Giustizia: Sbriglia (Sidipe); il Parlamento presti attenzione alle carceri, prima che brucino Notizie Radicali, 27 febbraio 2012 La situazione delle carceri italiane è sempre più critica. E se il ministro della Giustizia Paola Severino ha cercato di affrontare il problema con il decreto svuota-carceri, si aspetta che in Parlamento si crei una maggioranza qualificata per approvare ulteriori interventi. Il Sidipe, organizzazione sindacale dei direttori e dirigenti penitenziari, lancia l’ennesimo appello: “La terribile sequela di suicidi di persone detenute e la frequenza di altrettanti suicidi da parte di operatori penitenziari deve far riflettere” sottolinea a tempi.it Enrico Sbriglia, segretario nazionale. “È un sistema che non va e deve essere rivisto, il più in fretta possibile”. Segretario, in che stato verte il sistema penitenziario? Purtroppo è l’impietosa immagine di una crisi dei valori della democrazia in Italia. Uno Stato che non mantiene le promesse non sarà più percepito come tale dalla sua comunità. Le nostre carceri si sono ridotte a essere dei non-luoghi: quando non esprimono dolore e paure, appaiono invisibili, nell’indifferenza dei benpensanti e dei militanti del diritto sospirato. Intanto, le prigioni schiacciano con il loro peso di sofferenza sia gli operatori penitenziari che le vite di quanti sono detenuti, e dei quali dovremmo pretendere solo la libertà, e non anche la dignità. L’amnistia, pur necessaria, pone sempre un problema di pubblica sicurezza: cosa risponde? È finta sicurezza quella di uno Stato che comprime 67 mila persone in posti che a malapena ne potrebbero accogliere 43 mila. È finta sicurezza quella di uno Stato che per sorvegliare tutti non sorveglia nessuno. Specialmente quei detenuti più pericolosi per la collettività, confusi in mezzo a quelli del disagio e delle nuove povertà. È finta sicurezza quella di uno Stato che riduce gli organici del personale delle carceri mentre, contestualmente, cresce il numero dei detenuti, così come quello dei suicidi dei medesimi. Anche gli operatori penitenziari soffrono un fortissimo disagio. Cosa servirebbe? Tanti cercano di abbandonare il fronte delle prigioni. Chi può si fa trasferire in uffici distanti, perfino in altri enti o sotto-enti pubblici, purché lontani, debitamente lontani, dai serragli che eufemisticamente appelliamo come “case” circondariali o di reclusione. Operare in carcere, in queste condizioni, consuma. Le problematiche sono sempre meno acute e sempre più croniche, e sfociano in convulsioni che potrebbero divenire ingovernabili. Occorre iniettare nel sistema risorse vere, finanziarie ed umane, perché quanti vi lavorino non se ne debbano vergognare, e perché davvero si produca il bene della sicurezza e non, invece, l’oscuro presagio di uno Stato malato. Ci spiega quali sono gli aspetti più critici? Sono oltre sei anni che i direttori penitenziari sono senza contratto di lavoro. Molte sedi carcerarie ed uffici dell’esecuzione penale esterna sono privi di dirigenti titolari. Mancano educatori, assistenti sociali, psicologi. E ci sarebbe bisogno anche di ingegneri ed architetti, di tecnici manutentori, sono assenti gli interpreti. La polizia penitenziaria non dispone di medici del Corpo. Mancano gli agenti giovani, tanti hanno superato i 50 anni. È carente il personale amministrativo. Perfino il sistema minorile è in crisi: fa difetto, occorrerebbe costituire un comparto pubblico ad hoc, non essendo comparabile con nessun altro, ancorché di polizia, pure facendo anch’esso sicurezza. Il decreto sulle liberalizzazioni prevede anche lo strumento del “project financing”, ovvero la possibilità di assegnare a privati la realizzazione di strutture carcerarie. Potrebbe essere una soluzione? Occorre chiarire che non solo i servizi di sorveglianza, ma anche tutti quelli che attengono alla osservazione della personalità ed al trattamento delle persone detenute (compresi quelli sanitari, psicologici e amministrativi) rimarranno saldamente in mano pubblica, gestiti da un personale pubblico. Gli altri servizi potranno rientrare nel project: mi riferisco a quelli relativi alla gestione della mensa aziendale del personale, i servizi di pulizia, eccetera. Ai sensi dell’art. 28 della Costituzione italiana, i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti e le persone detenute sono titolari di diritti oltre che di doveri. Cosa chiedete alle istituzioni? Il ministro Severino ci è apparsa davvero attenta alla questione, ma la sua attenzione non basta. La pretendiamo anche da tutto il Parlamento. La questione Giustizia è politica allo stato puro e trasversale a tutti gli schieramenti. La situazione si fa ogni giorno più critica. Bisogna agire, prima che le carceri brucino. Giustizia: Testa (Radicali); 500 prescrizioni al giorno, riforme non possono prescindere da amnistia Notizie Radicali, 27 febbraio 2012 Dichiarazione di