Ubriachi di “fortuna” al volante Il Mattino di Padova, 28 febbraio 2012 “Fortuna”, il detenuto che racconta la sua esperienza di dipendenza dall’alcol parla di “fortuna” perché non gli è mai successo di provocare nessuno scontro, quando saliva in macchina ubriaco. Purtroppo sono sempre in tanti ad affidarsi alla “fortuna”, quando escono da un locale, o da una cena con gli amici, e si mettono al volante senza assolutamente percepire il rischio che corrono e che fanno correre a chi viaggia sulla loro stessa strada. Nel nostro Paese anche rispetto a questi temi prevale l’idea che bisogna punire cacciando in galera chi non rispetta la legge, ma questa non è una soluzione rispetto al fatto che ogni giorno dodici persone perdono la vita in scontri stradali, due di loro stanno semplicemente camminando, o attraversando la strada, e circa cinquanta persone riportano ferite gravissime, per esempio perdono l’uso delle braccia o delle gambe. È da poco che si è cominciato a fare più seriamente prevenzione, a Padova, il Comune lo fa soprattutto con i ragazzi delle scuole, con tante iniziative sulla guida sicura, e alcuni progetti che mettono al centro la testimonianza di chi, di trasgressione in trasgressione, ha finito per perdere il controllo della sua vita e si è ritrovato in galera. Tanto io “Posso smettere quando voglio” Alcolista. Alcolista tuttora perché l’alcolismo è una condizione permanente, irreversibile. Malgrado la mia detenzione, in cui non è consentito assumere alcolici, questa condizione mi accompagnerà per il resto della vita. Ed è solo ora fra queste mura che riesco a ripercorrere con relativa lucidità il film della mia vita. Sono stato fortunato, molto fortunato perché nei tanti, troppi momenti in cui dopo aver bevuto parecchio mi mettevo a guidare. Non ho mai avuto incidenti che coinvolgessero altre persone, non ho mai ucciso nessuno, ma è appunto solo ed esclusivamente questione di fortuna. Le cronache dei quotidiani riportano ogni giorno episodi di incidenti causati da persone, solitamente giovani, che ubriache sono causa di tragedie che si consumano nelle strade, provocando talvolta drammi famigliari devastanti. Per contrastare questo fenomeno, purtroppo in costante aumento, l’unico deterrente individuato è ancora un volta il carcere, malgrado tutti gli studi in questo settore siano concordi nel definire l’alcolismo una malattia, per l’ennesima volta invece si tende a individuare nella punizione fine a se stessa il rimedio a questo dramma. È inutile sottolineare come queste misure siano del tutto insufficienti ed inadeguate a contrastare questo fenomeno. L’alcolismo va contrastato alla radice, sulla sua presunta appartenenza alla nostra cultura, sul fatto che un “bicchierino” fa bene, sulla pubblicità che lo presenta come veicolo di successo sociale, malgrado ogni anno sia stimato che muoiano decine di migliaia di persone a causa di malattie correlate all’abuso di alcolici. Lo scivolamento verso questa malattia è progressivo ed inesorabile soprattutto quando si salda ad una personalità fragile, problematica e soprattutto non consapevole del pericolo che corre; è la sua patente di legalità che lo rende ancor più pericoloso e subdolo e per questo più difficile da contrastare efficacemente e soprattutto in tempo. Io ho iniziato non giovanissimo ad assumere alcolici. Inizialmente era il fine settimana, poi era la sera dopo cena fino ad arrivare al primo bicchiere appena alzato dal letto, malgrado nei rari momenti di lucidità mi ripromettessi di smettere senz’altro il giorno successivo, perché tanto io potevo smettere quando volevo. Quel giorno è diventato un mese, quel mese anni, fino ad assorbire tutta la mia vita, facendomi perdere gran parte dell’infanzia dei miei figli e condizionando profondamente e indelebilmente la loro vita e compromettendo per sempre la mia. Oggi ripercorro quei momenti nebbiosi, bui, di cui non ricordo quasi nulla, ma le cui conseguenze sono ben visibili davanti a me e intorno a me, con angoscia, con una sorta di disperazione profonda per aver gettato al vento momenti importanti, unici della mia vita, consapevole che non potranno tornare più e che mai più nulla potrà essere come prima. I miei sogni le mie speranze la mia voglia di vivere, tutto annegato in fondo a quell’ultimo bicchiere. Oddone S. “Chi beve non guida”. In Dvd le interviste raccolte in strada Da diversi anni ormai il Settore servizi sociali del Comune di Padova è direttamente impegnato a promuovere la partecipazione della comunità intorno ad alcuni temi significativi che riguardano il disagio giovanile, le sue manifestazioni e le azioni per prevenirlo. Alle famiglie, agli insegnanti e ai giovani sono stati così proposti film a tema e dibattiti con esperti; azioni formative quali l’ingresso degli studenti in carcere nei percorsi di legalità (in collaborazione con l’Associazione Granello di Senape); incontri nelle scuole per parlare di sostanze e di abuso di alcol; dimostrazioni e lezioni di guida sicura nello spazio arena realizzato in Prato della Valle. In altre occasioni sono inoltre stati realizzati strumenti per rendere più efficace il lavoro degli insegnanti, quali ad esempio i tre DVD di sensibilizzazione sul fenomeno del bullismo, della devianza giovanile (con interviste a ragazzi detenuti presso l’istituto penale per minori di Treviso) e sugli effetti dell’abuso di alcol. Su quest’ultimo tema si è di recente concentrata nuovamente l’attenzione dei servizi sociali che hanno realizzato un nuovo DVD, per dare un contributo alle iniziative che promuovono la guida sicura, che richiede anche una idonea condizione psico-fisica. Nei mesi scorsi quindi, un gruppo di operatori dei servizi sociali ha accompagnato a Padova nei controlli di fine settimana le pattuglie della polizia stradale impegnate, fino all’alba, per verificare il tasso alcolico degli automobilisti e/o l’uso di sostanze; due assistenti sociali hanno intervistato, a latere delle operazioni di polizia, le persone sottoposte a controllo raccogliendo testimonianze, opinioni e commenti, che il regista Rodolfo Bisatti ha racchiuso nel Dvd “chi beve non guida”. Alla base del progetto non c’è l’intento di mettere nessuno alla gogna, ma l’esigenza di far riflettere i giovani sulla necessità di essere prudenti non solo a causa della severità del Codice della Strada ma anche per salvaguardare la propria e l’altrui vita. Quindi chi meglio di un giovane può raccontare ai coetanei la propria esperienza! E così per es. si è data voce a chi ha cercato di spiegare ai pari la trafila prevista dalla legge per essere stato sanzionato per guida in stato di ebbrezza. È stata un’esperienza faticosa ma estremamente interessante, che ha anche consentito di apprezzare la professionalità e l’impegno delle forze di polizia. I giovani dal canto loro si sono prestati volentieri ad essere intervistati e nella maggioranza dei casi sono apparsi informati delle nuove regole del Codice della strada e ben consapevoli dei rischi di una condotta trasgressiva. Si tratta di un buon risultato, segno che l’aumento dei controlli. il rigore delle norme e la prevenzione hanno dato buoni risultati. Certo c’è ancora molto da fare. in questa linea si inserisce il dvd “Chi beve non guida”, che sarà presentato agli insegnanti delle scuole cittadine e agli studenti nel corso di un apposito incontro programmato per il 6 marzo 2012 ore 11 presso il cinema Mpx di Padova. Un sentito ringraziamento, per concludere, al dirigente della polizia stradale di Padova dr. F. Piccenna (recentemente assegnato alla sede di Napoli) e ai suoi collaboratori che hanno reso possibile la realizzazione di questo dvd. Lorenzo Panizzolo, dirigente Servizi sociali Comune di Padova Giustizia: Umberto Veronesi contro l’ergastolo “è un modo per sopprimere la vita” Agenparl, 28 febbraio 2012 Anche Umberto Veronesi ha detto la sua sulla situazione nelle carceri italiane. In un articolo a firma del grande medico oncologo pubblicato sul sito www.grazia.it si legge: “La posizione nei confronti delle carceri del ministro della Giustizia, Paola Severino, orientata a restituire dignità alla condizione dei detenuti, mi trova pienamente allineato - scrive Veronesi. Al di là delle singole misure contenute nel suo decreto “svuota carceri” (come l’innalzamento da 12 a 18 mesi della pena detentiva che può essere scontata ai domiciliari dal condannato), che trovo illuminate e ben motivate, credo che il suo grandissimo merito sia quello di aver dato il segnale chiaro che è ora di ripensare il nostro sistema carcerario”. Secondo Veronesi insiste sulla necessità del recupero dei detenuti, lontano dalla logica della punizione a tutti i costi ma che non dà speranza né futuro ai ristretti. Contro la pena di morte, definita “assassinio di Stato” ma anche contro l’ergastolo: le posizioni espresse dal noto scienziato