Giustizia: sul decreto “salva carceri” il governo incassa la fiducia Dire, 9 febbraio 2012 Il governo ha incassato la fiducia della Camera sul decreto carceri con 420 sì, 78 no e 35 astenuti. A favore hanno votato Pdl, Pd e terzo Polo, contrari Lega, Idv e Noi Sud. Astensione dei radicali. In dissenso dal gruppo il deputato Pdl Carlo Ciccioli ha votato no alla fiducia. Il voto finale sul provvedimento è previsto per martedì prossimo. Nel voto di fiducia del 18 novembre scorso i sì erano stati 556, il 16 dicembre sulla manovra 495, mentre il 26 gennaio sul dl mille proroghe erano ulteriormente scesi a 469. Tra i punti principali del decreto legge sulle carceri del ministro Severino ci sono: la destinazione agli arresti domiciliari, in prima istanza, degli arrestati in flagranza per reati minori di competenza del giudice monocratico in seconda istanza le camere di sicurezza; la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena residua ai domiciliari (si estende di 6 mesi quanto era già stato previsto dal ddl Alfano); la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (gli Opg) entro il 31 marzo 2013. La norma più contestata del decreto carceri, su cui oggi la Camera ha votato la fiducia, è quella introdotta al Senato con un emendamento a prima firma Luigi Lusi (Pd), che retrodata al primo luglio 1988 la possibilità di chiedere risarcimento per ingiusta detenzione. Per quanto il governo e i relatori e i gruppi di maggioranza alla Camera abbiano espresso perplessità sull’articolo (il 3-bis), si è deciso di non sopprimerla per non far tornare il testo in terza lettura a Palazzo Madama mettendone a rischio la conversione in legge (il dl scade 20 febbraio). Pdl, Pd e Terzo Polo (Udc, Fli, Api) hanno però presentato un ordine del giorno, che sarà votato in aula martedì prossimo, per chiedere un impegno al governo a rimediare agli effetti di disparità che si creerebbe tra chi ha subito un torto per ingiusta carcerazione dal primo luglio 1988 in poi e chi prima di quella data. Severino: non “svuota” ma “salva” carceri, nessuna resa dello Stato” Questo provvedimento non è né scaricabarile, né una resa dello Stato, chiamarlo “svuota carceri”, è sbagliato, io lo chiamerei “salva carceri”. Così il ministro della Giustizia Paola Severino, in conferenza stampa a Montecitorio, dopo il voto di fiducia sul decreto che prevede i domiciliari per i detenuti a cui mancano 18 mesi alla scadenza della pena. “Si tratta - continua Severino - di una tessera del mosaico, oltre a questo decreto c’è un disegno di legge sull’argomento e il parlamento dovrebbe saperlo. È ovvio che se viene data solo una visione parziale della questione i cittadini si preoccupano, ma ci tengo a precisare che nessun delinquente tornerà’ per strada”. Il ministro si sofferma poi sulle linee guida del governo per riformare il sistema carcerario: “Agiremo su diversi fronti. Bisogna costruire nuovi edifici e ristrutturare gli istituti penitenziari già’ esistenti. In alcuni di essi a volte manca l’acqua calda o non c’è il riscaldamento. Si tratta di situazioni non accettabili”. Infine Severino sottolinea il ruolo della polizia penitenziaria: “Si tratta di veri eroi, che si fanno carico ogni giorno di una situazione insostenibile”. Giustizia: Lega e Idv uniti dalla “voglia” di sbarre di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 febbraio 2012 Oggi a Montecitorio il voto sulla fiducia posta ieri dall’esecutivo tra i cori lumbard Caroccio e dipietristi contestano la fretta del governo ma sono d’accordo anche nel criticare la legge. Si voterà oggi alle 12, a Montecitorio, la fiducia posta ieri dal governo sul testo di conversione in legge del decreto Severino, il cosiddetto “svuota-carceri”. Una decisione presa già nei giorni scorsi ma che ha fornito alla Lega l’occasione per mettere in scena - dopo una lunga maratona ostruzionista - una gran gazzarra al momento della formalizzazione in Aula. Urla e cori di “vergogna, vergogna”, hanno accolto l’annuncio dato dal ministro dei rapporti col Parlamento, Piero Giarda. “Comprendo le ragioni della Lega”, ha ribattuto la ministra Paola Severino presente in Aula fin dalla ripresa mattutina della seduta interrotta solo poche ore prima, a tarda notte. “Ma porre la fiducia sul decreto era una necessità - ha puntualizzato - i termini scadevano il 20 febbraio e di fronte ai 600 emendamenti della Lega e alla dichiarata attività di ostruzionismo non credo ci fossero alternative”. Per velocizzare, la discussione sugli emendamenti è stata chiusa anticipatamente su richiesta del Pdl e con l’opposizione di Lega e Idv, che hanno già annunciato il loro voto contrario, oggi, alla fiducia. La seduta, stamattina, riprenderà alle 10,15 con le dichiarazioni di voto sulla pregiudiziale posta dall’esecutivo ma il voto finale è fissato per martedì prossimo. Sulle stesse posizioni della Lega ma distante anni luce, a loro dire, l’Idv ha bollato la bagarre del Carroccio come “chiassoso e folkloristico”, volto a rifarsi “una verginità politica” dopo “anni di voti a favore delle leggi ad personam e di leggi-vergogna”. Il loro no alla legge invece, spiega Federico Palomba, è “molto diverso da quello dei leghisti”. L’Idv infatti si oppone ad una nuova “maggioranza parlamentare trasversale e indultista” che come negli anni passati vanifica “gli effetti del lavoro dei magistrati” e delude sia “le forze dell’ordine che si vedevano di nuovo di fronte, sprezzanti e irridenti, i delinquenti liberati”, sia “le vittime” e “i testimoni che avevano avuto il coraggio del loro servizio civile”. Insomma, distanti sì ma la sostanza non sembra poi così diversa, nei discorsi leghisti. La cui bagarre parlamentare viene invece considerata “patetica e ridicola” dalla presidente dei deputati Pd, Donatella Ferranti che ricorda quando nel 2010 il Carroccio votò “senza troppi mugugni” a favore del primo “svuotacarceri”, quello messo a punto dall’allora ministro Angelino Alfano “che prevedeva di mandare agli arresti domiciliari, previa valutazione del magistrato di sorveglianza, i condannati meritevoli a cui mancavano solo 12 mesi di reclusione in carcere”. Con l’attuale decreto i mesi residui di pena diventano 18. Ma tanto basta per destare la rabbia lumbard: “Hanno fatto un indulto mascherato mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini”, accusa Nicola Molteni, capogruppo in commissione Giustizia. Con toni e forme diverse, animati da uno spirito “realistico” e “vicino alla gente”, i deputati leghisti contrappongono, negli interventi susseguitisi durante la mattinata, le loro ragioni al “buonismo idealista” di chi vorrebbe liberare i “matti pericolosi” o “mettere davanti a una televisione al plasma” gli arrestati in flagranza di reato eventualmente ai domiciliari in attesa del processo per direttissima (come prevede il decreto Severino). Più facile l’appiglio contro il tanto bistrattato (ormai perfino da chi lo aveva sostenuto) emendamento Lusi che rende retroattiva di un anno e mezzo la legge del 1989 per il risarcimento alle persone detenute ingiustamente in carcere. Una nenia che si ripete un po’ sempre uguale, eppure la Lega lamenta da parte della “maggioranza Pd-Pdl-Terzo Polo”, un atteggiamento “veramente vergognoso, contraddistinto dalla “paura di ascoltare”. Il can can delle opposizioni ha agitato però a tal punto la Guardasigilli da costringerla a precisare: “Nessun delinquente pericoloso sarà lasciato libero di circolare per le strade italiane. Ci tengo molto a rassicurare di questo l’opinione pubblica”. Giustizia: un passo avanti per la risoluzione dei problemi delle carceri di Luigi Manconi e Federica Resta L’Unità, 9 febbraio 2012 Sarà forse un piccolo passo, ma va nella direzione giusta e, soprattutto, risponde a un’idea del diritto e a una concezione della pena ispirate a robusti principi garantisti. Il primo decreto-legge del ministro Severino affronta un tema cruciale: la dignità - prima vittima dell’attuale drammatica situazione delle carceri - delle persone private della libertà. Sebbene, infatti, non risolva - come ovviamente non potrebbe fare un solo provvedimento - tutti i problemi della realtà penitenziaria italiana, il decreto-legge sul sovraffollamento nelle carceri, su cui il governo ha posto la questione di fiducia, ne disciplina alcuni degli aspetti più importanti: quello della custodia degli arrestati per reati di minore gravità; quello della detenzione domiciliare per condannati non socialmente pericolosi che abbiano espiato gran parte della pena e, infine, quello degli ospedali psichiatrici giudiziari. Sul primo punto, il Parlamento ha addirittura rafforzato quanto disposto inizialmente dal decreto, prevedendo che l’arrestato per reati di minore gravità (esclusi comunque rapina, scippo, estorsione, furto in abitazione), in attesa della convalida, sia condotto agli arresti domiciliari. Solo in caso di indisponibilità di un luogo idoneo ai domiciliari o quando l’arrestato sia ritenuto pericoloso, sarà condotto nelle camere di sicurezza o, in caso di necessità, in