Irene Testa, Segretaria dell’Associazione Radicale il Detenuto Ignoto, membro della Direzione di Radicali Italiani: “Subito appresso alla notizia del proscioglimento di Silvio Berlusconi nel processo Mills per decorrenza dei termini, è pressoché unanime, da parte dei suoi avversari più viscerali, il coro di lagne e invocazioni di riforme contro il dispositivo della prescrizione. Verrebbe anche da dire, a questo punto, che chi è causa del suo mal dovrebbe piangere e maledire se stesso. Da lungo, contro molti di loro, tra i più duri oppositori a un provvedimento di amnistia votata dal Parlamento alla luce del sole, denunciamo lo scandalo delle 500 prescrizioni di reati che ogni giorno avvengono silenziosamente nei tribunali italiani. Colpevoli (probabilmente proprio loro i maggiori beneficiari) e innocenti (che non ne avrebbero alcun interesse), tutti nel salvacondotto della prescrizione, purché dispongano di mezzi sufficienti per sostenere le spese legali tanto a lungo quanto richiesto dai termini. Principale concausa di questa situazione, che rende la giustizia italiana sempre meno giusta e sempre più classista, è il “tappo” di milioni di processi pregressi che ne intasano il funzionamento e che determinano, oltre che una reale discrezionalità dell’azione penale, l’allungamento dei tempi processuali per tempi insostenibili, più volte oggetto delle sanzioni della Corte europea contro l’Italia, fino alla fisiologica decorrenza dei termini di prescrizione. Continuare a ubriacare l’opinione pubblica per fame di consenso, con l’errata convinzione che sia possibile riformare la giustizia rendendola realmente giusta e efficiente, senza affrontare il nodo del pregresso processuale, equivale a un grande inganno, furbetto quanto sterile, di chi in realtà non vuole cambiare niente. Giustizia: così la legge svuota-carceri sposta solo il problema di Pericle Bergamo La Provincia di Como, 27 febbraio 2012 Una notizia relegata nelle pagine interne dei giornali, ripropone, in tutta la sua drammaticità, un problema sorto forse anche in conseguenza delle nuove disposizioni introdotte nel codice di procedura penale con decreto legge 17 febbraio 2012 numero 9, il cosiddetto vuota carceri. In sintesi, un nordafricano di 26 anni, arrestato a Firenze, è morto nelle camere di sicurezza della Questura, dove veniva trattenuto in attesa di comparire dinanzi al giudice entro le 48 ore, come previsto dalla nuova normativa. Quest’ultima prevede che gli arrestati in flagranza, solo in alcuni casi specifici possano essere condotti direttamente in carcere, e nelle 48 ore debbano essere trattenuti presso le camere di sicurezza della forza che effettua l’arresto. Questo episodio, al di là delle polemiche che certamente sorgeranno in capo alla Polizia, pone il problema della politica, sia dei veri politici che dei tecnici, che ha sempre un vulnus, rappresentato spesso dal difetto di un preciso approfondimento circa i problemi trattati. Il ministro di Grazia e Giustizia Severino, nella sua apprezzabile voglia di vuotare le carceri, ha previsto le nuove misure che, a parere di molti degli organi investiti, avrà delle ricadute negative sia sul morale sia sull’efficienza delle forze dell’ordine, sia anche in termini di certezze. Ogni qualvolta ci sarà un qualsiasi episodio negativo derivante da una detenzione in camera di sicurezza, si aprirà una polemica infinita dove tutti perderanno, forze dell’ordine, magistratura e in primis le persone . Siamo d’accordo sul processo per direttissima nelle 48 ore, (sarebbe anche meglio subito come nei telefilm americani!), non lo siamo per niente circa il trattenimento del detenuto nelle camere di sicurezza degli Uffici di Polizia. Il provvedimento, secondo noi, contiene elementi di forte decremento per l’attività istituzionale primaria delle forze di polizia. Il trattenimento di un detenuto nella camere di sicurezza, come ben sanno tutti gli operatori, oltre a determinare un forte grado di insicurezza per il detenuto stesso e per il personale che lo trattiene, provoca un danno enorme alla struttura con riflessi sul cittadino e sulla sicurezza complessiva. Se ipotizziamo, per sintesi esplicativa, che una volante o una radiomobile dei CC, arresti un ladro, ed uno solo, perché altrimenti si verificherebbe l’effetto moltiplicatore, in flagranza di reato, dovrà guardarlo in tutti i turni successivi fino al giudizio, con impiego almeno di due persone sulle 24 ore, ed ovviamente non potrà essere presente sul territorio. A parte questo in Questura o presso l’Arma non ci sono strutture adatte per il mantenimento di un detenuto che, deve mangiare, fare i suoi bisogni, avere almeno un minimo di ore d’aria, avere colloqui con i difensori o con tutte le esigenze ovvie del processo, dovrà lavarsi e così via. Moltiplichiamo tali evenienze per i vari corpi sul territorio, sarà ovvio che si possa arrivare alla