italiano sono quelle espresse dal movimento “Science for Peace”. Veronesi, infatti, si dichiara assolutamente contrario a tale pena che: “Si chiama carcere “a vita”, ma, di fatto, è un modo per sopprimere la vita, perché il detenuto non è più una persona, ma la vittima di una lenta agonia, fino alla fine della sua esistenza. Per questo sono a favore dell’abolizione dell’ergastolo e per l’introduzione di un massimo di pena di 20-25 anni”, si legge ancora sull’articolo a firma di Umberto Veronesi. “Questa di “Science for Peace” è una posizione civile, ma soprattutto scientifica. Le più recenti ricerche hanno dimostrato che il nostro sistema di neuroni non è fisso e immutabile, ma è plastico e capace di rinnovarsi. Questo ci fa pensare che il nostro cervello non sia uguale a quello che era nei decenni precedenti - aggiunge il medico. Vuol dire che il detenuto che teniamo rinchiuso in carcere oggi, non è la stessa persona che abbiamo condannato 20 anni fa. L’ergastolo si basa sulla convinzione che un criminale non sarà mai recuperabile, invece le neuroscienze ci dimostrano che si può riportare alla convivenza civile anche il più incallito dei delinquenti (ma ci vogliono anni)”. Giustizia: Mosca (Pd); giusti incentivi a chi assume detenuti, non capisco posizione Lega Agenparl, 28 febbraio 2012 “La legge prevede un allargamento delle possibilità che oggi sono date dalla legge Smuraglia e cerca di incentivare il lavoro nelle carceri. È confermato da tutti i dati: si abbatte la recidiva. In Italia è altissima, pari all’80%. Con il lavoro subito dopo la scarcerazione si arriva al 15%. Questa proposta intende aumentare gli incentivi, sotto forma di credito d’imposta, per le aziende che fanno lavorare i detenuti”. Lo ha dichiarato all’Agenparl Alessia Maria Mosca del Pd e relatrice della proposta di legge sull’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro all’ordine del giorno dell’Aula della Camera. “Non capisco - ha aggiunto - perché la Lega non possa sostenere una proposta del genere che investe sulla sicurezza”, uno dei cardini, quello della sicurezza, del partito guidato da Umberto Bossi. Giustizia: Orlando (Pd); ridare significato al “garantismo”… che non significa “impunità” Agenparl, 28 febbraio 2012 “È molto importante parlare di garantismo oggi, perché si chiude una stagione nella quale questa parola è stata usata come strumento di mistificazione. Il garantismo è stato associato a impunità mentre noi stiamo ragionando su come ridare significato originario alla parola, cioè la radice di un sistema di garanzie che rimetta al centro la persona e in particolare parta dalle persone più deboli proprio quelle che invece sono state trascurate, mortificate nel corso di una stagione nella quale la legislazione ha imposto una sorta di doppio binario: miti con i forti e cruenti e brutali con i deboli. Questa è considerazione di partenza di una discussione che credo sia molto ricca, utile e attuale”. Queste le considerazioni di Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd, a margine seminario dal titolo “Garantismo, la cultura delle garanzie nel processo penale” organizzato oggi dal Forum giustizia e dal Centro studi del Pd. “Bisogna ridare nuovo significato alla parola garantismo intanto riappropriandosene - dice ancora Orlando - non usandola a sproposito, facendola diventare una sorta di bandiera di chi crede appunto che la società debba ruotare attorno ai diritti fondamentali dell’uomo. Credo che questo sia il senso per riprendere in mano alcune battaglie importanti come quello dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina, come quello della ratifica di convenzioni che impediscono la tortura, come quello che riduce allo stretto necessario il carcere sia come pena che come strumento di custodia cautelare. Queste sono questioni sule quali si debba caratterizzare il progetto politico e la cultura politica del Partito Democratico” Al seminario sono intervenuti Donatella Ferranti, Silvia Della Monica, Guido Calvi, Pierluigi Castagnetti, Luigi Ferrajoli, Emanuele Macaluso, Giovanni Palombarini, Anna Rossomando, Giuliano Amato. Giustizia: legge svuota-carceri inapplicabile a clandestini, se non hanno “domicilio certo” di Luca Tavecchio La Padania, 28 febbraio 2012 Il ministro della Giustizia Paola Severino si era opposta con decisione all’appellativo “svuota-carceri” affibbiato dai giornalisti al suo decreto e aveva ragione: a quasi due mesi dalla sua entrata in vigore gli effetti sulla popolazione carceraria sono nulli. E del resto, la realtà dice che era sbagliato anche il nome proposto dal Guardasigilli, “salva carceri”. Gli istituti penitenziari, nonostante il clamore che ha accompagnato il provvedimento, non sono stati né svuotati, né salvati, semplicemente non se ne sono neanche accorti. In particolare, quello che non si è visto è l’effetto sul via vai penitenziario, sul fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” che vede piccoli criminali restare in carcere solo tre o quattro giorni. Alle Vallette di Torino, per esempio, ogni giorno entrano tra i 20 e i 25 arrestati e ne escono cinque o sei, a San Vittore a Milano ne entrano 30-35 e ne escono meno di dieci: numeri che dicono quanto poco efficace su questo versante sia il provvedimento del governo. Per quanto riguarda, l’altro settore interessato dal decreto, i detenuti con 18 mesi residui da scontare a cui viene concessa la facoltà dei domiciliari, l’impatto della riforma non è valutabile appieno perché la burocrazia ha il suo peso anche qui e quante richieste verranno accolte non è ancora evidente. Certo è però che, anche qui, non c’è aria di rivoluzione. Il direttore dell’istituto di Busto Arsizio, Orazio Sorrentini, per esempio dice che nel suo carcere dall’inizio dell’anno ne sono usciti soltanto tre grazie ai benefici previsti dalla nuova normativa. “Una goccia nel mare - dice - se si considera che la popolazione della struttura è di circa 400 detenuti, a fronte di una capienza massima di 170”. Il problema di fondo - spiega ancora il direttore - “è che molti extracomunitari che fanno richiesta non possono dichiarare un domicilio sicuro presso cui scontare la pena, per cui le loro domande vengono respinte”. Gran parte dell’inefficacia dello svuota carceri - dipende infatti da questa eccessiva fiducia negli arresti domiciliari. Il provvedimento infatti dimentica che la popolazione carceraria italiana è costituita per circa il 40% da detenuti stranieri, molti dei quali clandestini e quindi senza una residenza. Chi invece non lo dimentica è il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli che, per evitare brutte sorprese, ha diramato una circolare dove si chiarisce che i requisiti necessari per accedere ai benefici della riforma sono “una disponibilità dell’intestatario dell’abitazione messa per iscritto” e “la certezza dell’identità anagrafica dell’arrestato”. Due elementi che di fatto restringono molto il campo d’azione del provvedimento. Il risultato più evidente del decreto è quindi che il male del sistema carcerario italiano non è stato intaccato. “I problemi - denuncia Francesco Di Dio del Sappe (il sindacato della polizia penitenziaria) lombardo - sono ancora tutti intatti. Il sovraffollamento delle celle e l’inadeguatezza degli organici della polizia penitenziaria non sono stati nemmeno scalfiti. Si era calcolato che il decreto avrebbe potuto interessare circa 3.500 persone, ma di queste quante possono contare su un domicilio reale e quindi uscire? Poche, pochissime. A fronte di questo, in Lombardia mancano almeno mille agenti e a San Vittore, per esempio, un padiglione è ancora chiuso”. Giustizia: intervista a Maurizio Azzollini; col lavoro in Comune pago il mio debito con la società di Gianni Santucci Corriere della Sera, 28 febbraio 2012 Il confronto tra il ragazzino con la pistola negli scontri a Milano del 77, ora nominato capo di gabinetto in Municipio, e la vedova dell’agente che morì. “Ancora una volta vengo descritto attraverso un’immagine, come se la mia vita si fosse cristallizzata in un fotogramma di quasi 35 anni fa”. In quella foto, 14 maggio 1977, Maurizio Azzollini ha 16 anni, impugna un pistola, spara. Non colpì nessuno. Il vice brigadiere Antonio Custra venne ucciso da un’altra arma. Oggi Azzollini lavora al fianco del vice sindaco di Milano, Maria Grazia Guida. Il suo cognome corretto è con due elle, Azzollini. Ma è stato sempre scritto sbagliato. Come quello della vittima, per decenni scritto Custrà, con l’accento. Cosa pensa quando rivede quell’immagine? “Ho provato altre volte cosa significa aprire un giornale e ritrovarsi lì. Queste “notizie” di oggi a me sembrano una strumentalizzazione finalizzata a un modo di fare politica che mi sento di avvicinare a quello, sbagliato, che ho utilizzato a 16 anni. Lo dico per le persone che leggendo questi articoli