carcere. Si delinea quindi un sistema “a scalare”, in cui la custodia in carcere (o nelle camere di sicurezza), in attesa della convalida dell’arresto, deve rappresentare la misura estrema, destinata solo ai soggetti socialmente pericolosi. Si tratta di una novità importante, che in primo luogo contribuisce a ridurre, seppure in misura lieve, il sovraffollamento nelle carceri, che ha portato a una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani. La sentenza Sulejmanovic del 16 luglio 2009 ha infatti stabilito che “l’evidente mancanza di spazio personale di cui il ricorrente ha sofferto” (si trattava di 2,7 mq) “integra, di per sé, un trattamento inumano o degradante”, tale dunque da violare il relativo divieto, assimilato alla condanna della tortura nella Convenzione europea dei diritti umani. Di più: questa norma riafferma un principio centrale dello Stato di diritto, recentemente ribadito dalla Corte costituzionale in relazione alla custodia cautelare obbligatoria. Si tratta del principio del minor sacrificio necessario della libertà personale, per il quale le limitazioni della stessa libertà del soggetto in attesa di giudizio vanno contenute nei limiti minimi indispensabili a soddisfare esigenze di difesa sociale. Questo principio vale ovviamente, a maggior ragione, per l’arrestato in attesa della convalida. Per assicurare un controllo sulle condizioni in cui gli arrestati vengono custoditi nelle camere di sicurezza, il Senato ha inoltre esteso ad esse il diritto di visita senza autorizzazione già riconosciuto, per il carcere, a parlamentari, ministri, garanti dei diritti dei detenuti, ecc. Anche l’estensione - operata dal decreto - della legge Alfano svuota carceri va nella direzione (tutta ancora da percorrere e per nulla scontata) di rendere il carcere misura residuale, per ridurre la popolazione penitenziaria, ma anche per rispettare davvero il principio di libertà, pur salvaguardando le esigenze di difesa sociale. Si è infatti portata da 12 a 18 mesi la soglia di pena detentiva, anche residua, per l’accesso alla detenzione presso il domicilio da parte di condannati per reati non particolarmente gravi, ritenuti non socialmente pericolosi e che abbiano tenuto in carcere una buona condotta. Lo stesso bilanciamento tra difesa sociale e garanzie individuali ispira la previsione - introdotta in Senato - del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, in favore di strutture prevalentemente di cura (pur assistite da personale di custodia all’esterno), che accolgano gli autori di reato affetti da disturbi psichici per garantirne, nel rispetto della dignità, il diritto alla cura, senza che ciò comporti la loro segregazione lontano dalla comunità e in una condizione che è segnata, attualmente, dal più mortificante degrado. Anche in questo caso possiamo dire: un piccolo passo, ma nella direzione giusta. Giustizia: intervista a Emilio Santoro; decreto che non risolve vero problema delle carceri di Alessandra Modica www.iljournal.it, 9 febbraio 2012 Intervista a Emilio Santoro, docente di diritto penale della facoltà di Giurisprudenza dell’università degli Studi di Firenze e direttore di “Altro diritto”. La Camera dei deputati ha approvato oggi il decreto legge denominato “svuota carceri”, sul quale il governo ha posto ieri la fiducia. A fronte dei dati preoccupanti, diffusi dall’associazione Antigone, sulla situazione negli istituti penitenziari italiani, e dopo l’inchiesta del giornalista Lirio Abbate, pubblicata su l’Espresso n. 6 anno LVIII, abbiamo intervistato Emilio Santoro, docente di diritto penale della facoltà di Giurisprudenza dell’università degli Studi di Firenze e direttore di “Altro diritto”, centro di documentazione e ricerca su carceri, devianza e marginalità in Italia. Come direttore dell’Osservatorio, che cosa ne pensa del decreto appena approvato? Nel decreto legge approvato non c’è nulla di rilevante. Mi spiego. La situazione carceri italiane è resa drammatica dal sovraffollamento, che impone ai detenuti condizioni di vita spesso insostenibili. E questo non lo dico io, lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo. Spesso la pena in Italia è inumana e degradante, dunque incostituzionale e contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che il nostro Paese ha ratificato ormai da tempo. Però, il mio vero timore è che si diffonda l’idea che il problema del sistema detentivo italiano sia il sovraffollamento, e che questo sia risolvibile semplicemente tramite la costruzione di nuove carceri. Il problema vero, invece, è molto più grave, e riguarda i motivi della detenzione e soprattutto la tipologia di persone che vengono detenute. In che senso? Faccio un esempio del carcere di Firenze, ma che può essere utilizzato per la maggior parte delle carceri italiane. A Sollicciano ci sono un numero spropositato di detenuti con problemi di salute mentale, tossicodipendenti, senza fissa dimora ed extracomunitari. Il carcere è diventato un centro di quella che tecnicamente viene definita “detenzione sociale”. Ed è questo il dato più preoccupante: l’uso del carcere come strumento di governo della marginalità. E non è un problema di costi. Implementare politiche pubbliche per la reintegrazione di soggetti marginali non costerebbe molto di più. In fondo in Italia in media si spendono 120 euro al giorno per detenuto, e un intervento sociale di 120 euro al giorno pro capite risolverebbe molti problemi. Ma lo Stato preferisce spendere 120 euro al giorno per i detenuti, piuttosto che sviluppare un programma sociale. E perché questo secondo lei? In parte perché un programma sociale è più impegnativo, ma soprattutto perché oggi non sappiamo più cosa sia un programma di inserimento sociale. Una volta era chiaro: un programma di inserimento sociale consisteva nel dare al soggetto un lavoro fisso che gli consentisse di avere una vita stabile. Oggi il lavoro stabile non esiste più. E così da un lato abbiamo un taglio notevole ad altre agenzie diverse dal carcere, come i Sert, e dall’altro abbiamo la totale assenza di un’alternativa alla detenzione. Cos’è oggi il reinserimento? È questa la domanda da porci. Non si tratta solo di una questione legata alla crisi economico-finanziaria. La situazione è più complessa, perché anche se ci fossero più fondi, in questo momento non ci sarebbero proposte di percorsi alternativi. Le soluzioni sono tutte individuali, aleatorie. La mancanza di finanziamenti accentua il problema, perché io so che cosa posso proporre oggi, ma non sono in grado di programmare a lungo termine. E non solo per questo, ma anche perché la società e il mercato del lavoro stanno cambiando a una velocità tale che è difficile prevedere cosa accadrà fra qualche anno. E una policy che preveda il reinserimento di un individuo marginalizzato dovrebbe essere a lungo termine. Quindi il problema va molto al di là del sovraffollamento… Sì. Il sovraffollamento è l’effetto più evidente della situazione in cui ci troviamo. Problema che poi si potrebbe risolvere aprendo le carceri già costruite e ancora chiuse per mancanza di personale. Esattamente. Alcuni istituti hanno meno detenuti di quelli che potrebbero ospitare, per mancanza di personale. Nello stesso tempo, però, circa 1.200 agenti penitenziari si “nascondono” negli uffici del Dap, dove si trovano anche 56 direttori di carceri. Non sarebbe il caso di ottimizzare il sistema? Certo. Sarebbe un inizio. Il problema del sovraffollamento non è solo edilizio o di costi edilizi, ma anche di cattiva gestione. Ci sono delle carceri vuote, e anche dove hanno cercato di recuperare un po’ di celle e un po’ di spazio, ad esempio nel carcere di Prato, non riescono ad aprire per “mancanza di personale”. E delle altissime spese per appartamenti di lusso, auto blu, uffici in affitto e non utilizzati per vertici del Dap e personaggi legati al ministero della Giustizia, denunciate dall’Espresso, che ne pensa? È un problema di mal costume, come ce ne sono molti in Italia. Ma, ripeto, il problema di fondo è un altro. Prima di finanziare, il problema è cosa finanziare. Come trovare un progetto che mi garantisca che dopo 2-3-4 anni di percorso un soggetto marginalizzato trovi posto nella società? Non abbiamo una teoria sociale a nostro supporto. Mentre prima era molto chiaro, almeno fino a qualche anno fa, l’integrazione sociale era dare un lavoro sicuro. Oggi questa forma di integrazione non esiste più. Quella basata sul consumo di servizi, che era in voga negli anni ‘80, è stata un fallimento e non ha retto. La società è cambiata. L’integrazione sociale non è più lavorativa. Ma non abbiamo un’alternativa. Se non si risolve questo problema, possiamo andare avanti solo a palliativi. I radicali chiedono l’amnistia. Il governo sta varando un decreto che faciliterà gli arresti domiciliari. E secondo il presidente del Consiglio la soluzione ideale sarebbe la liberalizzazione degli istituti penitenziari. Lei che ne dice? Palliativi. Soluzioni temporanee che permettono di risolvere l’emergenza, senza andare a fondo