paralisi completa di strutture e investigative e di prevenzione, fermo restando che altre forze presenti sullo stesso territorio sono prive di adeguate camere di sicurezza, come ad esempio polizia locale ed altri. Forse provvedimenti di tal fatta vanno ben argomentati e sperimentati, perché sono fortemente invasivi dell’autonomia e della operatività di chi ogni giorno sopporta un pesante carico di lavoro in favore della comunità e che pertanto va valorizzato e non certamente depresso o appesantito con compiti non propri. Vecchio artificio politico, riversare su altri l’emergenza del momento creando altra emergenza. Giustizia: sgravi a chi assume detenuti; in aula alla Camera progetto di legge bipartisan, ira della Lega Agi, 27 febbraio 2012 Sgravi per le imprese che assumono detenuti ed ex detenuti e norme per il loro reinserimento, secondo il dettato dell’articolo 24 della Costituzione. Approda oggi nell’aula della Camera una proposta decisamente bipartisan, firmata da deputati di tutti i gruppi. Sette i punti in cui si articola il testo, con il quale, ad esempio, si dispongono sgravi contributivi sulle retribuzioni corrisposte agli ex detenuti dalle cooperative sociali e si stabilisce che vengano applicati per un periodo di 12 o 24 mesi successivi alla detenzione a seconda che il detenuto abbia beneficiato delle misure alternative alla detenzione o del lavoro all’esterno del carcere o non ne abbia mai beneficiato. Con il provvedimento si estendono le agevolazioni alle aziende pubbliche e private che organizzino attività produttive, all’interno o all’esterno degli istituti di pena, impiegando persone sottoposte a misure alternative alla detenzione o al lavoro all’esterno. E questo limitatamente ai contributi dovuti per tali soggetti. La proposta modifica la disciplina del credito d’imposta in favore delle imprese che assumono lavoratori dipendenti detenuti e prevede un credito d’imposta in favore delle imprese che affidano a cooperative sociali o ad altre aziende l’esecuzione di attività o servizi costituenti occasione di inserimento lavorativo per detenuti da utilizzare in progetti di innovazione tecnologica, formazione professionale e di sicurezza. Il credito di imposta è concesso in proporzione all’attività di servizi affidata. Il testo prevede anche l’accreditamento presso il Ministero della giustizia e l’iscrizione in un registro apposito, per le cooperative sociali che assumono lavoratori detenuti e che svolgono attività di formazione, supporto, assistenza e monitoraggio degli inserimenti lavorativi effettuati, sia per attività proprie che per attività gestite dall’amministrazione penitenziaria o da altre imprese ed enti pubblici affidanti. Si stabilisce inoltre che gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, possano stipulare convenzioni con le cooperative sociali accreditate e iscritte in un apposito registro i, al netto dell’imposta sul valore aggiunto (Iva), anche superiori alle soglie stabilite dall’Unione europea, purché finalizzate a creare opportunità di lavoro per detenuti. Le cooperative sociali accreditate e iscritte nel registro vengono privilegiate nell’assegnazione dei fondi della Cassa delle ammende (istituita dall’art. 4 della legge 547 del 1932 e disciplinata dagli articoli 121 e seguenti del Dpr 230 del 2000), per progetti volti all’incremento delle assunzioni di lavoratori detenuti anche attraverso la ristrutturazione e l’ampliamento degli istituti penitenziari e l’acquisto di attrezzature. Ci sono poi disposizioni volte a favorire esperienze di auto imprenditorialità dei detenuti mediante la realizzazione di appositi progetti sperimentali di formazione professionale da parte dell’Amministrazione giudiziaria. “In una stagione in cui sembra che il welfare sia messo in forte crisi questa proposta rimette in campo questa dimensione alla luce dell’articolo 24 della Costituzione”, commenta Pisicchio. Ira della Lega su pdl bipartisan Maggiori sgravi fiscali alle imprese che assumono lavoratori detenuti: a meno di un mese dall’approvazione del decreto cosiddetto svuota-carceri, l’Aula della Camera torna ad occuparsi del tema degli istituti penitenziari, anche stavolta tra le proteste della Lega. Tutti gli altri gruppi invece, Idv compresa, condividono la proposta di legge di iniziativa parlamentare che concede per ogni lavoratore assunto “un credito mensile d’imposta pari almeno a 700 euro” (oggi è di 516 euro) alle cooperative sociali accreditate o alle imprese che assumono lavoratori detenuti presso istituti penitenziari o che beneficiano di una delle misure alternative alla detenzione previste o che sono ammessi al lavoro all’esterno. Il testo, ha spiegato in Aula la relatrice Alessia Mosca (Pd) aprendo la discussione generale, inoltre, modificando la legge Smuraglia del 2000, estende la durata temporale degli sgravi contributivi alle imprese anche ai dodici mesi dalla