Giustizia: decreto svuota-carceri, il governo mette la fiducia di Liana Milella La Repubblica, 8 febbraio 2012 Il governo è costretto alla fiducia sul decreto carceri. L’ostruzionismo della Lega, una pioggia di oltre 500 emendamenti, oltre cento interventi programmati in aula, mettono a rischio la conferma del decreto che scade il 20 febbraio. Il consiglio dei ministri viene convocato ad horas. Per il Guardasigilli Paola Severino, costretta a lasciare a metà un’audizione di fronte alla commissione Antimafia, non c’è altra chance. Si decide la mattina, appena annusata l’aria di rivolta del Carroccio. Si vara alle 18. La fiducia sarà posta oggi. Si voterà domani. Ma i leghisti accusano la maggioranza per un dl “vergognoso e inutile” (Molteni) perché privilegia gli arresti domiciliari in luogo della cella. Perché, nell’arco di un anno, porterà fuori dei penitenziari 3.800 detenuti che potranno scontare a casa gli ultimi 18 mesi. È un giorno di affanno per il governo sul fronte della giustizia. Lega a parte, c’è l’Anm che solo grazie a un appuntamento con il premier Monti, Severino e Catricalà, rinvia all’ultimo momento lo sciopero contro la norma sulla responsabilità civile. Ma l’Anm si dice pronta a dichiararlo se dal confronto non dovessero arrivare assicurazioni certe. Non basta. Su due decreti di Severino si scatenano i dubbi della maggioranza. Lo scontro più clamoroso è sulle carceri dove esplode il caso dell’emendamento Lusi, il senatore della Margherita finito sotto inchiesta, che solo qualche settimana fa aveva ottenuto di inserire nel dl una modifica delle attuali regole sulla riparazione in caso di ingiusta detenzione. Vecchia norma, figura nel codice di procedura all’articolo 314. Copre tutti i casi a far data dall’89, quando decollò il codice. Ma Lusi retrodata tutto al primo luglio dell’88. Sottoscrivono la pro p osta molti del Pd, come l’ex pm Casson, che ne parla come di “una norma giusta e impeccabile”. Eccone altri: Carloni, Chiaro monte, Magistrellli, Garavaglia. Ci sono sradicali. Ma nel Pd, già al Senato, protestano. Della Monica si chiede: “Chi c’è dietro quella norma? È inaccettabile e incostituzionale”. Berselli (Pdl) la definisce “oscura e opaca”. Dall’Aquila la rivendica un Pd seguace di Lusi, Giulio Petrilli, che la definisce “giusta perché riguarda tante persone che hanno subito l’arresto e sono state assolte”. Ieri il caso esplode alla Camera. Quando la commissione Affari costituzionali critica l’articolo. La maggioranza si divide. Fonti del Pd riferiscono che il capogruppo Franceschini insista per cancellarla, preoccupato che Lusi “sporchi” ancora il Pd e spunti fuori un nome eccellente per l’indennizzo di Stato. Valutato dalla commissione Bilancio del Senato in 5 milioni di euro per il solo 2012. La Pd Ferranti presenta un emendamento per cancellare il bonus. Severino piglia le distanze, specifica che non è una norma del governo e su cui il governo ha dato parere negativo, ma approvata dal Senato. La si potrebbe anche togliere. Non sembrano contrari né Enrico Costa (Pdl), né Giulia Bongiomo e Roberto Rao (Terzo polo). Mail Pdl è categorico nel chiedere, se si cambia il testo, di sopprimere anche la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Gli altri non ci stanno. Mentre il governo vara la fiducia anche la commissione Bilancio dà un via libera condizionato. Il relatore è Alfredo Mantovano, i cui dubbi sul decreto sono pesanti. Tant’è che dice: “Da quando è stato approvato sono crollati gli arresti in flagranza perché i poliziotti non sanno più dove mettere la gente”. A casa l’ultimo anno e mezzo: così si cerca di evitare l’esplosione delle carceri Per il carcere i numeri parlano sempre più chiaro. Sono drammatici quelli che fanno il punto a fine dicembre 2011. Una tabella impressionante. Nei nostri penitenziari sono presenti 66.897 uomini e 2.808 donne. La capienza regolamentare è di 45mila posti. L’eccedenza disumana è evidente. Gli stranieri sono 24.174. Sulla cifra complessiva sono 27.251 i detenuti in attesa di giudizio e 38.023 quelli con una condanna già definitiva. Secondo il Guardasigilli Severino sono circa 22mila i detenuti che, nell’arco di un anno, entrano ed escono solo perché sono stati arrestati in flagranza. Un ulteriore dettaglio. Oggi la detenzione domiciliare riguarda 8.371 detenuti, 916 sono in semilibertà, per 9.952 c’è l’affidamento in prova. Non si può prescindere da questo quadro per comprendere quale fretta abbia il governo nel far approvare il decreto sulle carceri. Esso darà un alito di respiro a una macchina che rischia di esplodere da un momento all’altro. Basti pensare al numero dei suicidi - ormai 70 - che si sono messi in fila l’anno scorso. Per comprendere che, in attesa di nuove strutture, solo un “compromesso” tra chi vuole tutti in carcere e chi privilegia i domiciliari può salvare dal tracollo le prigioni italiane. Sarà la prova che dovrà affrontare il nuovo direttore delle carceri, l’ex presidente del tribunale di sorveglianza di Roma Giovanni Tamburino, che dalla prossima settimana si metterà seduto su una delle poltrone che più scottano in Italia. Al via esame emendamenti, Severino in aula alla Camera (Dire) L’aula della Camera ha avviato l’esame degli emendamenti al decreto legge sulle carceri su cui si attende l’annuncio della fiducia da parte del governo. La presidenza ha dichiarato inammissibile un emendamento del leghista Walter Togni sull’utilizzo dei detenuti in opere di salvaguardia del territorio in base al quale le Regioni, d’intesa con l’amministrazione penitenziaria, nell’ambito della propria attività a favore dell’inserimento sociale e del recupero dei carcerati, avrebbe potuto impiegarli, previa dotazione di braccialetto elettronico, in opere e servizi socialmente utili di salvaguardia dell’ambiente. Il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti (Lega), ha invece ritirato un suo emendamento per sopprimere il comma sulla copertura finanziaria di 180 milioni di euro per la chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. In aula ci sono il ministro alla Giustizia, Paola Severino e il titolare ai Rapporti con il parlamento, Piero Giarda. Il governo ha rinunciato alla sua replica. Da esaminare ci sono oltre 500 proposte di modifica, tutte praticamente della Lega. La presidenza ha invitato il Carroccio a segnalare quelli a cui il gruppo tiene maggiormente visto che si procederà alle votazioni congiunte degli emendamenti di identico contenuto. Giustizia: Radicali; il decreto sulle carceri è insufficiente, astensione nel voto di fiducia Agenparl, 8 febbraio 2012 “Premesso che, nell’assieme, diamo un giudizio positivo sul governo Monti, i deputati della delegazione radicale si asterranno per non negare esplicitamente la fiducia al Governo, come sarebbe necessario visto che il decreto sulle carceri conferma e prolunga il comportamento di uno Stato letteralmente criminale che viola costantemente leggi italiane ed europee e la nostra Costituzione repubblicana”. È quanto si legge in una nota di Rita Bernardini, membro della Commissione giustizia della Camera dei Deputati. “Sarà astensione la nostra anche perché non vogliamo confonderci con le motivazioni veramente ripugnanti di chi, in primo luogo i deputati di Lega e Idv, la fiducia negherà. E che lo Stato agisca contro i diritti umani universalmente acquisiti non è solo presa di posizione di “estremisti radicali”. Non è in palese contraddizione con il decreto varato lo stesso Ministro della Giustizia che, uscendo dal carcere di Sollicciano a Firenze, afferma che le celle sono luoghi di tortura? E perché non dare atto della presa di posizione forte del Presidente del Senato Renato Schifani che, dopo aver visitato Regina Coeli dice che siamo quasi ad un punto di non ritorno. O riusciamo - ha detto Schifani - a risolvere il problema una volta per tutte, oppure sarebbe bene che tutte le istituzioni indistintamente facessero un passo indietro. L’emergenza carceri è un fatto ineludibile e improcrastinabile, perché ne va del senso di civiltà del Paese”. Il decreto Severino affronta il problema in modo “ineludibile e improcrastinabile” come afferma Schifani o con la “prepotente urgenza” richiamata dal Presidente Napolitano che a luglio aveva parlato di giustizia e carceri come di una situazione “che ci umilia in Europa? No, e lo sa anche il Governo che, cifre alla mano, prevede che - nell’arco di un anno - andranno alla detenzione domiciliare solo 3.300 detenuti, quando i posti che mancano nelle carceri sono più di 22.000! E non è solo una questione di spazi che sono insufficienti persino a custodire animali, ma questione di cure negate, di mancato rispetto della territorialità della pena, di costrizione del detenuto all’ozio forzato, di sporcizia e totale mancanza di igiene. Per non parlare dei 27.000 presunti innocenti lasciati a marcire in cella in attesa del processo. Ieri l’Italia è stata condannata per l’ennesima volta dalla Corte europea dei diritti umani per aver sottoposto un detenuto a trattamento inumano e degradante. Il detenuto nel carcere di Parma non solo non riceveva cure adeguate ma, costretto in carrozzina, non riusciva letteralmente a muoversi per la presenza di barriere architettoniche. La Corte di Strasburgo, ha dunque ribadito il principio secondo cui gli Stati hanno l’obbligo di assicurare che tutti i carcerati siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e garantendo in modo adeguato il diritto alla salute. Noi Radicali, con Marco Pannella e la sua lotta nonviolenta condotta assieme a tutta la comunità penitenziaria, sosteniamo che le carceri siano l’anello terminale di una Giustizia