nel problema. Paradossalmente forse la privatizzazione delle carceri, che, ci tengo a sottolinearlo, non è una cosa che mi piace, potrebbe migliorare le condizioni di detenzione degli individui. E dopo? Stessa cosa per quanto riguarda la questione dei domiciliari. Anche se poi circa il 50% dei detenuti per motivi “sociali” non ha una casa dove andare, soprattutto quando si parla di extracomunitari e tossicodipendenti. Forse allora sarebbe meglio attuare un programma serio di depenalizzazione di alcuni reati, per i quali per lo meno non dovrebbe essere prevista la detenzione. E poi bisogna inventarsi qualcosa. Trovare nuove strade. Perché se no comunque, anche mettendo tossicodipendenti, senza tetto, malati mentali ed extracomunitari in strutture apposite senza prevedere un sistema di reinserimento nella società, si passerebbe semplicemente da una carcerazione che dura in eterno, a una presa in carico da parte di istituzioni sociali che dura in eterno. Giustizia: decalogo per le carceri di Alfonso Polito (coordinatore Area Sud dell’Aiga) Italia Oggi, 9 febbraio 2012 La custodia cautelare in carcere, malgrado il pensiero di molti cittadini, non è, e non è mai stata, l’extrema ratio. Spesso, infatti, il numero dei detenuti in attesa di giudizio supera di gran lunga quello dei condannati ristretti in regime carcerario a seguito di sentenza definitiva. Sostenere che la carcerazione preventiva sia il principale strumento di tutela della società è argomentazione fin troppo abusata per giustificare iniziative legislative che spesso non reggono il vaglio di legittimità costituzionale, come è accaduto per il di 11/2009 in materia di violenza sessuale. Esistono altre misure coercitive meno afflittive e comunque adeguate a garantire la tutela delle esigenze cautelari, quali ad es. gli arresti domiciliari o il cosiddetto braccialetto elettronico. Quest’ultimo, in particolare, dovrebbe trovare un limite applicativo nella sola mancanza di consenso dell’indagato e non già nelle deficienze della Pubblica amministrazione (numero ridotto di braccialetti disponibili a causa dei costi elevati). La verità è che sull’onda dell’emozione suscitata dal compimento di delitti particolarmente efferati le garanzie costituzionali passano in secondo piano: prima fra tutte la presunzione di innocenza, accompagnata dalla sacralità della libertà personale. In questo modo la misura custodiale è diventata una vera e propria anticipazione della pena in strutture fatiscenti ed inadatte a garantire il recupero e la rieducazione del carcerato, come dimostrano i numerosi casi di autolesionismo e di suicidio. Perché invece non utilizzare in modo più ampio le misure interdittive, magari allungandone i tempi di applicazione? Per quale motivo, in attesa della costruzione di nuovi Istituti di pena, non ricorrere a strutture temporanee per “ospitare” unicamente gli indagati destinatari del provvedimento di custodia cautelare? Tale ultima soluzione consentirebbe l’applicazione della misura in condizioni sicuramente più umane rispetto a quelle del tradizionale istituto di pena e servirebbe a evitare la deleteria promiscuità tra gli abituali frequentatori delle patrie galere e coloro i quali affrontano questa drammatica esperienza per la prima volta. Si potrebbero utilizzare sia le unità abitative che le strutture in stato di abbandono sparse su tutto il territorio nazionale (penso ad es. agli ospedali mai completati), previa riqualificazione a costi minimi. Ulteriori suggerimenti utili alla soluzione del problema carceri non possono prescindere da una seria politica di depenalizzazione, che eviterebbe il fenomeno delle “porte girevoli”, e dall’introduzione della tenuità del fatto quale causa di non punibilità. Entrambe le proposte vanno nella direzione auspicata da tempo dall’Alga, purché la causa di non punibilità trovi applicazione anche in sede di archiviazione, posto che, in caso contrario, l’effetto deflativo sarebbe notevolmente ridotto. Peraltro, la declaratoria della tenuità del fatto dovrebbe avvenire in un contesto processualmente garantito, che preveda la partecipazione della persona offesa dal reato. Dunque ben vengano le riforme volute dal guardasigilli in ambito carcerario, ma tenendo presente che procedendo “a macchie di leopardo”, senza una riforma processuale e penalistica organica, si rischia di squilibrare il sistema. Voltaire misurava la civiltà di una nazione dallo stato delle sue carceri... siamo fortunati che non possa visitare le nostre! Giustizia: Ignazio Marino (Pd); su chiusura ospedali psichiatrici falsità irresponsabili Ansa, 9 febbraio 2012 “Sulla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari si dicono falsità che mirano irresponsabilmente a generare allarme pubblico. Si vuole gettare discredito su questa riforma e ingannare i cittadini affermando che saranno messi in libertà criminali e serial killer. Al posto degli Opg sorgeranno veri ospedali da 30 o 40 posti letto, dotati di tutta l’attrezzatura per l’assistenza ai pazienti, con infermieri, medici, psichiatri”. A precisarlo è Ignazio Marino, senatore Pd presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale e promotore dell’emendamento al dl carceri per la chiusura dei cosiddetti Opg. “Non è stata sottovalutata affatto - tiene a precisare - la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini, per cui all’esterno dei centri di cura la sorveglianza sarà assicurata dalla polizia penitenziaria. Basterebbe leggere la norma per rendersene conto. Negli attuali Opg - aggiunge - ci sono circa 1.400 persone, di cui più di 900 riconosciute ancora pericolose per sé e per gli altri, che saranno trasferite nelle nuove strutture. Altre 500 circa, invece, sono ritenute non più socialmente pericolose e hanno il diritto di uscire. Dovranno essere dimesse e assistite sul territorio dai dipartimenti di salute mentale”. “Parliamo - fa i conti Marino - di meno di venticinque persone, in media, per Regione. Non è una missione impossibile, ma se tale si dovesse rivelare per alcune Regioni, lo Stato interverrà, individuando una soluzione per ciascun paziente. Mi stupisco davvero che alcuni partiti politici stiano approfittando della condizione delicata e difficile di queste persone per qualche voto in più”, conclude. Giustizia: Granata (Fli); 30% fondi del Piano-Carceri a manutenzione strutture esistenti Tm News, 9 febbraio 2012 “Destinare almeno il 30 per cento delle somme previste dalla Finanziaria 2010 e dei successivi stanziamenti per il Piano Carceri ad interventi urgenti di manutenzione ordinaria e straordinaria delle infrastrutture carcerarie esistenti e adottare procedure volte a garantire un utilizzo quanto mai tempestivo e celere di tali risorse”. È quanto prevede un ordine del giorno di Futuro e Libertà al decreto cosiddetto svuota carceri. “Il sovrappopolamento del sistema carcerario nazionale, causato anche dall’inadeguatezza delle strutture che ospitano gli istituti di pena - osserva in una nota Fabio Granata, primo firmatario dell`ordine del giorno - oltre a determinare un peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti, produce evidenti effetti negativi dal punto di vista della tutela dei diritti degli stessi reclusi. Per cui l`adeguamento, il potenziamento e la messa a norma delle infrastrutture penitenziarie costituiscono, oggi misure indispensabili non più procrastinabili”. “Al fine di fronteggiare la situazione di estrema criticità in atto ed assicurare, così, la tutela della salute e la sicurezza dei detenuti - conclude Granata - è quindi quanto mai urgente procedere tempestivamente all’espletamento delle procedure necessarie per la realizzazione di nuove infrastrutture carcerarie, nonché ad opportuni interventi di adeguamento e di manutenzione di quelle esistenti”. Giustizia: Osapp; ora riorganizzare amministrazione e polizia penitenziaria Il Velino, 9 febbraio 2012 “Nell’assoluto rispetto della volontà sovrana del Parlamento è quanto mai necessario che dopo il voto di fiducia sul decreto c.d. svuota carceri favorevole, il Ministro della Giustizia Severino affronti e risolva i gravi problemi organizzativi dell’amministrazione e della polizia penitenziaria”. È quanto si legge in una nota a firma di Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) e indirizzata ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. “I detenuti presenti ieri negli istituti di pena erano 66.772 per 45.688 posti - prosegue il sindacalista - ed è indubbio che la strada da percorrere in sede politica debba riguardare il progressivo deflazionamento del sistema, al fine di restituire al carcere il debito ruolo di misura estrema da destinare ai reati di maggiore allarme e pericolosità sociale. Ma per gestire una fase di transazione di tale rilevanza ed in cui il sistema penitenziario e la pena ritornino ad adempiere al dettato costituzionale del reinserimento sociale dei reclusi - conclude Beneduci - è necessaria un’Amministrazione penitenziaria centrale diversa dall’attuale e un Corpo di polizia penitenziaria