cessazione dello stato di detenzione se il detenuto ha beneficiato nel corso della pena delle misure alternative alla detenzione o del lavoro all’esterno o a ventiquattro mesi qualora il detenuto non ne abbia beneficiato. “Gli esperimenti dei lavori in carcere - ha detto Mosca - hanno dato buoni risultati”. La democratica ha citato il caso del carcere di Bollate dove ci sono 1100 detenuti: 184 di loro sono stati impiegati nella collaborazione con le imprese e nelle cooperative sociali. “Il tasso di recidiva - ha osservato Mosca - è stato abbattuto intorno al 12%”. Altro caso, citato dalla relatrice, quello di Padova dove “molte aziende di qualità come Roncato o Fastweb hanno affidato ai detenuti dei lavori. Nel caso della compagnia telefonica la gestione del call center”. Inoltre, proprio alla pasticceria del carcere di Padova, è stato assegnato il prestigioso premio del Piatto d’argento. Protesta la Lega che, nel corso della discussione generale in Aula, attacca: “Siamo orgogliosamente contrari a questo testo - sono le parole di Massimiliano Fedriga - la scelta che è stata fatta è quella di usare il Fondo per l’occupazione e la formazione per destinarlo a chi ha commesso reati e non ai nuovi disoccupati che in questo periodo di crisi sono sempre più numerosi. Noi siamo favorevoli al reinserimento sociale dei detenuti ma a titolo gratuito: questa legge invece garantisce privilegi a chi ha commesso reati a scapito di chi ha un’unica vera colpa, quella di essersi comportato onestamente”. Inoltre, ha rilevato Fegriga, “quasi il 54% della popolazione carceraria è composta da stranieri: noi togliamo i soldi dal fondo per l’occupazione per darli ai delinquenti stranieri. Questa legge combinata con lo svuota carceri manda all’estero il seguente messaggio: venite nel nostro paese, commettete reati, vi faremo uscire dalla galera subito e avrete un posto di lavoro”. Infine Fedriga ha ricordato un emendamento presentato dalla Lega per stipulare convenzioni “tra gli enti locali e gli istituti penitenziari per fare lavori socialmente utili o manutenzione strade, garantendogli i benefici previdenziali e l’assicurazione”. Al Carroccio che chiede perché dare lavoro ai detenuti in questo periodo in cui lavoro non ce n’è, la relatrice replica osservando: “Perché dando lavoro ai detenuti si crea un beneficio alla società sia in termini sociali ed economici che di minore allarme sociale”. Giustizia: sentenza della Corte di Strasburgo; le cure in carcere vanno garantite a tutti i detenuti di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2012 Non basta diminuire il sovraffollamento nelle carceri. Gli Stati devono assicurare ai detenuti un trattamento che garantisca il pieno rispetto della dignità umana. Così, nel caso di individui malati o affetti da disabilità motorie, le autorità nazionali devono mettere in campo trattamenti idonei a evitare che la salute peggiori. Se lo Stato non assicura cure mediche appropriate, tenendo conto del livello offerto in via generale alla collettività, incorre in una violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo ed è responsabile di trattamenti disumani e degradanti. È la conclusione raggiunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza del 7 febbraio 2012 (Cara-Damiani, n. 2447/05), ha inflitto, senza esitazioni, una condanna all’Italia. Questi i fatti. Un detenuto colpito da diverse patologie, che gli impedivano movimenti autonomi, era stato recluso nel carcere di Parma dotato di una sezione specializzata per disabili. Ma il ricorrente era stato collocato nella sezione ordinaria anche per i ritardi nell’apertura della struttura per i tagli al budget e per il poco personale disponibile. Malgrado i ripetuti allarmi lanciati dai medici, secondo i quali l’assenza di terapie riabilitative avrebbe causato un peggioramento della salute del detenuto, nulla era stato fatto. Di qui il ricorso alla Corte europea che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti, obbligando le autorità nazionali a risarcire la vittima con un indennizzo di 10mila euro. La Corte ha così allargato i confini della protezione dei detenuti, chiarendo che le cure mediche in carcere sono appropriate quando sono “comparabili a quelle che le autorità nazionali si sono impegnate a fornire all’insieme della popolazione”. Un’affermazione che rafforza i diritti dei detenuti, tracciando una continuità con il mondo esterno. Anche se la Corte sembra poi fare marcia indietro, chiarendo che questo non implica che debba essere garantito a tutti i detenuti lo stesso livello delle migliori cure mediche disponibili all’esterno: altrimenti sarebbe difficile conciliare le esigenze legate alla detenzione con le cure mediche. Gli Stati, quindi, devono garantire la protezione della salute del detenuto tenendo conto delle contingenze della detenzione: non esiste l’obbligo di rimettere in libertà i detenuti