fuorilegge, che ha sulle spalle un carico di oltre dieci milioni di procedimenti penali e civili pendenti; una giustizia che, sul fronte penale, lascia cadere in prescrizione i processi al ritmo di 180.000 all’anno. E l’amnistia la chiediamo non come “clemenza” ma come un provvedimento costituzionale volto e atto a far rientrare nella legalità lo Stato italiano imbarbarito tanto dall’irragionevole durata dei processi, quanto da un sistema penitenziario incivile e criminale. Giustizia: decreto svuota-carceri non risolve problemi, bisogna limitare custodia cautelare di Amedeo Laboccetta (Deputato Pdl) Libero, 8 febbraio 2012 Le condizioni del sistema carcerario italiano impongono di ritenere sussistente una vera e propria “questione carceraria” che necessita di essere adeguatamente affrontata e risolta. È certamente abusata la considerazione che la civiltà di un Paese si misura con il livello di adeguatezza e di rispondenza a canoni universalmente riconosciuti delle condizioni nelle quali sono mantenuti gli istituti penitenziari, ma ciò non può esimerci dal mantenere alta l’attenzione verso l’universo carcerario. Il dato del sovraffollamento ci pone nella per nulla invidiabile posizione di leader europei perché continuiamo a stipare in strutture molto spesso fatiscenti e non rispondenti alle norme in vigore un numero di detenuti di molto superiore alla capienza con un indice medio superiore al 50% e con punte che in alcuni istituti superano addirittura del doppio i posti disponibili. Concorre poi a rendere sempre più drammatica la situazione il crescente e inarrestabile aumento della popolazione carceraria, ad oggi prossimo alla cifra record dei 70.000 soggetti ristretti nelle nostre prigioni. L’aumento del numero dei detenuti stranieri e di soggetti con disturbi mentali e psicologici costituisce un altro rilevante fattore di difficoltà e di impegno per quanti, avario titolo e per le diverse competenze, professionalmente svolgono attività nei penitenziari italiani. È sin troppo ovvio sottolineare che il carcere è il luogo dove vivono non solo i detenuti ma anche, e nelle medesime condizioni ambientali, gli operatori della polizia penitenziaria e della struttura amministrativa deputata alla gestione e alla fornitura dei servizi sanitari, educativi, riabilitativi e spirituali necessari. L’intervento legislativo diretto a garantire il precetto costituzionale dell’umanità della pena, ripreso anche dall’Unione Europea, si è contraddistinto dall’essere caratterizzato troppo spesso dalla necessità di intervenire sugli effetti del sovraffollamento senza mai affrontarne le cause. Ne è esempio attuale il decreto-legge cosiddetto “svuota carceri” ora all’esame del Parlamento. La scelta operata, nel tentativo di garantire condizioni di detenzione il più possibile conformi alla dignità umana, intervenendo semplicemente riducendo il numero dei detenuti appare non risolutiva della “questione carceraria” perché attraverso di essa a ben vedere, si tenta di riparare agli effetti di un’interpretazione della legislazione processuale da parte della magistratura che, nonostante la declinata eccezionalità del ricorso alla custodia cautelare in carcere, vi ricorre in maniera evidentemente eccessiva. È il dato del numero dei detenuti in attesa di giudizio, superiore al 40% del totale, il doppio della media europea, che impone questa riflessione ulteriore sulle cause dello stesso affollamento carcerario. Si tratta nella realtà di presunti innocenti, molto dei quali saranno poi assolti nei giudizi di merito, che fanno sì che non ci sia posto nelle carceri per i veri colpevoli! Non bisogna dimenticare poi che con lo “svuota carceri” si mettono fuori dal circuito carcerario soggetti che non si sono dimostrati meritevoli della concessione delle misure alternative già previste dall’ordinamento, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali o la semilibertà, quindi una parte della popolazione carceraria che potrebbe costituire un pericolo per la sicurezza dei cittadini. A ben vedere l’approccio alla “questione carceraria” non può prescindere dalla considerazione della separazione, a cominciare dal livello statistico, tra detenuti in attesa di giudizio e condannati in maniera definitiva. Questi ultimi, già beneficiari di una legislazione penitenziaria molto avanzata, devono scontare effettivamente le pene inflitte con la privazione della libertà, senza poter ulteriormente beneficiare di amnistie, condoni o depenalizzazioni ispirate, suggerite o necessitate dal sovraffollamento carcerario da loro stessi provocato. Vanno per ciò costruiti nuovi carceri, ristrutturati e ammodernati gli istituti esistenti e messe a disposizione le risorse per preparare i detenuti, a pena espiata, al momento del rilascio investendo anche nella formazione del personale, senza mai dimenticare l’importanza del precetto costituzionale della funzione rieducativa della pena. La custodia cautelare o preventiva di quanti attendono, troppo spesso per lungo tempo, la definizione del giudizio sulla responsabilità deve finalmente tornare ad essere applicata e mantenuta in casi eccezionali e solo per i delitti più gravi, facendo ricorso in maniera estesa per i reati di minore allarme sociale alle altre misure cautelari, come gli arresti domiciliari, che a circa 30 anni dalla loro introduzione nel nostro ordinamento, si sono dimostrati largamente efficaci per la concreta garanzia delle esigenze di tutela della collettività e di corretto svolgimento delle vicende processuali. Giustizia: risarcimento per ingiusta detenzione; la firma di Lusi manda in tilt i democratici di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 febbraio 2012 Ci aveva provato ad agosto 2011 nella manovra finanziaria e il Pd era con lui. Ma la maggioranza di centrodestra lo aveva fermato per un voto. C’era riuscito il 24 gennaio scorso, il giorno prima di dimettersi da tesoriere della Margherita, una settimana dopo essere stato interrogato dai pm che hanno scoperto la cresta di 13 milioni sul conto del suo ex partito. Quella di Luigi Lusi per il diritto al risarcimento di chi è stato ingiustamente detenuto è una vecchia battaglia, precedente ai suoi guai giudiziari. Due settimane fa, quando solo lui (oltre a Rutelli) sapeva quello che gli stava piovendo sulla testa, aveva segnato la sua prima vittoria. Perché l’aula del senato, all’unanimità e con il parere favorevole della ministra della giustizia Severino, aveva approvato il suo emendamento alla legge di conversione del decreto sulle carceri. Stabilendo così che il diritto a “un’equa riparazione” in caso di detenzione ingiusta deve spettare anche a chi è stato riconosciuto innocente prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che nell’ottobre 1989 ha introdotto il risarcimento. L’emendamento, bloccato per ragioni di copertura finanziaria, era stato poi ammesso perché aveva retrodatato il diritto al risarcimento solo di un anno e mezzo, al luglio 1988. “A me pare pacifico che tutti, senza limiti di tempo, devono avere diritto a essere risarciti per una detenzione ingiusta”, spiega il senatore Casson che ha firmato l’emendamento Lusi assieme a una decina di colleghi del Pd, dell’Udc, del Pdl e radicali., “ma di fronte a un vincolo di bilancio avevamo scelto di intervenire comunque dando un primo segnale”. Il Pd era d’accordo, tutti erano d’accordo, governo compreso. Due settimane dopo, però, con Lusi nella bufera, tutto è cambiato. Ieri la commissione affari costituzionali della camera ha bocciato la norma. Ritenendola incostituzionale perché viola il principio di eguaglianza visto che esclude dal risarcimento chi è stato assolto prima del luglio 1988. I deputati del Pd hanno orgogliosamente votato contro l’emendamento del loro ex compagno di partito (è stato espulso lunedì), rivendicandolo in un comunicato. La Lega per la verità ha fatto di più, abbandonando i lavori. La commissione bilancio non ha trovato nulla da eccepire sulla copertura, ma la ministra della giustizia ha corretto se stessa. “La cosiddetta norma Lusi - ha detto - è stata presentata al senato, un po’ all’ultimo momento, il governo non ha espresso condivisione, ma solo parere favorevole”. L’imbarazzo e i tentativi di correzione si sono però infranti sull’esigenza di convertire velocemente il decreto, che scadrà il prossimo 20 febbraio. Così ieri pomeriggio il Consiglio dei ministri ha autorizzato la fiducia sul testo uscito dal senato e la ministra ha fermato i democratici. “È un pasticcio che dobbiamo ingoiare - dice Donatella Ferranti del Pd, relatrice in aula e contrarissima alla norma Lusi - cercheremo di correggerlo con nuove leggi. Il diritto al risarcimento è stato introdotto dal nuovo codice di procedura e tentare di retrodatarlo crea solo altre ingiustizie”. Secondo Ferranti quei fondi andrebbero impiegati in altro modo, per esempio assumendo il personale civile dell’amministrazione penitenziaria. Ieri fino a notte la Lega è andata avanti con l’ostruzionismo in aula, oggi il governo metterà la questione di fiducia per evitare una terza lettura del decreto. E al di là delle intenzioni sarà difficile cancellare poi quel diritto al risarcimento che viene riconosciuto adesso. Chi è stato assolto definitivamente dopo il 1° luglio 1988 può dunque preparare la richiesta: in media lo stato riconosce 100mila euro per ogni anno di detenzione ingiusta, fino a un massimo di 516mila euro. Per qualche giorno non rientrerà nel risarcimento il sindaco di Milano Pisapia, che come si ricorda dalle false accuse di Letizia Moratti è stato ingiustamente detenuto per 4 mesi, ma la sua vicenda giudiziaria si è chiusa nell’aprile 