staranno male, prima di tutte Antonia Custra e sua madre, che soffriranno ancora, che vedranno il nome del loro caro utilizzato in modo strumentale, non per riconoscere, ma per attaccare qualcuno”. Chi era lei nel 1977? “Non avevo ancora 17 anni e come tantissimi giovani credevo di poter cambiare il mondo; l’ho fatto, impegnando tutto me stesso, in un modo tragicamente sbagliato. Le conseguenze sono state tragiche e l’ho compreso sin dal primo momento. La morte di un Uomo non può mai essere il punto di partenza per un mondo migliore”. Cosa è successo dopo? “Da quella tragedia si è aperta per me una nuova vita. Quell’esperienza, il carcere, l’incontro con chi “ultimo” lo era davvero, mi hanno dato la possibilità di capire che se il mondo è ingiusto si può e si deve cambiare, ogni giorno, a partire dalle piccole cose, con le piccole conquiste per aiutare davvero le persone”. Non è stato lei a uccidere. “Ho però sempre avuto la consapevolezza della mia responsabilità, al di là delle verità processuali (è stato riconosciuto che ho sparato in aria), nei confronti della vita di un uomo e della sua famiglia e del mio debito nei confronti della società”. Alcuni “autonomi” di allora sono fuggiti. Perché non l’ha fatto? “Ho pagato tutto il mio debito con la giustizia, scontando totalmente la condanna, parte in carcere (quasi 5 anni) e parte in libertà condizionale. Dopo una prima scarcerazione per l’assoluzione nel processo di appello, ho deciso di non fuggire, ma di presentarmi al nuovo processo ordinato dalla Cassazione. Lavoravo già come educatore con i ragazzi del carcere minorile e non potevo non fare quello che chiedevo a loro: avere fiducia nella giustizia e credere nella possibilità di rieducazione”. Come è arrivato in Comune? “Se per la morte di un uomo e il dolore della sua famiglia non avevo strumenti per rimediare, alla società potevo invece restituire qualcosa attraverso il mio impegno. È quel che ho cercato di fare scegliendo di lavorare nella pubblica amministrazione occupandomi di sociale. Assunto al Comune di Milano attraverso un concorso, mi sono sempre occupato di interventi sociali ed educativi, progetti per i detenuti del carcere minorile, per i ragazzi in difficoltà, per l’integrazione scolastica dei bambini stranieri”. La sua ultima nomina ha sollevato polemiche… “Ho fatto il mio percorso con le normali procedure, fino alla posizione di funzionario, che mantengo anche come capo di gabinetto del vice sindaco. Un incarico che, come si sa, non è politico, ma attribuito sulla base di competenze acquisite. Non sono stato nominato dall’esterno, è stata “valorizzata” una risorsa interna. Lo stesso aveva fatto il vicesindaco precedente, De Corato”. Un consigliere comunale, poliziotto in servizio quel giorno del 1977, ha detto che se doveste incontrarvi uscirà dall’aula. “Ho grande rispetto. Comprendo la sua difficoltà. Non voglio imporre la mia presenza. Ma credo che possa essere solo un gesto di rispetto nei confronti della famiglia Custra, non un gesto politico che potrebbe suggerire un volontà di strumentalizzazione”. Ha mai cercato di contattare la famiglia Custra? “Le vittime, oltre alla giustizia, chiedono il riconoscimento del loro dolore. Un riconoscimento che, come ho imparato occupandomi di mediazione penale, può arrivare forse dall’incontro diretto con chi è stato causa del loro dolore. Dopo queste esperienze, e dopo aver letto il libro di Mario Calabresi, ho cercato contattare Antonia Custra e sua mamma. Aspetto che ciò sia possibile, senza voler forzare la loro volontà. Vorrei testimoniare loro il riconoscimento del dolore che ho causato e la possibilità di quel gesto riparatore che, ricordo, fu una delle richieste della signora Custra alla fine dell’ultimo processo: portare insieme un mazzo di fiori sulla tomba del marito”. Giustizia: processo Cucchi; medico “disse che voleva parlare con legale, ma pensammo a batuta” Dire, 28 febbraio 2012 “Voglio dirlo solo al mio avvocato”. È quanto avrebbe risposto Stefano Cucchi, il ragazzo romano deceduto in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga nell’ottobre del 2009, a Luigi De Marchis Preite, un altro dei medici imputati, sentiti oggi al processo per la morte del giovane, quando gli chiese cosa era successo. “In stanza - ricorda De Marchis Preite. Cucchi mi accolse insultandomi. Gli ho spiegato che volevo dargli un farmaco, ma lo rifiutò per via endovenosa e disse che non voleva la flebo perché con le vene non voleva avere niente a che fare. Accettò solo un’iniezione, anche se gli feci notare che non aveva una grossa massa muscolare”. Quando entrammo in stanza, disse “Parlo solo davanti al mio avvocato” e noi interpretammo quella frase come una battuta. Gli abbiamo detto che eravamo medici e lui acconsentì alla visita. E ancora, a proposito della visita alla schiena, De Marchis Preite specifica: “Sulla schiena non aveva segni evidenti di trauma lombare. L’ortopedico consigliò una radiografia per valutare se fosse necessario fare una tac”. Durante l’udienza di oggi sono stati sentiti anche altri imputati: la dottoressa Flaminia Bruno e la dottoressa Stefania Corbi. Per la morte di Stefano Cucchi sono indagate dodici persone: tre agenti penitenziari, sei medici e tre infermieri. I reati contestati vanno dalle lesioni all’abuso di autorità, al favoreggiamento, all’abbandono di incapace, all’abuso d’ufficio e alla falsità ideologica. Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, Cucchi è stato picchiato nelle camere di sicurezza del Tribunale in attesa dell’udienza di convalida. A nulla valsero le sue richieste di farmaci, mentre in ospedale fu reso incapace di provvedere a se stesso e lasciato senza assistenza, tanto da portarlo alla morte. Si torna in aula il 7 marzo con tutti i testimoni della difesa. Primario del Pertini: difficoltà per gestione Stefano Fu il primario del reparto di medicina protetta del “Pertini”, Aldo Fierro, a proporre d’informare il magistrato con una lettera “delle difficoltà nella gestione clinica e nei rapporti interpersonali” con Stefano Cucchi, il giovane fermato il 15 ottobre 2009 per droga e per la cui morte, una settimana dopo proprio in ospedale, sono sotto processo dodici persone tra cui lo stesso Fierro. “Il 17 ottobre la dottoressa Caponnetti mi chiamò - ha detto Fierro - per segnalare una richiesta del Fatebenefratelli per il ricovero di un detenuto fratturato. Ho condiviso con lei che senza autorizzazione del Prap il paziente non poteva essere accettato. Successivamente mi richiamò per dire che c’era l’autorizzazione di un funzionario che era andato di persona in reparto per l’autorizzazione”. Di quel giovane paziente-detenuto, il primario non seppe nulla fino al tardo pomeriggio del 21 ottobre. “Fu la dottoressa Corbi a dirmi delle difficoltà ad interagire con Cucchi: rifiutava prestazioni radiografiche ed ecografiche, c’erano difficoltà nel suo approccio alla nutrizione. Proposi d’informare il magistrato con una lettera. So che Cucchi voleva parlare con l’avvocato, ma noi non avevamo alcuna competenza. L’indomani mattina avrei dovuto controfirmare quella lettera; rimase però sulla mia scrivania, non la vidi per quello che nel frattempo era accaduto. Fu la dottoressa Bruno la mattina presto a informarmi della morte di Cucchi. Arrivato al reparto, mi disse che era stata disposta l’autopsia, avvertito il magistrato e fatta copia della cartella clinica”. Dottoressa Flaminia Bruno a famiglia: non giusto odio contro noi Il rammarico perché “è stato costruito questo muro di odio nei nostri confronti che è fuorviante. Io, in coscienza, spero che un giorno capirete che l’odio che avete nei nostri confronti non è giusto. Ho condiviso anch’io la vostra battaglia; anch’io vorrei sapere cos’è successo. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo”. Queste parole la dottoressa Flaminia Bruno le ha rivolte ai familiari di Stefano Cucchi nel corso dell’udienza del processo che per la morte del giovane (fermato il 15 ottobre 2009 per droga e trovato senza vita una settimana dopo in ospedale) vede sotto processo sei medici - tra i quali la stessa Bruno - tre infermieri e tre agenti penitenziari. Il medico vide Stefano tre volte. “La mattina del 19 ottobre mi disse che stava bene, gli chiesi di raccontarmi cosa era successo ma rifiutò. Non partecipava granché all’anamnesi; rispondeva solo sì o no. Mi confermò che la frattura che aveva era stata causata da una caduta. Aveva gli occhi gonfi ma quando mi avvicinai per vederlo meglio, si coprì il capo dicendo che non voleva essere visitato”. Il giorno dopo, le condizioni di Cucchi erano stabili. “Emergeva però un quadro di disidratazione; occorreva una flebo, ma lui non voleva. Tentai di spiegargliene la necessità, ma rispose a me non me ne frega un cazzo se muoio. Poi, la notte nella quale Cucchi morì. Seppi che aveva rifiutato un’ecografia addominale e le flebo. Aveva detto che non si faceva fare nulla se non lo facevano parlare con l’avvocato. Verso le 6 di mattina, un infermiere trovò Cucchi privo di vita. Sono corsa subito; tentammo di rianimarlo, ma non mi restò altro che constatare il decesso”. L’accusa contesta alla Bruno di avere falsamente attestato la morte di Cucchi come morte naturale. La risposta: “Sul certificato Istat sono previste le indicazioni morte naturale o morte violenta. Per me quella non fu una morte violenta; indicai come diagnosi clinica presunta una sospetta embolia polmonare in paziente affetto da frattura con grave dimagrimento e iperazotemia. Non avevo idea del perché fosse morto, tant’è che avevo richiesto l’autopsia”. Emilia Romagna: Sappe; i detenuti sono quasi il doppio della capienza Adnkronos, 28 febbraio 2012 I detenuti presenti nelle 13 carceri dell’Emilia Romagna sono circa 4.000, per una capienza regolamentare di 2.453 posti. Lo segnala il Sappe in una nota. Il sindacato degli agenti penitenziari ricorda che nella regione i condannati sono 2.023, quelli in attesa di giudizio 1.677. A questi si aggiungono circa 300 internati e circa 80 in posizione giuridica mista. 807 sono in attesa di primo giudizio, 493 sono gli appellanti e 300 i ricorrenti in Cassazione. Le persone sottoposte a misure diverse dalla detenzione in carcere sono 1.508. Di questi, 1.216 usufruiscono di misure alternative alla detenzione: 636 sono affidati in prova ai servizi sociali, 37 sono in semilibertà (trascorrono il giorno fuori dal carcere, dove tornano a dormire la sera, per motivi di lavoro, di studio o altro), 543 usufruiscono della detenzione domiciliare. I sottoposti alla libertà vigilata sono 225, mentre 4 beneficiano di una sanzione sostitutiva. Sono 63 coloro che usufruiscono di altre misure: 33 sono impiegati in lavori di pubblica utilità e 30 nel lavoro all’esterno. “Coloro che usufruiscono di misure alternative al carcere - ricorda il sindacato - tornano a delinquere molto meno di quanti, invece, passano direttamente dal carcere alla libertà. La recidiva di questi ultimi si aggira attorno al 70%, per gli altri è di circa il 20%. Riteniamo opportuno incrementare l’impiego dei detenuti nei lavori di pubblica utilità, una misura, al momento, poco utilizzata. È opportuno che il disegno di legge del ministro Severino sulla messa in prova trovi il consenso di tutti i gruppi politici in Parlamento, poiché si tratta di una misura che ha già dato ottimi risultato nei confronti dei minori”. “Con l’approvazione di questo disegno di legge - conclude il Sappe - i condannati fino a quattro anni di reclusione potrebbero beneficiare dell’affidamento in prova e svolgere lavori di pubblica utilità. Nell’incontro che abbiamo avuto mercoledì della scorsa settimana al ministero della Giustizia il Ministro Paola Severino ci ha assicurato che il disegno di legge ha ottenuto una corsia preferenziale per l’approvazione in Parlamento. Anche il Presidente della Camera Gianfranco Fini, che abbiamo incontrato ieri, ci ha assicurato il suo pieno sostegno”. Liguria: chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari; la regione si prepara al 2013 Ansa, 28 febbraio 2012 Il riordino del governo sulle carceri dispone la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma resta il problema delle strutture sanitarie in cui accogliere i pazienti Liguri, alcuni attualmente ospitati fuori regione. Su questo tema Lorenzo Pellerano, consigliere regionale della Lista Biasotti, ha presentato questa mattina un’interrogazione alla giunta: la preoccupazione è che i pazienti e le loro famiglie possano rimanere abbandonate a se stesse in assenza di strutture adeguate. Immediata la risposta in aula dell’assessore regionale alla Salute Claudio Montaldo. In vista della “dead-line” fissata al 2013 la Regione sta lavorando con le aziende sanitarie alla riorganizzazione di tutto il comparto della salute mentale. Umbria: Sappe; più di 1.600 detenuti in carceri regionali, 280 condannanti in misura alternativa Comunicato stampa, 28 febbraio 2012 “Più di mille e seicento i detenuti nelle celle dell’Umbria. Altri 280 liberi sul territorio in espiazione pena con misure sostitutive della detenzione”. “La mia presenza oggi ad Orvieto, dove incontrerò i Baschi Azzurri in servizio e visiterò in carcere i vari posti di lavoro del Personale, vuole essere testimonianza di vicinanza del Primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, ai disagi dei colleghi dell’Umbria ed anche occasione per esprimere la nostra gratitudine a tutti i Baschi Azzurri del Corpo per quello che fanno ogni giorno nelle carceri umbre. I quattro penitenziari della regione - Orvieto, Perugia, Spoleto e Terni - detengono complessivamente circa 1.670 persone detenute rispetto ad una capienza regolamentare di poco superiore ai 1.100 posti letto. E questo sovraffollamento fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza”. È il commento di Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categori, che questo pomeriggio ad Orvieto incontrerà, con il Segretario Generale Aggiunto Giovanni Battista De Blasis ed il Segretario Regionale dell’Umbria Fabrizio Bonino, i rappresentanti ed i delegati del Sappe ed il Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nelle carceri della Regione. La delegazione del Sappe visiterà i luoghi di lavoro nel carcere orvietano e quindi incontrerà in assemblea i Baschi Azzurri in servizio. “Potremmo quasi dire che le carceri in Umbria sono 5. Alle 4 dislocate sul territorio in cemento, sbarre e mattoni se ne aggiunge un’altra, invisibile. Parlo delle 278 persone che sul territorio umbro sono attualmente ammesse alle misure alternative alla detenzione, a misure di sicurezza, a sanzioni sostitutive del carcere. Oggi noi abbiamo, in Umbria, 156 persone affidate in prova ai servizi sociali, 8 in semilibertà, 55 in detenzione domiciliare, 32 impiegati in lavori di pubblica utilità, 7 al lavoro all’esterno e 2 in libertà controllata. È del tutto evidente che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Si deve infatti avere il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione. A cominciare da Orvieto e dall’Umbria, che a nostro avviso hanno tutte le condizioni ottimali per questa cambiamento culturale sulla sicurezza e sulla detenzione in carcere, che deve essere sempre - ricordiamocelo bene - l’extrema ratio. È altrettanto evidente che si deve potenziare il ruolo della Polizia Penitenziaria incardinandolo negli Uffici per l’esecuzione penale esterna per svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione, cui sarà opportuno ricorrere con maggiore frequenza. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene”. Sicilia: Codacons contro Garante regionale dei detenuti; chiesto resoconto delle attività svolte Redattore Sociale, 28 febbraio 2012 Lettera inviata al presidente della regione Lombardo e al provveditore regionale del Dap Veneziano. “Quante volte il garante ha visitato le carceri per costatarne condizioni e criticità?”. L’associazione dei consumatori Codacons chiede informazioni sugli interventi effettuati dal garante dei detenuti nell’anno 2011 per la tutela dei diritti dei reclusi e sulle esigenze di spesa 2012. Il Codacons chiede inoltre di fare chiarezza sulla possibilità, prevista dalla legge finanziaria in discussione all’Ars, di sopprimere la figura del garante per sostituirla con una struttura d’ufficio interna alla segreteria generale che si occuperebbe delle questioni finanziarie. La dotazione finanziaria riconosciuta al Garante dei detenuti della Sicilia Salvatore Fleres, nell’anno 2011, è stata ridotta da 500 a 176 mila euro. Di questa somma100 mila euro sono andati finora direttamente, sotto forma di stipendio, al garante. I restanti 76mila euro sarebbero dovuti essere spesi per attività ed iniziative a favore degli oltre 8 mila detenuti che popolano le 27 carceri dell’Isola. “Quante volte - scrive il Codacons - il garante ha visitato le carceri per costatarne condizioni e criticità? Quanti accessi sono stati effettuati nelle strutture dove si sono registrati otto casi di suicidio?”