o trasferirli in ospedali civili. Ma costringere alla detenzione in strutture inadeguate un individuo senza dargli cure che permettono la riabilitazione e la cui mancanza provoca un aggravamento della sua situazione è un trattamento disumano e degradante. Questo anche quando non c’è la volontà delle autorità nazionali di umiliare il detenuto che, però, per l’inerzia dell’amministrazione, non ha le cure necessarie e non può muoversi autonomamente per le barriere architettoniche esistenti. Giustizia: il Sappe incontra Fini; da Presidente Camera attenzione e sensibilità Adnkronos, 27 febbraio 2012 Questa mattina una delegazione del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), composta dal segretario generale Donato Capece e dal segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante, ha incontrato il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini. “Come sempre, il Presidente Fini ha dimostrato molta attenzione e grande sensibilità verso i problemi del Corpo di polizia penitenziaria e delle carceri - sottolinea Capece. Abbiamo molto apprezzato la vicinanza del presidente al Sappe e al personale di polizia penitenziaria e l’attenzione con cui ha seguito l’esposizione dei problemi che gli abbiamo illustrato, nonché la competenza che ha dimostrato circa la conoscenza degli stessi”. “Abbiamo rappresentato al Presidente Fini la situazione generale delle carceri italiane - prosegue Capece - con particolare riferimento alle criticità quotidiane con le quali devono ogni giorno confrontarsi le donne e gli uomini della polizia penitenziaria. Gli abbiamo chiesto di sostenere il progetto di legge del ministro della Giustizia Paolo Severino sulla depenalizzazione dei reati minori e, soprattutto, sulla messa alla prova: istituto, quest’ultimo, che ha dato ottimi risultati nel settore minorile e che potrebbe essere altrettanto utili negli adulti, atteso che consentirebbe di espiare in affidamento al lavoro all’esterno le condanne fino a quattro anni di reclusione”. “Altro importante disegno di legge che dovrebbe essere licenziato dalla Camera - conclude - è quello relativo al lavoro dei detenuti: elemento, questo, imprescindibile per qualsiasi progetto di recupero sociale, ma anche per consentire il rimborso delle spese di mantenimento, di quelle di giustizia e il risarcimento delle vittime dei reati. Il Presidente Fini si è impegnato a seguire personalmente i due disegni di legge”, conclude il segretario generale del Sappe. Giustizia: da Cucchi a Bianzino, in piazza contro le “morti di Stato” Ansa, 27 febbraio 2012 Si sono ritrovati stamani a Perugia per chiedere verità per Aldo Bianzino, il falegname morto nella cella del carcere di Capanne il 14 ottobre 2007, e “per tutte le morti di Stato” Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Patrizia Moretti (madre di Federico Aldovrandi) e Lucia Uva (sorella di Giuseppe Uva). “Siamo qui compatti perché le nostre storie, pur nelle loro diversità, sono simili ed uguali se teniamo conto di ciò che subiscono le nostre famiglie nelle aule di tribunale” ha detto Ilaria Cucchi. “In questi processi - ha aggiunto - abbiamo la sensazione di essere soli contro tutti, talvolta anche contro i pubblici ministeri. Ma essere qui, uniti, ci dà la forza di andare avanti”. Di fronte al tribunale di Perugia è stato esposto uno striscione con scritto “Verità per Aldo e per tutte le morti di Stato” dal Comitato Verità per Aldo Bianzino. Stamani è in programma l’udienza del processo in cui un agente della polizia penitenziaria è accusato di omissione di soccorso. Oggi i giudici decideranno se accogliere la richiesta di perizia medico legale avanzata dai familiari del falegname attraverso i loro legali. Giustizia: caso Maso; presentata richiesta di affidamento ai servizi sociali Ansa, 27 febbraio 2012 Chiede di scontare quanto gli resta della pena fuori dal carcere Pietro Maso, l’uomo che nel 1991, a 20 anni, uccise i suoi genitori in modo efferato per impossessarsi dell’eredità. L’udienza al Tribunale del Riesame è fissata a maggio, per allora il residuo pena per l’ex ragazzo della “Verona bene”, che oggi ha 40 anni, sarà intorno ad un anno e tre mesi. Nella richiesta, Maso ha indicato come occupazione un’attività di volontariato da svolgere nella segreteria di un’associazione impegnata nel reinserimento. Una prima richiesta di affidamento in prova era stata negata lo scorso anno, quando per circa un mese a Maso era stata sospesa la semilibertà in seguito alla denuncia di un uomo che sosteneva di essere stato minacciato da lui (a sua volta contro denunciato dallo stesso Maso). Alla fine i giudici hanno stabilito non gli venisse revocato il beneficio della semilibertà, anche se era stato applicato con un regime più ristretto, in termini di orari e di attività. Mentre prima il 40enne si occupava di inserimento dati, in seguito era iniziata l’attività di