Ai ragazzi diciamo: buttate via i coltelli Il Mattino di Padova, 7 febbraio 2012 Nel cortile di una scuola superiore di Camposampiero la scorsa settimana un ragazzo ne ha ferito un altro con un taglierino: tutto era cominciato due giorni prima, in discoteca, e la lite si è trascinata fino a esplodere, ma poteva finire anche peggio. “15enne accoltellato a una mano mentre va a scuola”, Studente di 17 anni accoltella il padre nel corso di una lite in casa”, “Litigano per una ragazza, ragazzo accoltellato in centro” sono alcuni dei titoli apparsi su questo giornale, che riguardano fatti recenti che hanno al centro sempre la stessa cosa: la pessima abitudine di girare con un coltello, l’aggressività esagerata, l’incapacità di controllare la propria rabbia. Protagonisti per lo più ragazzi giovani, che noi poi spesso incontriamo in carcere, perché quella rischia di essere la conseguenza inevitabile di comportamenti tanto pericolosi. Le testimonianze che seguono sono di tre detenuti che, “scherzando” con i coltelli o lasciandosi trascinare in una rissa, hanno accumulato piccole o grandi pene, rovinando la vita a sé e spesso anche alle proprie famiglie. Gli “innocui” taglierini multiuso Sta diventando più frequente la cattiva abitudine di risolvere questioni, anche futili, tra ragazzi sempre più giovani con l’uso improprio di coltelli o taglierini, passando alle vie di fatto con conseguenze non prevedibili. Ma la cosa che ancor più mi fa pensare è che ciò talvolta avviene proprio dentro le scuole. Il mio pensiero inevitabilmente corre alla mia esperienza di tossicodipendente, ma anche poco prima di iniziare questo percorso, in seconda o terza media avevo spesso diverbi con un mio compagno di classe, ci facevamo frequentemente dispetti e lui è arrivato al punto di darmi un colpo di matita nella schiena facendomi un bel buco. Ma con il senno del poi, non era tanto per il buco che c’era da preoccuparsi, quanto per l’aggressività repressa che già allora avevamo. Io stesso per anni sono andato in giro con temperini e coltelli multiuso, mi piaceva portarli con me, mi facevano sentire meno indifeso ed inoltre erano funzionali alla vita da tossico e di strada che facevo. Così ho collezionato numerose denunce a piede libero per possesso ingiustificato di arma bianca. Denunce che, alla fine, anche dopo molti anni, mi sono arrivate tradotte ognuna in mesi da scontare aggiungendosi ai reati che ho fatto per poter usare droga. Ora però mi rendo conto, pur non avendo mai sferrato un fendente, di quante volte ho tirato fuori quel coltello in modo minaccioso. Solo qualche anno fa, nel corso di un’aggressione alle spalle che ho subito, se ne avessi avuto il tempo, credo che avrei estratto un taglierino che adoperavo per lavorare, molto affilato, e in quella circostanza l’avrei usato con conseguenze gravi. Un coltellino, un temperino, un coltello multiuso o anche un taglierino portato con sé, agli occhi di un adolescente può sembrare una inezia, può farlo sentire più sicuro, ma può creare disastri anche solo se usato per istintiva autodifesa. Così per un’occhiata data male, per una ragazza alla quale si tiene particolarmente, per uno sgarbo subito o per un debito mai pagato, ecco che un ragazzo, magari generalmente mite, si ritrova a far del male sul serio, pagandone prima o poi le conseguenze. Questo è quello che potrebbe succedere. Ma più facilmente ancora, può essere denunciato “a piede libero”, perché sorpreso a girare con un coltello, ritrovandosi poi anni dopo a dover pagare in qualche modo per “quell’innocuo coltellino”, a volte anche con il carcere. Filippo F. Minacce e violenze finite tragicamente Mi chiamo Qamar e sono pachistano. Sono nato in una famiglia modesta e sono giunto in Italia tredici anni fa, all’età di tredici anni. Assieme a mia madre e alle mie tre sorelle ci siamo ricongiunti con mio padre, che già lavorava in Italia. Qui sono riuscito a finire le scuole medie e a quindici anni ho cominciato a lavorare come operaio, e poi con un’attività in proprio. Quando ho compiuto 21 anni sono tornato in Pakistan per sposarmi con una connazionale, chiedendo il ricongiungimento anche per lei. Ero in attesa del visto, ma nel frattempo le cose sono cambiate in modo tragico. Come sono finito in carcere? Tutto parte da molti mesi prima, l’attività mia e dei miei familiari aveva attirato l’attenzione di altri connazionali che pretendevano il “pizzo”. Noi abbiamo sempre rifiutato di pagarlo, ma loro hanno continuato in ogni modo a minacciarci. Dal giugno 2008 abbiamo più volte denunciato la cosa ai Carabinieri, ma senza alcun risultato. Venivamo costretti a vivere in situazioni di ansia e paura, ci seguivano in ogni luogo, pure a casa. Non mollavano mai, hanno cercato lo scontro diretto in tutti i modi, sino al giorno che, vedendoli riuniti in un gruppo molto numeroso che mi aspettava, ho capito che dovevo chiedere aiuto. Sono arrivati altri parenti ed è stato inevitabile lo scontro. Ci siamo difesi con affanno, con la paura di avere la peggio, usando spranghe e quello che abbiamo trovato. Purtroppo il peggio è successo e uno di loro ne è rimasto vittima. Le nostre denunce precedenti, il fatto che avevamo detto di essere tormentati, non sono serviti a nulla nonostante ci fossero i referti medici a dimostrare le aggressioni che già tanti della mia famiglia avevano subito. Io ho avuto una condanna a 15 anni con tutte le conseguenze che ricadono sulla mia famiglia: mio padre si è licenziato dal suo lavoro per la vergogna e non è più in grado di affrontare la vita come prima, mia moglie vive assieme ai miei genitori e non riesce a trovare lavoro anche a causa della cris, una famiglia che vive con grandi difficoltà. E pensare che prima eravamo noi ad aiutare gli altri. Però non siamo riusciti a fermarci e a farci aiutare quando ce ne sarebbe stato bisogno per interrompere quella catena di minacce e violenze. Lettera firmata Una lama porta sempre guai Per lungo tempo ho portato addosso un coltellino, ma non ho mai pensato di usarlo per fare del male, nemmeno mi ha mai sfiorato l’idea, anche perché sapevo che poteva solo causarmi guai con la giustizia. Una sera, tuttavia, sono entrato in un locale dove è nato un diverbio con un ragazzo: siamo arrivati alle mani e all’improvviso, sono intervenuti altri suoi amici per spalleggiarlo, così mi è venuta l’idea di tirare fuori il coltellino per minacciarli. Ce l’avevo in mano chiuso, ma nel frattempo sono intervenuti i carabinieri e mi hanno chiesto di consegnarlo a loro, cosa che ho fatto subito. Dopodiché mi hanno portato in caserma, chiedendomi di aspettare in sala d’attesa, e in quel momento mi sono convinto che non ci fosse niente di grave, visto che non mi hanno messo in cella di sicurezza. Mi hanno fatto firmare il verbale e poi mandato via. Ero contento perché nessuno si era fatto male e pensavo di non poter essere accusato di niente, che la vicenda fosse chiusa, invece mi sbagliavo: dopo quattro anni ho dovuto affrontare il processo e mi hanno condannato a 20 giorni di reclusione e al pagamento di una multa. Poteva andare peggio, ma per mia fortuna anche i carabinieri, quando hanno compilato il verbale, hanno scritto che il coltello era chiuso, e questo ha dimostrato che non avevo intenzione di fare del male. Ma il problema è che è rimasta la segnalazione nella fedina penale e nel futuro, durante i controlli delle forze dell’ordine, se verrò fermato, mi creerà comunque dei fastidi. A questo si aggiunge che, se avrò la necessità di cercarmi un lavoro, queste segnalazioni saranno sempre un ulteriore ostacolo per essere accettato dai datori di lavoro, che possono pensare che io sia particolarmente aggressivo. Mohamed El Ins Giustizia: dalle carceri cinque vicende esemplari… nel silenzio dei giornali e dell’Anm di Valter Vecellio Notizie Radicali, 7 febbraio 2012 Sì, va bene: la nave Concordia e l’incredibile comportamento del comandante Francesco Schettino; e poi, certo: il maltempo e le nevicate, con il comportamento farsesco di un sindaco come Gianni Alemanno che si presenta con pala e sacchetto di sale davanti alle telecamere di tutte le televisioni per dire che la colpa di quello che accade non è cosa da imputargli; e poi, d’accordo: ci sono i ministri del governo Monti che sembrano ogni giorno gareggiare a chi la spara più scema, e mai che nessuno dica loro che meglio farebbero a imparare dai carabinieri, “usi obbedir tacendo”. Però nelle pagine e pagine dei giornali, ormai la questione è completamente sparita, come se non esistesse più; come se alle aperture degli Anni Giudiziari non si sia detto nulla; come se il problema cronico dello stato della Giustizia e la sua appendice carceraria sia stato risolto; anzi, non ci sia bisogno di risolverlo, perché non c’è proprio il problema…Poi vedrete, quando Marco Pannella e i radicali scenderanno in campo ancora una volta con le loro iniziative nonviolente diranno: “uffa, ancora digiuni, che noia, che barba…!”. E mai come ora il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quel presidente che parlò di “urgente impellenza”, dovrebbe davvero inviare un suo messaggio alle Camere, per richiamarle alle loro responsabilità, ai loro obblighi, ai loro doveri. Perché il problema c’è e lo si lascia colpevolmente incancrenire. E sono complici (c’è un altro termine?) i mezzi di comunicazione: che “premiano” sempre e solo i comportamenti violenti, mortificando le iniziative nonviolente. Il diritto “geografico” alla salute. A Sassari il tumore si cura, a Nuoro no Per esempio. Rita Bernardini si reca in visita al carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro. Ne offre poi un resoconto a “Radio Radicale”; e racconta, tra l’altro, del caso di un ergastolano, si chiama Giulio Cerchi. Ha un tumore alla prostata, Cerchi, che lo tortura da alcuni anni. Gli oncologi della Clinica Universitaria di Sassari hanno provveduto mentre si trovava nella Casa Circondariale “San Sebastiano” a garantirgli radioterapia, Tac e scintigrafia. Da quando è stato trasferito nel carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro, poco meno di un anno fa, sono però cessati i periodici controlli. I farmaci che gli permettono di convivere con il carcinoma inoltre non gli vengono somministrati con regolarità e nonostante la grave malattia è in una cella con altre cinque persone”. La salute è un diritto costituzionale. Non può quindi essere negata a un cittadino seppure privato della libertà. Se non gli viene consentito di usufruire dei domiciliari per poter affrontare in condizioni migliori lo stress derivante da una malattia che abbassa le difese immunitarie e determina uno stato psicologico di vulnerabilità non può essergli impedito di fruire degli esami diagnostici, dei farmaci e dei controlli. È comunque singolare che la possibilità di curarsi sia condizionata dalla tipologia della struttura penitenziaria e dal luogo in cui è ubicata: perché quando Cherchi si trovava a Sassari poteva fruire delle visite mediche e delle terapie, mentre da quando si trova a Badu ‘e Carros, questo gli viene negato. Dalla Sardegna al carcere fiorentino di Sollicciano La lettera è firmata da cinque detenuti, Carmelo, Fabio, Miki, Bruno e Pierino: “Siamo davvero stanchi di questo sistema carcerario che giorno dopo giorno ci toglie la nostra dignità, dignità che ormai non esiste più. Siamo chiusi in 5 o in 6 persone dentro piccole celle e siamo costretti ad una vita disumana, tanto che gli animali nelle loro gabbie hanno molta più libertà di muoversi di noi che abbiamo solo un mq a testa per vivere. Purtroppo anche qui a Sollicciano c’è chi è più debole e non resiste a questa vita disumana e così un giorno decide di farla finita. Esattamente quello che è successo qui il 19 gennaio quando un nostro compagno, che aveva solo 29 anni, si è impiccato ed è morto e quello che è accaduto il 7 gennaio quando un altro nostro compagno si è impiccato. Insomma due suicidi nel giro di pochi giorni che la dicono tutta sulla vita che ci fanno fare qui a Sollicciano. Ma non basta. Siamo arrivati al punto che non possiamo neanche più fare una doccia, non diciamo calda come in albergo, ma almeno tiepida. E la conseguenza è che sempre più detenuti del carcere di Sollicciano si ammalano per il freddo che prendono. Malattie, come una semplice influenza o un semplice raffreddore, che qui non vengono curate in quanto non hanno neanche una banale aspirina da darci. Ma la cosa che ci indigna di più è che se uno di noi protesta per questo trattamento illegale, viene preso dalla squadretta punitiva