Giustizia: parte dalla Sicilia la “class action” dei detenuti contro il sovraffollamento di Claudia Brunetti La Repubblica, 2 febbraio 2012 Parte da Palermo la “class action” dei detenuti contro il sovraffollamento delle carceri e i lunghi tempi di inattività in cella. A fare un giro delle case circondariali siciliane, infatti, fra i primi posti insieme a quelle lombarde in quanto a sovraffollamento, la media dello spazio per detenuto è inferiore ai 7 metri quadrati per la cella singola e ai 4 per la multipla, indicati come parametro dal Comitato europeo per la prevenzione alla tortura. Sotto i 3 metri, la Corte europea dei diritti umani parla chiaramente di una condizione di tortura. Grimaldello della battaglia per la dignità dei detenuti, una recente sentenza europea che ha condannato lo stato italiano a risarcire un detenuto tunisino, costretto a vivere per alcuni mesi nel carcere di Lecce in una cella di 16 mq con altre 5 persone e dunque in uno spazio sotto i 3 metri quadrati. Un risarcimento simbolico di appena 220 euro: abbastanza, però, per aprire una prospettiva assolutamente nuova nel panorama giurisprudenziale italiano. Per denunciare i casi come quello del detenuto di Lecce l’avvocato Ermanno Zancla, in qualità di coordinatore per la Sicilia dell’Unione Forense per la tutela dei diritti umani, ha lanciato in questi giorni ai suoi colleghi l’idea di un libro bianco delle carceri, a cominciare da quelle di Palermo. Per avvocati e detenuti, infatti, la situazione è al limite del collasso, mentre a sentire il provveditore regionale delle carceri, da giugno a oggi la situazione è migliorata, con numeri rientrati nella norma. “Negli ultimi mesi - dice Maurizio Veneziano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - il numero dei detenuti è diminuito e abbiamo lavorato molto per migliorare la vivibilità. Nell’Isola non andiamo sotto il limite dei 3 mq a persona. Per combattere il sovraffollamento è in previsione la costruzione un nuovo padiglione al Pagliarelli, la ristrutturazione di 2 reparti dell’Ucciardone e poi c’è il neonato carcere di Gela. E nuove direttive sono in vista per migliorare le condizioni delle strutture e intensificare le attività da svolgere”. Per aderire all’iniziativa del libro bianco che ha già conquistato proseliti su Facebook con la creazione di un apposito gruppo, basta che il detenuto compili, tramite i suoi avvocati, una scheda, indicando la misura della sua cella, il numero delle persone con cui la divide, quanto tempo trascorre all’interno e in che condizioni. A quel punto si valuta la possibilità di inoltrare la domanda per denunciare le condizioni di sovraffollamento e ottenere il risarcimento del danno. La questione della dignità dei detenuti in carcere, infatti, non riguarda soltanto gli spazi ma anche le ore di permanenza in cella, la brevità dell’ora d’aria, l’insufficiente assistenza medica e psicologica, il numero delle attività svolte dal detenuto, l’accesso alle docce, ai servizi igienici e la mancanza di privacy. E ancora la presenza di finestre, di aria condizionata, di riscaldamento e acqua calda. “Sollecito i colleghi - dice Zancla che lavora a questa campagna con gli avvocati Gino Arnone e Stefano Bertone dello studio legale Ambrosio e Commodo di Torino - a riconsegnare rapidamente le schede dei loro assistiti. Personalmente conosco la condizione dei detenuti dell’Ucciardone costretti senza aria condizionata d’estate e senza riscaldamento d’inverno in celle affollate. Un lusso è anche la doccia in camera o l’acqua calda. Un libro bianco sulle carceri, apre una prospettiva molto interessante, dal punto di vista giudiziario, contro il sovraffollamento che è una vera e propria malattia di Stato. Basta guardare le statistiche sui suicidi. Siamo disponibili a organizzare con i presidenti delle camere penali visite in carcere per constatare direttamente la situazione”. In Sicilia adesso si contano 7 mila e cinquecento detenuti per una capienza complessiva delle carceri di poco più di 6 mila. Secondo i dati forniti dall’associazione Antigone e aggiornati a giugno del 2011, all’Ucciardone di Palermo, per esempio, per una capienza di 450, ci sono 700 detenuti con celle in media di 15 mq per 4 persone. Anche al Pagliarelli, altro carcere cittadino, la media è di celle di 8 mq per 2 persone. Per non parlare del Piazza Lanza di Catania, recentemente giudicato “illegale” dal parlamentare dei Radicali Rita Bernardini che lo ha visitato i primi di gennaio: celle di oltre 20 mq sono occupate da 10 persone per uno spazio vitale a detenuto di 2,2 mq. Giustizia: intervista a Stefano Anastasia; carceri private confermano sconfitta dello Stato di Davide Pelanda www.articolotre.com, 2 febbraio 2012 Sulla privatizzazione della carceri proposta dal Governo Monti con il sistema del project financing i volontari dell’associazione Antigone non ci stanno e dicono che i detenuti non debbono essere fonte di guadagno per nessuno. Lo spiega meglio nell’intervista che segue Stefano Anastasia, docente dell’Università di Perugia e membro attivo dell’associazione. Anastasia, perché dite no alla privatizzazione delle carceri? È un no tout-court a tutto l’impianto del decreto oppure si deve solo smussare qualche cosa? “Abbiamo da fare delle obiezioni puntuali rispetto a questo testo, di principio e di carattere generale rispetto al coinvolgimento dei privati. Perché un conto è se i privati sono coinvolti nella gestione di attività importanti ma non determinanti, rispetto soprattutto alle politiche criminali e politiche penitenziarie, un conto invece se i privati hanno la totale responsabilità degli istituti penitenziari. Allora il loro legittimo vantaggio economico dipenderà ad esempio dal tasso di carcerazione. Se è così allora è una questione di principio ed è uno dei problemi di questo articolo di legge proposto. Penso in modo particolare agli Stati Uniti dove è cresciuto il business penitenziario tale per cui c’è stato ad esempio, il caso di un giudice condannato per corruzione in quanto condannava per assicurare il profitto alle aziende del mondo correzionale. Ovviamente il privato può avere in concessione alcuni servizi all’interno del carcere, che già di fatto ci sono: ad esempio i servizi di vettovagliamento o vestiario lo fanno generalmente delle imprese private, che siano cooperative o società profit non cambia molto. Altro cosa è invece pensare ad una struttura carceraria gestita “chiavi in mano” da una società privata che, immagino, avrà un rapporto contrattuale con lo Stato anche in base a quante persone ci sono stipate dentro. E allora nasce un interesse economico alla carcerazione. Ciò è del tutto inaccettabile”. Non crede che un tale provvedimento doveva essere più discusso nel Paese, creando momenti di dibattito pubblico, magari di momento “referendario” tra i cittadini, e non infilata di soppiatto all’ultimo momento tra gli articoli di questo decreto? Non è più un discorso politico questo delle privatizzazioni delle carceri che non tecnico? “Certo, le scelte della politica penale, le scelte di fondo di politica criminale di uno Stato debbono avvenire in maniera trasparente e meriterebbero un dibattito pubblico. Io spero nell’esame di questo provvedimento un po’ di dibattito e confronto ci sarà. Nella conferenza stampa dell’altro giorno erano presenti i senatori Vincenzo Vita (Pd), Marco Perduca (Radicali) e Silvia Della Monica (Pd), che si sono impegnati in qualche modo a sollevare questo problema, a chiedere che ci siano delle audizioni, affinché il tutto si svolga in maniera trasparente come è giusto che sia. Un conto sono le scelte tecniche nella procedura degli appalti, altro è che queste scelte tecniche determinano degli indirizzi di politica criminale, allora non va bene perché questo si deve sapere e si deve discutere. Sa cos’è la cosa che ci ha allarmato di più ed ha lasciato aperti degli importanti interrogativi? È il fatto che si dica esplicitamente che i servizi di custodia non possono essere affidati ai privati, anche perché i sindacati di polizia penitenziaria, in questi dieci anni, si sono dimostrati ostili per paura magari che assumessero vigilantes privati. Ma non si parli per esempio dell’assistenza sanitaria in carcere che, dopo dieci anni, siamo riusciti a portare al Servizio Sanitario Nazionale. Con questo project financing che cosa può succedere? Che nasca una società in cui ci sono degli imprenditori privati della sanità che gestiscono l’appalto dei servizi sanitari in carcere? Rimane un punto di domanda. Ed ancora, le funzioni degli educatori penitenziari - rilevanti anche al punto di vista istituzionale in quanto essi sono poi quelli che fanno le relazioni ai magistrati di sorveglianza sulla