spazzino. Ora, la nuova richiesta che verrà discussa a maggio al Tribunale di Sorveglianza. Con l’affidamento in prova (che si può chiedere quando mancano meno di tre anni alla fine della pena) può essere definito per esempio l’orario di entrata ed uscita da casa, sono previsti incontri con gli assistenti sociali, il tutto, in sostanza, fuori dal carcere. Pietro Maso venne condannato a 30 anni nel ‘92, ma tra lo sconto dell’indulto e quello della liberazione anticipata ad oggi gli mancano circa 17 mesi al termine della detenzione che sta scontando nel carcere di Opera (Milano). Lettera: scrivono gli internati nella Casa di Lavoro di Saliceta San Giuliano (Mo) www.detenutoignoto.com, 27 febbraio 2012 Cara associazione Detenuto Ignoto, il 30 gennaio scorso abbiamo inoltrato al Ministro della Giustizia la richiesta che trovate di seguito, purtroppo senza ricevere risposta alcuna. Vi chiediamo di dare voce alle nostre istanze e di divulgare quanto più possibile questa lettera. “All’att.ne del Ministro della Giustizia, Dr.ssa Paola Severino. Scriviamo dalla casa lavoro di Saliceta S. Giuliano di Modena dove al momento risultiamo essere una settantina di internati. Forse sarebbe più appropriato dire che questa lettera vi perviene dal girone dei “Miserabili Dimenticati” perché è così ormai che abbiamo denominato questo posto. Noi tutti assistiamo con sgomento e preoccupazione agli ultimi risvolti politici in tema di materie penitenziarie. Chiaramente apprendiamo con favore che finalmente una tematica resa ormai insostenibile dalle condizioni numeriche attuali sia posta all’attenzione del Parlamento. Quello che ci lascia sgomenti è che non abbiamo assistito ad una sola discussione dove fosse posta al centro della questione anche la “casa lavoro” e coloro che ne sono ospitati, “gli internati”. Ci rifiutiamo di credere che essere una sparuta minoranza in quest’oceano di problematiche carcerarie ci condanni e confini nel limbo del dimenticatoio. Eppure… eppure… Eppure occorre sapere che per noi internati è già di difficile comprensione accettare il principio che regola la materia penale della “casa lavoro”: essere privati della libertà solo in funzione di una prognostica ipotesi di reiterazione di reato! Perché, e forse in pochi lo sanno, è questa la sola ragione che ci tiene rinchiusi qua dentro. Spieghiamo, per i non addetti ai lavori, che “l’internato” altri non è se non un ex detenuto tuttora detenuto. Destinato alla casa lavoro, quindi, ad un ulteriore privazione della libertà, dopo aver espiato per intero la pena detentiva cui era stato destinato per una violazione penale. Risulta essere, pertanto, un surplus della pena prevista dal nostro codice per un determinato delitto. È un po’ come dire: vado dal salumiere, pago per ciò che acquisto e quando mi ritrovo nel parcheggio circostante in procinto di ritornare a casa appare qualcuno che mi impone di pagare di nuovo per le stesse cose già acquistate. Pazzesco! Già questa di per sé è una manifesta violazione dei principi delle libertà individuali, tuttavia non basta, occorre anche aggiungere la beffa al danno; infatti, appare evidente che se si priva un individuo della sua libertà con il fine preciso di volerlo recuperare ai fini socio-lavorativi, altro motivo del nostro stato detentivo, occorre anche fornire gli strumenti idonei affinché si possano trarre elementi oggettivi volti ad una concreta valutazione della persona? Dove sono queste strutture, questi corsi formativi, questo lavoro? Dove li avete dimenticati? Pretendete forse da noi di cercarli nell’oziosità delle nostre giornate? Eppure la nostra costituzione recita all’art.27 che la pena non deve essere afflittiva bensì tendente alla rieducazione del reo. È chiaro, quindi, che solo innanzi ad una violazione penale è prevista nel nostro ordinamento la privazione della libertà, non certo per una mera ipotesi di commissione di reato! I grandi poi giuristi che hanno redatto il codice penale sono concordi nel sostenere che la privazione di libertà debba avvenire solo in flagranza di reato e che l’estrema ratio del carcere debba essere applicata solo in mancanza di possibili pene alternative. L’uguaglianza di tutti innanzi alla legge, infine, nel nostro caso appare completamente fuori luogo e questo concetto è reso incontrovertibile da un semplice calcolo matematico. Se la casa lavoro è applicabile a coloro i quali hanno commesso nei dieci anni precedenti tre reati della stessa indole, non riusciamo a spiegarci come sia possibile che su una cifra di circa settantamila detenuti siano tuttora pendenti da alcune magistrature di sorveglianza circa tremila internati. Presumiamo che almeno la metà dei settantamila siano recidivi e almeno metà di questi recidivi abbiano commesso i famosi tre reati nei dieci anni precedenti, a conti fatti dovremmo essere all’incirca ventimila internati, come mai raggiungiamo un numero