. La lettera è stata inviata al presidente della regione Raffaele Lombardo e al provveditore regionale del Dap Maurizio Veneziano. Salvatore Fleres, che è anche senatore di “Grande Sud”, aveva annunciato nel corso di una recente audizione in Commissione bilancio dell’Assemblea regionale, di rinunciare al compenso delle 100 mila euro. Il dirigente dell’ufficio del Garante ha precisato però che il garante ha solo chiesto la sospensione del pagamento dello stipendio che di fatto ha impedito di stornare i fondi. Il garante dei detenuti della Sicilia ha usufruito da diverso tempo di un doppio incarico. Nel 1997 una legge regionale, la 19 del 20 giugno, ha abolito la possibilità del doppio incarico. Poi nel 2006 è stata approvata all’Ars una modifica, introducendo una deroga solo per il garante dei diritti dei detenuti. Ad accettare la modifica fu lo stesso Fleres che l’anno successivo ottenne la poltrona come senatore della Repubblica e garante dei diritti dei detenuti siciliani. In rotta di collisione con il garante è anche il dirigente dell’Ufficio del garante Lino Buscemi che lo scorso gennaio ha inviato una lunga lettera al presidente e ai componenti della Commissione bilancio dell’Assemblea regionale siciliana, dopo avere preso visione del resoconto sommario della seduta del 3/11/2011 della Commissione Bilancio e Programmazione dell’Ars, durante la quale si era svolta l’audizione del Garante Salvatore Fleres. “Dalla corrispondenza con i detenuti di tutti gli istituti di pena aventi sede in Sicilia, emerge che le reiterate richieste al Garante di colloquio o di incontro con i medesimi non trovano adeguato e pronto riscontro - si sottolinea in una parte della lettera di Lino Buscemi, dirigente dell’ufficio del Garante -. Non può non rilevarsi che la difficile e drammatica condizione delle carceri in Sicilia, aggravata dal sovraffollamento, avrebbe dovuto comportare interventi ed iniziative più significative capaci di determinare una reale inversione di tendenza in collaborazione anche con gli organi istituzionali della Regione”. Pd: eliminare benefit d’oro Garante detenuti Sicilia “Un compenso da 100 mila euro l’anno al quale si aggiungono benefit di tutto rispetto come l’appartamento di 10 stanze, con uffici di segreteria e tanto di zona-letto nella centralissima via Generale Magliocco a Palermo, che costa 55 mila euro l’anno più 12 mila euro di spese condominiali: con tutto il rispetto per il ruolo del Garante per i diritti dei detenuti, in un periodo di crisi come questo crediamo sia opportuno tagliare drasticamente i costi di questo ufficio”. Lo dicono i deputati regionali del Pd Giovanni Panepinto e Elio Galvagno, componenti della commissione Bilancio dell’Ars, dove questa mattina si è discusso delle funzioni del garante per i diritti dei detenuti, carica ricoperta dal senatore Salvo Fleres, di Grande Sud, il partito di Micciché. “Oltretutto - proseguono Panepinto e Galvagno - all’ufficio di Palermo si aggiunge la seconda sede di Catania, la stessa città del senatore Fleres. Nella prossima finanziaria regionale proporremo di tagliare i costi di questo ufficio e chiederemo di sopprimere le norme che consentono ai deputati regionali, nazionali ed europei di svolgere la funzione di garante, così come accade nelle altre regioni italiane. Lavoreremo -concludono Panepinto e Galvagno - per eliminare certi sprechi e per fare in modo che la sorte dei detenuti abbia attenzioni ben diverse rispetto a quelle attuali”. Garante detenuti Sicilia: non ricevo nessun benefit né compenso “La sede di Palermo dell’Ufficio del garante non è un mio benefit dato che presso di essa dovrebbero lavorarvi più di una dozzina di dipendenti dell’Ufficio medesimo, non del senatore Fleres. Non ho mai visto in tale sede alcun appartamento personale, né camere da letto. Evidentemente l’Ufficio che frequento io non è lo stesso che frequentano altri. Per quanto riguarda la sede di Catania, questa è gentilmente concessa in uso gratuito all’Ufficio dalla Provincia regionale di Catania. Pertanto, tale sede non ha alcun costo per la Regione”. Lo afferma il Garante dei diritti dei detenuti, il senatore di Grande sud Salvo Fleres, replicando ai deputati regionali del Pd Giovanni Panepinto e Elio Galvagno, componenti della commissione Bilancio dell’Ars, dove questa mattina si è discusso delle funzioni del garante. Le attrezzature e i mobili, invece, aggiunge Fleres, “sono di proprietà dell’Ars e di altri organismi che li hanno anch’essi concessi all’Ufficio in comodato gratuito. Rispetto al compenso previsto per il Garante, pari a 100 mila euro, ho precisato in più occasioni che vi ho rinunziato. Preciso, inoltre, che i dipendenti dell’ufficio percepiscono un’indennità aggiuntiva a causa dell’attività particolarmente gravosa”. Catanzaro: detenuto di 25 anni si impicca in cella; da inizio anno 12 suicidi nelle carceri Ansa, 28 febbraio 2012 Un detenuto romeno si è tolto la vita ieri sera, verso le ore 23.15, nel carcere di Catanzaro, impiccandosi all’interno della cella dove si trovava da solo. Aveva 25 anni. A renderlo noto è il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. “Sono 12 i suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane - affermano Giovanni Battista Durante e Damiano Bellucci, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - ai quali vanno aggiunte le morti per cause naturali. In Calabria - continuano - i detenuti presenti sono più di 3.000, per una capienza regolamentare di 1.875 posti. I detenuti in attesa di giudizio sono 1.498: 917 in attesa di primo giudizio, 283 appellanti, 206 ricorrenti in Cassazione e 92 in posizione mista. A Catanzaro i detenuti sono circa 600, per una capienza regolamentare di 354 posti. C’è un nuovo padiglione che non potrà essere utilizzato per mancanza di personale. Speriamo che il disegno di legge presentato dal ministro della giustizia Paola Severino sulla messa in prova venga approvato al più presto. Nell’incontro che abbiamo avuto la scorsa settimana al ministero della giustizia - è scritto - il ministro ci ha assicurato che il disegno di legge ha ottenuto in Parlamento una corsia preferenziale per una celere approvazione. Anche il presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini, che abbiamo incontrato ieri, ci ha assicurato il suo personale impegno. Con l’approvazione di questo disegno di legge - ricordano i due sindacalisti - i condannati fino a quattro anni di reclusione possono essere affidati all’esterno del carcere per svolgere lavori socialmente utili”. Napoli: intesa tra Provincia e Tribunale per lavoro a detenuti Agi, 28 febbraio 2012 Cinque detenuti del napoletano potranno lavorare per la collettività grazie a una convenzione firmata dal presidente della Provincia di Napoli, Luigi Cesaro, e il presidente facente funzioni del tribunale di Torre Annunziata, Umberto Lauro. Il lavoro dei condannati non sarà retribuito. La convenzione avrà la durata di due anni. L’ente provinciale si impegna ad assicurare il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del condannato, nonché l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali e la responsabilità civile verso i terzi. Firenze: dalla Provincia 500 mila euro per l’inserimento dei più deboli Redattore Sociale, 28 febbraio 2012 Al via il progetto Filp, finanziato dalla provincia tramite risorse del fondo sociale europeo. Circa 300 persone prese in carico in pochi mesi. Svolgeranno tirocini formativi retribuiti. Simoni: “Scelta obbligata data la delicata situazione”. Al via a Firenze e provincia il progetto Filp, acronimo diFiliera d’Inserimento Lavorativo Integrata. Finanziato dalla provincia di Firenze tramite risorse del fondo sociale europeo, per un importo che sfiora il mezzo milione di euro, il progetto rientra nel ventaglio di azioni che Palazzo Medici Riccardi porta avanti per contrastare la difficile situazione economica e occupazionale di questi anni, in collaborazione con il tessuto sociale e istituzionale locale. Filp prevede una serie di azioni integrate per orientare al lavoro uomini e donne in particolari situazioni di difficoltà: detenuti ed ex detenuti, tossico e alcool dipendenti, soggetti in trattamento psichiatrico, nuove povertà, famiglie monoparentali, giovani disoccupati. Il percorso parte con la presa in carico dell’utente, segnalato da centri per l’impiego, servizi sociali ed enti carcerari, e prosegue con un iter di orientamento specialistico e di tutoraggio al lavoro. Una volta valutate le abilità lavorative del soggetto, la persona viene indirizzata verso percorsi formativi o di educazione al lavoro e, successivamente, a tirocini formativi in azienda, che prevedono un rimborso spese di 400 euro mensili. L’équipe che svolge l’indagine conoscitiva e l’orientamento dei soggetti segnalati è composta da operatori Caritas, Arci, Ciao Firenze e da membri della direzione Lavoro della provincia di Firenze. “Investire in questa iniziativa - spiega l’assessore provinciale al lavoro Elisa Simoni - ci è sembrata una scelta obbligata, data la particolare situazione sociale ed occupazionale che stiamo vivendo. L’emersione delle nuove povertà ci spinge a rivolgerci con particolare attenzione a donne sole con figli, a over25 disoccupati, a famiglie con invalidi o disabili e a tutti quei soggetti che ci vengono segnalati dalle Prefetture, dai servizi sociali e dagli stessi Centri per l’impiego”. “In tempi in cui i servizi sociali devono caratterizzarsi più per il profilo dell’integrazione che per l’aspetto assistenzialistico - ha commentato