composta da agenti e viene picchiato senza pietà… per poi essere messo in una cella di isolamento, nell’attesa che passino i lividi e le ferite causate dalle botte. La verità è che se una persona finisce a Sollicciano né uscirà una persona peggiore e non migliore rispetto a quando ha varcato questo brutto cancello”. Quest’ultima frase non può che impressionare. È esattamente quello che qualche giorno fa ha dichiarato il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri intervistata da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”: “Di carceri ne ho visitate tante, ce ne sono che funzionano bene, ma da altre mi domando come non si possa uscire fortemente peggiorati”. La denuncia del garante dei detenuti del Lazio Da Firenze a Roma, ascoltiamo il garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni: “Duecentocinquanta detenuti in più in due mesi, duemila presenze oltre la capienza regolamentare. Numeri che portano, come corollario, l’impossibilità di garantire condizioni di vita accettabili nelle carceri, con spazi destinati alla socialità trasformati in celle, evasioni tentate e riuscite, risse fra reclusi e agenti di polizia penitenziaria costretti dai buchi di organico a turni di lavoro massacranti. È questo il drammatico quadro, aggravato dalla morte per cause naturali, di un detenuto romano 45enne a Regina Coeli, della situazione nelle 14 carceri della Regione Lazio”. Nel solo Lazio i detenuti attualmente reclusi sono 6.846 (6.409 uomini e 437 donne), duemila in più rispetto alla capienza regolamentare di 4.838. “Le stime in nostro possesso”, spiega, “sono addirittura più allarmanti dei numeri indicati, dal presidente della Corte d’appello di Roma, Giorgio Santacroce, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, che aveva parlato di 6.591 reclusi nelle carceri del Lazio”. Ma, al di là dei numeri, è quanto quotidianamente accade nelle carceri a confermare la criticità della situazione; dalla spettacolare fuga riuscita da Regina Coeli al detenuto ridotto in gravi condizioni dopo una rissa a Cassino, fino al tentativo di suicidio di un detenuto sventato il 28 gennaio da un agente di Polizia penitenziaria a Viterbo, tutto indica una situazione ormai prossima a sfuggire ad ogni tipo di controllo. “La drammaticità di questa situazione”, dice Marroni, “è che non sono solo le grandi carceri della Regione, come Regina Coeli e Rebibbia Nuovo Complesso a soffrire per il sovraffollamento, ma tutti gli istituti. Abbiamo, ormai, fatto l’abitudine alle segnalazioni di gravi carenze igieniche, di impossibilità di garantire forme di socialità e di attività volte al recupero del detenuto, di persone ospitate nei centri clinici per mancanza di spazi, della recrudescenza di malattie come tubercolosi e scabbia. In questo quadro, giudico un fatto estremamente positivo i reiterati richiami del ministro della Giustizia Severino sulla drammatica situazione delle carceri. Di una cosa, però, sono sicuro: ogni tipo di provvedimento svuota celle come quelli che si vanno proponendo in queste ore, avrà effetti solo palliativi se non sarà accompagnato da una profonda revisione del codice penale e di quello di procedura penale. Occorre, in sostanza, rivedere una legislazione che produce troppo carcere. Senza un intervento di questo genere, accadrà come nell’estate del 2008, quando gli effetti benefici dell’indulto furono cancellati in pochi mesi”. Come paga il magistrato Giorni fa l’Associazione Nazionale dei Magistrati è scesa sul sentiero di guerra perché la Camera ha votato un emendamento sulla responsabilità civile del magistrato. Un attentato all’autonomia, all’indipendenza, e quant’altro. Benissimo. Ma ecco come paga un magistrato, il giudice Jole Maria Celeste Milanesi, prosciolta dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dall’accusa di aver omesso di controllare con “negligenza inescusabile” i termini di scadenza della carcerazione di un detenuto, con la conseguenza che è rimasto in carcere 127 giorni in più del dovuto. La decisione accoglie la richiesta di non luogo a procedere avanzata sia dal procuratore generale della Cassazione sia dal difensore. Celeste Milanesi era accusata dal ministro della Giustizia di aver omesso “il controllo sulla scadenza del termine di durata della misura cautelare applicata” a uno straniero condannato a 2 anni e 4 mesi, che avrebbe dovuto essere scarcerato il 17 aprile 2007, ma che è rimasto detenuto fino al 25 luglio successivo. Ma la colpa, secondo il Csm, è “di una lacuna del regolamento di organizzazione del giudizio direttissimo all’epoca in vigore”. Si, abbiamo letto bene: “Lacuna del regolamento di organizzazione del giudizio direttissimo all’epoca in vigore”. Poi dici che uno s’incazza. Gli psicologi penitenziari si autodenunciano Come esasperati sono gli psicologi penitenziari: “Siamo inadempienti”, i continui tagli e l’aumento esponenziale dei reclusi ha ridotto le prestazioni a “pochi secondi al mese per ogni detenuto”. Il non poter osservare i cambiamenti della personalità dei reclusi, spiegano, impedisce alla Magistratura di sorveglianza di valutare la pericolosità sociale dell’individuo e limita, di conseguenza, la concessione delle misure alternative alimentando il sovraffollamento. In una lunga lettera al ministro della Giustizia, Severino, gli psicologi chiedono di essere ascoltati per trovare insieme le più opportune soluzioni, finalizzate a ridare alla psicologia penitenziaria sostanza ed a realizzare finalmente un Servizio funzionale ai diritti di salute e riabilitazione degli utenti, il cui rispetto è legata la sicurezza nel qui ed ora all’interno degli istituti e, in prospettiva, dopo la detenzione, quando le persone verranno restituite alla società. “Ci troviamo in una situazione divenuta ormai intollerabile - scrivono - da una parte la pressione (con il rischio concreto di ritorsioni) degli utenti i quali, giustamente, chiedono l’osservazione che gli necessita per avere i benefici previsti dalla legge e che non possiamo garantire, dall’altra le richieste, altrettanto legittime, della Magistratura di Sorveglianza che rimarca la nostra inadempienza. Dal momento che non è più possibile assicurare un numero di prestazioni tali da garantire un livello minimo di assistenza, molti di noi si chiedono - conclude la lettera firmata da Paola Giannelli Segretario nazionale della Società Italiana Psicologia Penitenziaria - se abbia un senso la nostra presenza, se non da un punto di vista solo formale”. Ps.: Su quello che avete letto nessun documento, nessun comunicato, nessuna denuncia dell’Associazione Nazionale Magistrati. Giustizia: quando “dignità” non fa rima con “pena” di Chiara De Paolis Rinascita, 7 febbraio 2012 Il problema del sovraffollamento carceri è sempre all’ordine del giorno, nonostante le misure messe in campo dal governo. L’inferno del sistema penitenziario non viene di certo annullato da un po’ di clemenza. Parlare di dignità della pena diventa difficile quando il numero dei detenuti supera di gran lunga quello consentito dalle strutture. Oltretutto anche il numero degli agenti penitenziari è fortemente ridotto, non per niente la recente fuga rocambolesca dal carcere di Regina Coeli è dovuta proprio a questa carenza. Fare in modo che le condizioni della pena non siano a livello di tortura per l’affollamento delle celle e per carenza dei servizi igienici è un dovere di tutti. Si parla da anni di nuove carceri ma poi soprattutto per mancanza di fondi non si fa nulla. Ora la ministra Severino ha assicurato che il piano edilizio penitenziario è a buon punto. Staremo a vedere. Intanto sul tema del sovraffollamento è intervenuto il presidente del Senato Schifani. “La politica, le istituzioni, il Parlamento, il governo: tutti noi bisogna che ci si metta in discussione perché se non riusciamo a risolvere questo problema è giusto che ciascuno faccia un passo indietro”, questo il messaggio del pidiellino. In visita al carcere di Regina Coeli, il presidente promette il proprio sostegno per favorire una soluzione al dramma delle celle affollate e prive dei servizi minimi. “L’emergenza carceraria - ha proseguito - è ormai un fatto ineludibile, perché ne va del senso di civiltà del nostro Paese”. Restituire dignità al sistema penitenziario è cosa necessaria però bisogna anche dire che la crescita dei reati, soprattutto in un momento di crisi, impedisce una soluzione. È difficile far digerire ai cittadini una sorta di indulto per reati minori, quando sono soprattutto questi ad essere i più temuti. Furti, scippi, rapine e atti di violenza gratuita sono all’ordine del giorno. E quindi parlare di percezione di sicurezza diventa difficile. Altra cosa è la dignità della pena. Per Schifani si può privare della libertà un individuo che sbaglia ma non privarlo della sua dignità. “Da parte mia - ha detto il presidente del Senato - chiederò al governo un nuovo dibattito sull’emergenza carceraria in Senato, dando la disponibilità del Parlamento ad essere pronto ad affrontare e a recepire legislativamente provvedimenti volti anche a dotare di ulteriori risorse la polizia penitenziaria a cui non possiamo che dire grazie”. Le misure apportate dal ministro Severino non sono dunque risolutive al problema del sovraffollamento. Non basta mandare ai domiciliari, per reati minori, qualche migliaio di detenuti. La strada per l’amnistia è al momento impraticabile, anche se Schifani tenta di passare di nuovo la palla proprio al Parlamento. “È giunto il momento - aggiunge - che ognuno faccia la propria parte perché siamo quasi ad un punto di non ritorno. Ha ragione il ministro Severino: lo stato di civiltà di un Paese si riconosce anche dallo stato delle proprie carceri”. Dunque anche se la seconda carica dello Stato si è detta soddisfatta delle misure sfolla carceri, tuttavia spinge per un atto più ampio e risolutivo. Ma l’amnistia non è percorribile in un momento in cui la sicurezza viene meno proprio per la crescita esponenziale dei reati. Giustizia: serve riflessione su pena e i reati, non dispute astratte che fan cascare le braccia di Luigi Manconi Il Foglio, 7 febbraio 2012 Nel corso dell’ennesima controversia con esponenti dell’Armata Giustizialista, mi è parsa chiara una cosa: quanto tali dispute siano perfettamente inutili. Si sta provando sulle colonne del Foglio, e di qualche altro giornale, a costruire un ragionamento sul reato e sulla sua riparazione, che abbia un minimo di respiro e uno sguardo appena un po’ lungo. Ma alcune repliche fanno cascare le braccia. Ad esempio, il Fatto Quotidiano risponde ad alcune considerazioni sviluppate in questa rubrica a proposito del regime domiciliare di privazione della libertà, invitandomi a “proporre di chiudere le carceri e mandare tutti i condannati ai domiciliari”. E poi: “Chiedere agli elettori che ne pensano. Compresa la giovane di Cagliari che l’altra notte è stata stuprata da un tizio con due precedenti per violenza carnale che scontava la pena ai domiciliari” (2.2.2012). Che dire? Personalmente provo un sentimento di desolazione davanti a un dispositivo logico che, contrariamente a quanto pensa qualche amico, non è “fascistico”. E, tuttavia, è tendenzialmente totalitario. Nessun interesse (anzi, disprezzo) per il senso profondo delle cose, che non significa astrazione, bensì l’esatto contrario: concreta, concretissima analisi degli atti (degli individui e delle istituzioni) e delle loro altrettanto concrete conseguenze. Da qui l’esigenza di riflettere sulla pena e sulla sua esecuzione, sui reati e sulla loro origine e sui loro effetti, con particolare riguardo per le vittime. E invece nulla di tutto questo, ma una retorica del crimine e della repressione del crimine, che si fa romanzo horror. E, infatti, la conclusione di quell’articolo non è altro che cattiva letteratura di regime: ovvero propaganda autoritaria e manipolatrice, che ricorre alle figure tradizionali dell’angoscia collettiva al fine di alimentare allarmi sociali e di censurare ciò che è più difficile e sgradevole da afferrare e decifrare. Più comodo, certamente, e capace di attrarre grandi consensi è abbandonarsi all’urlo: in galera (che oggi ha perso ogni traccia dell’originario sarcasmo bracardiano per ridursi a strozzata pulsione reazionaria). Tutto ciò rimanda, in ultima istanza, a una impostazione angusta e torva, che ignora prevenzione e recupero, senso di responsabilità e misura del limite, e che si rivela assolutamente amorale e, appunto, tendenzialmente totalitaria. Se non fosse chiaro quanto fin qui detto, si legga il libro di Eugenio