concessione delle misure alternative alla detenzione - lo possono fare degli educatori privati assunti dal Consorzio che costruisce il carcere? Altro punto di domanda. Se esclusioni ci devono essere allora vanno tutte esplicitate”. Questa operazione che un Governo tecnico vuole fare secondo lei dimostra una sconfitta della politica e del sistema penitenziario generale di un Paese come il nostro? “È una sconfitta su molte cose. Non è certo una scelta, come sarebbe auspicabile, di riduzione della popolazione carceraria sia nell’immediato, attraverso di provvedimenti di clemenza, sia in prospettiva attraverso riforme che riducano l’ingresso delle persone in carcere. La conferma di un indirizzo tra virgolette edilizio, è il segno che poi non si pensa di perseguire altre strade che per noi andrebbero preferite. Vorrei anche sottolineare che questa scelta è la sconfitta della propaganda del Piano Carceri approvato nel 2010 che prevedeva la costruzione di 9 mila posti letto contro i necessari 22 mila posti: nel momento in cui si calca la mano sul project financing, e quindi sugli investimenti dei privati, si ammette che la soluzione edilizia non la può perseguire lo Stato perché non ha i soldi per farlo”. Giustizia: Severino; decreto-carceri efficace, ma su misure alternative serve disegno di legge Agi, 2 febbraio 2012 Con lo strumento del decreto legge “si decreta su materie di assoluta urgenza e ineludibilità e pensare che questo sia un provvedimento risolutivo sarebbe irrisorio”. Così il Guardasigilli, Paola Severino, ha risposto nella sua replica in Commissione Giustizia della Camera. Ciò che va fatto “con più calma è un disegno di legge sulle misure alternative, sulle cause che possono incidere a monte sul fenomeno” del sovraffollamento. Un ddl “che potremo - ha aggiunto - discutere con assoluta celerità”, in un percorso “accelerato, se ritenete di darlo” al Governo. Quanto all’amnistia: “è provvedimento parlamentare, sul quale, se si troverà una maggioranza, il Governo prenderà atto”, ha aggiunto. Primi dati dimostrano efficacia del decreto-carceri Dall’entrata in vigore del decreto sul sovraffollamento delle carceri ci sono alcuni primi dati “che sembrerebbero dare conto e ragione della sua efficacia”. Lo ha sottolineato in commissione giustizia, alla Camera, il Guardasigilli, Paola Severino. Il ministro, che ha rivelato il suo ‘blitz’ non annunciato nel carcere di Catania, con una visita a sorpresa il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte d’appello, si riferisce proprio a quanto appreso nella città siciliana: “i primi dati dicono che la magistratura è pronta a recepire” il contenuto del provvedimento. “Nel carcere di Piazza Lanza, dove ho trovato una direttrice straordinaria ed una polizia penitenziaria straordinaria, da quando il dl è entrato in vigore non hanno più avuto casi di carcerazione da porte girevoli calcolato sui 5 giorni. È un dato che mi ha piacevolmente sorpreso”, ha osservato mettendo l’accento sull’effetto deflattivo “significativo”. Chiusura Opg: data prevista nel decreto è ragionevole La data indicata nel decreto sulle carceri per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, il 31 marzo 2013, è una “data ragionevole”. Lo ha assicurato il ministro della Giustizia, Paola Severino, in Commissione alla Camera, replicando alle obiezioni sui tempi troppo stretti. Il guardasigilli ha ribadito l’impegno del governo a “sollecitare le Regioni a prendersi carico di questo problema”, dato che gli internati negli Opg passeranno alle strutture sanitarie regionali, e ha ricordato che “alcune già lo fanno in maniera apprezzabile” e che “si estenderanno i modelli virtuosi”. Su questa questione, comunque, non ci sono state “fughe in avanti” e si è preso a riferimento un provvedimento che “era già stato condiviso da tutti i gruppi politici” a seguito del lavoro della commissione preposta. Giustizia: rivoluzione al Dap; Ionta se ne va, arrivano Tamburino e Pagano di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2012 Rivoluzione ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: l’attuale capo Franco Ionta lascia il posto a Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma già transitato al Dap nel 1999 come direttore dell’Ufficio studi e ricerche, e ad affiancarlo ci sarà uno degli uomini più esperti del pianeta carcere, l’attuale Provveditore di Milano Luigi Pagano, “padre” del carcere modello di Bollate. Le due nuove nomine potrebbero essere ufficializzate già venerdì dal Consiglio dei ministri. Il ministro della Giustizia Paola Severino lancia così un segnale chiaro sulla volontà di riportare le carceri agli standard previsti dalla Costituzione. Tamburino sostituisce Franco Ionta, ex capo del pool antiterrorismo della Procura di Roma giunto alla guida del Dap nel 2008 con l’ex guardasigilli Angelino Alfano e nominato dal governo Berlusconi, nel 2010, commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Incarico che la Severino, un mese fa, ha attribuito al vice prefetto di Catania Angelo Sinesio, nominato prefetto per l’occasione. Tamburino, 69 anni, è entrato in magistratura nel 1970 e in quegli anni è stato giudice istruttore a Padova dove ha seguito le inchieste sull’eversione neofascista e sulle deviazioni dei servizi segreti. Negli anni 80 è stato al Csm nel gruppo di Unità per la Costituzione e poi vicepresidente dell’Anm e nell’88 fu tra i fondatori dei Movimento per la Giustizia insieme a Giovanni Falcone. Dopo l’esperienza al Dap fino al 2005, è stato presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia e di Roma, oltre che coordinatore dei giudici di sorveglianza. I sindacati di polizia Osapp e Sappe hanno espresso “perplessità” sulla nomina. Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore, guida da anni il Provveditorato della Lombardia e suo è il “progetto Bollate”, il carcere alle porte di Milano considerato un “modello”. Giustizia: Ionta lascia il Dap, arriva Tamburino; i Sindacati contestano l’avvicendamento La Repubblica, 2 febbraio 2012 Blitz del Guardasigilli Severino sulle carceri. Via l’attuale direttore Franco Ionta. Al suo posto Giovanni Tamburino. Magistrato famoso per la sua attività di giudice istruttore a Padova - sua l’inchiesta sulla Rosa dei Venti che portò alla richiesta d’arresto per il capo del Sid Vito Miceli - , oggi è al vertice del tribunale di sorveglianza per il Lazio. A dare il via libera sarà domani il consiglio dei ministri. Una nomina decisa in un pomeriggio. Martedì il ministro della Giustizia Paola Severino chiama nel suo ufficio Tamburino. Che arriva da piazza Adriana dove, nel palazzetto che ospita anche il tribunale dei ministri, c’è il suo ufficio. Sedici magistrati sulla carta, 13 effettivi, che si occupano delle carceri di tutta la Regione, dei 41bis di tutta Italia, e di tutti i pentiti. Lei gli propone la direzione del Dipartimento delle carceri, una delle poltrone di maggior potere, ma anche più difficili del dicastero. Tamburino, che fino a quel momento non aveva avuto alcuna indiscrezione su una simile proposta, ovviamente la accetta. Confesserà ai suoi amici di essere rimasto favorevolmente sorpreso da una scelta che, per le modalità in cui è avvenuta, premia solo il suo lavoro. Ma i sindacati, Sappe e Uilpa, la contestano. Il primo dice che “non servono teorici del diritto”, il secondo chiede “continuità” in luogo “di uno spoil system indiscriminato”. Tamburino, 69 anni, in magistratura dal 1970, è tra i fondatori del Movimento per la giustizia, la corrente che in quegli anni, siamo nell’88-89, vide l’impegno intenso di Giovanni Falcone. Al Dap Tamburino ha già trascorso sei anni della sua vita, dal ‘99 al 2005, come direttore dell’ufficio studi e ricerche. Adesso ci arriva come direttore e prende il posto di Ionta, ex procuratore aggiunto a Roma, titolare per anni d’inchieste sul terrorismo, scelto per il vertice da Angelino Alfano. Una direzione in cui esplode il sovraffollamento con la cifra record di quasi 69mila detenuti. E su Ionta, come riferisce l’Espresso da domani in edicola, incomberebbe anche una ristrutturazione da 500 mila euro per la casa in via Giulia di pertinenza del direttore. I lavori, cominciati dopo il suo arrivo al vertice del Dap, sarebbero lievitati senza badare a spese. Ionta, comunque, non ci è mai andato ad abitare. Buone notizie sul carcere, di Liana Milella (Repubblica) La decisione del Guardasigilli Severino di nominare al vertice delle carceri un magistrato come Giovanni Tamburino è una buona notizia. Del tutto ingiustificato il giudizio negativo dei sindacati penitenziari, sia il Sappe (“Non ci servono tecnici del diritto”), sia la Uilpa (“Basta con lo spoil system”). Per le carceri è perfetta invece una