Stefania Saccardi, assessore al welfare e politiche del lavoro del comune di Firenze - è sempre più importante creare un legame virtuoso con i servizi per il lavoro. Solo attraverso il lavoro, infatti, si può aiutare le persone in situazione di disagio a raggiungere l’autonomia: è questo il fine vero del nostro intervento”. “Per noi - ha detto la presidente dell’Arci Firenze Francesca Chiavacci - si tratta di un progetto che entra concretamente nel vivo del tema dell’uguaglianza e delle pari opportunità di accesso al mondo del lavoro e che mostra tutta la sua importanza nelle fasi di crisi come quella che il nostro Paese sta attraversando”. Nei primi 5 mesi di attività, ossia nel periodo compreso tra ottobre 2011 e febbraio 2012, gli operatori hanno ricevuto in totale300segnalazioni (250 circa dalla città di Firenze e 50 dal resto del territorio provinciale). “Questi numeri già di per sé ci indicano la bontà del progetto - ha affermato Alessandro Martini, direttore Caritas Firenze - e ci riempiono di soddisfazione. Certo, non possiamo nascondere anche un senso di preoccupazione per l’incremento nei numeri e nelle tipologie di tutte quelle persone che rischiano di restare al di fuori del mercato del lavoro”. Rieti: Lisiapp; apertura nuovo Padiglione, decisione troppo affrettata per mancanza di organico Agenparl, 28 febbraio 2012 Nota della segreteria generale del Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria Lisiapp per voce del suo leader nazionale Mirko Manna: “Così è stato deciso nelle stanze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che dà l’autorizzazione all’apertura del nuovo padiglione del carcere di Rieti senza tenere conto delle condizioni e della pianta organica effettiva”. Il personale di Polizia penitenziaria continua il segretario generale Manna , ne ha avuto comunicazione nei giorni scorsi dalla Dott. Vera Poggetti direttrice della struttura penitenziaria reatina la quale ha comunicato che, “a seguito di uno sfollamento di altri Istituti Laziali si è reso necessario attivare e rendere operativo i padiglioni dell’istituto penitenziario”. Ad oggi, sottolinea Manna dopo la forzatura avvenuta a Marzo 2011 dalla precedente Direzione e le manifestazioni dei sindacati a sostegno del personale, si è provveduto comunque all’apertura di una nuova sezione del reparto G2 senza nemmeno tenere conto delle problematiche in atto e di investire le organizzazioni sindacali in tale decisione. Secondo noi afferma Manna, questo provvedimento prelude alla prossima apertura delle restanti sezioni del reparto G2 per poi pianificare la successiva apertura dei reparti G.3 e G.4 che porterebbe la capienza dell’Istituto di Vazia a circa 500 detenuti nonostante le richiamate problematiche di carenza di personale ma oltre ciò anche di gestione sanitaria. Ad oggi, denuncia il sindacato Lisiapp, la Asl locale non ha previsto un servizio di guardia medica notturna con conseguenza che dopo le 20.00, in caso d necessità, si è costretti a far intervenire la Guardia Medica esterna con i notevoli disagi che questo comporta per i Cittadini di Rieti e per i detenuti gravemente Malati. Poi continua la nota Lisiapp, entrando nello specifico , la locale cucina centrale del carcere è in grado, viste le attrezzature di cui dispone, di confezionare pasti per non più di 180 detenuti. Il servizio operativo locale delle traduzioni ha un parco auto scarso e inadeguato per i compiti che svolge. Inoltre conclude Manna la struttura oltre essere priva di organico previsto per attuare e giustificare le aperture dei reparti in questo stato, sicuramente si riverserà in modo insostenibile un carico di lavoro superiore sulle spalle dei poliziotti, oltre che una scarsa presenza di sottufficiali di Polizia Penitenziaria mentre negli uffici comincia a scarseggiare il materiale di cancelleria in particolare la carta per le fotocopie. San Gimignano (Si): Sappe; due detenuti albanesi aggrediscono agente di Polizia penitenziaria Comunicato stampa, 28 febbraio 2012 “Continua inarrestabile l’escalation di violenza nelle carceri toscane. L’ultimo episodio in ordine di tempo - dopo le risse, le aggressioni, i tentativi di suicidio ed i suicidi, le evasioni accadute nelle ultime settimane - è avvenuto questa mattina nel carcere di San Gimignano dove, all’apertura delle celle per l’ora d’aria, due detenuti albanesi hanno avuto un diverbio con altri connazionali ristretti in altra camera. L’Agente, prontamente intervenuto, è stato bloccato dai due e gli sono state prese le chiavi della cella: uno bloccava il collega e l’altro tentava di aprire la cella dei connazionali, i quali a loro volta cercavano di colpire i due, con calci e pugni e persino lanciando loro contro del caffè bollente. L’Agente è quindi riuscito a liberarsi dalla stretta e a recuperare le chiavi e, anche per il pronto intervento degli altri colleghi in servizio, la situazione è tornata alla calma, con i due rivoltosi bloccati e ristretti nella Sezione isolamento del carcere. Ma è evidente che in Toscana accadono troppo spesso eventi critici che vedono i poliziotti penitenziari lasciati da soli a gestire le criticità nella prima linea delle sezioni detentive. E questo non è più accettabile!”. Duro atto di accusa di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione ai gravi fatti accaduti questa mattina a San Gimignano. “Torno a denunciare che se c’è un dato che sconcerta, nell’attuale quadro del sistema penitenziario nazionale - con 67mila detenuti stipati laddove dovrebbero starcene 43mila - e toscana - in cui circa 4.200 ristretti sovraffollano le 18 carceri toscane nonostante una capienza regolamentare pari a circa 3mila e 200 posti -, con decine e decine di eventi critici a Lucca, San Gimignano, Firenze, Pisa ed in tutta Italia è la pressoché generale assenza sul territorio e negli istituti di competenza di buona parte dei Provveditori regionali dell’Amministrazione penitenziaria, dirigenti generali dello Stato lautamente stipendiati, che per la legge sono - o meglio, dovrebbero essere - i referenti regionali dell’Amministrazione centrale del Dap. Dovrebbero diramare disposizioni per contenere le criticità ed invece sono del tutto assenti. Tanto nella prima linea delle sezioni detentive ci stanno le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, mica loro”. Capece aggiunge: “Il Dipartimento penitenziario da anni non da corso ad un piano nazionale di mobilità di tutti gli attuali Provveditori Regionali penitenziari, per buona parte senza più stimoli professionali nelle attuali sedi di servizio e ben integrati nel più impiegatizio e redditizio ruolo di burocrati. Dovrebbero occuparsi di calare sul territorio le politiche penitenziarie dell’Amministrazione centrale, con particolare riferimento all’ordine ed alla sicurezza degli Istituti vista la contingente critica situazione, ed invece non fanno alcunché per gli istituti di pena territorialmente da loro dipendenti. Serve un deciso cambio di passo nella gestione dei penitenziari toscani e nazionali!” Siracusa: il Garante Fleres; tentato suicidio dimostra condizioni degrado in cui vivono i reclusi Italpress, 28 febbraio 2012 “Il tentato suicidio del recluso extracomunitario, avvenuto presso il carcere di Siracusa nella notte tra il 26 ed il 27 febbraio, è l’ennesima dimostrazione dello stato di degrado in cui versano la maggior parte delle strutture penitenziarie del nostro Paese”. Lo afferma il senatore Salvo Fleres, Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana. “Ho già inoltrato un’apposita richiesta di informazioni presso la direzione del carcere - prosegue Fleres - ma è presumibile che qualunque sia stata la motivazione di base che ha condotto il recluso a compiere tale gesto, il contesto generale, determinato dal sovraffollamento, dalla carenza di personale, dall’esiguità dei mezzi finanziari assegnati alle strutture penitenziarie, che non consentono di poter garantire i servizi minimi, ha fatto il resto”. Castrovillari (Cs): il caso Altomonte portato all’attenzione del ministro Severino di Maurizio Bolognetti Notizie Radicali, 28 febbraio 2012 Il 2012 è iniziato da meno di due mesi e nelle patrie galere già contiamo 11 suicidi, o forse sarebbe meglio parlare di omicidi di stato, figli di condizioni di detenzione che violano la legalità costituzionale e le convenzioni internazionali sulla tortura e a tutela dei diritti umani. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: il carcere in questo nostro paese è assurto a luogo di tortura per l’intera comunità penitenziaria. Non ci sono solo i detenuti e gli agenti di Polizia penitenziaria che decidono di farla finita nel carcere, “consistente e allarmante nucleo di nuova shoah”, nelle patrie galere va in scena quotidianamente la commedia dell’assurdo. In queste ore, per esempio, apprendiamo di un detenuto settantaduenne, il sig. Altomare, che si è rotto un femore nel carcere di Castrovillari, una struttura che merita in pieno la definizione di carcere d’oro. Oro per chi lo costruì a metà degli anni ‘80 e ferro arrugginito, che fa capolino dal cemento armato, per chi ha la sfortuna di esservi ristretto o di lavorarci. Altomare, indigente e con problemi di incontinenza, è stato arrestato qualche mese fa in esecuzione di una pena divenuta definitiva. Una volta tradotto nelle anguste celle del carcere di Castrovillari, che poche settimane fa sono state oggetto di una interrogazione parlamentare presentata dall’On. Rita Bernardini, l’area sanitaria del carcere gli ha affiancato un detenuto con il compito di fargli da badante. Nonostante queste cautele è però successo che pochi giorni fa Altomare sia caduto nelle docce e si sia rotto un femore. Non so di quale crimine sia accusato il sig. Altomare, ma mi chiedo se abbia un senso costringere un settantaduenne con problemi di salute in un cubicolo di due metri per tre, con un altro detenuto a fargli da assistente. Altomare attualmente è ricoverato presso il carcere di Castrovillari e noi ci chiediamo se non sia il caso di concedergli i domiciliari, consentendogli di far ritorno alla casa di riposo. Non vorremmo dover leggere, tra qualche mese, il suo nome nel bollettino diffuso dall’Associazione “Ristretti Orizzonti” su coloro che decidono di farla finita. Sulla vicenda descritta da Maurizio Bolognetti i parlamentari radicali (prima firmataria Rita Bernardini), hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Paola Severino. Ecco il testo. “Al ministro della Giustizia. Per sapere, premesso che il 24 febbraio 2012 il segretario di Radicali Lucani Maurizio Bolognetti ha scritto una nota riportata dal sito di Radicali Italiani; nella nota si riporta la vicenda del detenuto settantaduenne Altomare, indigente e con problemi di incontinenza che si è rotto un femore pochi giorni fa cadendo nelle docce del Carcere di Castrovillari, già oggetto di un’interrogazione parlamentare della prima firmataria del presente atto a seguito di una visita ispettiva; nella suddetta interrogazione, la n. 4-14504 del 16 gennaio 2012, descrivendo le illegali condizioni di detenzione, si faceva presente che “le celle non dispongono di acqua calda e le docce sono consentite a giorni alterni in appositi, degradati, locali”; l’anziano detenuto Altomare - secondo quanto riportato nella nota di Maurizio Bolognetti - “è stato arrestato qualche mese fa in esecuzione di una pena divenuta definitiva. Una volta tradotto nelle anguste celle del carcere di Castrovillari, l’area sanitaria del carcere gli ha affiancato un detenuto con il compito di fargli da badante. Nonostante queste cautele è però successo che pochi giorni fa Altomare sia caduto nelle docce e si sia rotto un femore. Non so di quale crimine sia accusato il sig. Altomare, ma mi chiedo se abbia un senso costringere un settantaduenne con problemi di salute in un cubicolo di due metri per tre, con un altro detenuto a fargli da assistente. Altomare attualmente è ricoverato presso il reparto ortopedia dell’ospedale di Castrovillari e noi ci chiediamo se non sia il caso di concedergli i domiciliari, consentendogli di far ritorno alla casa di riposo. Non vorremmo dover leggere, tra qualche mese, il suo nome nel bollettino diffuso dall’Associazione “Ristretti Orizzonti” su coloro che decidono di farla finita”:- se quanto riportato in premessa corrisponda al vero; se le condizioni di salute del Sig. Altomare siano compatibili con il regime di detenzione presso la Casa Circondariale di Castrovillari; se nelle relazioni semestrali della competente Asl siano state segnalate le evidenti scadenti condizioni igienico-sanitarie delle celle e, in particolare, delle docce; quali siano le ragioni che abbiano portato il ministero della Giustizia a non prendere in considerazioni le segnalazioni contenute nell’interrogazione n. 4-14504. Pistoia: nasce “Cittadini anche in Carcere”, coordinamento per il sostegno ai detenuti Il Tirreno, 28 febbraio 2012 Lettera aperta ai detenuti della casa circondariale da parte del coordinamento “Cittadini anche in carcere”, alcuni rappresentanti del quale operano come volontari all’interno del carcere. “Consapevoli della grave situazione che come detenuti state vivendo - dice la lettera - promuoviamo delle azioni di sensibilizzazione nonché delle proposte concrete da rivolgere, sia alla direzione del carcere, sia alle amministrazioni pubbliche locali come il Comune, la Provincia e la Asl. Crediamo che questi enti possano, se stimolati nella giusta direzione, rendere operativi alcuni piccoli provvedimenti che migliorerebbero la vostra permanenza quotidiana all’interno dell’Istituto, favorendo inoltre l’aspetto rieducativo e il reinserimento sociale. Al fine di inoltrare delle richieste mirate maggiormente rispondenti alle vostre necessità, vi chiediamo come Coordinamento di scriverci sottoponendoci le vostre osservazioni, richieste e proposte. Precisiamo che il coordinamento “Cittadini anche in Carcere” non è un Ente, non ha mezzi finanziari, ma è solamente un gruppo operativo di persone che intende sensibilizzare la cittadinanza e il mondo delle istituzioni sul tema carcere, troppe volte vissuto erroneamente come un’entità esterna, un’isola sconosciuta all’interno della città. Fatto salvo il diritto di riservatezza siete invitati a scriverci al seguente indirizzo postale: Nila Orsi - Casella postale n° 45 - Pistoia Centro”. Brescia: così abbiamo tentato la fuga da Canton Mombello… Corriere della Sera, 28 febbraio 2012 Si sono guardati intorno, e hanno visto che nessuno li stava controllando. Che erano soli, durante la loro ora d’aria. Solo 12 guardie in tutto il penitenziario. E hanno deciso di tentare la fuga, con Fatmir Gashi, kosovaro di 24 anni: l’unico riuscito a evadere da Canton Mombello, alle 10.15 di domenica. E da allora è ricercato. Così ha raccontato al giudice Arben Rrezja, anche lui kosovaro, 21 anni, in aula per la direttissima con il complice Julian Dauti, 38 anni, albanese, che si è avvalso della facoltà di non rispondere. “Non era un piano premeditato”, dice. A loro due è andata male. Li hanno fermati lì, nella “terra di nessuno”, nel corridoio tra il muro interno (circa 4 metri con tanto di rete) e quello perimetrale che separa il penitenziario dal mondo. Un balzo di oltre 8 metri sul lato nord, verso i campi da tennis, riuscito solo a Gashi. Addetto alle cucine, a quel lembo di asfalto poteva accedere senza scavalcare nulla: per vuotare la spazzatura nei cassonetti posizionati sotto il muro di cinta. Accompagnato da una guardia. Che domenica però non c’era, al suo seguito. Così come le vedette armate. Perché di guardie, a Canton Mombello, non ce ne sono abbastanza (180 in tutto, su una pianta che ne prevede 300) come denunciato più volte. E allora succede che un detenuto riesce a utilizzare la cinghia (che fissa i sacchi dell’immondizia ai bidoni) come lazzo per evadere. Secondo la testimonianza di Rrezja (“Gashi ha detto che ci avrebbe buttato la corda”, ha raccontato), difeso da Giovanni Migliorati, lui e Dauti (assistito da Stefano Ricci) l’avrebbero usata per oltrepassare il primo muro. Poi, una volta scavalcato, l’avrebbero quindi passata a Gashi che se ne sarebbe servito per oltrepassare la muraglia perimetrale. L’ultimo ostacolo prima della libertà. Quello che il rapinatore kosovaro è riuscito a varcare. Ma non le sue scarpe, recuperate al di qua della barricata. Le avrebbe tolte per fare in fretta, per arrampicarsi più agevolmente. Lasciate lì dove sono stati braccati il complice connazionale, che avrebbe tentato di scavalcare, e l’albanese, sorpreso invece fermo ai piedi del muro, con lo sguardo rivolto verso l’alto: per il suo difensore non è da escludersi che possano aver trovato alcune porte aperte, e che non abbiano quindi varcato alcun muro. Ma sta di fatto che si trovavano là dove non avrebbero dovuto. E che in cella ci sono tornati, nonostante dopo tre ore di camera di consiglio il giudice, Luca Tringali, non abbia convalidato l’arresto: paradosso, la legge non prevede la flagranza di reato per tentata evasione. Gli atti tornano quindi alla procura, che procederà con la citazione diretta. Intanto, la caccia all’uomo continua. Al vaglio anche la posizione di chi avrebbe dovuto sorvegliarlo. Napoli: l’1 marzo si festeggia il primo anniversario della Crivop onlus Campania Comunicato stampa, 28 febbraio 2012 Giovedì 1° marzo Crivop Onlus Campania festeggia il primo anno della sua costituzione con due manifestazioni e la partecipazione straordinaria della Corale “Osanna” di Casalnuovo di Napoli. “L’obiettivo fondamentale dell’incontro - dichiara Davide Di Falco, Presidente di Crivop Campania - è quello di portare grazie alla preparazione raffinata della corale, un messaggio