1988. Avrà diritto al risarcimento invece Giulio Petrilli che negli anni Ottanta con l’accusa di banda armata ha scontato sei anni di carcere, risultando poi innocente. C’è lui dietro le battaglie di quanti sono stati esclusi dal codice del 1989. Ex del Pd e abruzzese dell’Aquila, era stato Petrilli a convincere il senatore Lusi. Giustizia: i dati smentiscono campagne allarmistiche dei forcaioli di destra e di sinistra di Valter Vecellio Notizie Radicali, 8 febbraio 2012 La discussione sui provvedimenti da adottare per decongestionare le carceri è venata demagogie e allarmismi che vengono sia da destra, quella parte del Pdl che viene da Alleanza Nazionale, la Lega di Umberto Bossi; ma anche da sinistra: quel magma che va dall’Italia dei Valori a Beppe Grillo e quell’area che si riconosce nel “Fatto quotidiano”. Suonano la grancassa dell’allarmismo sociale, sostengono che se dovessero passare le misure cosiddette “svuota carceri”, e che il carcere lo svuotano in modo assai minimo, le nostre città, le nostre strade, la società intera, sarebbero preda di bande di delinquenti e farabutti di ogni genere pronti a commettere ogni tipo di reati. Ogni botte dà il vino che ha, e il vino di questi signori è aceto. Lo ha dimostrato - ed è dimostrazione definitiva, che stronca ogni speculazione - Luigi Manconi, nella rubrica “Politicamente correttissimo” che ha sul “Foglio” ogni martedì. Proprio ieri sul “Foglio” Manconi ha recuperato dati estremamente interessanti. Manconi parte da un’esigenza che, vuoi per mera speculazione politica, vuoi per incapacità o pigrizia, trova poca corrispondenza nelle analisi e nei commenti che capita di leggere e ascoltare: l’esigenza di riflettere sulla pena e sulla sua esecuzione, sui reati e sulla loro origine e sui loro effetti. Proprio grazie a questa riflessione ecco i dati interessanti e insieme sorprendenti, che rivelano come, è Manconi che scrive, ma è tutto da sottoscrivere “l’impostazione giustizialista, che si vorrebbe pragmatica e tutta giocata sulla concretezza, si dimostra invece inefficace in quanto incapace di andare oltre un meccanismo reattivo, illusorio e infine utopistico. Un approccio che si propone come fattuale, ma che non sembra in grado di leggere i soli dati di fatto che davvero contano”. I dati sono questi: nel 2011, su 20.314 detenuti in regime domiciliare - ripeto: su 20.314 detenuti in regime domiciliare - quelli che hanno commesso un nuovo reato (si parla di reati: rapine, violenze, quant’antro - sono appena lo 0,81 per cento. Non raggiunge l’1 per cento di percentuale. Per capirci: meno di duecento su oltre ventimila detenuti che hanno usufruito del regime del carcere domiciliare. Questi sono i dati; il resto, l’evocazione dei delinquenti lasciati liberi, che tornano a delinquere, che rubano, rapinano, violentano e massacrano sono solo e unicamente ignobili, volgari e meschine speculazioni che vedono uniti i Maurizio Gasparri e gli Antonio Di Pietro, i Roberto Maroni e i Beppe Grillo. Ripeto ancora una volta: su 20.314 detenuti agli arresti domiciliari, hanno commesso reato lo 0,81 per cento, meno di duecento. Uniamo questi dati a quelli raccolti un anno fa dall’università di Torino relativi alle recidive - irrilevanti - di quanti hanno beneficiato dell’indulto, e abbiamo la prova provata di come quei personaggi giocano sporco facendo leva su paure e timori che non hanno ragione di esistere. Giustizia: non possiamo restare indifferenti, i suicidi in carcere riguardano tutti noi! di Antonella Speciale Notizie Radicali, 8 febbraio 2012 Il 3 febbraio si aggiornano tristemente i dati relativi alle morti per suicidio in carcere: quest’anno, in poco più di un mese, si sono tolte la vita già sette persone, e, dato ancora più avvilente, nessuno si è preso cura di raccontare la loro storia, di denunciare il loro dolore, che per la società rappresenta una sconfitta: sì, perché queste persone sono vittime delle atroci condizioni delle nostre carceri, e se le carceri rappresentano lo Stato, beh, allora queste persone in custodia cautelare sono vittime dello Stato. E dico “stato” intendendo sia lo Stato politico sia lo “stato di cose” della nostra società. Allora mi domando: se noi ci riconosciamo come appartenenti a tale “stato di cose”, come possiamo non indignarci, non denunciare l’ingiustizia di un sistema che miete vittime così vergognosamente? Perché non se ne parla di più, perché non si grida un diniego assoluto e concorde? Ci interroghiamo mai sulla disperazione che porta un uomo al suicidio? Impiccarsi poi non è cosa “facile”, presuppone premeditazione e una agghiacciante fermezza. Presuppone la totale resa della persona all’insopportabilità dell’angoscia che costituisce la sua vita. E questo sarebbe il percorso di rieducazione e reinserimento nella società civile dettato dall’articolo 27? Rieducazione e reinserimento presuppongono un futuro per il condannato, ma a quanto pare il suicidio ne decreta tragicamente l’assenza di prospettiva. Ebbene, come atto dovuto nel rispetto degli ahimè innumerevoli suicidi in carcere, tentiamo almeno di capire quale sia il percorso di disperazione in cui vive la persona ristretta. Una vera “discesa agli inferi”, come racconta Carmelo: “inizia il viaggio nella valle degli inferi: un cammino privo di qualsiasi significato, fatto di sofferenza, di privazione, di condizioni che vanno ben al di là dell’immaginazione di come venga trattato un essere umano. Tutti in fila indiana per camminare nei corridoi senza poter dire neanche una parola. Chiusi in tre per cella, in una stanza che può contenere una sola persona, e non poter restare tutti in piedi, perché è impossibile, spazio insufficiente. Le docce un’odissea: d’estate acqua bollente e d’inverno acqua congelata. Rimanere rinchiusi per 24 ore in un solo metro quadrato a disposizione, come per dire: più soffrite e meglio è, qualsiasi cosa vi sia fatta non è mai troppa, da qui non uscirete più, a quanto pare, “vivi”! Sono stato trasportato alcune volte con il blindato, come fossi un pacco postale, ammanettato dentro un’antina d’acciaio dove non c’è spazio, seduti, neanche per le ginocchia, tutto immerso nel buio, per chilometri e chilometri, solo con qualche sosta per andare in bagno”. Considerazioni, queste, che fanno pensare, a quanto siamo noi disumani nel tollerare queste realtà. “Vedo tantissime persone malate, con patologie anche terminali, confinati su sedie a rotelle o destinati ad ospedali giudiziari, e stento a crederci: la vita umana non vale più niente! Sembra solo un mattatoio. Dunque, questa è la rieducazione di una persona per riammetterla nella società? Questa è la costituzione fondata dai padri costituenti che offrono un’altra possibilità a chi ha sbagliato? Questo è il calvario di chi deve essere ancora giudicato e poi essere, magari, assolto per non aver commesso nulla o soltanto per cattiva interpretazione dei fatti? Quando si grida di non farcela più, i propri simili rispondono, sminuendo l’importanza vitale della persona: “Questa è simulazione”, sanzionando con note disciplinari l’individuo che grida aiuto e che non vuole morire. Questo rappresenta l’induzione a farla finita. Ma siamo ancora sicuri che il fine giuridico di un istituto penitenziario non sia in conflitto con il diritto inviolabile della vita umana?” Se tali sono le percezioni di un detenuto, come la mettiamo con l’induzione a farla finita? E con la nostra responsabilità etica e morale di fronte ad un problema che affligge i nostri simili? Che persone siamo se tolleriamo e non denunciamo questa mattanza? Carmelo racconta, Carmelo urla: “Vergogna! Vergogna! Mi vergogno di me stesso, come essere umano impotente, che non può reagire a questo massacro che conduce a tutto fuorché alla rieducazione per coloro che riescono ad arrivare a fine pena, perché questo traguardo incontra l’interferenza della malattia, la privazione della volontà”. E ci invita a gridare con forza: “Dignità, umanità, misure alternative e non da macello; e chi è portavoce delle realtà carcerarie non si vergogni e non si inibisca a gridare per far conoscere le morti, i suicidi, i maltrattamenti subiti, altrimenti sarete nella menzogna”. E non raccontiamoci la storiella della nostra estraneità … e di fronte a chi continua a “votare l’ordine e la disciplina”, non esitiamo a rispondere: “Per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti”. Giustizia: Direzione Nazionale Antimafia; potenziare il 41-bis… servono più strutture Ansa, 8 febbraio 2012 Il 41 bis “è imprescindibile” nella lotta alla mafia, per questo “deve essere potenziato e mai attenuato, perché contro la criminalità organizzata si può solo avanzare e non arretrare”. Lo rileva la relazione della Direzione nazionale antimafia secondo cui dato l’elevato numero di detenuti sottoposti a questo regime carcerario servono finanziamenti per nuove strutture detentive. Grazie alla qualità delle investigazioni più recenti e ai successi che lo Stato ha realizzato nel contrasto alle mafie, con la cattura di un maggior numero di capi delle organizzazioni criminali, è aumentato il numero dei detenuti sottoposti al 41 bis (erano 686 alla fine 2010). La relazione della Dna sottolinea dunque che “il numero dei detenuti sottoposti al regime speciale non può andare a scapito della qualità del servizio”. “In sostanza - dice la relazione - se l’azione dello Stato sul territorio è vincente essa non può subire rallentamenti per carenze di struttura e proprio nel mondo delle carceri. Anzi, tali strutture devono essere potenziate con maggiori investimenti e la creazione di nuove aree riservate ai detenuti sottoposti al 41 bis”. In passato, si