così esiguo come quello delle tremila unità? Ci sorge un dubbio: vuoi vedere che tutte le nostre rimostranze, tutti i concetti d’incostituzionalità sulla materia che quotidianamente ribadiamo siano condivisibili da una maggioranza di magistrati di sorveglianza? Statisticamente abbiamo notato poi che sono più o meno quattro o cinque le regioni che destinano gli ex detenuti alla casa lavoro, e questo a nostro modo di vedere appare una disuguaglianza innanzi ad un ingiustizia. È un paradosso lo sappiamo, ma per quanto fin qui espresso ci sembra che il concetto calzi perfettamente sul problema che abbiamo innanzi. Vedete Onorevoli signori, a fronte di tutto quanto legittimamente espresso in questa lettera la cosa più aberrante è sapersi dimenticati nel limbo di un ingiustizia, prima ancora delle problematiche giuridiche che ci vedono nostro malgrado ospiti di queste strutture; quello che provoca un disagio quotidiano e insostenibile è sapersi un numero così esiguo da non avere un’adeguata cassa di risonanza per la società nel suo insieme e nelle istituzioni nello specifico. Riteniamo che sia vergognoso per le istituzioni italiane costringerci a scrivere alla corte europea dei diritti dell’uomo affinché venga rivista una materia palesemente in contrasto con i principi delle libertà universali. È vergognoso nella misura in cui noi italiani ci arroghiamo il merito di essere i diretti discendenti di coloro i quali il diritto lo hanno inventato e esportato nel mondo. L’auspicio, quindi, è che queste rimostranze riescano a scuotere le coscienze sociali affinché qualcuno si faccia portavoce delle nostre istanze in modo che questa materia sia almeno posta all’attenzione del dibattito politico con il fine preciso di rivederne il principio e l’applicazione. I diritti dei deboli non sono diritti deboli! Sardegna: cresce il timore che si vogliano reintrodurre nell’isola reparti detentivi speciali di Piero Mannironi La Nuova Sardegna, 27 febbraio 2012 L’emergenza carceri in Sardegna non è nei numeri. Almeno secondo le statistiche ministeriali, non esiste cioè un problema di sovraffollamento. Ma dire questo è come guardare il dito e non vedere la luna che sta dietro. La situazione carceraria nell’isola è infatti drammatica soprattutto per le condizioni di fatiscenza alcune strutture come Buoncammino e San Sebastiano. Poi c’è il problema degli organici della polizia penitenziaria ridotti all’osso. Il ministro Severino ha recentemente assicurato che le nuove strutture di Uta (Cagliari) e di Nuchis (Tempio) saranno presto pronte, mentre per Sassari si dovrà aspettare ancora. Ora la situazione sembra complicarsi. Nel senso che la Sardegna potrebbe tornare a essere, come in un passato non lontano, l’Alcatraz italiana. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dal parlamentare sardo del Pdl Mauro Pili, smentito, per dire la verità molto tiepidamente, dal ministero della Giustizia. È comunque da quasi due anni che si teme un adeguamento delle carceri isolane per ospitare detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Cioè mafiosi e criminali ad alta pericolosità. Il primo segnale è stato il trasferimento a Badu ‘e Carros del boss dei Casalesi Antonio Iovine, arrestato nel novembre del 2010. Qualche mese prima, il sindaco Bianchi, alcuni parlamentari e la Cisl avevano chiesto chiarimenti sulla costruzione di un nuovo braccio a Badu ‘e Carros: è un reparto di massima sicurezza? Accadde tutto molto rapidamente, fuori dal contesto del confronto politico. Ma la decisione venne assorbita senza polemiche. Perché quelli erano anni tormentati e violenti e si conviveva con una condizione sociale che aveva forti riflessi giuridici e politici: l’emergenza. Una condizione che aveva posto le premesse all’accordo storico dell’ unità nazionale. Era il 4 maggio 1977 quando un decreto interministeriale fece entrare il carcere nuorese di Badu e Carros nella geografia strategica di quella guerra crudele e asimmetrica, poi consegnata alla storia come gli “anni di piombo”. La fortezza grigia che sorgeva alla periferia di Nuoro, là dove la città si perdeva in una disordinata fungaia di case, diventò così “carcere speciale” insieme all’Asinara, Pianosa, Favignana e Termini Imerese. Il “circuito dei camosci”. L’ideologo e lo stratega di quella complessa macchina costruita per cercare di arginare e piegare il terrorismo era il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una logica fredda e pragmatica, quella del generale, poi ucciso a colpi di kalashnikov a Palermo, il 3 settembre del 1982: creare un circuito carcerario superprotetto per ospitare i militanti della lotta armata e i detenuti comuni più pericolosi. Un circuito che i brigatisti rossi chiamarono con amara ironia “il circuito dei camosci”. La spinta dell’emergenza ignorava però complessità ed evoluzioni pericolose nelle quali non era difficile prevedere sismi