adeguatamente riorganizzato e potenziato, come merita l’unico Corpo di polizia dello Stato avente funzioni di vera e propria pacificazione sociale”. Giustizia: Sarno (Uil); decreto è solo operazione di maquillage, ma non risolve alcunché Il Velino, 9 febbraio 2012 “Nonostante gli sforzi profusi dal Ministro Severino, che apprezziamo e riconosciamo, restiamo del parere che il decreto legge, inopportunamente definito svuota carceri, non contribuirà a risolvere alcuna delle criticità del sistema penitenziario. La norma è solo una operazione di maquillage, ma non risolve alcunché”. Ancora una volta il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, non fa mistero delle perplessità del sindacato sui contenuti del decreto per fronteggiare il sovrappopolamento penitenziario. “È ben chiaro, almeno agli addetti ai lavori, che , con le modalità previste, l’estensione di sei mesi per la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare non sortirà effetti significativi, se non quelli di alimentare le polemiche sulla certezza della pena. Un perfetto alibi per chi non vuole riformare alcunché. Parimenti il fenomeno delle sliding doors non è risolto con la previsione degli arresti domiciliari o con l’allocazione nelle camere di sicurezza degli arrestati. In questo periodo di vigenza del decreto, infatti, gli effetti sulle entrate in carcere sono stati minimi, quasi ininfluenti” dice ancora Sarno secondo cui ben altre sarebbero le soluzioni da adottare per segnare un punto di svolta. “Da anni segnaliamo che una delle riforme strutturali necessarie a deflazionare una delle più evidenti criticità del sistema penitenziario è quella della custodia cautelare. Partendo dal principio della presunzione di innocenza servirebbe tutelare maggiormente gli imputati, invece ci si orienta a concedere benefici ai condannati. È evidente - denuncia il segretario della Uil Penitenziari - l’abnormità del dato che vede il 42% della popolazione detenuta priva di una condanna definitiva. Questo fa strame della presunta civiltà giuridica del nostro Paese; ancor più in considerazione che, per statistiche consolidate, il 40% degli imputati sarà riconosciuto innocente. Non è eretico, dunque, affermare che in questo momento nelle nostre galere sono detenute circa ottomila persone che saranno riconosciute innocenti, quindi ingiustamente detenute. In questo contesto, e con questi dati, è molto più che condivisibile aprire una riflessione sulla responsabilità civile dei Magistrati”. Giustizia: imporre lavoro “straordinario” nei tribunali, contro il sovraffollamento carceri di Roberto Fontolan www.ilsussidiario.net, 9 febbraio 2012 Qui al Sussidiario abbiamo una idea geniale da sottoporre al ministro Paola Severino per evitare tutte le complicazioni morali e giuridiche del “decreto svuota carceri”: imporre ai tribunali un periodo di lavoro straordinario per trasferire i 28mila detenuti dalla categoria “in attesa di giudizio” a quella “giudicati”. Solo allora potremo avere dati sicuri e oggettivi. Molti verranno condannati, certamente, ma molti potrebbero andare assolti o comunque scarcerati. Sì, è una idea da uomo della strada, che però legge inorridito le cronache del nostro inferno nazionale, quello che dovrebbe testimoniare “il grado di civiltà di un Paese”, per dirla con le stesse parole del ministro. Circa settantamila sono i detenuti, più o meno 25mila in più della capienza dei 207 istituti di pena, dei quali un quinto (!) sono stati costruiti tra il XIII e il XVI secolo. Fortezze, monasteri, bastioni da romanzi di Dumas e che invece nell’anno del Signore 2012 ospitano migliaia e migliaia di condannati. Fatevi raccontare cosa è una estate a Regina Coeli o un inverno a Marassi: dolori, sofferenze, umiliazioni, stenti che non hanno a che fare con la giustizia, ma solo con la disorganizzazione, l’indifferenza, la crudeltà. In dieci anni si sono registrati 608 suicidi e un numero sterminato di tentati suicidi o violenze autoinflitte. In molti crediamo che tutto ciò sia abbastanza, che sia ora di cambiare pagina, ma poi le soluzioni divergono. L’ex ministro Alfano aveva promesso un piano carceri che si sarebbe dovuto attuare proprio in questo anno, con l’apertura di nuovi istituti per circa 10mila posti, ma il piano si è perso per strada. Ora siamo nei giorni di una norma che crea, anche giustamente, polemiche e perplessità. Perciò l’uomo della strada pensa: ma non si può dare una vigorosa accelerata ai processi? Perché non richiedere uno sforzo ai magistrati (che l’uomo della strada non vede stramazzare di lavoro) che si sbattezzano per la legge sulla sanzionabilità del giudice ma dormono sonni tranquilli nonostante tutta quella gente sbattuta in galera ad aspettare e aspettare e aspettare? Un tale sforzo sarebbe un grande segno di civiltà umana, nel senso degli uomini-magistrati. Gli operai devono sacrificare l’articolo 18, i giovani il posto fisso, le persone di mezza età le pensioni: i giudici non potrebbero fare gli straordinari per, diciamo, un anno? In fondo 70mila persone stanno in carcere, in quelle celle sovraffollate infestate maleodoranti, per decisioni che loro hanno preso: non se ne sentono un pochino responsabili? Dicono che è il sistema a fare acqua, che mancano aiutanti e anche le fotocopiatrici. Ma credono che per cambiare la vita dei detenuti in certe prigioni come Bollate o Padova (qualificate dall’Espresso come “modelli”) non sia stato necessario impegnarsi “contro” i problemi della struttura e fare tante fotocopie fuori dall’orario di lavoro? Dar la colpa alla struttura è sempre equivoco e, si permetta un aggettivo da uomo della strada, infantile. Proprio ieri ho ricevuto la bella notizia di un amico che la sentenza di appello ha completamente prosciolto dall’accusa: il fatto nemmeno sussiste, per lui come per gli altri imputati. Non era un reato di sangue, ma una di quelle storie nebulose di corruzione, per quanto grave e clamorosa, che ormai in questa epoca sventurata ha prodotto anche un suo canone: titoloni sui giornali, galera, professioni distrutte, figli sofferenti. Sono passati otto anni e la corte di secondo grado ha stabilito che dietro e dentro tutto questo c’era il nulla. Nulla, capite? Un fallimento che non può certo essere imputato alla struttura ma a un pubblico ministero che aveva pensato di aver acciuffato i criminali con una inchiesta grande, clamorosa, perfetta -della quale non è rimasto altro che carta straccia. Signori giudici, signori pm, il sistema pullula di casi come questo: se volete mantenere a tutti i costi la sostanziale immunità e impunità (altra cosa che l’uomo della strada ritiene inaccettabile), almeno offrite in cambio del tempo. Finite le inchieste, chiudete i processi dei detenuti in attesa di giudizio. Dimostrate che le vite degli altri vi interessano, che siete pronti a dedicare due ore di sonno o un week end per risolvere il dramma di un poveretto (in quanto innocente o colpevole), che ignorate i clamori dei media per una pratica di giustizia veloce e serena. Voi che realmente lo potete, impegnatevi restituire dignità alle persone e civiltà all’Italia. A farvi le fotocopie verremo noi, uomini della strada. Giustizia: ad Asti detenuti vittime di tortura… ma in Italia il reato di “tortura” non c’è di Luca Rastello La Repubblica, 9 febbraio 2012 “I fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”: non ci sono giri di parole nelle motivazioni depositate ieri dal giudice Riccardo Crucioli per spiegare la sentenza pronunciata il 30 gennaio scorso al termine del processo contro cinque agenti penitenziari per le violenze commesse contro detenuti nel carcere di Asti (la “Abu Ghraib italiana”, secondo un’espressione emersa nel corso del dibattimento). “È provato al di là di ogni ragionevole dubbio - scrive il magistrato - che ad Asti vigevano misure eccezionali volte a intimidire e (...) punire i detenuti aggressivi (...) e a “dimostrare” a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a pesanti ripercussioni”. Nelle 81 pagine della sentenza si parla di “violenze fisiche: i detenuti venivano malmenati da più persone che entravano nelle celle soprattutto di notte”, a cui si aggiungevano “privazioni del sonno (i detenuti venivano picchiati soprattutto di notte), del cibo, dell’acqua e dei servizi”, e “l’uso del tutto scorretto e disumano di celle “lisce” prive di materassi, di vetri e di caloriferi nel mese di dicembre”. Colpisce l’analisi dettagliata, precisa e implacabile sull’attendibilità delle testimonianze condotta dal giudice, che smonta le argomentazioni della difesa rovesciandole e mette in luce la rete di connivenze che ha reso possibili i fatti di Asti: “Gran parte del personale di servizio era a conoscenza di quanto avveniva nelle celle di isolamento: dal direttore Minervini al comandante Cotza ai medici (che non possono non aver visto le condizioni dei detenuti), passando per i dipendenti”. “Senz’altro si tratta di un impianto senza precedenti in processi su questo tema - commenta l’avvocato Simona Filippi dell’associazione