150 detenuti. Il sovraffollamento si acuisce in alcuni periodi”. “Presto verrà resa operativa una nuova sezione, quella penale, che dovrebbe ospitare altri 150 detenuti”, rivela Di Iacovo, “ma il personale vive questa prospettiva con preoccupazione, perché l’organico è pesantemente sottodimensionato. Sarebbe quindi importante dotare il carcere di una struttura nuova e più ampia”. Reinserimento detenuti: iniziative in due Comuni I Comuni di Tagliacozzo e Balsorano hanno aderito al progetto per il reinserimento lavorativo dei detenuti ed ex detenuti. La Regione ha approvato nell’ambito delle azioni previste dal fondo sociale europeo un proprio piano operativo per le annualità, 2009- 2010-2011. Per la sua attuazione è stato emanato un bando per una specifica azione rivolta al reinserimento lavorativo dei detenuti ed ex detenuti. Le finalità di questa iniziativa è il sostegno a persone che si trovano in stato di disagio sociale. Tale finalità sono anche di particolare rilievo per i due comuni. Nel municipio di Tagliacozzo e Balsorano è arrivata la richiesta della società FormAbruzzo. che chiede la collaborazione per le azioni di reinserimento dei detenuti nel caso in cui il progetto da presentato venga ammesso a finanziamento. Televisione: domani sera su Rai Storia l’inchiesta “Libro bianco - Ergastolo” Adnkronos, 20 gennaio 2012 Rai Educational presenta “Res”, un programma di Giuseppe Giannotti e Davide Savelli, in onda sabato 21 gennaio alle 23.00 su Rai Storia. “Libro bianco - Ergastolo” è un’inchiesta sul mondo degli ergastolani all’interno del carcere di Porto Azzurro a cura di Ugo Zatterin e Brando Giordani. Il documentario del 1962 illustra la struttura architettonica del penitenziario a Livorno, ne descrive l’organizzazione e le regole interne. Verrano mostrate le attività lavorative e ricreative che riguardavano i detenuti, gran parte dei quali scontavano la pena dell’ergastolo. A ricordare le origini storiche dell’edificio, spiegare la composizione delle guardie carcerarie e delle varie udienze che settimanalmente aveva con i detenuti, sarà l’allora direttore del carcere. Storie di straordinario realismo e forza, quelle dei detenuti, che raccontano la loro personale esperienza all’interno del carcere: la loro vita prima dell’arresto, le attività lavorative e culturali nella prigione e i desideri e le aspettative per il futuro. Marocco: detenuti sahrawi in sciopero della fame contro autorità carcerarie Misna, 20 gennaio 2012 Uno sciopero della fame di 24 ore è stato intrapreso ieri dai sahrawi detenuti nel novembre 2010 in seguito all’irruzione delle forze di sicurezza del Marocco all’interno dell’accampamento di Gdeim Izik, alle porte di El Aaiun, principale città del Sahara occidentale. Ne danno notizia i media sahrawi secondo cui l’iniziativa è stata pensata in segno di solidarietà per Toubali Abd Allah, “un prigioniero politico dal 12 gennaio in sciopero della fame per protestare contro la negazione dei suoi diritti” da parte delle autorità carcerarie marocchine. Abd Allah soffre di diverse malattie, ma secondo gli altri prigionieri che lo stanno sostenendo, non gli sono state prestate le necessarie cure fin dal suo ingresso in carcere lo scorso dicembre. In un comunicato i prigionieri sahrawi hanno denunciato “torture e repressione” e hanno fatto appello “a tutte le organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali perché esercitino pressioni sullo Stato marocchino”. Gdeim Izik era un accampamento di tende montato da sahrawi che protestavano pacificamente per l’emarginazione di cui sono vittima nelle loro stesse terre. L’intervento delle forze marocchine causò vittime e feriti, disordini per diversi giorni a El Aaiun, e portò a numerosi arresti. Cuba: prigioniero politico muore dopo 50 giorni di digiuno Ansa, 20 gennaio 2012 Wilmar Villar, 31 anni, era stato arrestato lo scorso novembre durante una manifestazione di protesta ed era stato condannato a quattro anni di detenzione. L’opposizione: “La responsabilità è del governo”. Un prigioniero politico cubano è morto in un ospedale di Santiago di Cuba dopo 50 giorni di sciopero della fame. Lo ha reso noto l’esponente dell’opposizione Elizardo Sanchez spiegando che Wilmar Villar, 31 anni, aveva smesso di alimentarsi per protestare contro una condanna a quattro anni di detenzione inflittagli il 24 novembre scorso. Sanchez, che guida la Commissione