figura professionale come quella di Tamburino che mescola rigore istituzionale, giusto mix ideologico di chi vuole affrontare il dramma della detenzione tra necessità di pene severe ma messe in pratica con l’altrettanto necessario garantismo, conoscenza della macchina del Dap. In questi anni, prima nello stesso Dap come responsabile dell’ufficio studi e ricerche, poi come presidente, prima a Venezia ed poi a Roma, dei rispettivi tribunali di sorveglianza, Tamburino ha vissuto ogni giorno le contraddizioni tra una legislazione panpenalistica, che non offre spiragli sufficienti sulle pene alternative, e il continuo e ossessivo precipitare nell’approvazione di nuovi reati come inutile antidoto alle paure della gente. In tempi di messaggi ambigui sull’amnistia, nessuno meglio di Tamburino può accollarsi sulle spalle il peso di 69mila detenuti sempre sul piede della rivolta. Uil-Pa: cambio a vertice Dap non è bella notizia (Adnkronos) L’imminente cambio al vertice del Dap “non è certo una bella notizia, almeno per chi davvero ha a cuore le sorti di questa amministrazione sempre più sgarrupata”. Così Eugenio Sarno, segretario della Uil Penitenziari, commenta l’imminente avvicendamento alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove Giovanni Tamburino sostituirà Franco Ionta. “Non è una questione di nomi”, chiarisce Sarno, “il problema vero è quello che l’Amministrazione non può reggere il peso di uno spoil system indiscriminato. Dopo l’era dell’indimenticato ed emerito Capo Dap che rispondeva al nome di Nicolò Amato, abbiamo perso il conto di quanti Capi siano transitati per Largo Luigi Daga (ex Via Silvestri) in poco più di 18 anni. In questo tourbillon di nomine e avvicendamenti - sottolinea - è oggettivamente impossibile per chiunque metter su un progetto di respiro che possa rappresentare un orizzonte credibile di organizzazione e soluzione”. “Purtroppo - aggiunge - al di là delle parole e degli impegni solenni, la politica si distingue più per creare problemi al sistema penitenziario che per risolverne. Il cambio al vertice della Amministrazione Penitenziaria è cosa complessa e dai tempi lunghi. “Non ce ne voglia il ministro Severino, che ha esercitato con legittimità un propria prerogativa. Noi pensiamo che avrebbe potuto, comunque, operare da tecnico. Come? Garantendo continuità nel segno della competenza e della conoscenza”, conclude Sarno. Osapp: nomina Tamburino sia rivolta a miglioramenti concreti (Adnkronos “Non desta in noi alcuna soddisfazione l’apprendere dell’imminente sostituzione quale capo del Dap di Franco Ionta, dopo averne conosciuto ed apprezzato le qualità, nonché la profonda ispirazione con cui è riuscito a guidare, in questi 3 anni, una pubblica amministrazione dall’arduo e discusso destino quale quella penitenziaria”. Così l’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp) commenta, in una nota, la notizia dei prossimi avvicendamenti ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. “Ciò nonostante - sostiene il segretario generale Osapp Leo Beneduci - se la scelta del Guardasigilli Severino per Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, è avvenuta nell’intento di restituire dignità alle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane a partire dall’utenza penitenziaria, anche mediante un diverso e più adeguato modello di detenzione, per giungere alla riorganizzazione e alla riqualificazione nel ruolo e delle funzioni della polizia penitenziaria, non possiamo che rassicurare la responsabile del Dicastero della Giustizia sulla nostra rinnovata volontà di collaborare attivamente a tale processo”. “Stante il crescente disagio dei poliziotti penitenziari che operano in carcere e il divario mai colmato che separa la polizia penitenziaria dalle altre omologhe forze di polizia - conclude Beneduci - auspichiamo, quindi, che il ministro provveda ad una celere convocazione dei sindacati del corpo, dopo il fugace incontro pre-natalizio, non già per discutere l’opportunità di scelte che poco possono attenere la competenza sindacale bensì per ricostruire e rendere attuabili progetti ed iniziative non più differibili nell’interesse di chi nel carcere opera da sempre con il massimo sacrificio e nel rispetto della legalità”. Giustizia: continuano le polemiche sul nuovo contratto per i “braccialetti elettronici” Italpress, 2 febbraio 2012 “Ho chiesto con un’interrogazione a risposta urgente ai ministri dell’Interno e della Giustizia quali siano le reali motivazioni che hanno indotto il ministro Annamaria Cancellieri a firmare un nuovo contratto con Telecom, nonostante i costi elevatissimi, per uno strumento di controllo dei detenuti fino ad oggi dimostratosi inefficace e quali siano i termini e le condizioni del contratto stipulato dal ministero dell’Interno con Telecom relativamente alla fornitura dei braccialetti elettronici”. Lo afferma il capogruppo della Lega Nord in commissione Giustizia alla Camera, Nicola Molteni. “Nell’interrogazione si richiede inoltre se il ministro della Giustizia non ritenga utile esigere un maggior coinvolgimento nelle scelte governative in cui sono determinanti le proprie valutazioni e se i ministri non reputino opportuno sospendere per eccessiva onerosità l’utilizzo dei braccialetti elettronici - prosegue -, in attesa che sia svolta un’approfondita valutazione sulla loro potenziale efficacia e con costi infinitamente più contenuti. In un momento di crisi, in cui è necessario tagliare i costi dello Stato, questo ci sembra uno sperpero inutile di denaro pubblico”. Consap: individuare responsabilità convenzione braccialetti “Bisogna spiegare alla gente e ai poliziotti perché sono stati spesi soldi pubblici per un dispositivo che il vice capo della Polizia prefetto Francesco Cirillo appena qualche settimana fa ha bocciato senza mezzi termini: sia sul piano dell’utilizzazione appena funzionanti, sia su quello dell’economicità, con la frase “se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno”. Un concetto espresso non ai suoi vicini di casa, ma in audizione parlamentare, parole che tra l’altro scatenarono una polemica fra i dicasteri dell’Interno e della Giustizia. Lo chiede il sindacato di polizia Consap in una nota. La Consap ritiene che “le parole del vice capo della Polizia, avrebbero dovuto immediatamente imporre una rivisitazione della convenzione, anche a fronte della situazione di gravi difficoltà economiche sul piano della sicurezza nazionale”. Il segretario generale Consap, Giorgio Innocenzi, snocciola le troppe criticità: “contratti bloccati, avanzamenti di carriera non retribuiti, straordinari non pagati, indennità non percepite, officine che mettono in mora le questure per riparazioni e manutenzione dei mezzi non pagate, sindacati che scendono in piazza perché manca la benzina”. Giustizia: il sistema penitenziario, tra speculazione finanziaria e gestione penale della crisi dall’Associazione “Zone del silenzio” di Pisa www.pane-rose.it, 2 febbraio 2012 Affrontare il tema delle morti in carcere e dei continui episodi di violenza nelle istituzioni totali italiane non significa limitarsi alla pur sacrosanta denuncia degli aspetti cosiddetti fenomenici del problema, le vite distrutte e spezzate per il solo fatto di essersi trovate nelle mani di forze la cui impunità autorizza a violare diritti umani e civili, a violare i codici a distruggere le più elementari norme del diritto. Dalla approvazione della Legge Reale ad oggi sono migliaia gli uomini e le donne vittime del sistema repressivo, sono decine solo negli ultimi anni le vittime di violenza nelle caserme e nelle carceri, esiste a tal riguardo una documentazione vasta e attendibile fatta non solo di testimonianze ma di atti giudiziari che hanno riempito migliaia di pagine. Non mancano infine le testimonianze video rintracciabili sulla rete a documentare una lunga sequela di abusi che solo in minima parte sono stati oggetto di inchiesta da parte della Magistratura. Se 30 anni fa era prioritario avviare un lavoro di informazione o di controinformazione, oggi è invece opportuno ricostruire una seria riflessione sulla critica del sistema penitenziario e punitivo nel suo insieme e fin dalle sue origini, valorizzando quei frammenti di memoria critica spesso dispersi o sovrastati dal securitarismo che ormai pervade ogni ambito della politica. Non si tratta solo di affermare una critica antagonista al sistema capitalistico e alle sue istituzioni totali, è invece utile individuare passo dopo passo, tutti quegli aspetti che legano politiche sulla sicurezza, repressione e controllo sociale alle dinamiche proprie del sistema economico e politico nel quale viviamo, alla sua crisi irrisolvibile ed ai compiti affidati agli