per i diritti dei detenuti Antigone - che apre le porte a un’azione civile delle parti offese, ma soprattutto a un ricorso alla Corte Europea che potrebbe fare storia”. Nessuno dei cinque agenti inquisiti tuttavia finirà in carcere: uno perché assolto, gli altri a causa della derubricazione del reato contestato - maltrattamenti (capo d’imputazione inadeguato perché attinente ai reati contro la famiglia) - in lesioni e abuso di autorità, capi per i quali non è possibile precedere per prescrizione o mancanza di querela. Ma la derubricazione è dovuta, chiarisce il giudice, esclusivamente al fatto che il nostro Paese ha scelto di contravvenire, pur avendola ratificata, alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, bocciando (nel giugno 2010) la legge che introduceva nel nostro ordinamento il delitto di tortura. Tuttavia, scrive Crucioli, “nel carcere di Asti negli anni 2004 - 2005 esisteva una prassi generalizzata di maltrattamenti verso i detenuti più problematici. Due di essi hanno subito non solo singole vessazioni ma una vera e propria tortura, durata per più giorni in modo scientifico e sistematico. In un regime di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria e anche con molti dirigenti; coloro che non erano d’accordo venivano isolati o comunque additati come infami”. Quella che a molti era parsa una sostanziale assoluzione, festeggiata con gli abbracci degli imputati e degli avvocati, suona dunque anche come un circostanziato atto d’accusa contro una scelta politica le cui conseguenze, alla luce dei fatti di Asti, possono essere riassunte crudamente in questi termini: in Italia è possibile esercitare la tortura senza subire conseguenze legali, e questo è ciò che è accaduto ad Asti. Restano nelle orecchie le voci dei detenuti che hanno testimoniato: “Venivano tutti i giorni, venivano quattro volte al giorno, quindi io non è che posso dire quando veniva il momento”. “Diceva, pregava per dire agli agenti di mettere almeno una coperta, qualcosa, perché non c’era niente, era nudo. E c’era freddo”. “Ma questo funziona in tutte le carceri no? Solo che nessuno dice niente, nessuno lo vuole vedere questo”. Giustizia: Giulio Petrilli, beneficiato della norma-Lusi “l’ha colpito il mio carcere ingiusto” di Giuseppe Caporale La Repubblica, 9 febbraio 2012 Potrà ottenere fino ad un massimo di 516 mila euro. Con l’emendamento il diritto al risarcimento è stato retrodatato di quindici mesi. “Ora presenterò la richiesta”. L’ultimo emendamento approvato dal Senato e proposto da Luigi Lusi - prima di essere travolto dallo scandalo sui tredici milioni di euro sottratti dal conto della Margherita - era un provvedimento “ad personam”. Un provvedimento che adesso consentirà a un dirigente del Pd abruzzese, Giulio Petrilli, di poter ottenere un risarcimento per “ingiusta detenzione”. L’emendamento inserito nella legge di conversione del decreto sulle carceri, sostanzialmente, retrodata di appena un anno e mezzo il diritto al risarcimento. La nuova norma riguarda una legge in entrata in vigore dall’ottobre del 1989 che però consentiva (prima della modifica) il risarcimento delle ingiuste detenzioni solo a partire da quella data in poi. Senza effetti retroattivi. Con l’emendamento Lusi le lancette dell’orologio del diritto al risarcimento sono state spostate, ma di pochissimo: appena quindici mesi. Avranno diritto al risarcimento solo quelli che hanno subito un’ingiusta detenzione dal luglio 1988 in poi. E tra questi rientra proprio Giulio Petrilli, “responsabile giustizia del Pd dell’Aquila fino a gennaio scorso” spiega. “Poi ho dato le dimissioni, perché sono in disaccordo con il sindaco della mia città, Massimo Cialente”. Petrilli non nasconde di essere l’ispiratore e il promotore dell’emendamento Lusi. E, soprattutto, non nasconde di essere un beneficiario della nuova norma approvata. “Ma non ho fatto la battaglia solo per me...” racconta imbarazzato “ma per tutti quelli che hanno subito un’ingiusta detenzione”. In quei quindici mesi. Petrilli, ha sollecitato lei Lusi per l’emendamento? “Sì, certo. Credo di averlo colpito dal lato umano. È rimasto impressionato dalla mia storia”. Ce la racconti. “Fui arrestato il 23 dicembre 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata, per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione Prima Linea. Non avevo neanche ventidue anni, all’epoca, ed era iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università dell’Aquila. In primo grado fui condannato a 8 anni, che cominciai a scontare passando da un carcere all’altro in un regime detentivo peggiore dell’attuale 41-bis, regolato allora dall’articolo 90, che prevedeva l’isolamento totale. Appena un’ora d’aria al giorno e le restanti 23 in cella, con non più di tre o quattro libri nei quali poter cercare conforto, o riparo dal buio sfibrante della solitudine. In appello fui riconosciuto innocente e la sentenza fu confermata anche dalla Cassazione - e a maggio uscì finalmente dal carcere: sei anni di detenzione ingiusta. Anni che nessuno potrà mai restituirmi. Il mio è uno dei tanti errori giudiziari mai risarciti, perché l’assoluzione è arrivata prima alla riforma del codice di procedura penale che nel 1989 ha introdotto la riparazione per detenzione. Da tempo mi batto perché questa forma di discriminazione venga sanata e siano discusse le proposte di legge che introducono la retroattività. La legge deve essere uguale per tutti”. L’emendamento Lusi riguarda solo lei e pochi altri. “Lo so... ma credo si sia trattato di un problema di fondi. Erano disponibili solo cinque milioni di euro come copertura finanziaria. Lusi in estate aveva tentato di far passare un emendamento che prevedesse di introdurre il principio della retroattività nel suo complesso. Poi a gennaio ha deciso di stringere su un arco temporale breve che però consente di far passare il principio della retroattività della legge. Un primo passo”. Un primo passo che le consentirà di presentare domanda e ottenere il risarcimento. “Sì è vero, ma se doveva accontentare solo me bastavano pochi mesi, credo quattro... Devo rivedere le carte... Invece si è voluto affermare un principio”. In media lo Stato riconosce 100mila euro per ogni anno di detenzione ingiusta, fino a un massimo di 516mila euro. “Questi particolari li vedrà il mio avvocato” Che opinione ha di Lusi? “Mi ha aiutato, mi ha ascoltato. Si è battuto ed ha ottenuto un risultato. Credo che la mia storia lo abbia colpito dal punto di vista umano”. Giustizia: massacrò la vicina di casa, l’infermità mentale lo salva dal carcere di Paolo Colonnello La Stampa, 9 febbraio 2012 Mohamed Bl Buardy era arrivato dal Marocco qualche anno fa già gravemente malato: i suoi fratelli dopo la morte del padre, lo avevano depredato dell’eredità e gli avevano comprato un biglietto per l’Italia per spedirlo dalla sorella a Suello, un paesino di poche migliaia di anime tra Como e Lecco. Mohamed, che parlava da solo e ululava alla luna, si era messo a vivere di espedienti, sfogando la sua rabbia sulla sorella che a un certo punto, stanca di essere picchiata, era andata a denunciarlo dai carabinieri. I quali però nulla avevano potuto, perché Mohamed era chiaramente uno squilibrato. Schizofrenico, per la precisione. Ma il nome della sua malattia lo hanno scoperto i periti del tribunale di Como dopo che Mohamed, il 17 agosto di un anno fa, ha ucciso a coltellate una donna che considerava il diavolo: Teresa Valsecchi, 50 anni. Era un pomeriggio afoso e la donna stava guardando la televisione insieme alla figlia di 19 anni, Giovanna. Mohamed entrò da una finestra armato di un coltellaccio da cucina e come una furia si scagliò contro la giovane. La madre per difenderla, si mise in mezzo e venne massacrata di coltellate. Morì un mese dopo, in ospedale. Mohamed raccontò poi ai magistrati di essere rimasto vittima di una fattura da parte del parroco di Suello e che l’unico modo per salvarsi sarebbe stato quello di sacrificare quella donna a Satana e di rapire la figlia. Come Oleg Pedchénko, il giovane pugile ucraino assolto l’altro ieri per incapacità d’intendere e volere dall’omicidio di una donna filippina, massacrata a pugni per strada nel luglio del 2010, anche Mohamed è stato assolto lo stesso giorno dai giudici lariani. Che non potevano fare altro perché la legge non prevede alternative: la pazzia, anche se pericolosa e devastante, non può essere condannata. È una malattia. E le malattie non si processano. Solo che per digerire questa verità ineluttabile bisogna provare a mettersi nei panni delle vittime. E allora si scopre che anche un minuscolo fatto di cronaca come questo, quando si ripete con preoccupante cadenza, può assurgere a dignità di allarme sociale di fronte al quale ci si scopre impotenti. Perché alle vittime e soprattutto ai loro parenti non rimane nient’altro che tenersi il proprio dolore, senza nemmeno la consolazione di un risarcimento simbolico visto che l’assoluzione per “totale incapacità d’intendere e volere” blocca anche la possibilità