Occorsio “Non dimenticare, non odiare”, Dalai Editore 2011. Ci sono, in quel testo, cose che non condivido, ma emerge un’idea di fondo così nitida da costituire un autentico discorso morale. Tanto più significativo perché ispirato da un intento pedagogico: è la lettera di un padre al figlio a proposito dell’omicidio del proprio genitore per mano di Pierluigi Concutelli. Nessuna retorica e nessuna indulgenza, ma la concezione forte di una giustizia che sa farsi carico della vittima e dell’autore del reato, a partire dalla consapevolezza dell’enorme e irreparabile disparità tra i due soggetti. Al contrario, l’impostazione giustizialista, che si vorrebbe pragmatica e tutta giocata sulla concretezza, si dimostra invece inefficace, in quanto incapace di andare oltre un meccanismo reattivo, illusorio e infine utopistico (tu delinqui/io ti metto nelle condizioni di non nuocere). Un approccio che si propone come fattuale, ma che non sembra in grado di leggere i soli dati di fatto che davvero contano. Ad esempio questi: nel 2011, su 20.314 detenuti in regime domiciliare, a commettere un nuovo reato è stato lo 0,81 per cento. Tutto il resto è malinconicamente Gasparri (e Beppe Grillo e Antonio Di Pietro). Ps. Nel corso della rassegna stampa, condotta da Gian Antonio Stella su Rai Radio3, è stato letto un articolo di Marco Travaglio, nel quale il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, veniva definito Zio Tobia. Oddio, il soprannome è divertente, ma mi permetto di invitare alla prudenza. È una tentazione, quella di caricaturizzare i contorni fisici degli avversari, alla quale è difficile sottrarsi. E capisco che abbia un grande successo, come dire, popolare. Ma, oltre al rispetto che si deve a qualunque essere umano, ancorché nemico, si tratta di una pratica pericolosa, in quanto si presta agevolmente alla ritorsione. Travaglio, per dirne una, è uguale spiccicato a Rockerduck, antagonista di zio Paperone (e tremo all’idea di quanti accostamenti denigratori alla mia nobile faccia possano essere fatti). Ma c’è, infine, un ultimo pericolo che va segnalato rispetto a questa pratica derisoria. Ed è il fatto che, su quel terreno, i più abili siano sempre altri, che possono raggiungere vette di ferocia che noi ce le sogniamo. L’attuale direttore editoriale del Giornale, Vittorio Feltri, appena qualche mese fa, un attimo prima di passare da Libero allo stesso Giornale, coniò per Sallusti e per l’amica Daniela Santanchè, la più efferata delle definizioni: Olindo e Rosa (ricordate? La “coppia diabolica” di Erba). Al confronto, zio Tobia è davvero innocuo, e sembra fatto apposta per blandire l’ego non proprio modesto dello stesso Sallusti (Zio Tobia, dopo tutto, è un protagonista della grande letteratura popolare americana). Giustizia: Schifani; contro l’emergenza carceri va bene anche l’amnistia di Giulio Isola Avvenire, 7 febbraio 2012 Quasi 67mila detenuti a fronte di poco più di 45mila posti e già 5 suicidi (il sesto è stato sventato dal tempestivo intervento degli agenti) dall’inizio dell’anno: mentre ieri alla Camera è iniziato l’esame del decreto “svuota-carceri” il presidente del Senato, Renato Schifani, ha riaperto il dibattito sull’amnistia. Il sovraffollamento dei penitenziari continua a tenere banco, come la situazione dei 70 bambini con meno di tre anni rinchiusi insieme alle mamme. E se sabato il maltempo ha favorito l’arresto di un latitante ricercato da tre mesi in Emilia Romagna, destano preoccupazione l’isolamento per neve della casa di reclusione di Barcaglione, in una contrada di Ancona, e la mancanza di riscaldamento adeguato, viste le temperature, in 11 istituti pugliesi. Ma c’è anche chi si ribella al degrado del carcere catanese di Piazza Lanza presentando ricorsi in Cassazione e chi invitai magistrati di Napoli a Poggioreale. La vera svolta, però, non può che venire dal fronte politico “perché siamo quasi a un punto di non ritorno”, ha detto il presidente Schifani uscendo da Regina Coeli dove aveva incontrato una ventina di reclusi in delegazione e poi visitato tre diverse sezioni. Un’esperienza questa che lo ha “molto impressionato dal punto di vista u-mano” tanto da fargli dire che è “giunto il momento che ognuno faccia la sua parte”. E l’amnistia potrebbe essere una strada anche “se non compete al sottoscritto - ha sottolineato Schifani -, ma è un diritto sovrano del Parlamento” al quale è richiesta “una maggioranza qualificata”. Ipotesi rispetto alla quale c’è già lo sbarramento dell’Idv. “No a indulti o peggio amnistie per svuotare le carceri - ha tuonato il presidente vicario del gruppo alla Camera. Si ricorra, semmai, alle depenalizzazioni dei reati che non creano pericoli sociali e al ricorso a pene alternative”. Al momento sono 8.483 i detenuti agli arresti domiciliari e 10mila quelli in affidamento. Quanto ai benefici previsti dalla legge Gozzini sono 927 i semiliberi e 494 gli ammessi al lavoro esterno. Ben poca cosa rispetto al sovraffollamento cronico che il ministro alla Giustizia, Paola Severino, prevedeva di arginare, almeno nella fase di emergenza, facendo ricorso alle 1.057 camere di sicurezza in cui far rimanere gli arrestati in flagranza di reato. Proposta subito bocciata dai sindacati di polizia (Sappe, Silp e Siulp) che ieri hanno portato alla Camera le loro perplessità, sperando in modifiche ad hoc. Quanto al resto le misure varate “ci sembrano positive e significative”, ha ribadito il segretario del Sappe, Donato Capece. “In particolare - ha aggiunto, atteso che già oggi il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, è importante la misura finalizzata a evitare il meccanismo delle “porte girevoli”, cioè gli ingressi e le uscite dal carcere per soli pochi giorni. Si stima infatti che ogni anno oltre 20mila persone entrano ed escono dagli istituti peniten-ziari nell’arco di tre giorni”. Da qui il plauso a un allargamento dei domiciliari perché “può essere una risposta utile”. Soprattutto “con l’innalzamento da dodici a diciotto mesi della pena detentiva che può essere scontata” a casa. Comunque sia, “dobbiamo avere il coraggio di metterci in discussione, perché si può privare della libertà un individuo che sbaglia, ma non lo si può privare della dignità”, ha voluto sottolineare Schifani, così colpito da quanto visto a Regina Coeli - dove ci sono 1.250 detenuti e 800 posti - da parlarne con il premier Mario Monti a margine del convegno a Palazzo Giustiniani cui ha partecipato il Premio Nobel per la Pace 2011, Tawakkol Karman. Per il presidente del Senato, che non aveva mai visitato prima un penitenziario, non ci possono più essere scuse: “O riusciamo a risolvere il problema una volta per tutte oppure sarebbe bene che tutte le istituzioni, indistintamente, facessero un passo indietro”. Giustizia: decreto-carceri in stallo alla Camera; ministro Severino cerca soluzione Dire, 7 febbraio 2012 È in alto mare la commissione giustizia della Camera sulla questione del decreto svuota carceri, dopo la bocciatura, da parte della commissione Affari costituzionali, della norma Lusi, introdotta al Senato, sulla retroattività in materia di risarcimento per ingiusta detenzione. Durante il vertice del ministro Paola Severino con i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia e i relatori del testo, il nodo non è ancora stato risolto. Sull’ipotesi fiducia al decreto legge sulle carceri “nulla è ancora deciso, ci sarà appunto un Consiglio dei ministri nel pomeriggio per questo”. È quanto dice Paola Severino lasciando la commissione Bilancio della Camera dove è in discussione il parere sulla questione delle coperture al dl. “Come sempre con grande serenità - sottolinea il ministro alla Giustizia - prenderemo una decisione. È un tema politico da dover affrontare insieme agli altri ministri, abbiamo discusso sempre tutto collegialmente e credo che la collegialità sia sempre il modo migliore”. Da Commissione bilancio ok a copertura norma Lusi e chiusura Opg La commissione bilancio della Camera ha dato parere favorevole al decreto legge sulle carceri ponendo delle condizioni non legate all’articolo 81 della costituzione. Si tratta quindi di condizioni semplici e non vincolanti per la commissione giustizia che attendeva il parere. In sostanza l’Aula, dove nel pomeriggio approderà il decreto per la discussione generale, non sarà obbligata a modificare le norme per quanto riguarda la copertura. Si tratta dell’articolo 2 bis, ossia la norma Lusi sulla riparazione per l’ingiusta detenzione e l’articolo 3-ter sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Per la commissione bilancio le coperture ci sono anche se si consiglia di provvedervi in altra maniera. Le condizioni poste sono quindi di natura formale. Pdl-Pd: Severino non vuole cambiare decreto Sembra che il ministro alla Giustizia, Paola Severino, intenda mantenere il testo del decreto carceri senza modifiche rispetto al testo Senato, con dentro quindi anche la norma Lusi sulla retroattività dei risarcimenti per ingiusta detenzione. È quanto riferiscono i rappresentanti di Pdl e Pd in commissione Giustizia, mentre il guardasigilli è ancora dentro. Il capogruppo Pdl, Enrico Costa, dice: “Sembra che il governo intenda mantenere questo testo”. Donatella Ferranti (Pd) che è anche relatrice, aggiunge: “Il ministro auspica che ci sia un percorso parlamentare ordinario, ci sembra di capire che non voglia mettere la fiducia. Ma in realtà è tutto ancora da decidere. Severino comunque ci ha detto che auspica che il testo, pur con delle criticità, venga approvato senza fiducia. Poi quello che succederà in Aula lo vedremo, anche perché la Lega minaccia di fare ostruzionismo”. Lega: chiusura Opg con soldi 8 per mille La norma di copertura per la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari), contenuta nel decreto svuota carceri, “si ottiene togliendo i soldi dal fondo per l’8 per mille e da quello per gli emoderivati”. È quanto denuncia la lega che alla Camera depositerà un nuovo emendamento in Aula, in aggiunta agli oltre 500 che già aveva presentato in commissione Giustizia. La copertura per la chiusura degli ex manicomi criminali, prevista nel decreto, è di 180 milioni complessivi tra il 2012 e il 2013. Questo fa parte dei 3 nuovi emendamenti a cui sta lavorando il gruppo del Carroccio a Montecitorio. Un altro è quello per consentire visite ai detenuti sono agli europarlamentari italiani. Ce n’è infine un terzo, che originariamente era del Pd (a firma Andrea Orlando) che era stato ritirato in commissione e che ora la Lega fa suo per l’Aula: il testo prevede risorse per gli straordinari per le forze di giustizia. Idv: no alla fiducia e ad un’amnistia mascherata A giudizio di Italia dei Valori, “la fiducia sullo svuota-carceri che è simile ad un’amnistia mascherata è una vergogna, uno schiaffo al Parlamento”. Lo ha affermato, fra l’altro, il capogruppo Idv in commissione Giustizia Federico Palomba, sottolineando che Italia dei Valori si illude di risolvere i problemi carcerari intaccando il principio della certezza della pena. “La soluzione - ha detto ancora - è diversa: servono interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, organizzativi con l’aumento di personale e di risorse e normativi con modifiche sulle disposizioni penali riservando il carcere ai casi che lo meritano. La certezza della pena è un principio cardine che va salvaguardato, altrimenti si scaricano su altri le inadempienze dello Stato. Se si tiene la coperta corta è ovvio che ciò succeda; bisogna allargare la coperta, dando la giusta considerazione alla sicurezza come essenziale funzione sovrana dello Stato, che non può essere soggetta a tagli lineari che la mortificano. La Lega ed il Pdl, che hanno governato per dieci degli ultimi dodici anni, sono responsabili della situazione avendo pensato solo alle leggi ad personam in favore del capo del governo e non a quelle nell’interesse generale. Ora non possono tentare di rifarsi una verginità”. Severino: su norma Lusi nessun giudizio nel merito Sulla norma Lusi al decreto carceri al Senato non è stata espressa “nessuna condivisione nel merito” ma c’è stato “un parere positivo determinato dal rispetto per le forze parlamentari che lo avevano ampiamente condiviso”. Risponde così Paola Severino, ai cronisti alla Camera. Quella norma, precisa il ministro alla Giustizia, “è stata definita norma Lusi ma in realtà è un emendamento che era sottoscritto al Senato da una serie di altri parlamentari. Su quell’emendamento, che ha avuto un’ampia condivisione, è stato chiesto in Aula il parere del governo, che è stato positivo proprio in considerazione dell’ampia condivisione che c’è stata da parte delle forze politiche. La norma è stata poi messa in votazione ed è stata approvata dai gruppi parlamentari. Non è una norma del governo”. La Lega pensa a blitz su copertura dl per ritorno al Senato Come allungare i tempi dell’esame del decreto legge sullo svuota carceri per avvicinarsi sempre di più alla scadenza del 20 febbraio? È il cruccio con cui si lambicca alla Camera la Lega. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha già fatto sapere che non vuole modifiche rispetto al testo arrivato dal Senato, proprio per evitare pericolosi avvicinamenti alla data in cui il decreto decadrebbe. E il dl sembrerebbe blindato, visto che il governo può contare su un ampia maggioranza e la Lega è la sola forza di opposizione (pure l’Idv è però contraria al dl). Ci sarebbe però una soluzione per imporre correzioni a Montecitorio e una terza lettura a Palazzo Madama. Se la commissione Bilancio, presieduta dal leghista Giancarlo Giorgetti, approvasse un parere con condizioni a causa di problemi di copertura, l’aula dovrebbe per forza recepire le modifiche. E nel Carroccio alcuni deputati sostengono che le norme di copertura sulla retroattività per ingiusta detenzione (5 milioni di euro per il 2012) e quelle sulla chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari (in tutto 180 milioni euro, 120 milioni per l’anno 2012 e 60 milioni per il 2013) sono “discutibili”. Se la commissione Bilancio ponesse condizioni in base all’articolo 81 della Costituzione sarebbero vincolanti. C’è ora da vedere se in commissione, sotto la guida di Giorgetti, le questioni di copertura saranno sollevate e approvate. La commissione Giustizia aspetta il parere per poter dare il mandato ai relatori (il testo è atteso in aula nel pomeriggio). Norma retroattiva ingiusta detenzione, fu idea Lusi (Pd) Perché al Senato è stata introdotta una norma retroattiva sui risarcimenti per ingiusta detenzione facendola decorrere dall’1 luglio 1988 piuttosto che da altra data? È la questione sollevata dalla Lega alla Camera durante l’esame del decreto svuota carceri in commissione Giustizia. Durante il passaggio a Palazzo Madama l’aula infatti approvò, il 24 gennaio scorso, un emendamento a prima firma Luigi Lusi (Pd) ma sottoscritto anche da altri gruppi (ma non dal Carroccio). L’emendamento era il 3.0.3 con cui è stato introdotto, nel provvedimento sull’emergenza carceri, l’articolo 3-bis in materia di riparazione per ingiusta detenzione. Il testo così recita: “Le disposizioni dell’articolo 314 del codice di procedura penale si applicano anche ai procedimenti definiti anteriormente alla data di entrata in vigore del medesimo codice, con sentenza passata in giudicato dal 1° luglio 1988” (oggi è prevista al 1° luglio 1989). La commissione Bilancio di Palazzo Madama diede parere non ostativo sull’emendamento Lusi. Anche il ministro Paola Severino e il relatore Filippo Berselli (Pdl) diedero parere favorevole. Prima dell’approvazione Pasquale Viespoli (Coesione nazionale-Io Sud) chiese che venissero chiarite le ragioni del riferimento al 1° luglio 1988 e la copertura finanziaria. Il senatore Lusi rispose: “Il riferimento temporale contenuto nell’emendamento consente al parlamento di effettuare una correzione progressiva finanziariamente sostenibile fino a coprire tutte le esigenze, pertanto il fabbisogno finanziario diventa sempre più sostenibile”. Poi aggiunse che la “Commissione bilancio ha asseverato positivamente la copertura prevista” che è di 5 milioni per il 2012. La norma fu quindi approvata. L’emendamento Lusi sulla retroattività della ingiusta detenzione introdotto in Senato al decreto svuota carceri e contestato oggi alla Camera della Lega, fu sottoscritto anche da: Casson, Antezza, Bonfrisco, Carloni, Caruso, Chiaromonte, De Sena, Del Vecchio, Donaggio, Fluttero, Fontana, Magistrelli, Perduca, Poretti, Sbarbati, Garavaglia Mariapia, Bertuzzi, Bosone, Mercatali. A copertura dell’emendamento sono stati previsti 5 milioni di euro per il 2012 prelevandoli dal Fondo per gli interventi strutturali di politica economica. Ecco il testo completo: “Le disposizioni dell’articolo 314 del codice di procedura penale si applicano anche ai procedimenti definiti anteriormente alla data di entrata in vigore del medesimo codice, con sentenza passata in giudicato dal 1° luglio 1988. Ai fini di cui al comma 1, il termine per la proposizione della domanda di riparazione è di mesi sei a decorre dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge. La domanda di riparazione resta impregiudicata dall’eventuale precedente rigetto che sia stato determinato dalla inammissibilità della stessa in ragione della definizione del procedimento in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del codice di procedura penale vigente. 3. Il diritto alla riparazione di cui al comma 1 non è comunque trasmissibile agli eredi. 4. Ai fini della determinazione del risarcimento, per il periodo intercorrente tra il 1° luglio 1988 e la data di entrata in vigore del vigente codice di procedura penale, si applicano i commi 2 e 3 dell’articolo 315 del medesimo codice. 5. Ai maggiori oneri derivanti dall’attuazione del comma 1, pari a 5 milioni di euro per l’anno 2012, si provvede mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307, relativo al Fondo per gli interventi strutturali di politica economica”. Ferranti (Pd): correzioni a dl metterebbero a rischio ok “La norma contestata dalla Lega può anche essere corretta in altra sede, ma non possiamo mettere a rischio l’approvazione di un intervento importante su un tema come quello del sovraffollamento delle carceri e che contiene misure fondamentali come la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Lo sottolinea la capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Donatella Ferranti, commentando la protesta del Carroccio sul decreto svuota carceri sfociata nell’abbandono dei lavori da parte della commissione Giustizia. Comunicato stampa di Giulio Petrilli Alla Camera dei Deputati, la commissione affari costituzionali dà parere negativo all’emendamento presentato dal Sen. Lusi, nel corso della discussione sul disegno di legge sul sovraffollamento delle carceri, approvato in Senato il 25 gennaio scorso, per introdurre la retroattività nella legge sull’equa riparazione per ingiusta detenzione. L’emendamento, prevede la retroattività, di un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge nell’ottobre 1989. La temporaneità è legata alla copertura finanziaria, ma se a questo punto viene considerato anticostituzionale, lo si può estendere retroattivamente senza temporaneità. Anche perché lo spirito con il quale è stato approvato all’unanimità al Senato è quello di introdurre la retroattività sulla riparazione per ingiusta detenzione e questa cosa va rispettata, non si può oggi, per fare terra bruciata su qualsiasi iniziativa avanzata dal Senatore Lusi, bocciare l’emendamento. Il Senatore aveva raccolto le istanze di tante persone che avevano subito l’arresto e poi assolte prima dell’ottobre 1989 (io sono una tra queste) non avevano avuto nessun risarcimento. La commissione affari costituzionali dovrebbe intervenire sulla anticostituzionalità della legge attuale sul risarcimento per ingiusta detenzione (art. 314 e 315 c.p.), in quanto, non essendo retroattiva, è in aperto contrasto con l’art. 24 comma 4 della costituzione che recita “la legge determina per tutti le condizioni e i modi per le riparazioni da errori giudiziari”. Invece di affermare questo principio, essa è contraria a un emendamento sacrosanto che estende un diritto inalienabile per tutti che è quello di risarcire chi è stato privato ingiustamente della libertà personale. Al di là del parere della commissione, speriamo che il governo e la Camera dei deputati non annullino un emendamento già passato all’unanimità al Senato e che rappresenta un elemento essenziale del diritto. Giustizia: molte incognite sulla chiusura degli Opg di Nello Scavo Avvenire, 7 febbraio 2012 La criminologa Isabella Merzagora Betsos: “Con le ristrettezze di cassa, dubbi sui piani per le strutture alternative. Occorre saper riconoscere i campanelli d’allarme di episodi violenti”. Entro un anno gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) dovranno chiudere per fare posto a non meglio precisate strutture alternative. E questo in un Paese nel quale, secondo l’Istituto superiore di sanità, si contano circa 245mila persone che soffrono di schizofrenia. “Temo che dovendo stringere i cordoni della borsa - commenta la professoressa Isabella Merzagora Betsos - si rischi di finire come negli Usa, quando per ragioni di risparmio venne ridimensionato il numero di centri per la salute mentale e decine di malati finirono per strada”. Docente di Criminologia all’Istituto di Medicina Legale della Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano, Merzagora Betsos non nasconde più di una perplessità. Autrice di numerosi saggi e manuali - l’ultimo è Uomini violenti. Ipartner abusanti e il loro trattamento - è anche componente dell’equipe di osservazione e trattamento presso il carcere di Milano-Opera. Il pensionamento degli Opg è un passo avanti nella cura delle patologie mentali di chi ha commesso reati? Con gli attuali limiti alla spesa pubblica è difficile immaginare che le cose possano migliorare. La chiusura degli Opg, che dovrebbero essere “superati” da altri e innovativi centri, certo sarebbe stata accolta con maggior favore se fosse avvenuta quando si sarebbe potuto seriamente investire in nuovi programmi di salute mentale. Con questo non voglio dire che andavano mantenute le vecchie strutture, però sul futuro alcune incognite restano. Omicidi come quello commesso dal pugile ucraino, possono essere evitati o si tratta di episodi ineluttabili? Il primo passo per la prevenzione è la conoscenza. Direi: occupiamoci e non preoccupiamoci. Non intervenire mobilitando le competenze significa lasciare queste persone da sole, abbandonate allo loro stessa sofferenza. Certo, c’è una minoranza di schizofrenici aggressivi, ma poi ci sono anche coloro che sono vittime di abusi, di violenze, di circonvenzioni. Penso agli anziani malati di schizofrenia, gli indifesi sono proprio loro. È possibile registrare segnali premonitori di un aggressione violenta? Insieme ai miei collaboratori dell’Università di Milano, stiamo progettando con Regione Lombardia e Comune di Milano dei corsi al personale delle professioni sociosanitarie. Lo scopo è quello di confrontarsi proprio sui campanelli d’allarme. In che modo? Sul territorio ci sono figure chiave, dai medici di base ai farmacisti, che però in gran parte mancano di una alfabetizzazione criminologica che potrebbe scongiurare gravi pericoli. Mi è capitato di svolgere consulenze nelle quali ho dovuto annotare che se ci fossero state le necessarie competenze alcune tragedie si sarebbero potute evitare. Giustizia: Italia condannata per trattamento “inumano e degradante” di detenuto disabile Ansa, 7 febbraio 2012 L’Italia è stata condannata oggi dalla Corte europea dei diritti umani per aver sottoposto un detenuto a trattamento “inumano e degradante”. Il caso riguarda la reclusione nel carcere di Parma di Nicola Cara-Damiani, detenuto nonostante non potesse ricevere cure adeguate al suo caso né, data la paralisi delle gambe, muoversi agevolmente in sedia a rotelle a causa della presenza di barriere architettoniche. Con questa sentenza la Corte di Strasburgo - che ha condannato l’Italia anche a versare alla parte lesa un risarcimento di 10mila euro - ha ribadito il principio secondo cui gli Stati hanno l’obbligo di assicurare che “tutti i carcerati siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana” e, avendo riguardo per le esigenze pratiche della detenzione, di garantire che “la salute dei carcerati sia salvaguardata in maniera adeguata”. Inoltre, la Corte ha sottolineato che “le cure in carcere devono essere a un livello comparabile a quelle che lo Stato garantisce all’insieme della popolazione”. Anche se questo non vuol dire, ha precisato la Corte, che debbano essere garantite a tutti i detenuti “cure allo stesso livello di quelle a cui si può avere accesso nei migliori centri di cura”. Giustizia: quei giudici europei che difendono i diritti dell’uomo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 7 febbraio 2012 Rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e ai successivi Patti dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, si caratterizza per il fatto che viene istituito un giudice di quei diritti e di quelle libertà. È questa la grande novità, che per la prima volta si trova in uno strumento di diritto internazionale. I diritti dell’uomo avevano già trovato riconoscimento in Europa, ma solo a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Ma mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti ad un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di “controllo giurisdizionale esterno” è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, che copre la vasta area dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Il sistema si fonda sull’istituzione di una Corte indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati ed imporre loro di ripararle. Nel procedimento che si apre davanti alla Corte la persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e doveri. La persona fa valere i diritti di cui è titolare e che non derivano dallo Stato, ma sono da questi “riconosciuti”. Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo “esterno” implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative. Quel controllo innanzitutto rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri)dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata com’è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi. La definizione dei singoli diritti resta generale e vaga nella Convenzione. Non si tratta di un difetto redazionale. Si tratta invece di una scelta, che rimette al giudice la responsabilità di adattare la portata dei diritti e delle libertà fondamentali alle esigenze dei tempi e allo sviluppo delle correnti culturali e sociali espresse dalla società europea contemporanea. La Corte pratica un’interpretazione ed una applicazione della Convenzione, che essa stessa definisce dinamica e evolutiva secondo lo scopo della Convenzione che è quello di rendere concreta ed effettiva la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo. Quando la Corte Costituzionale italiana, con due sentenze del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice, prima di eventualmente sollevare la questione di costituzionalità, di fare ogni sforzo possibile per interpretare le leggi nazionali in modo tale da renderle compatibili con la Convenzione europea “così come interpretata dalla Corte europea”, ha necessariamente fatto rinvio sia al contenuto della giurisprudenza europea, sia al suo metodo casistico, teso alla protezione effettiva del diritto del singolo individuo. Esercizio certo non facile, ma necessario, non solo da parte del giudice (e della stessa Corte Costituzionale), ma anche da parte del legislatore chiamato a produrre leggi compatibili con la Convenzione nel loro contenuto e nella loro struttura. I giudici che compongono la Corte sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di “rappresentanti” del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati ad esprimersi liberamente. La loro origine ed esperienza nazionale contribuisce alla ricchezza, pluralismo e completezza del dibattito interno alla Corte, in vista di decisioni che riflettano o siano compatibili con la cultura europea é-con i sistemi giuridici presenti in Europa. Ma non si può dire che i giudici portino nel dibattito interno alla Corte un “orientamento culturale prevalente” nel loro Paese di origine. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno si ritrova su posizioni (ed in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché piuttosto che ad una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a diverse minoranze o maggioranze diversamente composte. Ciascun giudice della Corte esprime dunque la sua posizione, caso per caso, materia per materia, senza pretesa di parlare per un’intera società. È però l’apporto che i molti giudici danno alla discussione, che consente alla Corte, almeno nella sue intenzioni, di raggiungere conclusioni che riflettono le tendenze di fondo delle società europee. Questo testo è un estratto della Lecture che Vladimiro Zagrebelsky farà oggi, alle 17,30, nell’Aula Magna dell’Università di Torino (Via Verdi 8). L’appuntamento è organizzato dal Csf (www.csfederalismo.it), istituito nel 2000, con sede al Collegio Carlo Alberto che ha come fondatori la Compagnia di San Paolo e le Università di Torino, Pavia e Milano. Giustizia: il cittadino, la toga e il danno di Alessandro Pace Europa, 7 febbraio 2012 Il tema della responsabilità dei magistrati (giudici e pubblici ministeri) impone una doverosa premessa. Quando dalla pubblica opinione e dalla stampa si parla genericamente di responsabilità dei giudici, non si allude necessariamente alla responsabilità diretta del magistrato per atti e fatti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (con conseguente responsabilità in solido dello stato) ma, più spesso, si allude alla possibilità di essere concretamente risarciti per i danni provocati da fatti o atti dei magistrati. Ciò che interessa al cittadino è infatti, soprattutto, di poter essere risarcito del danno subito, e non già che al magistrato sia inferta una sanzione. Se è così, è allora evidente che ciò a cui soprattutto occorre por mente sono le condizioni e i termini ricorrendo i quali lo stato è responsabile per gli atti e i farri compiuti dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni (con possibilità, ancorché parziale, di rivalsa). Ebbene, la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CgUe) del 24 novembre 2011, nella causa Commissione/Italia - alla quale erroneamente si ricollega l’emendamento Pini, approvato dalla camera giovedì 2 febbraio - si riferisce esclusivamente (ed esplicitamente) alla responsabilità dello stato, e non potrebbe essere diversamente. Infatti, negli altri stati membri dell’Unione europea mentre è sempre riconosciuta la responsabilità diretta dello stato, è invece discussa, o quanto meno limitata, la responsabilità diretta dei magistrati. A ciò si aggiunga che la sentenza della CgUe, altrettanto esplicitamente, si preoccupa esclusivamente della “responsabilità degli stati membri per la violazione del diritto dell’Unione da parte dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado”. Con il che la CgUe intende sottolineare che, prima di poter essere statuita la responsabilità dello stato per il fatto di un magistrato, bisogna aver esaurito tutte le istanze giurisdizionali. Appellarsi alla sentenza della CgUe come fondamento della responsabilità diretta dei magistrati per violazione anche del diritto interno è quindi doppiamente errato. Ciò non di meno, la pronuncia della CgUe è rilevante anche per il nostro ordinamento nazionale per due ragioni. In primo luogo, la sentenza (che, si badi bene, è stata emessa su ricorso della Commissione europea, in quanto l’Italia non si era tempestivamente adeguata agli stessi principi già enunciati nella precedente sentenza della stessa Corte del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo) ha sottolineato a chiare lettere l’insufficienza, a fini risarcitori, della legge n. 117 del 1988 che disciplina i risarcimenti, a carico dello stato, dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. La CgUe ha infatti sottolineato che il requisito minimo richiesto dalla legge n. 117 perché il danno sia risarcito dallo stato - e cioè la “colpa grave” - è più rigoroso (e quindi più difficile da dimostrare) della “violazione manifesta del diritto”, che è invece il requisito richiesto dal diritto europeo. Ma se questo è vero con riferimento alle violazioni del diritto europeo, non può non essere altrettanto vero per le violazioni del diritto interno. Se il requisito minimo della “colpa grave” è eccessivo a livello europeo, lo è anche (ovviamente) con riferimento al nostro ordinamento. Altrimenti il nostro legislatore dimostrerebbe di essere più preoccupato delle possibili violazioni del diritto europeo che delle possibili violazioni del diritto nazionale. Del resto se per essere risarciti dallo stato per atti e fatti dei funzionari amministrativi è sufficiente la “colpa lieve” ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, non si vede perché mai la colpa dei magistrati debba essere addirittura “grave” per poter essere produttiva di un danno ingiusto. La seconda ragione per la quale la pronuncia della CgUe è indirettamente rilevante per il nostro ordinamento sta nella critica che in essa è mossa all’articolo 2 della legge n. 117, là dove dispone che “l’attività di interpretazione di norme di diritto” non può dar luogo a responsabilità. Ebbene, la CgUe giustamente rileva come con tale esclusione viene sottratto al sindacato quella che è la sostanza dell’attività giurisdizionale. Sottolinea esattamente la Corte: “Qualunque sia il settore dell’attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti - nazionali e/o comunitarie - al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta” (sentenza Traghetti, n. 34). Del resto, la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli stati membri sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, adottata il 17 novembre 2010, non nega in via di principio, al n. 66, una siffatta responsabilità, ma la limita ai casi di dolo e di colpa grave. Il che è sufficiente, almeno in questa sede, per esprimere perplessità nei confronti di quell’indirizzo della corte di cassazione secondo il quale l’attività del giudice “si sostanzia in opera creativa della volontà della legge nel caso concreto” (così ad esempio le decisioni nn. 11091 del 2003, 1136 del 2007 e 24763 del 2099), per cui, in definitiva, non vi sarebbe differenza tra giudice e legislatore. Con la conseguenza, altrettanto grave, che il giudice non incorrerebbe mai, per definizione, in un “eccesso di potere giurisdizionale” (consistente nella manifesta alterazione del significato di una disposizione); e quindi la corte di cassazione non potrebbe mai sindacare quelle che sono audaci invenzioni, non interpretazioni. Giustizia: tunisino Riad Nasri assolto dopo 8 anni di carcere a Guantánamo e 3 in Italia di Paolo Colonnello Corriere della Sera, 7 febbraio 2012 Quando lo arrestarono i soldati afghani dell’Alleanza del Nord per consegnarlo “vivo” agli americani, stava cenando insieme a moglie e figlia nella sua casa in Afghanistan. Era il 2001. Le torture iniziarono quasi subito: prima in un carcere di Kabul, “in una cella dove dormivamo a turno”. Poi otto anni nella prigione di Guantánamo, con un cappuccio in testa “un materassino e una coperta per dormire, un secchio per i bisogni e uno per bere”. Infine, dopo la decisione di Obama di smantellare la prigione cubana, Riad Nasri, tunisino, ha passato un anno ad Opera e due anni nel carcere di Benevento, un hotel di lusso rispetto alle prigioni precedenti. Non che Nasri fosse uno stinco di santo: aveva combattuto in Bosnia e in Italia si era distinto per aver frequentato a Bologna compagnie poco raccomandabili vicino agli ambienti dei terroristi salafiti per la predicazione e il combattimento e dopo gli attentati alle Torri gemelle, era scomparso dalla circolazione. Ma essere un Mujaheddin non sempre equivale a essere un terrorista. Per questo ieri, dopo un calvario durato quasi 12 anni durante i quali Nasri ha perso tutti i denti e parzialmente l’udito (“a Guantánamo - ha raccontato nei verbali davanti al gip Salvini - per due volte mi legarono mani e piedi e mettendomi una cuffia alle orecchie mi fecero ascoltare per più di 20 ore musica da discoteca ad altissimo volume”), la Corte di Assise e d’Appello presieduta da Laura Dameno, lo ha assolto dall’accusa di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo e ne ha deciso la scarcerazione immediata. Non è escluso che la Procura Generale faccia ricorso in Cassazione ma intanto è probabile che Nasri, magari per espulsione, possa tornare in Tunisia dove, caduto il regime militare, sono cadute anche le condanne che lo riguardavano a 10 anni di prigione sempre per presunti reati di terrorismo. Dovrà invece aspettare un verdetto della Cassazione per chiedere un eventuale risarcimento per ingiusta detenzione. Destinatario di un ordinanza di custodia cautelare del 2007 mai eseguita perché formalmente risultava latitante, Nasri è stato interrogato diverse volte anche dalle forse dagli investigatori italiani proprio mentre si trovava a Guantánamo, “senza alcuna imputazione formale”, spiega il suo avvocato d’ufficio Roberto Novellino che ieri, è rimasto il primo a essere colpito dalla sentenza di assoluzione: “Non lo speravo più”. Nasri, che era stato indagato anche a Bologna e prosciolto per