ricorda, il problema è stato risolto anche grazie all’impiego di istituti penitenziari particolarmente idonei allo scopo di isolare i detenuti dall’esterno, come le carceri dell’Asinara e di Pianosa, “anche se reazioni fortemente contrarie siano state suscitata da più parti in ordine alla paventata possibilità di una loro riapertura”. Poiché la Dna giudica imprescindibile nella lotta alla mafia il 41 bis, il regime va potenziato con nuovi investimenti per la creazione di strutture adatte allo scopo e non certo depotenziato o rispetto al quale si possa addivenire ad una limitazione dei soggetti sottoposti per ragioni diverse dal venir meno della loro capacità di comunicare in maniera efficace con l’organizzazione criminale nella quale continuano ad avere un ruolo di vertice. In questo senso diviene sempre più necessario individuare nel piano carceri nuove strutture idonee, nate esclusivamente per l’assolvimento della funzione di prevenzione prevista dall’art. 41 bis e da destinare in via esclusiva a tale regime. Giustizia: Niccolò Amato; nel 1992 ministro Martelli disse no al 41-bis per 5 mila detenuti Italpress, 8 febbraio 2012 “Il 30 luglio 1992 proposi al ministro Martelli un decreto per mettere al carcere duro più di cinquemila detenuti per reati di mafia, ma non ebbi risposta”. A parlare è Niccolò Amato, ex direttore delle carceri italiane, che in un’intervista pubblicata sul sito di Servizio Pubblico (www.serviziopubblico.it) rivela di avere inviato un appunto al Ministro della Giustizia pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio. Nel documento, acquisito di recente dai magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia, Amato individuava 121 carceri e sezioni di penitenziari in cui applicare il regime del carcere duro: “Era una soluzione efficace - spiega, ogni mafioso arrestato l’avrei potuto mandare subito al 41bis senza aspettare i singoli decreti. Il ministro però stranamente girò la mia proposta a Liliana Ferraro, che dopo la morte di Falcone dirigeva gli Affari penali. Sia lei che l’ufficio legislativo espressero riserve, e Martelli non rispose alle mie ulteriori sollecitazioni. Così la mia proposta di 41bis generalizzato per tutti i detenuti di mafia cadde nel limbo dell’indifferenza”. Sull’applicazione del carcere duro, nel biennio stragista 1992-1993, Amato chiama in causa anche l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Quando Conso subentrò a Martelli - dice - io lo rimproveravo perché sull’applicazione di alcuni 41bis che io gli avevo chiesto, lui aveva interpellato Mancino. Giovanni, gli dicevo, ma queste cose le dobbiamo decidere noi, perché le chiediamo, perché le dobbiamo chiedere?”. Amato ricoprì l’incarico di direttore del Dap per undici anni, poi il 4 giugno 1993 fu improvvisamente sostituito con Adalberto Capriotti. “Fu la mafia - dice - a volere la mia destituzione. Nel febbraio ‘93 un gruppo anonimo di mafiosi scrisse una lettera al presidente Scalfaro in cui dicevano di farla finita con Amato e i suoi squadristi. Pochi giorni prima della mia cacciata il presidente Scalfaro convocò al Quirinale l’ispettore dei cappellani don Curioni e il suo segretario don Fabio e disse loro: ‘Basta con Amato!’. Il 26 giugno Capriotti e il suo vice Di Maggio proposero a Conso l’assoluto ribaltamento della mia politica penitenziaria. In pochi mesi i detenuti di mafia al 41bis, da 1300 si ridussero a circa 536”. Amato, infine, racconta che dopo avere lasciato il Dap chiese al ministro degli interni Mancino un posto da prefetto ma questi glielo negò: “Allora, non potendo più fare il magistrato, decisi di fare l’avvocato. Ho difeso Vito Ciancimino nel 1994, ma lasciai l’incarico perché non mi pagava”. Giustizia: Marcenaro (Pd); sentenza Asti assoluzione agenti conferma tortura è consentita Agi, 8 febbraio 2012 “Le motivazioni, pubblicate ieri, della sentenza pronunciata il 30 gennaio scorso dal Tribunale di Asti, nel processo contro cinque agenti penitenziari per le violenze commesse contro detenuti nel carcere di quella città, dimostrano un’altra volta come in Italia sia possibile torturare impunemente”. Lo afferma il senatore del Partito democratico, Pietro Marcenaro, presidente della Commissione Diritti Umani di Palazzo Madama. “Il rifiuto finora opposto ad inserire nel Codice penale italiano il reato di tortura - sottolinea Marcenaro - come previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che pure l’Italia ha sottoscritto e ratificato, impedisce di perseguire e punire i responsabili di atti gravissimi. Governo e Parlamento hanno il dovere di rimediare immediatamente a questa situazione introducendo nel nostro codice penale, attraverso una procedura d’urgenza, il reato di tortura come definito dalla Convenzione Onu. Al tempo stesso - aggiunge - si deve procedere alla ratifica del Protocollo Opzionale del Consiglio d’Europa sulla Tortura (Opcat) che impone ai paesi l’obbligo della vigilanza e del controllo per prevenire e impedire atti di tortura”. “In Senato sono da tempo depositati disegni di legge su questi temi - prosegue il presidente della Commissione Diritti umani - che possono essere rapidamente approvati. Le resistenze che fino ad oggi sono venute da settori minoritari e reazionari degli apparati devono essere vinte: e questo non solo a tutela e garanzia dei diritti delle persone ma a difesa della dignità e dell’onore delle stesse forze dell’ordine e degli agenti della polizia penitenziaria - conclude Marcenaro - che non meritano di essere infangate da comportamenti come quelli che la magistratura di Asti ha provato”. Emilia Romagna: Garante Desi Bruno; puntare al rimpatrio assistito per i reclusi stranieri Ristretti Orizzonti, 8 febbraio 2012 Da anni, è presente una massa crescente di persone detenute per le quali la pena rieducativa appare “un concetto fuori dalla realtà”. Si tratta della popolazione straniera, quasi tutta irregolare, priva di radicamento legale con il territorio, destinata, una volta espiata la pena, ad essere espulsa comunque, a prescindere dal percorso maturato nel corso della detenzione. Da questa premessa, Desi Bruno, neo insediato Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, fa discendere una proposta: il “rimpatrio assistito”, utilizzando la previsione normativa (articolo 16 comma 5 del Testo Unico sull’Immigrazione), che prevede che gli stranieri non appartenenti all’Unione europea condannati in via definitiva per un numero rilevante di reati (non quelli più gravi) debbano essere espulsi quando mancano due anni al fine pena. Può essere altresì il caso, aggiunge il Garante, di reintrodurre la previsione di espulsione facoltativa a richiesta dell’interessato. In un articolo per la rivista “Ristretti Orizzonti”, prodotta nella Casa di reclusione di Padova, Desi Bruno fa notare che i periodi di detenzione per molti stranieri sono più lunghi, per mancanza di un’adeguata difesa, perché spesso i magistrati basano il giudizio di pericolosità sociale sulla condizione di irregolare, senza documenti, casa, lavoro, a volte per difetto di comprensione di quello che sta succedendo, per l’assenza di un numero sufficiente di mediatori culturali e socio-sanitari. Le misure alternative al carcere quali la semilibertà, l’affidamento, la detenzione domiciliare, il lavoro all’esterno presuppongono relazioni sociali, un lavoro (e quindi un regolare permesso di soggiorno), una casa. E in ogni caso, anche percorsi rieducativi ad esito positivo, non salvano dall’esito scontato dell’espulsione. In Emilia-Romagna, la presenza di cittadini stranieri (per lo più non appartenenti all’Unione Europea) supera il 50%, a fronte di una modesta presenza di cittadini nati in regione (non più del 10%), il che impone una riflessione sulla attuale composizione della popolazione detenuta e sulla attualità degli strumenti normativi che regolano la vita in carcere. Si tratta, con ogni evidenza, di uno scenario completamente diverso da quello in cui vide la luce, nel 1975, il nuovo Ordinamento penitenziario, e assai lontano da quello in cui, nel 1986, venne approvata la “legge Gozzini”. È perciò necessario ripensare il senso e le forme di attuazione del principio costituzionale che vuole una pena rieducativa, capace di reinserire nel circuito sociale. Fino a quando una modifica radicale della legge attuale sull’immigrazione non determinerà uno scenario di condotte penalmente rilevanti diverso, la strada da seguire può essere quella di strutturare progetti di “rimpatrio assistito”. Questa misura presuppone che la persona sia identificata e che il paese di provenienza la accolga. Conclude Desi Bruno: “Anche i più refrattari a questo tema possono apprezzare il significativo risparmio di risorse, atteso il costo delle persone detenute per le casse dello Stato”. Si tratta di una risposta concreta, che dovrebbe coinvolgere consolati, enti locali, amministrazioni penitenziarie, magistratura di sorveglianza, associazioni che si occupano di immigrazione e volontariato. Al contrario, nessuna espulsione continuerà ad essere possibile per chi, rientrando nel proprio paese rischia di subire persecuzioni per motivi di razza, sesso, religione, opinioni politiche. Lazio: Fns-Cisl; sempre più allarmante numero detenuti, bene il decreto-carceri Agi, 8 febbraio 2012 “Ben venga la fiducia da parte del Governo al decreto svuota-carceri, ma necessariamente occorrono interventi strutturali sugli istituti penitenziari del Lazio che purtroppo, eccetto quello nuovo di Rieti, sono fatiscenti”. Lo afferma, in una nota, Massimo Costantino, coordinatore regionale di Fns Cisl: “In alcuni casi, addirittura, si segnalano infiltrazioni d’acqua sia nelle celle detentive che nei luoghi di lavoro dove espleta servizio il personale di polizia penitenziaria”. Nei 14 penitenziari della regione Lazio sono recluse 6.716 persone (6.304 uomini e 412 donne) a fronte di una capienza regolamentare di 4.838 posti, duemila detenuti oltre la capienza massima. “Un dato preoccupante - sottolinea Costantino - in quanto, rispetto ai numeri del mese di novembre 2011, i detenuti nel Lazio sono aumentati di circa 250 unità in soli 2 mesi”. Liguria: Sappe; più di 1.800 detenuti, altri 800 scontano la pena in misura alternativa Ristretti Orizzonti, 8 febbraio 2012 “Possiamo davvero dire che le carceri in Liguria siano 8. Alle 7 dislocate sul territorio in cemento, sbarre e mattoni - costruite per ospitare mille e 100 persone ed invece oggi affollate da oltre 1.800 detenuti - se ne aggiunge un’altra, invisibile, che quasi contende al carcere di Genova Marassi il primato di più affollato della regione. Parlo delle 781 persone che sul territorio ligure sono attualmente ammesse alle misure alternative alla detenzione, a misure di sicurezza, a sanzioni sostitutive del carcere. 