per le parti civili di poter essere in minima parte risarciti. Lo sa bene l’avvocato Sonia Bova che ha difeso i parenti di Teresa Valsecchi, “persone umili, che non avevano certo le risorse per pagarsi una controperizia e che adesso non possono far altro che accettare la sentenza e stare zitti. È vero che un risarcimento non ti restituisce una persona cara ed è vero anche che El Buardy non avrebbe potuto risarcire nemmeno un euro. Ma alla fine, rimane un’ingiustizia di fondo che in qualche modo il legislatore dovrebbe sanare”. Assolto dalla doppia accusa di omicidio e lesioni gravissime, Mohamed El Bouardy dovrà essere detenuto per un minimo di cinque anni all’ospedale criminale di Castiglione delle Stiviere, l’unico in Italia degno di questo nome. Almeno finché non entrerà in vigore la legge destinata chiudere i vari manicomi criminali che ancora sopravvivono e che sono spesso paragonati a dei lager. Il marito della signora Teresa è rimasto vedovo, la figlia Giovanna, guarita dalle ferite, è tutt’ora sotto choc. E la madre della vittima, la settantenne Rosalinda Valsecchi, è morta di crepacuore giorni dopo il decesso della figlia. Giustizia: meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente di Carlo Federico Grosso La Stampa, 9 febbraio 2012 Ancora una volta una sentenza d’assoluzione è destinata a far discutere. Un bambino è stato (probabilmente) ucciso. Non si sa se dalla mamma, o dal convivente della mamma, o dalla mamma e dal suo convivente insieme. Nessuno (probabilmente) sarà mai condannato per avere cagionato quella morte. Il dato di cronaca è drammatico. Ambiente degradato, intossicazione da stupefacenti, la mamma che esce di casa per procurarsi la droga, ritorna istupidita, durante la notte il compagno la sveglia indicandole il bambino ormai freddo. Cercano di nascondere le responsabilità denunciando un incidente, poi si accusano a vicenda. La Procura della Repubblica incrimina d’omicidio il convivente, ed accusa la madre (soltanto) d’abbandono di minore. In primo grado l’uomo, ritenuto colpevole, viene condannato a ventisei anni di reclusione per il grave reato che gli era stato contestato (la Corte chiede tuttavia che la Procura torni ad indagare per omicidio anche la madre, non ritenendo escluso un suo contributo alla causazione della morte del bambino). Ieri il ribaltone: l’uomo è assolto per non aver commesso il fatto, ed è immediatamente scarcerato”. Per la donna, al momento, nessuna novità. Ancora una volta, con riferimento ad un fatto di sangue, la giustizia italiana non è dunque riuscita a far chiarezza, ad individuare il responsabile, ad incastrare il colpevole. E in una vicenda nella quale è pressoché sicuro che un bambino, per dolo, per colpa o per incuria è stato ucciso da qualcuno individuabile in una cerchia ristretta di persone, nessuno, probabilmente, sarà mai chiamato a rispondere di quella morte cagionata (o non impedita). Inadeguatezza del nostro sistema giudiziario (incapacità di fare indagini, trasandatezza nella raccolta delle prove, incertezza nella fase del giudizio), ovvero insuperabile complessità del caso e, conseguentemente, ineludibile incertezza nelle prove? Può darsi che vi sia stato qualche errore. Può darsi, comunque, che data la peculiarità del contesto (nessun testimone, nessun elemento in grado di caricare univocamente su taluno dei protagonisti della tragica vicenda la responsabilità della morte del bimbo, nessuna confessione ma, anzi, l’accusa reciproca dei due indiziati), fornire una riposta in termini di colpevolezza certa “al di là di ogni ragionevole dubbio” (come prescrive la nostra legge) fosse difficile, se non, addirittura, impossibile. Così stando le cose, la risposta “ultima” offerta dal nostro sistema di giustizia nel caso di specie potrebbe essere giudicata comunque “ineccepibile”, poiché nessuno, secondo le regole del nostro codice di procedura penale, può essere condannato senza prova certa della sua colpevolezza. Non sarebbe d’altronde la prima volta che i nostri giudici hanno affrontato casi nei quali c’era la certezza che uno degli imputati fosse il colpevole, ma non si era in grado di dimostrare chi, fra di essi, avesse commesso il reato. In questi casi i giudici sono stati, di regola, costretti ad assolvere tutti gli imputati, anche se era sicuro che, così facendo, si assolveva certamente anche un colpevole (si ricordi il famoso “caso Bebawi”, nel quale due amanti, uno dei quali aveva sicuramente assassinato il marito della donna, si sono accusati reciprocamente del delitto, cercando in questo modo di sfuggire entrambi alla condanna penale). Ma assolvere un colpevole nei cui confronti non esiste prova certa di reità costituisce cardine dello Stato di diritto, come costituisce cardine del processo penale in uno Stato di diritto la circostanza che è preferibile rischiare di assolvere un colpevole che rischiare di condannare un innocente. Parma: Corte Strasburgo condanna Italia per “trattamento inumano” a detenuto disabile Redattore Sociale, 9 febbraio 2012 La Corte di Strasburgo condanna l’Italia a pagare 10 mila euro di risarcimento danni a un detenuto disabile nel carcere di Parma. La garante: “Sentenza importante, spero non abbia solo impatto politico”. Nicola Cara Damiani, 65 anni, originario di Bari, ha scontato più di 20 anni in prigione e 4 di detenzione domiciliare a Fontanellato (Pr). Nicola Cara Damiani è un disabile costretto sulla sedia a ruote. Il suo caso è arrivato alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, lo scorso 7 febbraio, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (divieto di trattamenti inumani o degradanti) a risarcirlo con 10 mila euro per il trattamento inumano a cui è stato sottoposto (oltre a 3.000 euro per le spese): detenzione nonostante la sua condizione di disabile e impossibilità di ricevere le cure adeguate all’interno del carcere. “Si tratta di una sentenza molto importante - commenta Desi Bruno, garante regionale per i diritti dei detenuti. Il problema è che spesso queste sentenze hanno un grande impatto politico, ma sul piano pratico non cambiano la situazione”. Bruno, che ha in programma a partire dai primi di marzo una serie di visite nelle strutture penitenziarie della regione (a partire da quella di Parma), assicura però che lei per prima utilizzerà questa sentenza. “Quello che voglio capire - spiega - è quali sono i problemi reali che impediscono che persone con difficoltà di movimento si trovino senza assistenza”. Il caso. Nicola Cara Damiani è entrato in carcere nel 1992. Nel 2003, Cara Damiani, che soffre di una paralisi della parte inferiore del corpo con parziale perdita di forza muscolare nelle gambe che lo costringe sulla sedia a ruote fin dal 1997, viene trasferito nel carcere di Parma dotato di un’unità per detenuti disabili. Ma - come si legge nella sentenza della Corte di Strasburgo - anziché finire in questa unità, viene messo in una sezione comune dove non ha accesso ai bagni, non può fare fisioterapia e non ha possibilità di movimento. La sezione per disabili - non funzionante per mancanza di fondi - sarà inaugurata solo nel 2005 e Cara Damiani vi sarà trasferito nel dicembre di quell’anno. A quel punto però chiede di poter andare in un ospedale o una clinica che gli dia l’assistenza di cui ha bisogno. Trasferimento che avverrà solo nel 2008 e fino al settembre 2010 quando Cara Damiani ritorna in carcere e ci rimane fino al 23 novembre 2010. Per lui si sono mobilitati amici, conoscenti e sono nati gruppi su Internet. Il suo caso è poi arrivato alla Corte di Strasburgo che, dopo aver condannato l’Italia, ha ribadito che tutti gli Stati devono garantire a tutti i carcerati una detenzione in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e della salute. Il caso di Cara Damiani, purtroppo, non è isolato. “Ricevo molte segnalazioni di detenuti che non hanno assistenza adeguata e che, senza l’aiuto degli altri detenuti, non potrebbero fare anche le cose più elementari della vita quotidiana - conclude Bruno - Ecco perché userò questa sentenza per capire cosa si può fare per cambiare le cose”. San Gimignano (Si): detenuto tenta di aggredire agente della polizia penitenziaria Agi, 9 febbraio 2012 Denuncia l’episodio il Sappe: “È evidente che le criticità del penitenziario toscano meritano la massima attenzione da parte dei vertici dell’amministrazione penitenziaria”. Un detenuto ha tentato di aggredire un agente della polizia penitenziaria nel carcere di San Gimignano. Il tentativo di aggressione sarebbe avvenuto nel reparto isolamento ed un episodio simile si era verificato una settimana fa. A denunciare l’episodio è il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Un detenuto, un uomo algerino, sentendo dall’interno della sua cella la voce dell’educatrice, ha iniziato ad urlare e sbattere contro la porta il blindato. È intervenuto un assistente capo di polizia penitenziaria cercando di calmarlo e dicendo che sarebbe stato ascoltato dall’educatrice appena possibile. A quel punto il detenuto ha allungato