apparati repressivi, atti al controllo ed al condizionamento sociale, o di tipo controrivoluzionario, apparati che mutano strategie e pratiche a seconda dei contesti storici e politici. Non è certo un mistero come diversi aspetti di natura normativa, vedi l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, le norme sulla recidiva, le leggi sulla immigrazione e sul consumo di sostanze psicotrope, le leggi sui reati associativi ecc. investano tutti i differenti piani del corpo sociale con l’intento di indirizzare il conflitto, la marginalità, isolando ogni prospettiva politica nel contesto repressivo, imponendo il ricatto della collaborazione in luogo delle misure alternative in teoria alla base della applicazione dei criteri costituzionali della pena. In questo quadro, proprio nel pieno di una crisi in larga parte prodotta dai settori speculativi e finanziari oggi al governo, nella continua corsa al risparmio, non poteva mancare l’ennesima sortita da giocoliere di chi, sulla pelle di decine di migliaia di proletari prigionieri, barcamenandosi tra consorterie ed affari al limite della stessa legalità, tenta di governare il sistema penitenziario italiano. In linea con i nuovi indirizzi di liberalizzazione, già utilizzati a suo tempo nella Inghilterra della Thatcher, il governo Monti non ha pensato a varare una Amnistia, o a modificare le leggi vergogna che riempiono il carcere di immigrati, di uomini e donne che sono ai margini della società e costituiscono una parte della attuale forza lavoro in esubero. Il Governo Monti sta continuando il lavoro intrapreso dal governo Berlusconi con il piano carceri, si differenzia su pochi e insignificanti punti, per esempio portare da 12 a 18 mesi i mesi di fine pena da trascorrere ai domiciliari (per piccoli reati) così ridurre la spesa pubblica, ma questo non vale per una vasta categoria di reati esclusi totalmente da questa possibilità. Nell’ottica della liberalizzazione e di una presunta razionalizzazione verrà dato in pasto ai capitali privati l’ambito boccone del settore penitenziario, sulla falsariga di quanto già fatto sul piano della protezione civile, magari aggirando anche quelle normative che dovrebbero rappresentare la base di ogni legalità. Già i precedenti governi avevano subodorato l’affare, sotto forma di appalti sottratti a ogni gara o verifica, ma il governo Monti , forte del consenso bipartisan, pare avere una marcia in più e così arriva una iniziativa che potrebbe in breve tempo portare il nostro sistema penale in una situazione simile a quanto avviene negli Stati Uniti d’America, dove le prigioni private, e lo sfruttamento della manodopera prigioniera, sono una realtà. Nel silenzio generale è infatti passato l’articolo 44 del decreto liberalizzazioni del Governo Monti in tema di carceri, articolo con cui si individua nei soggetti privati, i titolari alla costruzione ed alla gestione delle carceri. Il progetto, chiamato “project financing”, ossia (per utilizzare l’espressione impiegata dal legislatore) “la realizzazione di opere pubbliche senza oneri finanziari per la pubblica amministrazione”, è un modello per il finanziamento e la realizzazione di opere pubbliche. Ma tra tutte le opere pubbliche di cui il nostro paese ha bisogno (scuole, ospedali, centri di riabilitazione, aree verdi attrezzate) perché i privati sono tanto interessati alle carceri? E il Governo Monti e il ministro Severino non si erano presentati come i fautori di una diversa politica in tema di detenzione rispetto al Governo Berlusconi? solo parole, visto che il decreto sulle liberalizzazioni è in piena sintonia con il piano carceri voluto dalla destra. Torniamo per un attimo al project financing, gli aspetti qualificanti sul piano economico sono: a) la finanziabilità del progetto, ossia la produzione di un flusso di cassa (cash flow). sufficiente a coprire i costi operativi, remunerare i finanziatori assicurando un certo margine di profitto. b) la concentrazione del finanziamento in un autonomo centro di riferimento giuridico e finanziario (Special Purpose Vehicle, una sorta di società di progetto), a cui affidare i mezzi finanziari e la realizzazione del progetto stesso. c) la costituzione a favore dei finanziatori esterni dell’iniziativa di “garanzie indirette”, attraverso una ampia gamma di accordi tra le parti interessate limitando ai minimi termini la possibilità di rivalsa dei finanziatori e degli altri creditori (appaltatori dei lavori, fornitori ecc.) nei confronti degli sponsor. L’articolo prima menzionato del decreto recita: “Al fine di assicurare il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento, al concessionario è riconosciuta, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell’infrastruttura e per i servizi connessi, ad esclusione della custodia”. La gestione carceraria, eccezion fatta per le guardie, sarà quindi affidata a imprenditori privati che nelle carceri intravedono un affare lucroso. Ed è da considerare dunque che ogni figura non prettamente di polizia sarà di formazione privata, così la gestione amministrativa, il che in un carcere significa gestire quasi tutto. “Il concessionario nella propria offerta deve prevedere che le fondazioni di origine bancaria contribuiscano alla realizzazione delle infrastrutture di cui al comma 1, con il finanziamento di almeno il 20 per cento del costo di investimento”. In pratica, l’intera operazione assicura alle banche l’ingresso nell’affare, e questo servizio o sarà pagato con denaro pubblico o si costringeranno i detenuti a lavorare a prezzi stracciati attrezzando gli istituti di pena per piccole lavorazioni oggi offerte a pochi euro l’ora da paesi del Sud Est asiatico o del nord Africa (o paesi dell’Est europeo). Insomma invece di delocalizzare produzione, in futuro potrebbero esserci i detenuti a lavorare a costi ancora più ridotti. Sul punto non vi sono certezze, ma l’esempio amerikano è certo ben presente agli attuali legislatori. In America del Nord vi sono percentuali più alte di detenzione per abitante, percentuali che costituiscono un record mondiale di prigionia; i detenuti, in molti penitenziari, sono lavoratori salariati pagati appena ventitré centesimi di dollaro l’ora, spesso impiegati in attività connesse a produzioni di tipo militare e strategico, con quel complesso militare-industriale e bancario che ha un peso determinante nel condizionare le politiche e le scelte penitenziarie degli stati Nord Americani. Tra qualche anno, questa realtà potrebbe approdare pure nel nostro universo carcerario, costituendo una involuzione definitiva in favore di un business securitario inarrestabile capace di condizionare, così come avviene negli Stati Uniti, l’intero regime istituzionale. Certo non mancheranno le controtendenze, sia nel corpo della popolazione detenuta, finora costretto al silenzio, sia nelle componenti corporative di un universo nel quale sopravvivono abitudini e codici non scritti antichissimi, uno degli ambiti meno aperti a qualsiasi cambiamento, ma è altrettanto certo che l’ingresso dei capitali e degli investimenti finanziari prima nel settore sicurezza, difesa, ora nel campo penitenziario, costituisce una delle principali novità di questi anni. Il piano di edilizia penitenziaria prevede due tipi di intervento: - la realizzazione di padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti; - la realizzazione di nuovi istituti penitenziari. L’ordinanza (n. 3861 del 2010) di nomina del Commissario delegato per il Piano carceri è stato l’atto conclusivo di un procedimento legislativo articolato, avviato dalla “Disposizione in materia di infrastrutture carcerarie” contenuta dal Decreto Legge 30 dicembre 2008 n. 207 (convertito con modificazioni nella legge 27 febbraio 2009 n. 14). In particolare, l’articolo 44 bis del Decreto Legge prevede “norme straordinarie per la velocizzazione delle procedure esecutive di progetti facenti parte del quadro strategico nazionale”, dando facoltà al Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare (anche di concerto con gli altri Ministri interessati) decreti ad hoc volti a fronteggiare “particolari ragioni di urgenza connesse con la contingente situazione economico finanziaria del Paese ed al fine di sostenere e assistere la spesa per investimenti. Sulla legittimità giuridica di questa operazione abbiamo già scritto, sospettando che negli intenti del Governo ci fosse una gestione della operazione sul modello protezione civile spa, aggirando regole e leggi in materia di appalti il piano si concluderà (salvo ripensamenti) nel dicembre 2012 con la costruzione di nuovi carceri (11) e nuovi padiglioni. In Italia, la popolazione carceraria è composta in larga maggioranza da detenuti per reati collegati