prescrizione nonché assolto dall’accusa di spaccio di banconote false per un pezzo da 100 mila lire che gli era stato trovato in tasca, è il secondo dei tre “terroristi” arrivati in Italia da Guantánamo dopo l’accordo del 2009 tra l’amministrazione americana e quella italiana, ad essere scarcerato. Nell’aprile dell’anno scorso infatti era toccato ad Abdel Ben Mabrouk, rintracciato poi a Tunisi proprio dall’inviato della Stampa, Domenico Quirico: anche per Mabrouk un susseguirsi di galere e torture approdate poi in una condanna a due anni per reati minori e alla pena sospesa. Ieri giudici milanesi hanno però confermato anche una condanna a 8 mesi di reclusione per l’altro coimputato di Nasri, Tlili Lazar, presunto terrorista che però ha collaborato con gli inquirenti nel corso delle indagini: per lui una pena solo formale, avendo già scontato in “pre sofferto” qualche anno di prigione. Giustizia: prosciolto per infermità mentale ex pugile che uccise passante, ricoverato in Opg Corriere della Sera, 7 febbraio 2012 Le voci del bene e del male non rimbombano più nella sua testa e anche diavoli e mostri sono spariti, cancellati dai farmaci che lo tengono buono. Ma Oleg Fedchenko non è guarito. Una perizia certifica che era totalmente incapace di intendere e volere anche quando un anno e mezzo fa uccise a pugni la prima donna che incrociò per strada. È stato assolto per questa ragione, ma resterà nel manicomio giudiziario di Reggio Emilia perché è pericoloso per la società, quella che non ha colto i segni della sua follia e ora si disinteressa dei familiari della sua vittima. Fedchenko arrivò a 18 anni dall’Ucraina nel 2003 per congiungersi alla madre. Impiegato in lavori saltuari, non è mai riuscito a sistemarsi. E come avrebbe potuto se nella sua testa tumultuavano “disturbi psichiatrici molto gravi” con “anomalie di comportamento” che spesso sfociavano in violenze? La prima volta, novembre 2007, finisce nel reparto psichiatrico del Sacco per una psicosi che si rimanifesterà alla fine dello stesso mese, quando viene sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio nel Policlinico per “un’esplosione depressiva psicotica violenta”. Visitato ancora nel 2009, gli viene diagnosticato solo uno stato d’ansia. Oleg è molto intelligente (quoziente 126) e questo potrebbe aver contribuito a mettere i medici fuori strada. Dopo due giorni senza mangiare e dormire, complice una relazione sentimentale finita, la mattina del 6 agosto 2010 improvvisamente esce di casa come una furia lasciando terrorizzata la madre Larisa che a 49 anni si guadagna da vivere servendo ai tavoli di un ristorante. Mentre il figlio scende per strada, Larisa chiama la Polizia: ha capito che Oleg è fuori di senno. Non ci sarà il tempo per fermarlo. Nella testa del giovane la voce del bene e quella del male già lottano tra loro e quando incrocia Verdad Emilou Arvescu in viale Abruzzi (zona semicentrale a nord-est di Milano) in lei non vede un’immigrata filippina di 41 anni. Vede un gigantesco mostro nero e maligno che lo fissa dritto negli occhi terrorizzandolo perché vuole entrare nel suo corpo passando da quelli. Oleg è un pugile dilettante, ma la follia moltiplica la forza guadagnata con gli allenamenti cui si sottopone con maniacale regolarità mentre massacra la donna con pugni devastanti che le frantumano il cranio lasciandola stesa senza vita in una pozza di sangue. Viene subito arrestato. “Schizofrenia paranoidea” che si manifesta “sin dall’infanzia”, scrive lo psichiatra Ambrogio Penati nella perizia in base alla quale il gup Roberta Nunnari assolve Fedchenko nel giudizio abbreviato, condannandolo però a 9 mesi per alcuni coltelli trovatigli in casa e disponendo che resti nell’ospedale psichiatrico giudiziario almeno 5 anni (il pm Francesca Celle ne aveva chiesti 15). Ai familiari della filippina, però, non andrà nulla. Non solo da Oleg, che non è imputabile, ma neanche dalla Regione Lombardia che ha chiuso da 4 anni il fondo per le vittime di atti dolosi, e neppure dal Comune, che copre solo gli ultra-settantenni e per scippi e rapine. “Eppure la Commissione europea ha invitato a prevedere tutele adeguate in questi casi. I familiari si sentono abbandonati”, dice l’avvocato Fabio Belloni che assiste i congiunti della filippina. “È stato un raptus dovuto alla patologia e lui avrà bisogno di cure per tutta la vita”, sottolinea l’avvocato Paola Boccardi che ha difeso l’ucraino con la collega Maria Rosa Santini. Quando Larisa visita Oleg nell’Opg piange e non parla. Fuori, il senso di colpa rode solo lei. Giustizia: evitare che i malati diventino assassini di Vittorino Andreoli (Psichiatra) Corriere della Sera, 7 febbraio 2012 La società chiede che i malati siano curati e non che divengano assassini, semplicemente perché malati. E soprattutto la società chiede che non si mettano in libertà persone pericolose che, uscite dal sistema penitenziario subito reiterino il reato e creino vittime. È un caso che ci interroga quello di Milano, ed è un dolore enorme vedere che la psichiatria, non curando adeguatamente, “produce” danno sociale. Ho passato molto del mio tempo nelle carceri e nei manicomi criminali e ora sogno finalmente di entrare, senza dovermi vergognare, in Istituti qualificati per fare della psichiatria scientifica, per applicare il sapere della indagine criminologica che significa sempre anche chiudere gli sproloqui vani dei cosiddetti psichiatri o criminologi da tribunale. La legge che oggi si discute alla Camera dei deputati e che chiude i manicomi giudiziari si colloca in questo ambito. Sapere che dal 3imarzo 2013 non risulteranno più dentro la storia della psichiatria italiana - sempre che i deputati la approvino come ha fatto già il Senato e senza modifiche - è una buona notizia per me psichiatra e per i 1.400 ospiti che vi sono rinchiusi. Perché questa è una legge che impedirà di riempire la cronaca di fallimenti psichiatrici. Non vedo questo giorno come il prolungamento di quello del maggio del 1978 quando il Parlamento chiuse i manicomi “ civili”. Sapevo allora che la psichiatria può vivere senza manicomi, ma non senza predisporre delle misure alternative, più umane innanzitutto, ma soprattutto più efficienti e più rispondenti ai bisogni dei pazienti e alla sicurezza della società, e queste non vennero promulgate. Erano allora prevalse esigenze ideologiche, non la scienza. La legge sulla chiusura dei Manicomi giudiziari non si limita a chiudere, ma ad aprire delle piccole strutture in ogni Regione con carattere non più custodialistico, ma curativo. Che si tratti di luogo di detenzione lo dimostra l’uso non solo della chiusura dei pazienti dentro un ambiente “carcerario”, ma il fatto che molti ricoverati vengono “legati”. n passaggio dalla contenzione alla terapia è stato per molti anni il sogno di noi psichiatri e continuerà a esserlo finché questa “violenza terapeutica” non sarà totalmente cancellata. Questa legge prevede dei luoghi regionali che stando al numero di degenti occuperanno mediamente 50-70 persone. Permettendo di sostituire le cinque strutture attuali per uomini e l’unica per le donne. Le strutture saranno curative e per esserlo devono giungere a una diagnosi e dunque utilizzare tutto il sapere medico e psichiatrico per farlo. Un risultato importante, se solo si pensa che adesso questi malati vengono “valutati” in tribunale, dove la psichiatria è addirittura vergognosa, poiché sovente mostra di adattarsi alle parti e non di attenersi ai criteri scientifici. Gli ospiti delle strutture che stanno per essere chiuse sono soggetti che hanno compiuto un reato punibile penalmente, ma per il quale nasce, nel corso del procedimento giudiziario, il dubbio che si tratti di malati di mente che, nella formula giuridica, significa “totalmente o parzialmente incapaci di intendere e/o di volere”. Casi che se curati avrebbero evitato quel comportamento, e se curati adeguatamente potrebbero almeno non ripeterlo. E qui si pone la questione della pericolosità. Noi sappiamo che la malattia di mente non incorpora necessariamente la pericolosità sociale: questo principio è stato sancito dalla legge 180/1978 ed è un grande risultato, ma sarebbe un errore affermare che il disturbo mentale non è mai pericoloso. In certe malattie (poche) la pericolosità è un sintomo che dunque si lega al disturbo mentale, e sarebbe gravissimo dimenticarsene o volerlo negare ideologicamente. Pertanto la procedura penale deve considerare la pericolosità e deve poter inviare la persona sotto giudizio in un luogo in cui far valutare attentamente e scientificamente questa ipotesi. Come accade già nel mondo più avanzato, negli Stati Uniti per fare un esempio. Giustizia: 41enne con problemi psichiatrici muore dopo l’arresto, aperta un’inchiesta di Michele Focarete e Gianni Santucci Corriere della Sera, 7 febbraio 2012 Urla: “Fatelo uscire, mi sta ammazzando”. Sbraita: “Chiamate mia madre”. Piantato sul pianerottolo, fisico pesante, pantaloni della tuta, torso nudo, il sudore gli scola sulla fronte. In mano un coltello da cucina. Si tira i capelli e se ne strappa qualche ciocca. Si appoggia la lama sull’avambraccio, taglia, il sangue scorre. L’ambulanza sta arrivando. I quattro poliziotti lo controllano a distanza. L’uomo ne punta prima uno, che lo schiva, poi afferra il coltello a due mani e si scaglia contro un altro. È in questo momento che gli agenti lo afferrano da dietro, cadono insieme, riescono ad ammanettarlo. Pochi minuti dopo Daniele Langella, 41 anni, perde conoscenza. Morirà appena arrivato in ospedale. Si spengono così, insieme, poco dopo le due di domenica notte, l’ultimo delirio impastato di cocaina e la vita difficile di quest’uomo appena uscito da un ricovero per tossicodipendenza. Tra un palazzo popolare di via Mosca, periferia Ovest di Milano, e il pronto soccorso dell’ospedale San Carlo, nella stessa zona della città. C’è un precedente, dello scorso 30 giugno. Michele Ferulli, 52 anni, muore per un malore durante un movimentato arresto, sempre a Milano. Denuncia dei familiari: “È stato picchiato”. Inchiesta aperta. Sarà la magistratura a chiarire l’esatta dinamica dei fatti. Sulla morte di Daniele Langella non sembrano invece esserci ombre, né di violenze, né di abusi. Ai fatti di domenica notte hanno assistito molti abitanti del palazzo di via Mosca. È soprattutto in base alle loro testimonianze che il Corriere può ricostruire la vicenda nei dettagli, a partire dalle ore che precedono le chiamate al 113: Daniela Langella e suo cugino, M.R., 41 anni, bevono qualche cocktail in zona Sempione, poi passano al parco di Trenno, dove acquistano da un magrebino alcune - palline di cocaina. Rientrano in casa del cugino, in via Mosca, e bevono ancora (almeno 4-5 birre), arrotolano una banconota e consumano la droga. A quel punto Langella entra in un pesante delirio. Le testimonianze: “Correva su e giù per le scale, dando calci e pugni alle porte”, “poi si è spogliato del tutto ed è uscito in strada (la temperatura era intorno ai meno 5 gradi, ndr), urlava frasi senza senso”. È circa l’una, le richieste d’intervento alla centrale delle Volanti si moltiplicano. A un certo punto è Langella stesso a chiamare la polizia: “Cristo è dentro di me - sbraita - liberatemi”. Nel fascicolo aperto dalla Procura di Milano (accertamenti affidati alla Squadra mobile) è inserita la cartella clinica con cui Langella è stato dimesso da una casa di cura, a novembre scorso, dopo un mese di ricovero per un tentativo di disintossicazione. I medici parlano di “poli abuso” di alcol, cannabis e cocaina; di patologie psichiatriche collegate a una pesante dipendenza. Altra cocaina è stata trovata nella casa del cugino. Durante l’arresto Langella è caduto, “era fuori di testa, indiavolato” (ripetono i testimoni), probabilmente ha ricevuto qualche colpo. Racconta una donna che abita in una casa vicina: “I poliziotti gli parlavano, cercavano di calmarlo. Lui brandiva il coltello, si strappava i capelli”. Sardegna: Sdr; assemblea soci conferma impegno per diritti civili nelle carceri Ristretti Orizzonti, 7 febbraio 2012 “247 profili di altrettanti detenute e detenuti, 80 in più dello scorso anno, circa 500 colloqui, lettere e interventi sulle problematiche sociali documentano in modo inequivocabile l’impegno sostenuto dall’associazione nel corso del 2011. Un anno orribile contrassegnato da due suicidi in carcere, da numerosi gravi atti di autolesionismo e da un forte generalizzato disagio in tutte le strutture penitenziarie isolane e nelle Colonie Penali”. Lo ha