692 sono seguite dall’Ufficio per l’Esecuzione Penale di Genova e 89 dalla sezione distaccata di Imperia. Credo che si debba puntare di più verso questa direzione, e mi auguro che il Parlamento approvi quanto prima la conversione in legge del decreto del Governo che introduce interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”. A dirlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Oggi noi abbiamo, in Liguria, 47 persone impiegate in lavori di pubblica utilità e lavoro all’esterno, 97 in libertà vigilata, 196 in detenzione domiciliare, 35 in semilibertà e 405 affidate in prova ai servizi sociali. Ad Imperia e provincia, dove opera un ufficio distaccato dell’Esecuzione Penale, 8 sono le persone impiegate in lavori di pubblica utilità, 13 in libertà vigilata, 15 in detenzione domiciliare, 4 in semilibertà e 49 affidate in prova ai servizi sociali. È del tutto evidente che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Si deve infatti avere il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione. È altrettanto evidente che si deve potenziare il ruolo della Polizia Penitenziaria incardinandolo negli Uffici per l’esecuzione penale esterna per svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione, cui sarà opportuno ricorrere con maggiore frequenza. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene”. Sardegna: Sdr; la sanità penitenziaria è passata alla Regione, ma mancano le linee guida La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2012 Tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, malati di Aids e di varie forme di epatite rappresentano la maggior parte della popolazione carceraria sarda: è urgente la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria penitenziaria. Ma il problema è che, pur essendo stata trasferita già dal settembre scorso la competenza alla Regione, ancora non è stata organizzata nei fatta la rete dell’assistenza ai detenuti. Un problema che si aggrava di giorno in giorno perché si va avanti con ciò che si è sempre fatto ma senza la certezza del riferimento finanziario e di responsabilità. In altre parole: i medici e gli infermieri che assistono i detenuti sia dentro che fuori del carcere in questo momento non hanno un punto di riferimento chiaro nella rete sanitaria sarda, prima esercitavano le loro funzioni grazie a una convenzione tra il ministero di Giustizia e il servizio sanitario nazionale, adesso formalmente dovrebbero dipendere del tutto dalla Regione ma questa ancora non ha stabilito la modalità dell’accesso alle cure da parte dei pazienti detenuti. Per esempio bisogna stabilire se chi ha sempre prestato servizio in carcere continuerà a farlo nello stesso modo e quindi gli viene riconosciuto il ruolo oppure se ci sarà una rotazione del personale di tutti i reparti e i servizi. La sanità penitenziaria non può marciare sui binari standard: un detenuto che sta male non passa dal pronto soccorso, non è la guardia medica che garantisce l’intervento fuori dall’orario di lavoro del medico del carcere. L’ex consigliere regionale Maria Grazia Caligaris presidente dell’associazione Socialismo, Diritti, Riforme, ha chiesto che del servizio di sanità penitenziaria di competenza delle Asl sia riconosciuta una specificità e quindi sia istituita una direzione generale di riferimento anche per l’emanazione di indispensabili linee guida. Buoncammino, poi, ha un centro clinico che deve trovare un inserimento fra le attività gestite dalle Asl. Roma: Sel e Antigone; a Regina Coeli manca riscaldamento, 150 detenuti al gelo Redattore Sociale, 8 febbraio 2012 “Circa 150 detenuti, in questo momento, si trovano al gelo nel sesto braccio del carcere romano di Regina Coeli, a causa della completa assenza del riscaldamento e dell’acqua calda. Si tratta di condizioni di vita inaccettabili per un istituto penitenziario. Con il freddo eccezionale di questi giorni, si rischia finanche di mettere in pericolo la vita di queste persone”. È quanto dichiarano Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia e Libertà nel Consiglio regionale del Lazio, e Patrizio Gonnella, presidente nazionale dell’associazione Antigone, che questa mattina si sono recati in visita nel penitenziario romano. “Le coperte non sono sufficienti – aggiungono. Abbiamo visto gente tremare di freddo. Ci hanno detto che molti detenuti si stanno ammalando. E pensare che la precedente giunta regionale, nel 2006, mise a disposizione uno stanziamento di 450 mila euro proprio per la ristrutturazione del quinto e sesto braccio di Regina Coeli, per gli stessi identici problemi. I lavori furono eseguiti - spiega Nieri. Allora ricoprivo l’incarico di assessore al bilancio della giunta regionale e, dopo una visita in questo carcere, decidemmo prima di avviare una campagna di denuncia e poi di stanziare alcune risorse”. Oggi - continua Luigi Nieri - a distanza di soli 6 anni, il sesto braccio si trova nelle stese condizioni di allora e il quinto è chiuso. Un fatto inaccettabile e una situazione insostenibile per i detenuti. È evidente che su questa vicenda occorre fare chiarezza e accertare le responsabilità”. “Con l’occasione, inoltre, invitiamo la presidente Renata Polverini a intervenire sulla sanità penitenziaria- ha aggiunto il capogruppo di Sinistra Ecologia e Libertà nel Consiglio regionale del Lazio- e in particolare sul centro clinico di questo istituto, al momento non adatto a svolgere la sua funzione. Vi sono detenuti in gravi condizioni di salute. Uno di questi, dopo essersi fratturato una gamba, è in attesa da 4 mesi di un ricovero per affrontare alcune complicazioni post-operatorie. Un ritardo che gli sta causando gravi complicazioni”. “I detenuti vivono in condizioni igienico-sanitarie insostenibili. Chiediamo un intervento immediato dell’Asl diretto a verificare se i reparti siano ancora idonei a ospitare i detenuti- conclude invece Patrizio Gonnella, presidente nazionale dell’associazione Antigone- La gente è ammassata nei pochi spazi a disposizione. Ci sono 6 persone in celle da meno di 15 metri quadri. Ci hanno riferito, inoltre, che nei giorni scorsi un detenuto è deceduto in questo istituto. Una notizia di cui non sappiamo molto altro”. Cangemi (Assessore Lazio): disagi Regina Coeli già noti e in via di risoluzione “Durante questi giorni di emergenza causata dal maltempo, la Presidente Polverini come è noto ha attivato gli uffici regionali e la presidenza sono aperti 24 ore su 24, in questa fase sono stato in continua comunicazione anche con il Provveditorato delle Carceri del Lazio per poter fronteggiare le possibili situazioni di criticità che si fossero potute verificare all’interno delle carceri”. È quanto afferma Giuseppe Cangemi Assessore alla Sicurezza ed agli Enti Locali della Regione Lazio replicando ad alcune segnalazioni di problematiche legate al freddo degli ultimi giorni per alcuni detenuti di Regina Coeli. “In particolare - ha continuato - la situazione di difficoltà esistente presso una sezione della Casa Circondariale di Regina Coeli è stata segnalata già da tempo ed è legata a problematiche di tipo strutturale derivanti da lavori in corso, che sono quindi in via di risoluzione. L’Amministrazione Penitenziaria ha predisposto un piano idoneo a sopperire a tali difficoltà, rendendo libero, dalle persone, il reparto interessato. La popolazione ristretta al sesto braccio era stata informata per tempo del suddetto programma”, ha concluso Giuseppe Cangemi. Pisa: il carcere scoppia, ma una soluzione non c’è Il Tirreno, 8 febbraio 2012 Continua il dibattito sulla situazione del carcere Don Bosco di Pisa. Ieri si è riunita la seconda commissione politiche sociali per sviluppare proposte di intervento da discutere nel prossimo consiglio comunale. La discussione si è incentrata sulla relazione dell’avvocato Andrea Callaioli, garante dei detenuti presso il Don Bosco, riguardante le attività svolte negli ultimi due anni e le difficoltà della casa circondariale pisana. Dalla relazione si evince in particolare il problema del sovraffollamento. A fronte di una capienza regolamentare di 226 detenuti (204 uomini e 22 donne) e di una capienza tollerabile di 305 (268 uomini e 37 donne), nel carcere Don Bosco sono presenti un numero di detenuti che oscilla tra i 380 e 403. Circa 250 sono i reclusi stranieri, oltre cento quelli tossicodipendenti (di cui 28 in trattamento) ed otto quelli affetti da Hiv. L’emergenza principale risulta essere quella della sezione femminile. A fronte di una capienza massima di circa venti unità, la sezione