al consumo di sostanze e a violazioni delle norme in materia di immigrazione, mentre cresce il numero di chi va dentro per piccoli furti causati dalla miseria crescente di larghi strati della popolazione. In questo quadro sociale la priorità del Governo non è quella di rimuovere le leggi vergogna (la Bossi-Fini, la Cirielli, la Fini-Giovanardi, la modifica dell’art.4 bis dell’ordinamento penitenziario ecc.), ma semplicemente razionalizzare il settore per darlo in pasto al capitale privato, utilizzare insomma gli scarti sociali della crisi per produrre nuovi profitti sulla pelle di questi stessi scarti, tali sono per costoro quelle categorie sociali spinte ai margini dalla crisi economica. Nel frattempo, il Parlamento sta approvando il decreto cosiddetto “svuota carceri” (per abbattere la spesa pubblica) che prevede la possibilità di trascorrere ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di pena (e non 12 come avviene oggi) per piccolissimi reati, ma le eccezioni sono tali da restringere di molto la sua applicazione. Questo decreto prevede anche la istituzione di celle carcerarie nelle caserme di P.S., C.C. e Finanza dove rinchiudere per brevi periodi persone non destinate a lunghe pene detentive, si tratterà di brevi “soggiorni” per lo più lontani dagli occhi di avvocati, volontari, personale civile non autorizzato ad entrare dentro caserme e strutture in teoria non di tipo detentivo. Saranno le caserme i luoghi ideali dove potranno consumarsi gli “eccessi” spesso all’origine di violenze, soprusi e anche morte delle persone ivi ristrette. Ironia della sorte questo decreto cosiddetto svuota carceri, prevede in realtà l’aumento del ricorso alla detenzione, anche se per brevi periodi; un decreto che corre parallelamente alla privatizzazione delle carceri e alla americanizzazione di un modello detentivo e repressivo di cui non sentiamo alcun bisogno e che è, in tutta evidenza, direttamente connesso alle gestione penale e repressiva della crisi del sistema. Giustizia: i detenuti stranieri… integrazione o emarginazione? di Simona Carandente www.ilmediano.it, 2 febbraio 2012 Lungi dal potersi considerare come luogo di mero stallo di soggetti avulsi dal mondo reale, in attesa di riconciliarsi con quello che c’è all’esterno delle porte di reclusione, il carcere si conferma ancora una volta quale vero e proprio laboratorio antropologico di una vasta serie di fenomeni, alcuni dei quali vere e proprie cartine di tornasole della società civile. In particolare, negli ultimi tempi si è assistito ad un massiccio incremento della popolazione penitenziaria ad opera di soggetti stranieri, sia clandestini che non, che allo stato attuale ammontano a ben venticinquemila unità, equamente divisi tra giudicabili e definitivi. Se pertanto consideriamo che una grossa fetta della popolazione carceraria è composta da stranieri, è facile intuire come tale dato influisca sia sul corretto trattamento penitenziario che sull’efficacia dell’attività di recupero, che come è noto rappresenta il fine primario della pena concretamente inflitta. Questo esercito eterogeneo dà vita ad una vera e propria torre di Babele: si tratta, difatti, di soggetti che hanno difficoltà a comprendere la nostra lingua, che esercitano un proprio credo religioso, che richiedono anche la preparazione di cibi diversi, a causa di usi e costumi lontani dai nostri. A parte i comprensibili problemi di adattamento, sia dei detenuti tra loro che nei confronti delle regole carcerarie, non si può trascurare il dato che vede molti di essi finire in cella senza alcun documento identificativo, con conseguenti problemi sia sul piano trattamentale che in relazione all’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, quali la semilibertà o l’affidamento in prova al servizio sociale, destinate quasi sempre ad essere dichiarate inammissibili. Per cercare di contenere le difficoltà conseguenti all’integrazione ed al multiculturalismo, varie sono le misure adottate dalla case circondariali italiane: ad esempio nel circondario di Brescia, ove la presenza di detenuti stranieri è più che mai massiccia, si punta sulla formazione del personale penitenziario, avviando anche corsi sul multiculturalismo, diviso sia in moduli giuridici che pratici. In altre case circondariali, invece, quali quella di Sollicciano, al primo ingresso in istituto viene consegnata al detenuto una guida ai diritti e doveri, redatta in varie lingue, dove sono indicate non solo le regole da seguire all’interno del carcere, ma anche la normativa di diritto interno e processuale. Quello dell’integrazione con la popolazione restante, tuttavia, rimane il vero problema: nella maggior parte dei casi, senza documenti né un alloggio degno di questo nome, agli stranieri non resterà che tornare a delinquere una volta rimessi a libertà, registrandosi in tali casi un rischio di recidive che raggiunge addirittura il 70%. Giustizia: processo Cucchi; procura chiede conferma condanna per falso funzionario Prap Adnkronos, 2 febbraio 2012 La conferma della condanna per falso e favoreggiamento e l’assoluzione per l’imputazione di abuso di ufficio è stata chiesta oggi in Corte d’Appello a Roma per Claudio Marchiandi funzionario del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Coinvolto nell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi avvenuta nell’ottobre del 2009 Marchiandi scelse di essere processato con rito abbreviato e fu condannato a 2 anni. Oggi il procuratore generale ha chiesto alla Corte d’Appello di confermare la condanna anche se con una leggera diminuzione avendo escluso il reato di abuso d’ufficio. La sentenza sarà pronunciata il 30 aprile prossimo. L’accusa contestata era quella di avere concorso alla falsa rappresentazione delle condizioni di salute di Stefano Cucchi e farlo così ricoverare nella sezione speciale dell’ospedale Sandro Pertini. L’accusa che gli è mossa era quella di avere redatto personalmente in ospedale la richiesta di disponibilità di un posto letto e di aver aiutato gli agenti della polizia penitenziaria ad eludere le indagini. Il processo per la morte di Cucchi è ancora in corso davanti alla terza Corte d’Assise dove sono imputate 12 persone. Si tratta in particolare di 6 medici, di 3 infermieri e di 3 agenti della polizia penitenziaria. Lettere: il ruolo degli operatori penitenziari, ascolto e comprensione di Antonella Speciale* Notizie Radicali, 2 febbraio 2012 Giorni fa, leggendo la testimonianza di una persona ristretta, sono giunta ad una riflessione sul ruolo di noi operatori sociali e penitenziari all’interno del mondo-carcere, e con operatori intendo tutte le figure professionali che intervengono nel percorso di assistenza e rieducazione della popolazione carceraria. Includo dunque psicologi e psichiatri, educatori ed insegnanti, assistenti sociali e volontari e, in maniera più problematica (dato l’aspetto coercitivo della professione), anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Ebbene, qual è il nostro dovere essenziale nei confronti della sofferenza che incontriamo quotidianamente sul luogo di lavoro, dentro quelle pareti invalicabili per chi vi è detenuto? Al di là dei singoli ambiti professionali, credo che l’imperativo fondamentale sia quello dell’ascolto e della comprensione, della necessaria empatia con gli innumerevoli stati d’animo che assediano la vita carceraria. Comprendere significa già molto in ambienti come le carceri, ed è a mio avviso il primo (grande) passo da compiere per innescare poi quel processo di “diffusione del sapere” verso il mondo fuori, spesso ignaro o noncurante. Riporto fedelmente le parole di Giuseppe, per offrire ai lettori un senso concreto di realtà carceraria: “Mettersi a contatto con persone recluse nelle carceri, o internate negli ospedali psichiatrici giudiziari, vuol dire mettersi in contatto con un mondo di sofferenza, solitudine e umiliazione che non deve essere ignorato così come non deve essere dimenticato chi chiede ascolto come me”. Restiamo in ascolto, dunque, e tentiamo di capire gli stati d’animo, cerchiamo di sondare la sofferenza di queste vite sospese traducendola in immagini concrete e reali: “dolori e sofferenze... quando penso che gli anni più belli della mia vita li sto passando rinchiuso dentro quattro mura con una porta blindata e una finestra sbarrata, mi rendo conto che la mia vita più passa il tempo e più si appanna, sempre rinchiusi non si può stare, dentro una stanza la tua tristezza è sempre pronta ad accarezzarti e l’aria non ha prezzo, sotto questo tetto sporco e amaro puoi guardare solo il passato, dentro ‘sti sogni combatto la notte, e sto appiccicato alla finestra e guardo il cielo che sta piangendo e pian piano sta bagnando