detto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione culturale onlus “Socialismo Diritti Riforme” illustrando, in occasione dell’assemblea annuale, l’attività svolta nel 2011 dal sodalizio con sede a Cagliari, particolarmente attivo nella Casa Circondariale di “Buoncammino”. “Anche quest’anno - ha sottolineato la presidente - abbiamo vissuto “pericolosamente” con passione e trasporto. L’Associazione ha scelto di ridurre le manifestazioni pubbliche per garantire un più costante aiuto a famiglie in difficoltà e a cittadini privati della libertà, privilegiando le battaglie per i diritti e cercando di affrontare le problematiche dei bisogni materiali anche con la raccolta e distribuzione di capi di vestiario. Il numero degli iscritti è passato da 55 a 65 soci. Particolarmente intenso è stato l’impegno per la sanità penitenziaria e per il rispetto del diritto alla salute, sono stati intensificati i rapporti con i familiari dei cittadini privati della libertà anche attraverso il telefono. I volontari dell’Associazione hanno inoltre tenuto una fitta e proficua corrispondenza con i reclusi nelle carceri di Iglesias, Sassari, Lanusei, Nuoro e della Penisola”. “Tra le esperienze più emozionanti del 2011 - ha aggiunto il segretario di Sdr Gianni Massa - la Messa di Natale a Buoncammino durante la quale ci è stato offerto un Presepe realizzato da Alfio Diolosà, il detenuto che ha consegnato la lettera al Ministro Paola Severino letta a Papa Benedetto XVI durante la visita al carcere di Roma Rebibbia. In quello stesso giorno subito dopo la celebrazione abbiamo accompagnato in un paese della provincia di Oristano un detenuto R. V. che dopo anni di attesa e tanta sofferenza ha potuto trascorrere la giornata a casa con i familiari. La sera stessa siamo andati a riprenderlo e riaccompagnarlo nella Casa Circondariale di Cagliari. Intenso e particolarmente sentito il rapporto con le donne detenute. Anche nel 2011 abbiamo purtroppo registrato la presenza di un bimbo di 15 mesi nel carcere di Buoncammino e siamo venuti a conoscenza di un altro bimbo recluso a San Sebastiano. Indimenticabili i due eventi tragici che hanno funestato il 2011 ed in particolare il suicidio di una giovane donna. Dolorosa la protesta del detenuto di Badu ‘e Carros che si era cucito la bocca”. “Sebbene il mondo dei cittadini privati della libertà costituisca il costante punto di riferimento dell’azione dell’Associazione, non sono state trascurate - ha aggiunto Massa - alcune problematiche inerenti la questione dei diritti dei cittadini e delle riforme. Abbiamo seguito i casi di alcuni rifugiati, di diversi cittadini alle prese con le super bollette di Abbanoa, degli invalidi civili privati della pensione con l’unico motivo di far risparmiare l’Inps. Clamoroso il caso di una dipendente della Asl mobbizzata di cui ci siamo occupati per diverse settimane così come la denuncia sui disservizi del Ctm è costata alla presidente un’incriminazione per diffamazione a mezzo stampa”. Il terzo anno di attività di Sdr si è caratterizzato anche per le collaborazioni con diverse associazioni come la Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari), la Comunità “La Collina” di Don Ettore Cannavera, la Fondazione Taccia e l’Avis Admo di Santadi. In generale per il 2012 sono state confermate le linee-guida che caratterizzano l’impegno statutario. Il programma è quello di proseguire con i colloqui in carcere e con le iniziative di solidarietà. Innanzitutto quanto sta accadendo nel cantiere di Uta per la realizzazione della nuova struttura detentiva. A conclusione del dibattito è stato approvato all’unanimità il bilancio consuntivo e sono state decise le iniziative per il 2012. Reggio Emilia: Berselli (Pdl); l’Opg non è un lager, ma sarà chiuso entro il 2013 www.viaemilianet.it, 7 febbraio 2012 Il Presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli in visita all’Opg. “Condizioni decenti - dice - ma le strutture saranno superate entro il 2013”. Gli agenti chiedono nuovo personale per il carcere. È trascorso un anno da quando la commissione d’inchiesta del Senato ha divulgato le immagini girate nei 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani. La struttura di Reggio Emilia ne usciva come una delle migliori, per ordine e pulizia, nonostante sia pur sempre un carcere, e per di più sovraffollato. 220 gli internati, stipati in 131 celle che dovrebbero essere singole. La visita del Presidente della Commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli lo ha confermato. Ma oggi c’è una sicurezza in più: un passo avanti nella storia del Paese, grazie all’emendamento Opg al decreto Carceri approvato in commissione Giustizia al Senato. “Gli Opg chiuderanno da qui a due anni - spiega Berselli - questo non è un lager ma una struttura che va chiusa, ne va aperta un’altra, queste sono persone malate e come tali vanno trattate”. Spetterà alle Regioni entro il primo febbraio 2013 il compito di individuare nuove strutture, per la prima volta a valenza regionale. A Reggio questo significherebbe un drastico calo dei ricoverati, che saranno presi in carico dal dipartimento di salute mentale dell’Ausl. “Nella nostra Regione ci sarebbe un bisogno per 40-50 persone” spiega il dottor Gaddomaria Grassi, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Ausl. Dal primo aprile 2008, da quando l’azienda Ausl ha assunto la gestione sanitaria della struttura, il ricorso alla contenzione è diminuito del 77%. Nelle nuove strutture non dovrebbe esserci più traccia di questo residuo di manicomio. Gli spazi lasciati liberi dall’Opg in via Settembrini invece saranno riconvertiti e riutilizzati dal carcere. Gli agenti di polizia penitenziaria chiedono adeguati incrementi di personale. “Oggi la carenza di personale in Opg è di 47 unità - denuncia Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe - se la struttura sarà riconvertita a carcere servirà ancora più sorveglianza”. Pisa: il Garante dei detenuti Callaioli; serve un confronto sulle camere di sicurezza Il Tirreno, 7 febbraio 2012 Callaioli: “Il nostro ruolo deve essere esteso anche alle caserme. La cronaca dimostra che lì si sono verificate situazioni finite sotto la lente della magistratura” “È necessario che il Comune si faccia promotore di un’iniziativa presso tutte le forze dell’ordine presenti sul territorio per favorire al Garante un controllo efficace anche sulle cosiddette camere di sicurezza”. Lo ha detto il Garante dei detenuti di Pisa, Andrea Callaioli, presentando in commissione consiliare la relazione annuale, riferendosi alle modifiche legislative in atto per quelle persone che, in attesa di convalida dell’arresto, non saranno più recluse in carcere ma accolte nelle strutture di polizia. “Del resto - ha spiegato Callaioli - è proprio nelle caserme che, come dimostra la cronaca (penso al caso Cucchi o a quello dei vigili urbani di Parma), si sono verificate situazioni finite sotto la lente della magistratura. Appare quindi opportuna un’azione di contatto con i corpi responsabili delle camere di sicurezza (polizia, carabinieri, Guardia di finanza, vigili urbani) per approvare protocolli d’intesa che estendano la possibilità di azione e controllo da parte del garante anche all’interno delle caserme”. Asti: accuse derubricate, “salvi” agenti accusati maltrattamenti; protesta l’Ass. Antigone di Luca Rastello La Repubblica, 7 febbraio 2012 Si conclude fra gli abbracci degli imputati contro cui non si procederà la vicenda giudiziaria relativa alle presunte violenze di polizia nel reparto isolamento del carcere di Asti, una storia definita da un avvocato “la Abu Ghraib italiana”. Il giudice Riccardo Crucioli ha emesso la sentenza di primo grado assolvendo per non aver commesso il fatto l’agente Sciamanna, e derubricando il reato di maltrattamenti, contestato dal pubblico ministero, in abuso d’autorità (prescritto) per gli agenti Sacchi e Bucci e in lesioni personali per gli agenti D’Onofrio e Di Bitonto, per i quali in mancanza di querela non si procederà. Se i cinque agenti festeggiano, pur in presenza di formule dubitative, si dichiarano sconcertati i membri dell’associazione Antigone, per la prima volta ammessa come parte civile in un processo simile: “Un’ingiustizia profonda - è il commento dell’avvocato Simona Filippi di Antigone - e un nonsenso procedurale: in mancanza delle condizioni per procedere il giudice avrebbe dovuto chiudere il processo senza portarlo fino al termine”. E rincara la dose Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, dichiarando che la sentenza “dimostra come in Italia si possa torturare senza subire alcuna conseguenza”. I fatti risalgono al dicembre 2004, quando i detenuti Claudio Renne e Andrea Cirino, in seguito a uno scontro con gli agenti, sarebbero stati sottoposti a un regime sistematico di abusi, pestaggi, privazioni di cibo e sonno, detenzione in una cella priva di riscaldamento, di vetri alla finestra e di suppellettili. L’inchiesta aveva preso avvio da una serie di intercettazioni a carico di due agenti coinvolti in un traffico di stupefacenti che nelle conversazioni si vantavano delle violenze ed era stata portata a una svolta dalle ammissioni di uno degli agenti e dalla testimonianza di una operatrice sociale: “Proprio questa è la novità - commenta Simona Filippi - che in qualche modo ci spinge a guardare avanti: soggetti operanti in carcere, e non solo parti lese, hanno scelto di parlare. Per la prima volta in un processo simile sono emersi tutti gli anelli di una catena che ora si può spezzare”. Le irregolarità nel funzionamento del carcere astigiano, in effetti, non sono sostanzialmente smentite, anche se lascia perplessi la scelta di imputare soltanto agenti quando dal dibattimento emerge l’ipotesi una catena di responsabilità assai più ampia, dagli ispettori di sorveglianza ai medici. Quanto alla scelta di derubricare il reato, “era obbligatoria - commenta un magistrato astigiano - dato che il reato contestato, maltrattamenti, attiene alla sfera familiare e non può essere applicato in carcere. Il vero problema è che quel che è avvenuto qui configura un crimine che non è previsto dal codice italiano: quello di torture”. Antigone intanto è stata ammessa come parte civile anche in un secondo, analogo processo a Firenze. Salerno: è ancora bufera sull’apertura di una struttura per detenuti psichiatrici La Città di Salerno, 7 febbraio 2012 “Attivazione di progetti terapeutico-riabilitativi individuali a favore di internati con misura di sicurezza non ancora scaduta o già prorogata”. L’allarme lanciato dallo psichiatra Antonio Zarrillo, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl di Salerno, è confermato dalla relazione che Antonio Maria Pagano, direttore della struttura di salute mentale e residenza sanitaria per anziani di Mariconda, ha inviato lo scorso 13 gennaio ai direttori dei dipartimenti di salute mentale delle tre macro aree dell’azienda sanitaria locale, Walter Di Munzio, Giulio Corrivetti e Luigi Pizza. Appena due giorni prima, i tre direttori lo avevano sollecitato chiedendo chiarimenti circa la sua proposta di candidare la struttura di via Asiago a sede per gli internati degli ospedali psichiatrici giudiziari della provincia, a partire dal prossimo 31 marzo, data in cui avverrà la chiusura di tutti gli Opg d’Italia, come stabilito da un recente decreto del governo. Non si tratterebbe quindi, come sottolineato dalla Cisl Fp, di ospitare detenuti arrivati a fine pena. A Mariconda arriverebbero persone che sono tuttora sottoposte a regime detentivo e, quindi, ancora socialmente pericolosi. La relazione di Pagano è chiara ed inequivocabile. Nella struttura di via Asiago arriveranno criminali che, pur di sfuggire al carcere, chiederanno il regime detentivo alternativo, lontani anche dal controllo della polizia penitenziaria. A spiegarlo è Lorenzo Longobardi, della Uil Penitenziari di Salerno. “In provincia di Salerno non ci sono ospedali psichiatrici giudiziari. L’unico reparto è quello di psichiatria del “Ruggi”, dove vige il regime detentivo. Poi ci sono le strutture private convenzionate, dove vengono affidati ai sanitari, che hanno il compito di controllarli”. Gli unici Opg in Campania sono, infatti, quelli di Aversa e Napoli. Il rischio potrebbe essere che a Mariconda arrivino detenuti anche da quelle zone, con una ricaduta pericolosa sul livello di sicurezza del quartiere. Un pericolo che è stato già denunciato dal sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, che ha accusato l’Asl di aver preso una decisione “grave e irresponsabile”. De