femminile del carcere Don Bosco “ospita” circa 40 detenute. “È un’emergenza nell’emergenza - commenta l’avvocato Callaioli - e questo dovuto soprattutto alla situazione del carcere di Livorno che rischia di crollare. Per questo si è provveduto a chiudere alcuni suoi reparti tra cui quello femminile, smistando le detenute nelle case circondariali in cui è presente una sezione femminile, tra cui Pisa”. Durante l’incontro in Comune è intervenuta anche una delegazione della Cisl Fns della segreteria territoriale di Pisa per denunciare la carenza e le condizioni in cui si trova a lavorare il personale del carcere. “Già nel 2009 - dice il segretario Fns Cisl di Pisa Paolo Mercurio - abbiamo denunciato tutte le lacune, le carenze, i rischi e le lesioni di diritti nel lavoro cui il personale di polizia penitenziaria è esposto nel carcere Don Bosco”. Il decreto ministeriale 2001 prevedeva per il carcere Don Bosco un organico di polizia penitenziaria pari a 259 unità. Invece, ad oggi, risultano in servizio 188 unità di cui 26 distaccate in altre sedi. In totale, quindi, il carcere pisano può contare sull’operatività di 162 unità, circa cento in meno di quelle previste Livorno: svuotate quattro sezioni da ristrutturare, alle Sughere restano 120 detenuti Il Tirreno, 8 febbraio 2012 Gli irriducibili delle Sughere sono 120 e sono tutti in attesa di giudizio. Il carcere in via delle Macchie s’è svuotato e il trasferimento è completato. Nelle scorse settimane sono state liberate le quattro sezioni: tre dell’alta sicurezza più quella femminile. Un altro centinaio di persone, quindi, sono state portate fra Porto Azzurro, Pisa e Firenze. L’ultimo gruppo va ad aggiungersi ai detenuti già spostati prima di Natale. A dicembre, infatti, erano già stati liberati i padiglioni D e C. L’obiettivo è favorire la ristrutturazione dei padiglioni, che ormai erano diventati tanto fatiscenti da essere considerati pericolosi, e ultimare i lavori di costruzione del nuovo edificio, ormai in cantiere da 5 anni. Quest’ultimo - che ospiterà duecento persone con celle dotate di docce calde - dovrebbe essere pronto entro giugno. Intanto, sono in corso delle perizie per capire se i padiglioni fatiscenti che sono stati liberati potranno essere ristrutturati o se sarà necessario buttarli giù. A questo scopo, la scorsa settimana sono stati eseguiti dei sondaggi con tiranti e strumentazione particolare. E a giorni si aspettano i risultati. Entro l’inizio dell’estate tutto dovrebbe tornare alla normalità e le Sughere dovrebbero risultare di nuovo a “regime”. Certo, rispetto ai tempi delle barricate contro il sovraffollamento sembra passata una vita. Resta però il fatto che il carcere delle Sughere è un punto di riferimento importante nel panorama regionale. E il fatto che i detenuti livornesi ora siano in giro per la Toscana (e non solo) crea diversi malumori. “Noi vogliamo che le Sughere tornino ad essere quello che sono, cioè un carcere di media dimensione - dice il garante dei detenuti, Marco Solimano - Non dimentichiamo che la nostra casa circondariale ha un turn over di 1.200-1.300 detenuti l’anno ed è considerato un carcere importante della Toscana. Nel momento in cui il nuovo padiglione ospiterà 200 persone e quelli già esistenti ne conterranno altri 120, le Sughere torneranno ad essere un carcere vero”. Solimano sottolinea che attualmente la maggior parte dei detenuti livornesi è a Porto Azzurro, posto molto scomodo da raggiungere per i parenti. Un’osservazione particolare la meritano anche le donne: “Dovranno tornare: è troppo pesante pensare che portare tutte le detenute livornesi fuori città, considerando i problemi legati alla vita familiare e affettiva”. Reggio Emilia: una sola certezza… l’Opg entro un anno sarà chiuso Gazzetta di Reggio, 8 febbraio 2012 Cura, sicurezza, reinserimento. Questo dovrebbe essere, se tutto funzionasse, il percorso per gli internati negli Opg italiani di Castiglion delle Stiviere, Reggio, Montelupo Fiorentino, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, dove sono detenuti in 1.400. Per seguire i 290 ospiti in carico alla struttura di via Settembrini, l’Ausl reggiana, a cui è affidata la loro cura, negli anni ha aumentato la presenza di personale. Un’ operazione, ha detto il responsabile Gaddomaria Grassi, che ha consentito negli ultimi anni di aumentare il numero delle dimissioni, che richiedono un progetto di reinserimento legato alla famiglia o al territorio. Attualmente in via Settembrini sono impiegati 17 medici, 3 psicologi, 33 infermieri, 22 operatrici sanitarie e 5 terapisti. “L’Opg di Reggio è tenuto bene, non è un lager, ma sarà chiuso al pari degli altri cinque ancora in funzione in Italia”, ha detto il presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli, ieri al termine della sua visita alla struttura di via Settembrini che ospita 222 internati a fronte di una capienza di 132 posti ed a un limite di tolleranza di 190 posti. Agli attuali 222 internati vanno aggiunti altri settanta ospiti tra quelli che sono in permesso o che fanno rientro in via Settembrini solo alla sera per dormire in carcere e uscirne il mattino dopo. Si tratta, in quest’ultimo caso, di misure temporanee e revocabili dal magistrato in ogni momento e che possono far innalzare a livelli non sostenibili la presenza effettiva nelle cinque sezioni in cui è suddiviso l’Opg. Quattro sono aperte ed una è dotata di celle in cui vengono reclusi gli internati più violenti e pericolosi, a cui si aggiunge una sezione con biblioteca e tv per le attività ludico-ricreativa. I sei Opg esistenti in Italia complessivamente ospitano 1.400 internati e di questi 500 circa potrebbero uscire immediatamente solo se vi fossero strutture in grado di accoglierli e affiancarli in un progetto di reinserimento sociale. Più o meno è quello che dovrebbero fare più agevolmente le nuove strutture di cura che sostituiranno gli Opg, la cui chiusura è fissata per il 31 marzo 2013. Ma mancano ancora certezze. Per ora si sa solo che gli Opg chiuderanno (manca il voto della Camera, ma il senatore Berselli, l’ha dato per scontato, pur senza nascondere i timori del Senato al momento di decidere la chiusura degli Opg) e che entro il 31 marzo 2012 dovrà uscire il decreto con le caratteristiche delle nuove strutture di accoglienza. Poche le certezze: avranno una capienza di 40-50 posti; saranno strutture regionali; la cura dei pazienti all’interno sarà assicurata da personale sanitario e la vigilanza esterna continuerà ad essere effettuata dalla Polizia penitenziaria. Se il senatore Berselli ha professato ottimismo e si è detto “fiducioso” che in un anno le nuove strutture vengano realizzate, il direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Ausl reggiana Gaddomaria Grassi, ha confermato che “ad oggi nulla è stato deciso”, escludendo che la nuova struttura in fase di ultimazione in via Petrella (adiacente allo nuovo stadio) possa essere utilizzata come casa d’accoglienza per i malati mentali provenienti da via Settembrini. “Ogni Regione deve realizzare una struttura in cui all’interno opera personale sanitario, mentre all’esterno la vigilanza e il controllo resterà affidato alla Polizia penitenziaria. E nel nostro caso si tratterà di circa 40 persone”. Mantova: deputati leghisti contro la chiusura dell’Opg di Castiglione delle Stiviere Gazzetta di Mantova, 8 febbraio 2012 La Lega Nord si opporrà in aula al decreto che impone la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo del prossimo anno. Per sostenere questa posizione il Carroccio mantovano ha chiamato a raccolta le segreterie provinciali della Lombardia che domani saranno a Castiglione delle Stiviere per un vertice in occasione della venuta dell’onorevole Roberto Maroni. La vicenda prende le mosse lo scorso anno quando la commissione parlamentare d’inchiesta sugli Opg presieduta dall’onorevole Ignazio Marino (Pd) conclude che le strutture ove sono accolti i detenuti con problemi mentali debbano trasformarsi da “carceri psichiatrici” a ospedali di cura e contenzione. La relazione viene approvata all’unanimità ed entra, come emendamento, nel decreto svuota carceri, già approvato dal Senato e che ora approderà in aula. In Italia oggi i sei Opg, al Nord solo Castiglione e Reggio Emilia, ospitano circa 1.400 degenti. La struttura castiglionese con oltre 330 ricoverati, 232 uomini e 88 donne nell’unica sezione femminile in Italia, è largamente sovraffollata. Nell’istituto non vi sono agenti di polizia penitenziaria, ma, in base ad una convenzione con il ministero della Giustizia, operatori sanitari: 13 medici, oltre a l personale paramedico per un totale di quasi 200 occupati. “L’Opg castiglionese è un’isola felice - spiega Andrea Dara, leader della Lega dell’Alto Mantovano - che proprio in quanto modello che funziona dovrebbe essere visitato nei prossimi giorni da una delegazione delle Nazioni Unite. Per questo riteniamo non vada chiuso, ma al contrario potenziata per offrire il diritto di cura in modo appropriato ed in sicurezza per tutti i cittadini”. “Mi chiedo anche - conclude Dara - perché il presidente provinciale Alessandro Pastacci non muova un dito sulla questione. Anche se va sottolineato che a Roma Pd, Pdl e terzo polo hanno votato sì alla chiusura dell’Opg castiglionese”. Firenze: madri detenute, 400mila euro per passare da Sollicciano alla custodia attenuata Redattore Sociale, 8 febbraio 2012 Finanziamenti stanziati dalla regione Toscana. Le madri recluse con i loro figli sconteranno la pena in un edificio da ristrutturare della Madonnina del Grappa. Rossi: “I bambini non dovrebbero mai entrare in una struttura detentiva”. 