cubana per i diritti dell’uomo e per la riconciliazione nazionale, organizzazione illegale ma tollerata dalle autorità, ha precisato che le condizioni di salute di Villar si erano deteriorate negli ultimi giorni e l’uomo era stato ricoverato in terapia intensiva all’ospedale di Santiago di Cuba. La commissione cubana per i diritti umani “considera che la responsabilità morale, politica e giuridica della morte di Villar sia del governo cubano”, ha aggiunto parlando di un decesso “evitabile”. Villar apparteneva dallo scorso settembre a un gruppo chiamato Unione Patriottica di Cuba, un’organizzazione nata a metà del 2011, anche questa illegale ma tollerata dalle autorità. Era stato arrestato il 14 novembre mentre partecipava a una manifestazione di protesta. Nel 2010 un altro detenuto politico, Orlando Zapata, era morto 1 dopo 85 giorni di sciopero della fame. Marcenaro su morte Villar: amnistia riguarda solo pochi “La morte ieri nel carcere di Santiago di Cuba di Wilmar Villar, ci ricorda che la recente amnistia decisa non molto tempo fa dalle autorità cubane - anche in vista della prossima visita del Papa - riguarda solo in piccola parte i detenuti politici e i prigionieri di coscienza e che a Cuba rimane preclusa e perseguitata qualsiasi possibilità di espressione e di organizzazione del dissenso”. È quanto dichiarato dal senatore del Partito democratico Pietro Marcenaro, presidente della Commissione Diritti Umani di Palazzo Madama. “Questi avvenimenti drammatici richiamano tutti a una solidarietà più forte a coloro che si battono per la libertà e per la democrazia. Di questa solidarietà - prosegue il presidente della Commissione Diritti umani - c’è ancora più bisogno quando qualche spiraglio di cambiamento sembra aprirsi”. “La morte di Villar, che da quasi due mesi praticava lo sciopero della fame per protestare contro la mancata concessione dell`amnistia, segue quella avvenuta il 2 gennaio scorso per infarto, nella prigione di Boniato, di Renè Cobas, anche lui impegnato in una sciopero della fame di protesta”, sottolinea Marcenaro aggiungendo che nel febbraio 2010 era stato Orlando Zapata, condannato a 36 anni per la sua attività di opposizione, a morire in carcere dopo 85 giorni di digiuno. Gran Bretagna: archiviata l’inchiesta sulle torture ai detenuti sospettati di terrorismo Apcom, 20 gennaio 2012 La controversa inchiesta chiamata “Detainee Inquiry” sulle accuse di illeciti compiuti dai servizi segreti del Regno unito in Libia è stata archiviata. Il segretario alla Giustizia Ken Clarke ha fatto sapere che l’inchiesta sul trattamento dei detenuti non poteva continuare a causa di una nuova indagine della polizia locale. La dichiarazione di oggi segue le recenti accuse a carico di alcuni ufficiali del Mi5 e del Mi6 di aver supportato l’estradizione forzata di sospettati di terrorismo in Libia, dove sono poi state torturate. I fatti riguardano il periodo successivo all’attentato dell’11 settembre 2011. Peter Gibson, il giudice incaricato del caso direttamente dal primo ministro David Cameron, si è infatti ritirato. All’inizio delle indagini, nel luglio del 2010, Cameron aveva dichiarato che ignorare tali azioni avrebbe messo a serio repentaglio la reputazione dei servizi segreti. L’inchiesta era stata criticata dai legali dei detenuti che si sono rifiutati di collaborare a causa della mancanza di trasparenza e di credibilità delle indagini. Svizzera: archiviata inchiesta su morte di un immigrato nigeriano durante rimpatrio forzato Ansa, 20 gennaio 2012 Il Ministero pubblico zurighese ha chiuso l’inchiesta sul decesso di un 29enne richiedente l’asilo nigeriano, avvenuto nel marzo del 2010 mentre durante il rimpatrio forzato del giovane, la cui domanda non era stata accolta. Basandosi su due autopsie che ha giudicato “convincenti”, la procura ha confermato oggi che le cause della morte furono naturali, legate a una disfunzione del miocardio e alla situazione di stress del detenuto, forse pure allo sciopero della fame che aveva iniziato da qualche giorno per protestare contro la sua imminente espulsione. Le persone che si occupavano del trasporto non saranno perseguite penalmente, come aveva invece auspicato la famiglia della vittima. La morte dell’uomo aveva suscitato cori di protesta contro le modalità dei rimpatri forzati. I rinvii verso la Nigeria erano stati provvisoriamente sospesi e le procedure riesaminate.