il braccio da dentro la cella, riuscendo ad afferrare e strattonare l’agente. Solo con l’intervento di un altro collega è riuscito a divincolarsi dalla presa chiudendo poi lo spioncino. Nonostante ciò, il detenuto ha proseguito a minacciare e a sbattere lo sgabello contro la porta. “È evidente che le criticità del penitenziario toscano, così come le molte problematiche toscane, meritano la massima attenzione da parte dei vertici dell’amministrazione penitenziaria”, ha commentato Donato Capece, segretario generale del Sappe. Gorizia: Cingolani (Pd); il carcere cade a pezzi, si deve fare subito qualcosa Il Piccolo, 9 febbraio 2012 “La situazione è insostenibile. Il carcere di Gorizia versa in condizioni vergognose. Chi deve prendere una decisione lo faccia in fretta, non c’è più tempo da perdere”. È un appello accorato quello formulato da Giuseppe Cingolani, candidato sindaco del centrosinistra, dopo la visita alla casa circondariale di Gorizia effettuata assieme ad Alessandro Maran, deputato del Partito democratico. “La situazione è ancora peggiore di quello che già ci si potrebbe aspettare. Celle di 21 metri quadrati in cui vivono sei persone, gli scarichi dei bagni interni alle celle con grosse perdite, che rendono inagibile il piano sottostante, mentre i detenuti continuano a vivere e a camminare sopra una struttura impregnata d’acqua, che pare ogni giorno più a rischio. Dato che un intero piano è inagibile a causa delle infiltrazioni, meno della metà dei posti disponibili nel carcere sono utilizzati. I detenuti sono quindi appena quaranta, con tre docce in tutto a disposizione, ma con una guardia carceraria a testa! Mantenere un carcere in queste condizioni è anche poco economico”. Cingolani è un fiume in piena. Rimarca: “Tutta la struttura è fatiscente e troppo angusta. C’è un salone da poco ristrutturato in cui piove dentro e che necessita delle prove di staticità. Non ci sono gli spazi per permettere ai detenuti di dedicarsi ad attività lavorative o a corsi di formazione professionale. Si è constatato che, dove queste attività sono possibili, il reinserimento nella società, dopo il periodo di detenzione, è molto più facile e la reiterazione del reato è più rara. Dunque un carcere che non offra queste possibilità è deleterio e controproducente. Va ricordato che circa la metà dei detenuti sono imputati in attesa di giudizio. Molti di loro potrebbero rivelarsi innocenti. La situazione in cui sono costretti a vivere è in ogni caso inaccettabile”. Cingolani riferisce che “l’amministrazione carceraria sta vagliando due diverse possibilità: effettuare alcuni interventi tampone o una ristrutturazione più complessiva dell’esistente. Entrambe sono però considerate insufficienti a garantire una struttura carceraria adeguata. Dunque, l’unica vera soluzione pare essere la costruzione di un nuovo carcere più spazioso, ampio e funzionale. In ogni caso a Roma devono decidere presto, perché la cosa assolutamente da evitare è il trascinamento della situazione attuale. Il mantenimento del carcere a Gorizia è un obiettivo da perseguire con convinzione, perché permetterebbe di mantenere anche la Procura e il Tribunale nella nostra città. Ma non per questo possiamo costringere le persone a vivere in tali condizioni”. Carcere impregnato d’acqua (Messaggero Veneto) “Chi deve prendere una decisione lo faccia in fretta, perché la situazione del carcere di Gorizia è insostenibile e peggiora di giorno in giorno, sia per i carcerati, sia per il personale”: è questo il grido d’allarme di Giuseppe Cingolani, candidato sindaco del centro-sinistra, dopo la sua visita al carcere di via Barzellini, effettuata assieme al deputato del Pd, Maran. Così Cingolani descrive la desolante situazione trovata: “Celle di 21 metri quadrati in cui vivono sei persone, gli scarichi dei bagni interni alle celle con grosse perdite, che rendono inagibile il piano sottostante, mentre i detenuti continuano a vivere e a camminare sopra una struttura impregnata d’acqua. Dato che un intero piano è per questo inagibile, meno della metà dei posti disponibili nel carcere sono utilizzati, con tre docce in tutto a disposizione”. Ma aggiunge Cingolani: “Tutta la struttura è fatiscente e angusta. C’è un salone da poco ristrutturato in cui piove dentro e che necessita delle prove di staticità. Non ci sono gli spazi per permettere ai detenuti di dedicarsi ad attività lavorative o a corsi di formazione professionale. Si è constatato che, dove queste attività sono possibili, il reinserimento nella società, dopo il periodo di detenzione, è molto più facile e la reiterazione del reato è più rara. Un carcere che non offra queste possibilità è deleterio e controproducente. Va ricordato che circa la metà dei detenuti sono imputati in attesa di giudizio. Molti di loro potrebbero rivelarsi innocenti. La situazione in cui sono costretti a vivere è in ogni caso inaccettabile”. Cingolani riferisce che “l’amministrazione carceraria sta vagliando due diverse possibilità: effettuare alcuni interventi tampone o una ristrutturazione più complessiva dell’esistente. Entrambe sono però considerate insufficienti a garantire una struttura carceraria adeguata. Dunque - afferma Cingolani - l’unica vera soluzione pare essere la costruzione di un nuovo carcere più spazioso, ampio e funzionale. In ogni caso Roma deve decidere presto. Mantenere il carcere a Gorizia serve anche per preservare la Procura e il Tribunale. Ma non per questo possiamo costringere delle persone a vivere in condizioni disumane”. Massa Carrara: arriva l’educatore “ponte” tra carcere e territorio Il Tirreno, 9 febbraio 2012 L’educatore ponte, una figura professionale capace di dialogare e di fare da raccordo fra il personale socio educativo impiegato nella casa di reclusione di Massa e nell’istituto minorile di Pontremoli e il territorio: è sul suo lavoro che istituti e associazioni della provincia apuana confidano per realizzare un positivo reinserimento dei detenuti ed ex detenuti nel tessuto sociale, e lo faranno grazie alla firma di un protocollo d’intesa che dà il via a un tavolo inter-istituzionale per l’esecuzione penale reso possibile da un finanziamento messo in campo dalla regione Toscana nell’ambito delle attività sociali. Accompagnare le persone prese in carico dagli istituti di pena dalla prima fase, dunque dal momento dell’entrata nella struttura penitenziaria o detentiva, fino all’ultima fase, quella di uscita dalla stessa, perché per tornare a essere parte integrante di una società non basta avere sostegni all’interno dei penitenziari, ma serve avere aiuti e collaborazione anche e soprattutto all’esterno, per smettere di far parte di un universo parallelo: “È inutile avere delle strutture detentive eccellenti come quella di Massa - ha detto la direttrice della casa di reclusione massese Alessandra Beccaro - se poi i nostri ospiti non trovano la possibilità di ricostruirsi una vita fuori: altrove, in Toscana, progetti come questo hanno dato ottimi risultati, e la figura dell’educatore ponte è diventata simbolo di speranza per tanti cittadino, dunque ci auguriamo di riuscire anche noi in questo intento”. Tra i firmatari del protocollo, ovviamente, la provincia di Massa-Carrara, che si farà carico del coordinamento delle iniziative del tavolo, che avranno aree di intervento molteplici e spazieranno dal settore socio assistenziale in senso stretto ma anche a quello culturale ricreativo. Nuoro: salute delle detenute, un seminario al Cif (Centro italiano femminile) La Nuova Sardegna, 9 febbraio 2012 Nei giorni scorsi, nella sede del Cif, il centro italiano femminile, in piazza Veneto, si è tenuto un incontro dal titolo “Salute in-grata, ovvero la patologia da detenzione”, a cui hanno partecipato in qualità di relatori don Pietro Borrotzu, presidente dell’associazione di volontariato “Ut unum sint” che ha la finalità di occuparsi degli ultimi, e Michela Capra, ostetrica, collaboratrice del Cif. Gli organizzatori, con questo seminario intendevano sensibilizzare i cittadini sui problemi che derivano dalla detenzione, in particolare sulla salute delle carcerate. Don Borrotzu ha illustrato le attività svolte nella sede dell’associazione adiacente alla chiesa di Santa Maria Gabriella, dove vengono ospitati i familiari di detenuti provenienti da altri centri dell’isola e della Penisola. I volontari che collaborano con l’associazione hanno fatto un percorso formativo di due anni per acquisire le opportune competenze. In prospettiva si pensa di poter accogliere i detenuti (uomini e donne) in permesso premio e quelli abilitati al lavoro esterno dando il giusto supporto. Michela Capra ha presentato i risultati di un’indagine da lei svolta qualche anno fa sulla condizione delle detenute in Sardegna. La dimensione peculiare della carcerazione femminile, ha spiegato, è certamente la maternità, che implica l’interruzione dei legami familiari. In Italia ogni giorno 60 bambini sotto i 3 anni vivono in carcere insieme alla madre. La maggior parte delle donne ospiti dei penitenziari