questi vecchi muri dell’Istituto, ma chi sta fuori non lo sa sentire, chi tiene le chiavi di questi cancelli non è dentro a sbattere contro questa finestra, no, non si può stare, no, in questo inferno”. Cosa dire, cosa fare, come confortare una persona di fronte a tale testimonianza? Me lo chiedo ogni giorno, limitandomi spesso ad un sorriso, ad una stretta di mano, e tornando a casa con la sensazione di non aver fatto abbastanza. Tentare di immedesimarsi in quella persona, sospendere ogni giudizio e ascoltare la sua storia: “Quando si riesce ad ascoltare tutto questo senza giudicare, senza pregiudizi o falsi moralismi cercando soltanto di capire, di scoprire l’umanità di ognuno, allora il dialogo si apre e si illumina come una finestra verso la luce”, e ancora: “È triste e frustrante aver sbagliato perché prima o poi si mette in discussione se stessi, si dubita delle proprie capacità di recupero e di reinserimento, e ci si convince di essere incapaci di poter cambiare vita, e allora viene meno la speranza di vivere accettati come persone degne di stima, rimanendo marchiati per sempre, e si perde la forza di vivere; tutto questo si sente dai nostri racconti di vita, dalla solitudine affettiva, dalla paura di perdere gli affetti lasciati fuori dalle mura, dalla disperazione repressa del sentirsi inutile senza un lavoro che ti aiuta a sentirti vivo, dalla rabbia e dall’impotenza davanti alle mille ingiustizie della vita carceraria”. Restare in ascolto, dunque, e trasmettere le grida soffocate di chi non ha più nemmeno la libertà di parola tentando un’opera di sensibilizzazione, sollevare questioni spinose e scomode per tutti: sembra poco, è vero, ma si sa, gutta cavat lapidem. *Antonella Speciale è presidente dell’Associazione Psyke onlus e opera all’interno degli Istituti penitenziari di Catania e provincia, svolgendo laboratori di scrittura autobiografica e creativa. Brescia: archiviato caso della morte Saydou Gadiaga nella cella di sicurezza della caserma quibrescia.it, 2 febbraio 2012 Archiviato. Scende il sipario sulla vicenda della morte di Saydou Gadiaga, il 37enne senegalese morto per una crisi d’asma mentre si trovava nella cella di sicurezza della caserma Masotti di piazza Tebaldo Brusato a Brescia dove era detenuto perché fermato dai carabinieri durante un controllo e risultato privo del permesso di soggiorno. Il Gip di Brescia Cesare Buonamartini ha chiuso il caso, decretando che non siano ravvisabili condotte erronee da parte dei carabinieri durante quella tragica serata in cui l’immigrato, da molti anni nel nostro Paese, ma che al momento risultava senza lavoro, perse la vita dopo una grave crisi respiratoria. L’associazione Diritti per tutti, sostenendo la famiglia dell’uomo, aveva fatto ricorso contro la cancellazione dell’inchiesta per la morte dello straniero, e diverse sono state le manifestazioni a sostegno di Gadiaga, conosciuto dagli amici come El Haji, affinché, come aveva dichiarato il presidente dell’associazione antirazzista Umberto Gobbi, il fascicolo sulla morte di Saydou non venisse “seppellito in un armadio”. Per l’associazione sarebbero diversi i “punti oscuri” sulla morte dell’immigrato, la cui agonia è stata ripresa dalle immagini interne di videosorveglianza della caserma Masotti. “Diritti per tutti” e la famiglia del senegalese aveva fatto leva, nel ricorso presentato contro l’archiviazione, la testimonianza di un cittadino bielorusso, detenuto in una cella accanto a quella di Saidou, che avrebbe sentito il senegalese lamentarsi e chiedere aiuto per almeno una quindicina di minuti prima di morire. Testimonianza che però il pm Piantoni, titolare del fascicolo aveva ritenuto “imprecisa”. Altri dubbi riguardavano poi gli orari riferiti dai carabinieri sui soccorsi all’uomo colto da malore, ma per il pm che ha condotto le indagini militari hanno agito in buonafede. Mantova: direttore dell’Opg; chiudere è errore, meglio trasformarli in strutture sanitarie Gazzetta di Mantova, 2 febbraio 2012 Operativo, dopo il sì dei due rami del Parlamento, l’emendamento al disegno di legge del governo sulle carceri (il cosiddetto svuota-carceri) che stabilisce la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo dell’anno prossimo. Oggi gli ospiti dei 6 Opg italiani sono oltre 1.400: secondo le nuove norme, il 40%, non più socialmente pericoloso, uscirà e sarà assegnato ai dipartimenti di salute mentale gestiti dalle Asl, mentre il 60% sarà ristretto in nuove strutture sanitarie vigilate. La notizia ha riacceso il dibattito sulle condizioni di vita delle sei strutture italiane; compresa quella di Ghisiola di Castiglione delle Stiviere, considerata da tempo un’isola felice gestita dall’Azienda sanitaria “Carlo Poma” di Mantova grazie a una convenzione col ministero della Giustizia. “Castiglione ospita circa 320 persone, 232 uomini e 88 donne (quest’ultime nell’unica sezione femminile d’Italia), seguiti da 13 medici e dal personale sociosanitario e ausiliario - ha spiegato il direttore Antonino Calogero. Nel nostro istituto non ci sono mai stati agenti di polizia penitenziaria, ma solo personale medico e paramedico”. Oltre 13 milioni di euro all’anno le risorse investite nella struttura che gode di condizioni d’eccellenza. “La contenzione fisica è limitata al 10% degli ospiti - ha spiegato il direttore della struttura, mentre il numero delle dimissioni è il più alto in assoluto, con 130 pazienti all’anno e quindi un turn over elevato”. Poi c’è il capitolo riabilitativo: “Oltre alle attività in reparto ci sono quelle in palestra, nel bocciodromo e nei campi di tennis e pallavolo - ha spiegato il dottor Calogero -; mentre della formazione si occupano i corsi regionali dell’Enaip attivi dal 1994, articolati in cinque diversi laboratori”. E le polemiche sulla chiusura? Calogero sostiene che “gli altri Opg italiani hanno sicuramente bisogno di qualche modifica. Forse più che disporne la chiusura sarebbe stato più semplice fare come in Gran Bretagna o Germania, trasformando in sanitari veri gli altri Opg o potenziando i dipartimenti di salute mentale”. Lucca: volontari Casa San Francesco; casa e lavoro, queste priorità di chi esce dal carcere Il Tirreno, 2 febbraio 2012 Casa e lavoro: sono queste le due priorità di chi esce dal carcere. Lo sanno bene i volontari della Casa San Francesco, che ricevono ogni giorno fiumi di lettere dai detenuti di tutta Italia che chiedono ospitalità, il tentativo concreto di riprendere contatto con la vita quotidiana. Siamo in piazza San Francesco, dove ha sede, ancora per poco visto che il comune ha venduto il complesso di San Francesco all’Imt, la Casa e il Gruppo Volontari Carcere, nati negli anni 90 insieme alla cooperativa di lavoro e formazione “La Mongolfiera”, per dare un tetto e provare un reinserimento nel lavoro agli ex detenuti, persone ai domiciliari, in permessi premio e a coloro ammessi alle pene alternative. Ed è un impegno quotidiano fuori e dentro il carcere, con attività di ascolto, di intrattenimento e di supporto alle persone, che sta a significare come non tutto quello che riguarda il mondo carcerario sia perduto o, peggio, inutile. “Sul carcere si può fare molto, basterebbe applicare ciò che già esiste”. A dirlo è l’avvocato Silvana Giambastiani, dell’associazione Volontari Carcere, e si riferisce al protocollo d’intesa costituito nel 2008 tra Provincia, comuni del territorio provinciale e rappresentanze del carcere, dell’Asl, dell’associazionismo e del mondo del lavoro. “È di fondamentale importanza applicare questo strumento - continua - perché permette di mantenere un’attenzione costante sulla realtà carceraria, aprire questo microcosmo alla città e intessere relazioni proficue e produttive. Invece il tavolo sul carcere non è mai più stato convocato”. Al San Giorgio c’è un problema costante di vivibilità, di depressione, di una popolazione carceraria che per il 50 per cento registra problematiche psichiche; ed esiste anche un problema di ordinaria amministrazione. Mancano le scarpe, le maglie, i pantaloni: ci sono detenuti che con l’inizio della stagione invernale indossavano ancora le ciabatte, in calzini e infradito sotto la pioggia. “Per fortuna c’è don Beppe”, raccontano i volontari. È don Beppe Giordano, infatti, prete del carcere, ad assicurare da anni una raccolta quotidiana di indumenti, attraverso appelli ai cittadini e agli amici più stretti. “La paura della libertà - spiega Agnese Garibaldi, presidente dell’associazione - è una triste verità. Ci sono detenuti terrorizzati dall’idea di uscire; altri ancora dichiarano di preferire il carcere, nonostante tutto, alla vita fuori, perché non hanno una casa, non hanno soldi né un lavoro. Molte volte succede che a rientrare al San Giorgio