400mila euro per trasferire le detenute madri con i propri figli da Sollicciano ad una sezione a custodia attenuata presso la struttura Madonnina del Grappa. È quanto ha messo a disposizione la regione Toscana in seguito all’ultima seduta di giunta. La cifra servirà per avviare i lavori di ristrutturazione di alcuni locali dell’edificio che dovrà accogliere le detenute. Il progetto fa parte di un accordo complessivo firmato il 27 gennaio 2010 e che vede coinvolti, oltre alla regione, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il tribunale di sorveglianza, la Madonnina del Grappa e l’Istituto degli Innocenti. Alla società della salute di Firenze verrà affidato il compito di attivare la rete dei servizi del territorio per dare avvio ai percorsi socio-assistenziali ed educativi destinati a garantire la tutela della salute e la salvaguardia del rapporto madre-figlio. “Di questo progetto - ha commentato il presidente della regione Enrico Rossi - se ne sta parlando ormai da alcuni anni ma finora è rimasto sulla carta. I bambini non dovrebbero mai entrare in una struttura detentiva ed è un compito irrinunciabile di tutti i soggetti coinvolti individuare forme alternative per fare in modo che questo non accada mai più. Finalmente siamo riusciti a riattivare la collaborazione tra tutti i soggetti che hanno sottoscritto l’accordo due anni fa e contiamo di arrivare in tempi brevi alla realizzazione di questa importante struttura”. Monza: caldaia rotta, riparazione in ritardo e il carcere resta al gelo La Repubblica, 8 febbraio 2012 Centrale termica in tilt, detenuti al gelo. È emergenza freddo scoppiata nel carcere di Monza. Le caldaie sono andate in tilt, la riparazione è di là da venire e i 740 reclusi si arrangiano come possono. Sorte condivisa dagli agenti di polizia penitenziaria. Anche l’impianto idraulico, quello che rifornisce le docce, funziona a singhiozzo. La direttrice, Maria Pitaniello, assicura che “a breve” la situazione tornerà alla normalità. Nelle ore più fredde, durante la notte, nelle celle si accendono i fornelletti da campo. Di solito usati per scaldare le vivande, sono il mezzo più veloce per far salire la colonnina di mercurio. Che precipita vicino allo zero. Chi può si protegge con guanti, sciarpe, due paia di calze. Identica situazione nei locali di guardia degli agenti: chiusi da vetri blindati, non isolano dal freddo. “Nelle celle, nelle camerate e nei posti di guardia le temperature sono polari - denuncia Domenico Benemia, segretario regionale della Uil penitenziari - È una situazione vergognosa e drammatica. Sabato scorso un detenuto cardiopatico è morto per infarto, non vorrei che sulle sue condizioni di salute sia pesata questa emergenza”. In questi giorni, aggiunge il sindacalista, “molti colleghi sono a casa con la febbre: dopo turni di otto ore in quelle condizioni non credo ci si possa stupire. Siamo sotto organico, gli agenti a disposizione sono 350. In questo modo diventa tutto più difficile”. Per arginare il problema sono state acquistate stufette elettriche: “Aggeggi da venti euro che non cambiano la sostanza della situazione” precisa Benemia. Il problema nasce dalla rottura di un dispositivo della centrale termica che tiene in pressione l’acqua calda. I lavori per la sua sostituzione sono imminenti, precisa la direttrice del carcere. A oggi, però, non c’è ancora una data certa per il ripristino della caldaia. Si sa, invece, che l’impianto verrà riparato ricorrendo all’utilizzo della Cassa ammende: un ente del Dipartimento di amministrazione penitenziaria che dovrebbe finanziare programmi di reinserimento dei detenuti. La ditta incaricata di fornire il materiale è già stata trovata, la manutenzione vera e propria toccherà ai reclusi. Intanto, per risolvere almeno la questione legata all’acqua calda, è stato deciso di spalmare su più turni l’accesso alle docce: “Con una maggiore rotazione potremo garantire a tutti l’igiene personale” spiega Maria Pitaniello. L’aria gelida di questi giorni metta a dura prova anche i trasferimenti dalla casa circondariale al tribunale: i mezzi a disposizione sono vecchi e, denuncia la Uil penitenziari, “sulla maggior parte di essi non funziona nemmeno l’impianto di riscaldamento”. San Donato (Mi): in paese ci sono “troppi pregiudicati”; domiciliari negati a un detenuto La Repubblica, 8 febbraio 2012 Il tribunale di Alessandria ha detto no a un bulgaro che chiedeva di trascorrere a San Donato Milanese l’ultima parte della pena. L’avvocato: “E in Sicilia, allora, come bisognerebbe fare?”. A San Donato Milanese, cittadina di 32mila abitanti a una decina di chilometri dalla metropoli lombarda, ci sono molte persone “soggette a misure cautelari e di prevenzione” per vari reati. È quanto afferma il tribunale di sorveglianza di Alessandria in un’ordinanza con cui ha respinto la proposta di un detenuto bulgaro di scontare ciò che gli resta di una condanna per uso illecito di carte di credito (otto mesi) in regime di detenzione domiciliare in una casa del paese. A San Donato Milanese, si legge, “il domicilio non risulta idoneo”. La richiesta di Damyan Veselinov S., 38 anni, era stata presentata in base al cosiddetto decreto svuota carceri, che permette ai reclusi di trascorrere a casa l’ultima porzione di pena. Il tribunale di Alessandria (competente perché il bulgaro è detenuto nel carcere cittadino) dopo avere rilevato che il domicilio non è adatto perché la persona che ospiterebbe Veselinov “ha in programma un viaggio in Bulgaria”, si è soffermato sulla popolazione di San Donato Milanese, una “località in cui sono domiciliati numerosi soggetti sottoposti a misure cautelari e di prevenzione a seguito di commissione di reati anche di tipo associativo”. L’avvocato difensore, Wilmer Perga, ha presentato un reclamo a Torino e un ricorso in Cassazione. “In base a questi parametri - dice - in Sicilia nessuno può avere la detenzione domiciliare perché ci sono pregiudicati di mafia. È assurdo. La legge non ha escluso San Donato Milanese: prevede solo che si valuti l’idoneità della casa. E in quella indicata da Veselinov di pregiudicati non ce ne sono. Se passa questa interpretazione verranno escluse intere regioni italiane”. L’avvocato Perga fa presente, inoltre, che una persona in detenzione domiciliare “non può girare liberamente per il paese”. Sulmona (Aq): internato della Casa di Lavoro evaso da un permesso arrestato ad Asti Il Centro, 8 febbraio 2012 Era evaso nel dicembre scorso dalla casa lavoro del supercarcere di Sulmona, è stato arrestato dai carabinieri di Asti al termine di un rocambolesco inseguimento. L’uomo, A.G. 58enne pregiudicato di Agrigento, si stava dirigendo verso Torino a bordo di un’auto che aveva rubato poco prima, quando è scattato l’allarme. La vettura è stata intercettata dai carabinieri. Il conducente non si è fermato all’alt imposto dai militari. Immediato è scattato l’inseguimento condotto a velocità sostenutissima per alcuni chilometri poi l’abilità dei carabinieri nella guida veloce ha prevalso e l’auto è stata bloccata. Durante gli accertamenti è poi emerso che il siciliano aveva numerosi precedenti per rapina e porto abusivo di armi ed era ricercato per evasione dal 28 dicembre scorso, non essendo rientrato nel carcere di via Lamaccio, dove si trovava per scontare la pena suppletiva di due anni di casa di lavoro in quanto ritenuto socialmente pericoloso. Era partito da Sulmona poco prima di Natale perché il giudice di sorveglianza gli aveva concesso una licenza premio per trascorrere le festività natalizie insieme ai suoi familiari. Ma l’uomo, invece di recarsi in Sicilia, è partito per il Nord Italia dove voleva restare per un po’ di tempo per poi trasferirsi all’estero e rendersi irreperibile. Così, quando il 27 di dicembre non si è presentato al libro matricola del carcere, da Sulmona è scattato l’allarme: ricercato per evasione. Da quel momento ha iniziato a girovagare per il Nord Italia facendo attenzione a non imbattere in qualche controllo delle forze dell’ordine. Le sue generalità erano state diramate in tutte le caserme dei carabinieri e i commissariati della Penisola compresi i presidi di guardia di finanza e corpo forestale. Insomma una ricerca a tutto campo proprio per la particolare pericolosità del soggetto. Poi l’altro giorno l’infelice idea di rubare un’auto nella provincia di Asti per cercare di raggiungere Torino e da lì varcare il confine. Un piano studiato nei minimi particolari che è saltato dopo aver forzato il blocco dei carabinieri. Ora l’uomo è detenuto nel carcere di Asti in attesa dell’interrogatorio di garanzia che oltre alla convalida dell’arresto servirà al giudice anche per decidere l’eventuale misura cautelare da assegnare al siciliano. E sicuramente sarà molto pesante per la sua particolare pericolosità. Almeno per il momento, quindi, l’uomo resterà lontano da Sulmona. Un caso destinato comunque a far discutere. Libri: “Annuario nazionale su diritti umani”, edito con il contributo della Regione Veneto Agenparl, 8 febbraio 2012 Condizione dei detenuti, mancata inclusione del delitto di tortura nel codice penale, uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine, tutela dei diritti umani per migranti, rom e sinti, eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, protezione del diritto di proprietà a fronte di procedure di esproprio: sono le raccomandazioni e i rilievi che gli organismi internazionali di controllo in materia di diritti umani rivolgono più frequentemente all’Italia. A monitorare lo stato di tutela e promozione dei diritti della persona nel nostro Paese è il Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’università di