che aiuti le persone ristrette a trovare quella pace interiore necessaria ad affrontare con equilibrio la loro esistenza”. Nel corso del Raduno pomeridiano la Crivop condividerà i progressi compiuti in questo anno di attività in campo penitenziario, documentando le proprie esperienze con filmati, fotografie e testimonianze di ex detenuti che hanno attuato un cambiamento di vita. Ore 10:30/12:00 Casa Circondariale Napoli Secondigliano in Via Roma verso Scampia, 350 - 80100 Napoli. Concerto gospel con la corale “Osanna” di Casalnuovo di Napoli. Ore 19:30/21:30 Comunità Cristiana Via Vesuvio, 53 - Rione Luzzatti 80143 Napoli Gianturco. (Ingresso Libero) Apertura del Raduno: Davide Di Falco Presidente Crivop Onlus Campania. Concerto gospel con la corale “Osanna” di Casalnuovo di Napoli. Testimonianze ex detenuti: Walter Durante, Nicoletta Frascogna, Michele Caparro. Filmati dei progressi compiuti in questo anno di attività nelle carceri. Interventi vari di operatori volontari penitenziari. Intervento del Fondatore e Presidente Nazionale della Crivop Onlus Michele Recupero. Conclusione: Messaggio della Parola di Dio. Per informazioni: tel. 393 8802001 (Segreteria Crivop Onlus Campania) Libri: “Più alto del mare”, di Francesca Melandri; la scrittrice torna a parlare di terrorismo di Oreste Pivetta L’Unità, 28 febbraio 2012 I protagonisti sono i parenti di due condannati, una guardia carceraria e sua moglie. Ma racconta anche nell’epilogo di trent’anni dopo che cosa ne è stato di tutto quel dolore. Un’isola e il profumo, di salmastro, di fico, d’elicriso, il fiore che s’ingegna a crescere nel secco, tra le pietre. Dopo l’irrealtà, per noi, di uno sbarco nella notte da un elicottero degno dei cieli del Vietnam nell’isola di un carcere di massima sicurezza, la realtà materiale di quel profumo che subito rivela i luoghi: il mare, le scogliere, l’erba rasa e secca, il cielo, il vento, il piccolo porto, le piccole case. Oltre, all’orizzonte, immaginiamo la fortezza. Narrando di detenuti, la prigione resta però lontana, perché è la vita fuori che interessa, quando la vita fuori incappa nelle disgrazia di un legame con la vita dentro. Un legame inevitabile di sentimenti, la fisicità è un’altra cosa. Provo a riassumere così il nuovo romanzo di Francesca Melandri, “Più alto del mare” (Rizzoli), storia di due sconosciuti, un uomo e una donna, che raggiungono insieme l’isola per la visita al figlio rispettivamente e al marito, un terrorista e un omicida qualunque, e che sull’isola restano per un accidente (complice la burrasca che può infuriare), che si conoscono e conoscono una guardia e sua moglie, e si rivelano, rivelandosi il proprio dolore. Francesca Melandri, di mestiere sceneggiatrice (“colpevole” di Fantaghirò e persino di Don Matteo), è al secondo romanzo. Il primo, “Eva dorme” (Mondadori), racconta, nella storia di un secolo, anche di terrorismo, quello altoatesino. Qui al terrorismo ritorna, al terrorismo degli anni di piombo, attraverso la figura del giovane detenuto. Perché ancora gli anni di piombo? “Allora ero una ragazzina, frequentavo le superiori. Ma ho un ricordo vivo dei giorni del sequestro di Aldo Moro. Il ricordo del cielo cupo di un Paese in stato d’assedio, di paura, di angoscia. Misurandomi con quel ricordo, mi sono interrogata sul senso di quella tragedia e mi sono chiesta in particolare come si potesse uccidere, praticare una violenza così concreta, sulla scia di una idea così astratta, un’idea che diceva di rivoluzione mentre loro, i terroristi, qualsiasi possibilità di rivoluzione spegnevano. Non per nulla ho trascritto in esergo una frase di Walter Tobagi, il giornalista assassinato nel 1980...”. Una frase che dice: “Tutti i dirigenti sindacali lo ripetono, il terrorismo è l’alleato oggettivamente più subdolo del padronato, se esso non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio”. Da un articolo sul “Corriere della Sera”. È mai stata in un carcere? “Non ci sono mai stata. Ma neppure questo romanzo ci porta nel carcere. Il carcere è sullo sfondo. Cerco di leggere il rapporto tra esterno e interno, dalla parte però di chi è fuori, che magari cerca di immaginarsi dentro le mura, ma non può immaginare, non può conoscere qualche cosa che è inconoscibile rispetto ad un’esperienza comune di una persona libera”. Direi inconoscibile per definizione. Anche le sbarre o le serrature cambiano: dipende da che parti stai a guardare... Come nascono quei personaggi? “Personaggi di fantasia, somma di storie e di figure che ho conosciuto. Paolo è un professore universitario, Luisa è una donna di montagna e probabilmente reca in sé i caratteri di tante donne che ho incontrato frequentando la montagna, forte risoluta capace di tirare avanti malgrado la disgrazia che l’ha colpita. Poi c’è la guardia carceraria e c’è la moglie. Quattro persone più un’isola e tutto ruota attorno a loro, alla loro solitudine inasprita dalla presenza di quel penitenziario. Di loro, e in particolare di Luisa e Paolo, mi interessa l’amore, perché è un amore nudo: quando il padre, ad esempio, ama il figlio, pur non sapendo ormai nulla di lui, non potendolo più stimare, senza più alcuna consuetudine, senza più alcuna buona ragione per amarlo”. L’ultimo capitolo è la storia 30 anni dopo. La guardia carceraria non fa più la guardia. Luisa è diventata vedova e ha una relazione con un amico d’infanzia. Paolo vive con il figlio, che lavora in una coop e scrive ai familiari delle vittime. Perché ha voluto raccontarci come è andata a finire? “Per dire, anche in modo didascalico, quanto sia cambiato nella vita di quelle persone e nella nostra. Per chiedermi se si è andati oltre il dolore collettivo che il terrorismo ha indotto, in un Paese che ne resta ancora segnato, perché non si è mai fatta piena luce su quella tragica esperienza, risalgo ovviamente alle bombe, a piazza Fontana, perché è stato appena ritoccato un micidiale impasto di sofferenza e di verità negate. Un momento di verità è stato per me quando nel discorso pubblico sul terrorismo s’è ascoltata la voce delle vittime e dei loro familiari, quando se ne è parlato non più solo in termini politici o ideologici”. Televisione: domani mattina in “Apprescindere” (Rai 3) la chiusura dei manicomi criminali Agi, 28 febbraio 2012 Il Senato ha approvato un emendamento al decreto sulle carceri che impone la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, i cosiddetti manicomi criminali, suscitando grandi polemiche. Il Guardasigilli assicura: i detenuti, se pericolosi, saranno custoditi in luoghi in cui si privilegia la cura senza rinunciare alla vigilanza. Ci saranno le strutture necessarie alla cura di questi detenuti? Michele Mirabella e Elsa Di Gati ne parleranno nella puntata di Apprescindere, in onda mercoledì 29 febbraio alle 11.00 su Rai 3, con l’onorevole Ignazio Marino del Pd, lo psicologo Vittorino Andreoli, Teresa Di Fiandra direttore psicologo del Ministero della Sanità e Lucio Del Buono presidente Associazione Vittime della 180. Europa: Oms denuncia; hiv, tbc, droga e problemi mentali, rischio salute per oltre 2mln detenuti Adnkronos, 28 febbraio 2012 Salute a rischio per oltre due milioni di persone recluse nelle prigioni europee. Lo sottolinea il “braccio europeo” dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui i carcerati sono più a rischio di Hiv, tubercolosi, cattiva salute mentale e dipendenza da sostanze rispetto agli altri. Contrastare la diffusione di malattie infettive in prigione è fondamentale non solo per proteggere la salute dei carcerati, ma anche per ridurre il rischio che queste si trasmettano al resto della comunità. Ecco perché è nato il Who Health In Prison Programme, un programma che sostiene gli Stati nell’impegno per garantire la salute e le cure in carcere, e facilitare i contatti con i servizi sanitari e gli istituti di pena a livello nazionale e internazionale. L’Oms Europa ha diffuso su You Tube tre filmati per documentare la situazione dei detenuti in Azerbaijan, Danimarca e Kyrgyzstan. Israele: continua lo sciopero della fame della detenuta palestinese Hana Shalabi Nova, 28 febbraio 2012 Lo sciopero della fame della prigioniera palestinese Hana Shalabi entrato ieri nel 13° giorno; la donna, scrive il quotidiano “al Safir”, assieme ad un altro detenuto Khider Adnan, si aggiunge alla schiera di miliziani palestinesi che stanno attuando o hanno attuato questa forma di protesta. La Shalabi sta scontando un nuovo periodo di detenzione di sei mesi dopo essere stata rilasciata insieme ad altri mille prigionieri nell’ottobre scorso nell’ambito dello scambio con il militare israeliano Gilad Shalit. Questo, scrive il giornale arabo, mentre un rapporto stilato da un organismo dipendente del ministero degli Esteri israeliano mette in guardia dal possibile scoppio di una terza Intifada nella Cisgiordania occupata.