Luca, nelle ultime ore sarebbe stato informato in via informale del progetto di Pagano, andando su tutte le furie poiché, inizialmente il Comune aveva dato il suo assenso, poiché erano arrivate rassicurazioni sul fatto che la struttura non avrebbe creato problemi agli abitanti del quartiere. Questa mattina, la relazione di Pagano arriverà sulla sua scrivania. A consegnargliela sarà direttamente Antonio Zarrillo, che sta portando avanti la battaglia per impedire che il progetto vada in porto. Intanto, la vicenda rischia di avere strascichi giudiziari, dopo l’annuncio dei Radicali di voler denunciare proprio Zarrillo. “Mi denuncino - ha detto lo psichiatra - così potrò raccontare tutta la verità su questa storia”. Como: la biblioteca del comune di Blevio ristrutturata anche grazie al lavoro dei detenuti La Provincia di Como, 7 febbraio 2012 Oltre un centinaio di persone hanno preso parte all’inaugurazione della biblioteca dopo i recenti restauri. Molti i bleviani, tra cui il sindaco Raffaello Caccia ed i colleghi di giunta, ma anche le autorità provenienti da altri paesi, tra cui il sindaco di Pognana Lario Giuseppe Gandola e l’assessore di Torno Fabio Cassinari. Nel pomeriggio spazio ai più piccoli con uno spettacolo e l’intermezzo musicale della “piccola banda” di Blevio e Torno. In mattinata è toccato al sindaco Raffaello Caccia inaugurare il ristrutturato presidio alla presenza, tra gli altri, dei volontari che in questi mesi hanno collaborato alle operazioni di restauro. Nel pomeriggio è stata la volta dei più piccoli, con la lettura animata di una fiaba, un cortometraggio ed un intermezzo musicale a cura della piccola banda. Per l’intera giornata è stato infine possibile visitare la mostra fotografica e documentaria dedicata ad Enrico Caronti, alla storia del presidio culturale bleviano ed ai recenti lavori di ristrutturazione e sistemazione, condotti anche grazie all’opera di alcuni detenuti della casa carceraria del Bassone nell’ambito di un accordo con il Comune di Blevio. Roma: venerdì alla Camera seminario sul sovraffollamento penitenziario Dire, 7 febbraio 2012 Venerdì 10 febbraio dalle 9.30 alle 18.30 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei deputati, si terrà il seminario di studio “Il sovraffollamento penitenziario: riforme di sistema e soluzioni urgenti. Il carcere come extrema ratio”. L’iniziativa è organizzata dal gruppo Pd della Camera e dal Forum Giustizia della Direzione nazionale del Partito democratico. Aprirà i lavori Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera dei deputati. A seguire Sandro Favi, responsabile nazionale Carceri, illustrerà le proposte del Partito democratico. La giornata prevede due sessioni coordinate rispettivamente dai capogruppo Pd in commissione Giustizia di Camera e Senato, Donatella Ferranti e Silvia Della Monica, sui temi: “Carcere ed esecuzione della pena” e “Carcere e custodia cautelare”. Concluderà il responsabile nazionale Giustizia del Pd, Andrea Orlando. Ancona: “Bisogno di verità”, incontri per ricordare Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi Crvg Marche, 7 febbraio 2012 Quando alcune persone si uniscono per far proiettare due film, e presentare un libro legato ai film, dopo pochi minuti di conversazione si interrogano sul titolo della mini-serie. Prima ancora di mettere nero su bianco i nomi delle associazioni (Unione camere penali, Antigone Marche, Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, Cooperativa Irs L’Aurora, e poi ancora Cnca, Donne e Giustizia, e tanti ne seguiranno) ci siamo detti: come ci presentiamo? Che titolo diamo per pubblicizzare? Non è facile, quando si parla di Stefano Cucchi e la sua famiglia, Federico Aldrovandi, genitori ed amici, darsi un titolo ammiccante che avvicini le persone, e le avvicini tutte. Quel che non è facile è però doveroso, se vogliamo dare un senso alle nostre azioni. Per chi, come me, avesse visto per documentarsi “148- I mostri dell’indifferenza”, e “Hanno morto un ragazzo”, ci sono dei parametri invalicabili. Non si tratta di conoscere la verità per dimostrare un assunto, come avrebbe potuto essere negli anni 70 in cui la Polizia cercava di depistare le indagini per nascondere i colpevoli delle stragi di massa, ai treni nelle banche nelle piazze, o identificava negli estremisti politici dei “pericolosi” a prescindere. Pur essendosi accentuate rispetto ad allora le differenze di classe, le povertà e di esclusione dalla società, le vittime che noi vorremmo far conoscere, grazie ai registi, ai familiari, ai produttori, ci sembrano ancora più incomprensibili, in un misto di omertà e di poco interesse che vede colpevoli agenti, pubblici ministeri, medici, infermieri. Un ordine comune, forse non emesso da nessuno, che dice: “È successo, non si può ritornare indietro, non si sa se si farà meglio la prossima volta”. Non sono frasi ad effetto, sono costatazioni come quella di chi dice: “Non appena entrato in un ospedale la persona perde potere, è dipendente e perde i propri diritti”, o di chi fa notare come la “Zona del silenzio” dietro all’ippodromo dove “è stato morto” Federico ora, dopo i primi tentativi di parlare, di ricordare cosa avevano visto o sentito gli abitanti della zona, ora quel viale, quelle siepi, non sono più sormontate da quel cartello dal significato sinistro. Allora abbiamo pensato noi, operatori, volontari, avvocati, persone a contatto con la giustizia e con la mancanza di giustizia, con le droghe, con le dipendenze, che la nostra chiave potesse essere il bisogno di verità, per conoscere meccanismi a noi ignoti, perché su questi ci potessimo confrontare con le famiglie, perché una cappa di non verità, di ignoranza, di deviazione, avvolge sempre più le nostre vite ed è nella condivisione che gli ostacoli diventano sormontabili. Col Bisogno di verità speriamo di vederci ad Ancona, probabilmente il 9 ed il 15 marzo, a presto. Milano: “Diritti… al cinema!”; rassegna di Magistratura democratica, si parla di carcere Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2012 Sarà la proiezione di “Amore buio” di Antonio Capuano a introdurre questa sera il tema delle carceri per il terzo appuntamento di “Diritti…al cinema!”, il primo cine-dibattito milanese sulla tematica dei diritti costituzionali. Una rassegna che è iniziata martedì 17 gennaio ed è stata organizzata nel capoluogo lombardo da Magistratura Democratica presso il Circolo Culturale San Fedele (in via Hoepli 3). Il film inizierà alle 20, con ingresso aperto sino ad esaurimento posti (biglietto d’ingresso € 6) a cui seguiranno dibattiti che saranno trasmessi in streaming dal sito del fattoquotidiano.it. Seguirà come sempre il dibattito che stasera vedrà gli interventi di Franco Maisto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, Stefania Mussio, direttore del Carcere di Lodi, e Luigi Manconi, sociologo, già senatore, da sempre impegnato nella tutela dei diritti dei detenuti. Lo scorso 24 gennaio, in occasione del secondo appuntamento della kermesse, era stato trasmesso il film “Terraferma” di Emanuele Crialese, accolto con entusiasmo da pubblico e critica allo scorso Festival di Venezia. Erano ospiti Livio Pepino, direttore della rivista “Questione Giustizia” e grande conoscitore della legislazione in materia di immigrazione, Fabio Quassoli, professore associato sociologia e ricerca sociale dell’Università Bicocca e l’infettivologa Giuliana Troja che ha raccontato la sua esperienza vissuta con Medici Senza Frontiere al Centro di accoglienza di Lampedusa. L’ultimo appuntamento della rassegna di martedì prossimo sarà dedicato al tema dell’economia con la proiezione di “Louise Michel”. Il film di Benoît Delépine e Gustave de Kervern racconta il lavoro ai tempi della crisi, tra cassa integrazione e mancata giustizia sociale. Tra gli ospiti che interverranno l’economista Tito Boeri, Marco Travaglio e Maurizio Landini della Fiom. Iran: condannato a 14 anni di carcere blogger Khazali Asca, 7 febbraio 2012 Mehdi Khazali, figlio dell’ayatollah Abolghasem Khazali e responsabile del blog dissidente Baran, è stato frustato per ordine delle autorità iraniane e condannato dalla Corte di Teheran ad una pena detentiva di 14 anni. Lo ha reso noto l’organizzazione Reporter Senza Frontiere. A Khazali, arrestato per la quinta volta, è stato impedito di lasciare per i prossimi dieci anni la città di Borazjan, nel sud dell’Iran. Medico e veterano della guerra contro l’Iraq del 1980-88, Khazali nel suo blog lanciava pesanti critiche al regime di Teheran, denunciandone l’operato politico e le reiterate violazioni dei diritti umani, senza risparmiare annotazioni molto sarcastiche sul presidente Ahmadinejad. Il suo primo arresto avvenne nel 2009, nell’ambito della repressione del governo seguita alle proteste per la controversa rielezione di Ahmadinejad ma venne rilasciato dopo pochi giorni su cauzione. Iran: Sakineh irriconoscibile dopo 6 anni nel braccio della morte Tm News, 7 febbraio 2012 Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla pena capitale per adulterio, è irriconoscibile dopo sei anni nel braccio della morte. “Ha un aspetto terribile”, ha raccontato il giornalista tedesco Marcus Hellwig, detenuto per quasi cinque mesi nello stesso carcere con l’accusa di spionaggio e terrorismo. “Non c’è paragone con la bella donna che era”, ha aggiunto Hellwig, citato oggi dal Times. Hellwig è stato rilasciato dal carcere di Tabriz un anno fa, dopo essere stato arrestato con il fotografo Jens Koch mentre intervistava il figlio di Sakineh nell’ufficio del suo avvocato nell’ottobre 2010. Posto inizialmente in isolamento, picchiato e interrogato per quasi 10 giorni consecutivi, venne trasferito in una cella con altri detenuti solo dopo l’intervento della diplomazia tedesca. Una cella dove ogni mattina veniva svegliato dalle urla dei prigionieri torturati: “Proprio sopra la nostra cella c’era una camera delle torture. Le urla erano terribili”. Un giorno venne bendato e condotto in una stanza dove venne fatto incontrare con Sakinek, alla presenza di agenti dell’intelligence e giornalisti della televisione di stato. La donna si lamentò delle sue interferenze nella vicenda: “Mi fu subito chiaro che era stata costretta a farlo - ha raccontato Hellwig - dopo cinque minuti terribili ci separarono di nuovo”. Russia: tattoo, forma d’arte carceraria russiaoggi.it, 7 febbraio 2012 Il corpo dei detenuti parla e un ex agente della penitenziaria, Danzig Baldaev, svela un modo segreto, del quale ha raccolto testimonianze e rituali con la perizia di un etnografo L’Archivio russo dei tatuaggi criminali, fondato nel 2009 da Fuel, lo studio di design grafico con sede a Londra, comprende 739 tavole originali realizzate da Danzig Baldaev e corredate dalle fotografie di detenuti russi scattate da Sergei Vasiliev. Si tratta di una raccolta eccezionale, che mostra i tatuaggi che i criminali russi esibivano sul proprio corpo, svelandone i significati occulti. La collezione comprende oltre tremila tatuaggi, che Danzig Baldaev riprodusse negli anni in cui lavorava come guardia carceraria, tra il 1948 e il 1986. Copiando i tatuaggi che vedeva impressi sui detenuti, Baldaev riuscì ad accedere a un mondo segreto, a una società chiusa di cui raccolse i riti con la perizia di un etnografo. I simboli e i linguaggi tribali da lui documentati sono via via artistici, sgradevoli, sessualmente espliciti o provocatori, e riflettono la vita e le tradizioni dei carcerati. Ne ricopiò più di tremila, corredando ciascuno di note esplicative. In seguito, nel suo piccolo appartamento di San Pietroburgo, li riprodusse dettagliatamente uno a uno, raccogliendoli in 739 tavole, ciascuna delle quali è corredata da commenti autografi e firmata sul retro. La carta, ormai ingiallita, riporta inoltre il timbro dell’autore, che conferisce alle tavole una temporalità viscerale, quasi come fossero state impresse sulla pelle. Gli scatti di Sergei Vasiliev che corredano le immagini di Baldaev e forniscono la testimonianza fotografica della loro autenticità, consentono di cogliere uno spaccato di un mondo suggestivo e affascinante. Nelle sue incredibili foto i corpi senza nome dei criminali si offrono all’interpretazione e fungono al tempo stesso da specchio che riflette e tramanda le usanze della malavita russa, in costante evoluzione. L’intero archivio di Baldaev fu venduto nel 2009 dalla vedova dell’autore a Fuel. Le foto sono state scattate da Sergei Vasiliev tra il 1989 e il 1993 nelle carceri e nei riformatori di Chelyabinsk, Nizhny Tagil, Perm e San Pietroburgo.