Padova, fondato trent’anni fa dal professor Antonio Papisca, che ha curato il primo annuario nazionale sui diritti umani. La pubblicazione (edita da Marsilio con il contributo della Regione Veneto, pag. 284, 34 euro) è stata presentata oggi al presidente del Consiglio Clodovaldo Ruffato e ai consiglieri regionali del Veneto da Antonio Papisca e Marco Mascia, rispettivamente fondatore e direttore del Centro diritti umani di Padova. L’annuario - hanno spiegato Papisca e Mascia - costituisce la prima fotografia, aggiornata al 2010, su come lo Stato italiano adempia agli obblighi derivanti dalle normative internazionali sui diritti umani, come risponda a rilievi e raccomandazioni e sentenze degli organismi internazionali di controllo. “Ne emerge un quadro a luci e ombre - ha sintetizzato Papisca. L’Italia non dispone di una istituzione indipendente per i diritti umani, sta progressivamente smantellando la rete dei difensori civici locali ed è uno dei Paesi che ha maggiormente contribuito a intasare la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo con ben 12 mila ricorsi di privati cittadini. Nel contempo l’Italia è anche il paese che finanzia con milioni di euro organismi e agenzie specializzate delle Nazioni Unite attive sul fronte dei diritti umani e che investe moltissimo nell’educazione alla pace e ai diritti umani attraverso le iniziative di Comuni, Province e Regioni, delle 83 Ong e della scuola, grazie all’insegnamento “cittadinanza e Costituzione” e all’attivazione di ben 125 corsi di insegnamento universitario in quest’ambito”. Il monitoraggio - si legge nell’annuario - svolto nel 2010 dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, massima autorità internazionale in questo campo, si è concluso con 92 raccomandazioni formulate al governo italiano per rafforzare il sistema di protezione dei diritti umani, delle quali gran parte (l’87 per cento) accolte. Tra gli aspetti critici evidenziati spiccano il mancato riconoscimento del reato di tortura nel codice penale italiano e la condizione dei migranti irregolari. Spicca, invece, in positivo la protezione riconosciuta dall’ordinamento giuridico e amministrativo italiano alle vittime della tratta e delle varie forme di sfruttamento lavorativo. “Il Consiglio regionale del Veneto è da sempre sensibile e attento a queste tematiche”, ha evidenziato il presidente Ruffato, ricordando come nel 1988 sia stato il primo in Italia a varare una legge di promozione e tutela dei diritti umani (successivamente imitato da altre 13 regioni), a sostenere la nascita e il funzionamento trentennale del Centro diritti umani di Padova, massima istituzione nel Paese e a livello internazionale, e a celebrare il 10 dicembre 2007 al Bò i sessant’anni della dichiarazione internazionale di Parigi sui diritti dell’uomo e dei popoli. “Sono convinto che la collaborazione tra Regione e Centro diritti umani di Padova debba proseguire per alimentare i fertili laboratori educativi avviati - ha aggiunto Ruffato - e sviluppare iniziative e azioni per valorizzare la centralità della persona umana nei rapporti civili, sociali e istituzionali. Tutto ciò dovrà trovare adeguato riscontro anche nel bilancio di previsione del 2012 che andremo a discutere nei prossimi giorni”. Analogo invito-impegno è stato espresso dal consigliere decano Carlo Alberto Tesserin, che ha definito l’annuario una “pietra miliare” per l’agire politico. Libri: “La mia vita è un romanzo”, i detenuti del carcere di Catanzaro si raccontano www.ntacalabria.it, 8 febbraio 2012 Che cos’è la libertà? È una domanda che come poche altre accompagna da sempre la riflessione degli uomini. Filosofi di ogni tempo hanno tentato di fornire una risposta razionale, artisti e poeti hanno cercato di catturarne l’essenza e rappresentarla con immagini, musica, parole. Ma nessuno c’è riuscito davvero fino in fondo. Forse perché non è un concetto che si possa analizzare e descrivere, ma una condizione, uno stato d’animo che si può solo vivere, sperimentare. Affascinano e stupiscono, allora, le riflessioni sulla libertà nascoste tra le mura di un carcere, che è quanto di più lontano dalla libertà si possa immaginare, per il senso comune. La casa editrice catanzarese “Edizioni La Rondine” ha voluto raccogliere in un volume i racconti frutto del laboratorio di scrittura creativa tenuto lo scorso anno nel carcere di Catanzaro dall’attore e regista Eugenio Masciari - attivo dal 1972 sia in teatro che nel cinema e nella televisione al fianco di maestri del calibro di Giorgio Strehler, Nanni Moretti, Mario Monicelli e Roberto Benigni - e promosso dall’assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Catanzaro. Gli autori sono per la maggior parte ergastolani privati di qualsiasi beneficio e costretti a trascorrere in carcere il resto della loro vita. “Il carcere è nell’essenza un’istituzione necrofila”, scrive uno degli autori, nella quale a dispetto di tutto “sopravvive l’amore per la vita”. I partecipanti al corso di scrittura, superando i propri limiti concettuali e culturali, non raccontano storie autobiografiche, di passioni e delitti, ma parlano di libertà, giustizia, libero arbitrio, fisica quantistica e teologia, discutendo e scrivendo su Platone, Sofocle, Faust, Shakespeare, Gesù. Questa esperienza ha fornito lo stimolo per ribadire la necessità che lo Stato si adoperi per garantire il reinserimento sociale dei condannati ed il rispetto del principio di legalità, nell’auspicio che il tema dell’abolizione dell’ergastolo ostativo e dell’ergastolo in generale possa arrivare a interessare l’opinione pubblica. “In questo libro, senza mai dimenticare la povertà desolante del contesto, si parla di quella ricchezza rappresentata dalla irriducibile capacità creativa degli esseri umani e della potenza irresistibile della scrittura - si legge nella presentazione di Luigi Manconi -. La funzione di un lavoro come questo non è di rasserenare gli animi dei condannati a un “fine pena mai”, ma di “disturbare” il silenzio che li circonda e l’indifferenza di quanti ritengono che la cosa non li riguardi. Proprio i condannati ci dicono come il carcere possa sfuggire al suo destino di luogo di mera sofferenza e aprire nuovi orizzonti di civiltà”. Il filo rosso che lega il passato dell’insegnante alle esistenze dei suoi allievi lascia intravedere la trama di una possibile narrazione. O, meglio, la sceneggiatura del film che Eugenio Masciari vorrebbe trarre dalla raccolta di racconti. Gli incontri hanno rappresentato, infatti, l’opportunità per condividere un momento di arricchimento e di conoscenza dello spirito umano e, principalmente, di se stessi: “Alla fine di ogni lezione - racconta Masciari - chiedevo ad ognuno di mettere per iscritto cosa aveva stimolato in loro. Nell’incontro successivo si leggeva e si discuteva sul loro punto di vista e si passava alla lezione successiva. Mano a mano che si andava avanti con gli argomenti, molti cambiavano le loro opinioni, quando raramente nella loro vita avevano cambiato o ammesso di aver cambiato idea su un qualsiasi argomento, e mi chiedevano se potevano correggere, rifare o aggiungere qualcosa ai temi già svolti. Questo loro ripensare alle proprie idee è stato per me il riscontro che il corso di scrittura stava ottenendo i suoi frutti, un fatto inaspettato, un sintomo di fiducia verso la mia persona e di condivisione con gli altri detenuti ed, in ogni caso, segno di umiltà ed intelligenza”. “La mia vita è un romanzo” sarà presentato in anteprima giovedì 23 febbraio, alle ore 15.30, presso la Casa circondariale di Catanzaro in occasione di un dibattito a cui parteciperanno, tra gli altri, anche l’assessore regionale alla Cultura, Mario Caligiuri, e l’Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, mons. Vincenzo Bertolone. Svizzera: detenuti in leggero calo nel 2011, nelle carceri il 10% dei posti rimane vuoto Apcom, 8 febbraio 2012 Il numero di persone incarcerate nelle 113 prigioni elvetiche è in leggero calo: nel 2011 erano 6.085, contro 6.181 un anno prima. La stragrande maggioranza dei detenuti sono maschi stranieri, indica l’Ufficio federale di statistica in una nota. In proporzione alla popolazione residente, in Svizzera si contano 78 detenuti ogni 100.000 abitanti (2010: 79). Negli ultimi dodici anni questo tasso è sempre stato compreso tra 68 e 83. La popolazione carceraria è composta per il 71,4% da stranieri (-0,2 punti percentuali). Le donne sono il 5,3% (-0,3), mentre i minorenni l’1,4% (+0,8). Tra i 6085 detenuti, il 28% era in detenzione preventiva, il 63% in esecuzione della pena, il 6% in misure coercitive secondo la legge sugli stranieri e il 3% restante per altri motivi. I 113 istituti di privazione della libertà (-1 rispetto al 2010) offrono 6.660 posti (2010: 6.683). Il tasso d’occupazione è del 91,1%, in calo di 1,4 punti. Serbia: cinque agenti custodia arrestati perché coinvolti nella tentata fuga di due detenuti Nova, 8 febbraio 2012 Il direttore delle carceri serbe, Milan Obradovic, ha dichiarato ieri sera che cinque agenti di custodia del carcere di massima sicurezza di Belgrado sono state arrestati perché sospettati di complicità nel tentativo di fuga di due detenuti. Si tratta di Sretko Kalinic, uno degli accusati per l’assassinio dell’ ex premier serbo, Zoran Djindjic, e di Zeljko Milovanovic, detenuto per l’assassinio del giornalista croato Ivo Pukanic, che ieri hanno tentato l’evasione. “È un caso di grave omissione e seria responsabilità del servizio di sicurezza”, ha detto Obradovic, sottolineando che “comunque stato un tentativo che non ha avuto successo, perché alla fine i due detenuti non sono riusciti a fuggire”.