sardi sono straniere (molte le nigeriane), con basso titolo di studio, lavoro precario alla prima detenzione, senza alcun appoggio esterno. L’accesso ai servizi sanitari è aperto, e consente di fare anche esami di prevenzione come il pap test e la mammografia. Nel corso del dibattito ha preso la parola Gianfranco Oppo, recentemente nominato dal consiglio comunale di Nuoro garante per i detenuti, che terrà colloqui settimanali con i carcerati e che intende promuovere la diffusione della cultura della tolleranza, della relazione e dell’ascolto. Padova: l’attore Alessandro Bergonzoni ospite d’eccezione in redazione Ristretti Orizzonti Redattore Sociale, 9 febbraio 2012 Alessandro Bergonzoni è stato oggi ospite d’eccezione della redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere Due Palazzi di Padova. L’attore ha dedicato un pomeriggio alla riflessione sulla condizione delle persone detenute e sulle possibili azioni utili a “far capire a chi è fuori” cosa significa essere reclusi. È stata, soprattutto, un’occasione per conoscere il lavoro che la redazione padovana fa con il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, mirato a dialogare con gli studenti delle scuole superiori. Un’occasione, in particolare, per capire come contribuire alla lotta per la conoscenza, come farsi promotore di un cambiamento che deve essere prima di tutto culturale, per abbattere il muro del “chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori”. “Bisogna andare negli asili - ha detto provocatoriamente, dove si formano le nuove menti, per far comprendere che il tema dei carcerati non riguarda solo i reclusi, ma riguarda tutti. Anzi, prima ancora che all’asilo bisogna parlare alla pancia delle madri per dire che così non si può andare avanti, che non è più possibile tollerare un carcere come quello che abbiamo oggi”. Ma come accorciare le distanze tra il dentro e fuori? “Come si può far diventare ognuno carcerato di sé stesso?” si è chiesto l’attore. “Auguro a tutti di delinquere, se è un modo per capire - ecco la risposta. Vogliamo cominciare a stare attenti all’idea che chiunque da un giorno all’altro potrebbe arrivare qui? Fa pena la certezza che un uomo ha di essere migliore e che l’altro è in carcere perché se lo merita”. L’immedesimazione è la via per capire, dunque, per abbattere i muri dell’indifferenza. “Questo è un lavoro che noi facciamo ogni giorno - gli ha fatto eco la direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero: cerchiamo di far capire soprattutto agli studenti che in carcere ci sono persone, non alieni, e che a tutti potrebbe succedere un giorno di finire qui”. E a chi gli ha chiesto come fare sì che questo messaggio raggiunga anche chi non vuol sentire, Bergonzoni ha risposto: “Parlando alla gente comune, passo dopo passo, con fatica ed energia. Andando dalle persone sbagliate, da quelle che non sono disposte a capire, e aiutandole a immedesimarsi”. Teatro: due storie di cronaca riscritte per il palcoscenico da Riccardo de Torrebruna La Repubblica, 9 febbraio 2012 Carceri, dramma civile attualissimo. Lunedì scorso il presidente del Senato, Renato Schifani, visitando Regina Coeli, ha definito un “dramma” l’emergenza carceri e ha avvertito: “La politica deve impegnarsi per risolvere questo dramma oppure è giusto che ciascuno faccia un passo indietro, Si tratta ormai un problema ineludibile, improcrastinabile, da cui dipende l’intero senso di civiltà del nostro Paese. Si può privare della libertà un individuo che sbaglia, ma non privarlo della sua dignità di essere umano”. Da stasera e fino al 12 febbraio il dramma delle carceri va in scena al Teatro Spazio Uno in vicolo dei Panieri 3, a Roma. Si tratta dello spettacolo “La giustizia è un vento-Storie di morte nelle prigioni italiane”, due atti di Riccardo de Torrebruna (che sarà anche in scena come attore) ispirati al libro “Impìccati” di Luca Cardinalini. Come si legge nelle note di regìa di Riccardo de Torrebruna “la morte in carcere di un detenuto rappresenta un’evenienza sempre possibile. “La morte di carcere” costituisce invece uno di quegli eventi che danno la misura di quanto in uno Stato siano o meno rispettati i diritti dell’uomo”. Questo spettacolo di teatro-inchiesta affronta proprio la tragedia delle morti violente di detenuti nelle carceri italiane. Due i casi scelti. Il primo è la vicenda di Diana Blefari, terrorista affetta da malattia psichica e sottoposta a regime di carcere duro, fino al suo suicidio in cella il 31 ottobre 2009 a Rebibbia. Il secondo caso raccontato è la misteriosa morte di Aldo Bianzino, artigiano arrestato nel 2007 con l’accusa di coltivare piante di marijuana nel proprio giardino e non esce vivo dal carcere di Perugia, le cause della sua morte non sono state accertate. Come si legge ancora nelle note di regìa “le condizioni di reclusione all’interno delle carceri italiane sono insostenibili, con un aumento vertiginoso di casi di autolesionismo, suicidio e morte violenta. L’Italia è addirittura ai primi posti a livello mondiale. A fronte dell’enormità del fenomeno, l’informazione è quasi assente”. Il racconto di due vicende umane e giudiziarie avvenute all’interno di un carcere, propone una riflessione sul tema della giustizia, del diritto di essere rispettati, compresi e tutelati nella propria dignità di esseri umani. In scena, con de Torrebruna (Itaka International Stage Art, Associazione Trousse - produzione di Giorgio Granito) ci saranno Marina Gimelli, Claudio Cicchinelli, Alessandra Giorgetti, Fanny Cerri, Giammaria Cauteruccio, Giusi Cicciò, Gabriele Santi. Cinema: i fratelli Taviani; il nostro film con i carcerati ha tutta la forza della poesia Il Tirreno, 9 febbraio 2012 Al Festival internazionale del cinema di Berlino (da domani al 19 febbraio) un solo film italiano in concorso, quello dei fratelli Taviani (“Cesare deve morire”), e poi due lavori “scomodi” su una tragedia ancora più “scomoda”: quella del G8 di Genova. Ovvero “Diaz”, docu-film di Daniele Vicari sull’assalto alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, e nella sezione Panorama Dokumente “The Summit” di Franco Fracassi e Massimo Lauria, ancora sugli scontri di Genova 2001. “Cesare deve morire”, che uscirà in Italia il 2 marzo distribuito da Sacher e prodotto da Kaos Cinematografica in collaborazione con Rai Cinema, è un film particolare. Girato nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma ha infatti come attori i detenuti, alcuni dei quali segnati dalla “fine pena mai”. Tra riprese in bianco nero e a colori (per la parte dello spettacolo shakespeariano sul palcoscenico del carcere), scorrono immagini nelle celle, nei cubicoli dell’ora d’aria e nei bracci della sezione dove i detenuti tra fallimenti e successi provano la tragedia che lentamente li coinvolge. Così i due registi toscani di San Miniato - già a Berlino nel 2007 con “La masseria delle allodole” - hanno spiegato la genesi del progetto: “Abbiamo visto alcuni loro spettacoli come La tempesta, diretti da Fabio Cavalli e soprattutto il Giulio Cesare realizzato lì dove ci sono il potere, la mancanza di libertà, l’omicidio, la colpa e il rimorso. Abbiamo cercato di mettere a confronto l’oscurità della loro esistenza di condannati con la forza poetica delle emozioni che Shakespeare suscita: l’amicizia e il tradimento, l’assassinio e il tormento delle scelte difficili, il prezzo del potere e della verità. Entrare nel profondo di un’opera come questa significa guardare dentro se stessi: soprattutto quando si lasciano le tavole di un palcoscenico per tornare a chiudersi dentro le pareti di una cella”. Per quanto riguarda “Diaz - Don’t clean up this blood” di Daniele Vicari con nel cast, tra gli altri, Elio Germano, Alessandro Roja e Claudio Santamaria, racconta il tragico assalto dei 300 del VII nucleo mobile alla scuola Diaz dove dormivano 93 ragazzi, la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. “Il film sarà completamente basato sugli atti del processo, senza grandi invenzioni se non quelle che servono per trasformare le testimonianze in materiale narrativo per il cinema”, ha detto in un’intervista il produttore Domenico Procacci. “The Summit” di Franco Fracassi e Massimo Lauria cerca di spiegare le speranze di chi protestava, il meccanismo che ha provocato la violenza da parte della polizia come di alcuni dei manifestanti, insieme agli interessi politici internazionali in gioco durante questa manifestazione. Il docu-film si annuncia insomma come un vero e proprio viaggio che inizia dal World Trade Organization a Seattle fino al summit del G8 genovese, passando per i summit di Nizza, Praga, Napoli e Gothenburg. E questo con scene dal vero insieme a disegni, ricostruzioni e animazioni. Sulla forza visiva di questo documentario è intervenuto lo stesso direttore della Berlinale, Dieter Kosslick: “Scene così violente abbiamo avuto perplessità a proporle alla Berlinale. Perché davvero c’è da girare lo sguardo altrove. Ma poi abbiamo deciso di metterle integralmente. Perché era giusto così”.