siano sempre gli stessi che, una volta fuori, tornano a fare quello per cui sono finiti dentro”. “E questo - conclude Giambastiani - la dice lunga sul carattere non rieducativo del sistema carcerario italiano. Un carcere che è solo sicurezza è un fallimento, un’enorme spesa ed è un’aberrazione. È il sistema che è sbagliato, l’ha ribadito anche il ministro della Giustizia, Severino, rispetto al cosiddetto decreto svuota carceri”. Padova: semilibertà per Marino Occhipinti, lavora per la Cooperativa Giotto Corriere della Sera, 2 febbraio 2012 È iniziata domenica la semilibertà per Marino Occhipinti, uno dei sei componenti della banda della Uno bianca condannato all’ergastolo per l’assalto al furgone portavalori del 19 febbraio 1988 a Casalecchio (Bologna), costato la vita alla guardia giurata Carlo Beccari, e recluso nel carcere Due Palazzi di Padova dal 29 novembre 1994. Quattro giorni fa ha lasciato la cella che divideva nella sezione penale con altri due detenuti ed è stato trasferito nella palazzina dei semiliberi, perciò non potrà più avere contatti con gli altri carcerati. Lunedì ha cominciato a lavorare per la “Cooperativa Giotto” di Padova, per la quale prestava servizio dal 2001 ma da dietro le sbarre (dove collabora anche con il giornale dell’istituto “Ristretti Orizzonti”). “È assunto con contratto nazionale collettivo di lavoro e regolarmente retribuito - aveva detto Nicola Boscoletto, presidente della Giotto, lo scorso 9 gennaio, quando il presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, Giovanni Maria Pavarin, aveva accolto la richiesta di semilibertà presentata dall’avvocato Milena Micele. Ha iniziato confezionando manichini di cartapesta per l’alta moda, poi è passato al call center con mansioni di telemarketing, quindi al Cup di Usl 16 e Azienda ospedaliera (proprio in queste ore tornato ai detenuti, ndr) infine al centralino di alcune ditte. Nell’ultimo periodo ci ha aiutati a organizzare i turni di lavoro: è versatile e sempre pronto a rimettersi in gioco”. La Giotto, nata nel 1986 per curare la progettazione e la manutenzione dei parchi e dal 1991 attiva anche nel recupero dei detenuti e nei servizi ai disabili, alle 7.30 va a prendere con il pullmino Occhipinti al Due Palazzi, al quale l’ex poliziotto della sezione Narcotici della Squadra mobile di Bologna, oggi 47enne, torna alle 20, per cenare e dormire. Occhipinti, che prese parte a una rapina su un totale di 103, causa di 24 morti e 102 feriti, per poi dissociarsi, continua a sbrigare mansioni di segreteria. Se è riuscito ad ottenere la semilibertà è per “il comportamento irreprensibile” mantenuto sempre in carcere. “Oggi mio figlio è un’altra persona”, conferma la madre Graziella Baldi. Ma l’associazione dei parenti delle vittime della Uno bianca non è d’accordo: “Perdono? Mai. Occhipinti è stato zitto per sei anni sull’operato dei complici: se avesse parlato, tanti si sarebbero salvati. Doveva restare in cella”. Livorno: maltempo causa black-out sull’isola della Gorgona, penitenziario al buio Ansa, 2 febbraio 2012 Intorno alle 4 l’isola di Gorgona (Livorno), sede di un penitenziario, a causa del forte vento che vi ha imperversato per tutta la notte, è rimasta letteralmente isolata dal resto del continente. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Alcuni alberi, riferisce il Sappe, si sono abbattuti sui cavi della linea elettrica isolando così gli immobili e tutte le strutture detentive, e mettendo al buio il personale e gli stessi reclusi. “Le gravi condizioni restano ancora immutate - dice Francesco Falchi il vicesegretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria) della Toscana - e si ravvisa ancora una volta e con maggior impellenza la necessità di convocare un tavolo dove l’amministrazione chiarisca una volta per tutte le reali intenzioni in ordine al futuro dell’isola”. Secondo il Sappe “la mancanza d’energia elettrica ha lasciato tutti senza illuminazione e senza riscaldamento. Ci auguriamo che l’oscurità della sera, favorita dal black-out, non abbia favorito alcun evento increscioso. Nonostante le difficoltà i baschi azzurri si sono prodigati per il mantenimento della sicurezza su tutto il territorio isolano, affinché le condizioni essenziali di vivibilità, venissero comunque garantite”. Gruppi elettrogeni, torna luce in carcere Gorgona Gruppi elettrogeni di emergenza attivati nella notte hanno consentito di ripristinare la corrente elettrica in gran parte dell’isola-penitenziario di Gorgona (Livorno), rimasta “al buio” per un’intera giornata da ieri mattina alle 4 (e non da stamani come scritto in precedenza) fino a verso mezzanotte, a causa del maltempo. Un albero era stato sradicato dal vento e si è abbattuto sui cavi della linea elettrica. Sull’isola sono presenti una trentina di agenti penitenziari e un’ottantina di detenuti. Il sindacato di polizia penitenziario Sappe ha riferito che “la mancanza d’energia elettrica ha lasciato senza illuminazione e senza riscaldamento” l’isola. Sempre al Sappe risulterebbe che, nonostante l’oscurità, non si sarebbero registrati disordini nel carcere. Aosta: indagini su ex direttore carcere, disposta a breve visita ispettiva Ansa, 2 febbraio 2012 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero di giustizia ha disposto che “a breve sia effettuata una visita ispettiva nella casa circondariale di Brissogne”. L’iniziativa fa seguito “agli sviluppi della vicenda giudiziaria che coinvolge personale della casa circondariale”. In dettaglio la visita è motivata dalla riapertura delle indagini - disposta dal gip di Aosta - per il reato di calunnia nei confronti dell’ex direttore del carcere di Brissogne (e attuale direttore del carcere genovese di Marassi), Salvatore Mazzeo, e di sei membri della polizia penitenziaria attualmente in servizio nell’istituto valdostano. La vicenda riguarda un caso di pestaggio ai danni di un detenuto, risalente al settembre del 2009. Bolzano: sei detenuti indagati per danneggiamento aggravato e incendio durante rivolta Ansa, 2 febbraio 2012 Sei detenuti del carcere di Bolzano sono indagati per danneggiamento aggravato e incendio per i disordini della scorsa settimana che hanno provocato danni complessivi per 20.000 euro. La procura di Bolzano sta cercando di verificare anche altre ipotesi di reato, prima fra tutte il racconto del detenuto secondo il quale i problemi sarebbero iniziati in seguito a delle violenze un recluso avrebbe subito. Il rapporto del medico del carcere che ha visitato il detenuto precisa che le lesioni riscontrate sono compatibili anche con una caduta dalle scale. I detenuti avevano preso il 23 gennaio il controllo di un intero piano della casa circondariale di via Dante. Durante la rivolta c’è stato anche un principio di incendio. Il carcere di Bolzano è sovraffollato e da tempo la Provincia si sta muovendo per realizzare una nuova struttura nei pressi dell’aeroporto. San Gimignano (Si): Sappe; impedita evasione due detenuti, nonostante gravi criticità Adnkronos, 2 febbraio 2012 Evitata l’evasione di due detenuti stranieri nel carcere toscano di San Gimignano. Lo comunica il Sappe che sottolinea come “solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del personale di Polizia penitenziaria è stato sventato un clamoroso tentativo di evasione da parte di due detenuti stranieri, rumeni, dal cortile passeggi del carcere toscano di San Gimignano”. “I nostri colleghi - spiega il segretario generale del Sappe, Donato Capece - hanno infatti accertato la presenza di una corda che avevano nascosto tra la neve, sventato così l’evasione. Bravissimi i colleghi di San Gimignano, che lavorano sotto organico e in condizioni difficili. Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere”. Oggi, ricorda ancora Capece, nelle carceri italiane “ci sono oltre 68mila detenuti, dei quali oltre 25.000 sono stranieri, come i due detenuti che avevano ingegnato il tentativo di evasione da S. Gimignano, dove ci sono sistematicamente più di 420 detenuti presenti a fronte dei 235 posti regolamentari e quasi il 50% sono extracomunitari. Mancano in organico più di 85 appartenenti ai vari ruoli della Polizia penitenziaria. Questi emblematici dati fanno comprendere anche ai non addetti ai lavori come i livelli di sicurezza dei nostri penitenziari siano assai limitati e in quali drammatiche condizioni lavorino i nostri agenti”. Macerata: quelli che meditano... dietro le sbarre, corsi di yoga per i detenuti Il Resto del Carlino, 2 febbraio 2012 Cosa meglio dello yoga per una persona ristretta in un carcere senza grosse possibilità di distrarsi o di fare attività sportiva. Lo hanno certamente pensato gli amministratori comunali di Camerino nell’inserire un corso specifico nel contesto delle iniziative (7mila euro di spesa) a favore dei detenuti nella locale casa circondariale. La disciplina infatti mira, attraverso pratiche, posizioni e meditazione, al riequilibrio psicofisico e al raggiungimento di un generico stato di benessere. I corsi saranno due, distinti per uomini e donne. Avranno la durata di 10 lezioni, di un’ora ciascuna. L’insegnamento sarà svolto dal Karin Montali, insegnante di Iyengar yoga. Anche le altre iniziative tengono conto della limitatezza degli spazi. Ci sarà la “Pet therapy”, che prevede l’instaurarsi di una relazione con il cane Borys e il coniglio Felix per ampliare il budget di relazione e di socializzazione dei detenuti. Il maestro Vincenzo Pierluca terrà il corso “Musica insieme” con approccio al canto corale. A conclusione un concerto nella cappella del carcere per un pubblico esterno. I musei cittadini proporranno il “laboratorio di pittura” con il coinvolgimento dei detenuti in un’attività di laboratorio e nella conoscenza della Quattrocento camerte. Inoltre attraverso il Ciof sarà data la possibilità agli ospiti della casa circondariale di seguire lezioni teorico-pratiche su attività artigianali che stanno scomparendo, quali calzolaio, arrotino, falegname e sarta. “Non si tratta - ha spiegato il sindaco Dario Conti - semplicemente di impegnare il tempo, ma di potenziare la condizione fisica della persona nella sua globalità e le sue capacità e di avere la possibilità di acquisire una professionalità spendibile all’esterno, per avvicinarsi al mercato del lavoro al termine del periodo trascorso in carcere. Indubbia, inoltre è la funzione di socializzazione di tali attività”. Proseguirà anche l’esperienza del supporto del mediatore linguistico, culturale e del consulente legale in carcere. Infine finanziate attività trattamentali e di prevenzione della recidiva, rivolte ai minorenni. Pordenone: inaugurata mostra con le opere d’arte realizzate dai detenuti Messaggero Veneto, 2 febbraio 2012 È stata presentata ieri sera al museo civico di storia naturale Silvia Zenari la nuova esperienza artistica che ha portato ad allestire nei locali della sede culturale la mostra “A mani libere”. L’esperienza è stata realizzata all’interno del carcere circondariale con il contributo dell’ambito distrettuale urbano 6.5 utilizzando i finanziamenti regionali erogati per i progetti a favore di persone a rischio di esclusione sociale, detenute ed ex detenute. L’anno scorso nei mesi estivi 23 detenuti divisi in due gruppi, hanno partecipato alle lezioni bisettimanali di ceramica, tecnica del monotipo e mosaico nell’ambito del progetto artistico curato dall’associazione culturale “Vele Libere” di Azzano Decimo e in particolare dagli insegnanti Daniela Gambolo, Emilio Verziagi e Sonya Luoro Do Rego. L’iniziativa, sotto la guida docenti esperti, si poneva lo scopo di favorire l’espressione individuale attraverso l’uso dei materiali, l’apprendimento di nuove competenze e tecniche, l’utilizzo proficuo del tempo estivo il più difficile da gestire nei contesti coatti. Da queste esperienze è scaturito un grande pannello decorativo, ispirato a una mappa di Pordenone del 1509, in cui si concentrano parti di scultura, in mosaico e in monotipo. La presentazione della mostra, che durerà fino al 15 marzo, è stata arricchita da un evento musicale e dalla lettura scenica del testo di un libro d’artista per il quale Daniela Gambolo ha scritto la trama e con l’aiuto di alcuni detenuti, ha preparato le basi in monotipo per le illustrazioni. Significative la collaborazione tra il direttore del carcere Alberto Quagliotto, l’educatrice Stefania Toni, l’assistente sociale dell’ambito urbano Lucilla Moro, l’assessorato alla cultura, il responsabile del museo di storia naturale Umberto Chalvien e la disponibilità dell’associazione “Vele Libere”, dei musicisti e delle voci protagonisti del racconto e di Alessandra Santin, che ha presentato la rassegna sotto il profilo artistico. Grecia: le carceri scoppiano, detenuti in agitazione contro condizioni disumane celle Ansa, 2 febbraio 2012 I detenuti del carcere di Korydallos, alla periferia di Atene, sono in agitazione e rifiutano di rientrare nelle loro celle in segno di protesta contro le condizioni nel penitenziario che giudicano “disumane”. L’agitazione, come riferiscono le radio, è cominciata ieri sera nell’ala del penitenziario dove sono rinchiusi gli stranieri quando si è appreso che il Parlamento ha respinto il disegno di legge che prevedeva la decongestione delle prigioni greche. Nei giorni scorsi, per la prima volta nella storia delle prigioni greche, i direttori dei penitenziari di Korydallos e di Halkida hanno notificato al ministro della Giustizia che non avrebbero più accettato di accogliere detenuti in quanto le due strutture carcerarie erano già sovraffollate. Secondo il direttore del carcere di Korydallos, a tutto il 27 gennaio nel penitenziario - progettato per ospitare non più di 800 detenuti - ce n’erano 2.345. Il suo collega di Halkida ha invece sottolineato che le condizioni del carcere da egli diretto sono tragiche e il sovraffollamento tale che i nuovi detenuti in arrivo devono essere rinchiusi nei gabinetti. Lunedì al rifiuto di Korydallos e Halkida di accogliere altri detenuti si è aggiunta anche la prigione di Tripolis che è stata costruita per 65 persone e ne ospita invece 180. Il numero dei detenuti nelle prigioni greche è attualmente di 12.703, il più alto nella storia carceraria del Paese, mentre l’intero sistema penitenziario ha una capacità complessiva di non oltre 9.300 persone. Arabia Saudita: video choc dal carcere di Gedda, 25 detenuti in una cella di 25 mq Ansa, 2 febbraio 2012 Un video rubato nel carcere di Braiman a Gedda, in Arabia Saudita, fa discutere. Il filmato mostra le condizioni estreme in cui vivono i detenuti, stipati in 25 nelle celle di venti cinque metri quadrati, costretti a convivere con condizioni igienico-sanitarie catastrofiche e a dormire per terra. Le immagini choc non fanno altro che testimoniare ciò che da anni oramai alcune organizzazioni che difendono i diritti umani come la National Society for Human Rights (agenzia locale riconosciuta dal governo saudita) o Human Rights Watch denunciano: le carceri saudite sono sovraffollate, soprattutto a causa del lungo periodo di detenzione delle persone in attesa di giudizio e i detenuti vivono in condizioni inumane. Il filmato è stato girato con un telefono cellulare e mostra decine di prigionieri che dormono per terra. I più fortunati hanno un materassino, mentre altri hanno unito tavoli e sedie. I bagni sono sporchi e vecchi e i bidoni della spazzatura sono pieni di rifiuti e si trovano accanto ai prigionieri. Human Right Watch ha denunciato che lo scorso agosto 5 detenuti etiopi sono morti soffocati in un carcere saudita sovraffollato. Da parte loro le autorità del paese islamico hanno più volte annunciato nuove leggi che prevedono pene alternative al carcere per i detenuti colpevoli di reati minori, ma fino ad adesso nessun nuova legge è stata approvata. Anche i finanziamenti promessi più volte per sistemare le carceri non arrivano mai a destinazione. Cile: detenuto 31enne morto per sciopero della fame contro condanna che riteneva ingiusta Notizie Radicali, 2 febbraio 2012 Aguadores è un carcere di massima sicurezza nella provincia di Santiago, dove le pareti sono umide, l’acqua arriva a stento e i secondini sono molto temuti. Tra queste mura Wilman Villar, 31 anni, ha cominciato lo sciopero della fame che l’ha portato alla morte. Arrestato durante una manifestazione di protesta, era stato condannato a quattro anni per “resistenza e oltraggio”. Dal 14 novembre, il giorno della sentenza, ha rifiutato ogni forma di cibo. Allora l’hanno trasferito in una cella di punizione, dove è stato incatenato perché rifiutava di indossare l’uniforme da detenuto comune. A un certo punto gli hanno detto che avrebbero riesaminato il suo caso e Wilman ha ripreso a mangiare, ma ha subito capito che era una bugia e ha ripreso il digiuno. In poche settimane i suoi polmoni hanno subito danni irreversibili. Il 13 gennaio Wilman è stato trasferito in ospedale. I medici hanno fatto il possibile per salvarlo, ma era troppo tardi. Secondo le autorità, l’uomo era un delinquente comune con dei precedenti per violenza domestica, ma Amnesty International lo considerava un prigioniero politico. La verità è che il giorno in cui è stato arrestato Wilman stava partecipando a una manifestazione pacifica. Cercava di fare quello che migliaia di altre persone hanno fatto di recente a Wall Street o nelle piazze delle città spagnole. Forse si era illuso per un attimo di vivere in un paese in cui le strade appartengono ai cittadini.