culturali, nuove elaborazioni criminali e inquinamenti velenosi in tessuti sociali fragili come quello barbaricino. Badu ‘e Carros, prima carcere simbolo dell’antico malessere della Sardegna, si trasformò così in poco tempo in un vulcano dal quale tracimava la lava incandescente di ideologie radicali e violente, ma anche dal quale partivano insinuanti radici tossiche che potevano corrompere un universo ancora sospeso tra passato e futuro, tra antiche anomie e voglia di modernità. Coloro che intuirono per primi questo rischio furono alcuni magistrati, come l’allora procuratore della Repubblica di Nuoro Francesco Marcello, che parlò di “un braciere perennemente acceso”, e l’allora presidente della corte d’appello Salvatore Buffoni, che definì il supercarcere di Badu ‘e Carros un “focolaio di violenza che rischia di incendiare la Barbagia”. Non erano semplici paure: in quel gelido mondo separato, fatto di pietre grigie e di sbarre, si cominciarono subito a contare i morti. Nel 1980, durante una rivolta, furono uccisi Biagio Iaquinta, 28 anni, cosentino, e Francesco Zarrillo, 34 anni di Caserta. Per quel delitto furono condannati Pasquale Barra (detto Ò Animale), il boia delle carceri Cesare Chiti e il cutoliano Marco Medda. Una delle due vittime fu decapitata. Poi fu la volta di Claudio Olivati, strangolato durante l’ora d’aria. Ma il 17 agosto del 1981 fu soprattutto l’omicidio di Francis Turatello “Faccia d’Angelo”, boss della mala milanese, che mostrò cosa stava diventando il supercarcere nuorese nel quale erano compresse realtà criminali e politiche estreme: un mattatoio. Durante l’ora d’aria Turatello venne assalito e massacrato a coltellate. I suoi boia gli strapparono il cuore dal petto e lo morsero come gesto di estremo dileggio. Poi Turatello fu sventrato. Probabilmente Faccia d’Angelo rimase schiacciato dall’accordo fatto da Raffaele Cutolo e Angelo Epaminonda, detto il Tebano, per spartirsi la piazza di Milano. Tutto questo non bastò per arrivare a un ripensamento. Badu ‘e Carros, per ragion di Stato, doveva restare un bunker impenetrabile nel quale lo Stato doveva seppellire una stagione politica di sangue e uccidere i sogni rivoluzionari di vite perdute. Non solo: doveva anche essere un inferno ermetico per i boss della grande criminalità. Ma l’allarme lanciato da Marcello e da Buffoni non si riferiva solo alla pericolosissima concentrazione di violenza che inevitabilmente avrebbe portato a devastanti esplosioni. L’altro rischio era quello della “contaminazione criminale”. Cioè come la presenza di boss come Luciano Leggio, il capo dei corleonesi, di Francis Turatello e di Renato Vallanzasca avrebbe potuto condizionare la malavita sarda. Il rischio altissimo per la Sardegna era quello di una catechesi criminale, una modificazione culturale che avrebbe potuto coniugarsi con le logiche mafiose. Lombardia: presidente Formigoni; le carceri scoppiano, necessaria costruzione di nuovi padiglioni Agi, 27 febbraio 2012 La situazione carceraria in Lombardia “scoppia” per questo motivo il presidente della Regione Formigoni ha già parlato con il ministro della Giustizia, Paola Severino, per attivare fondi per il sistema carcerario. Lo ha detto il governatore lombardo, a margine del Tavolo per la Giustizia che si è tenuto in tribunale commentando la clamorosa evasione che c’è stata ieri dal carcere bresciano di Canton Mombello, dove un detenuto è riuscito a fuggire approfittando dello scarso controllo dovuto al numero insufficiente di personale. “Di fondi - spiega Formigoni - avevo parlato personalmente con il ministro Severino a Roma. Abbiamo deciso di riprendere urgentemente la collaborazione con il ministero di Giustizia anche per mettere in circolo i fondi necessari a costruire padiglioni in più, per una situazione carceraria che in Lombardia scoppia. I detenuti sono ristretti in condizioni disumane”. Lombardia: nasce Comitato “Stop Opg”, da Forum salute mentale a Cgil Adnkronos, 27 febbraio 2012 Punta ad alimentare anche in Lombardia una campagna per restituire dignità ai pazienti degli ospedali psichiatrici giudiziari. A Milano nasce il comitato regionale lombardo “Stop Opg”. A costituirlo i rappresentanti di diverse realtà: Campagna salute mentale, Forum salute mentale lombardo, Unione regionale delle associazioni per la salute mentale, e anche il sindacato Cgil Lombardia ed Fp Cgil Lombardia. “Il Comitato costitutivo - annunciano i promotori - è convocato il 14 marzo alle 10 nella sede di Fp Cgil a Milano ed è aperto alle associazione e alle realtà territoriali”. “Sappiamo che la fine vera degli Opg e della cosiddetta misura di sicurezza - si legge in una nota diramata dal sindacato - passa attraverso la riforma del Codice penale; tuttavia è possibile, urgente e doveroso compiere azioni finalizzate a restituire salute, dignità e speranza alle persone internate, anche a legislazione invariata”. Nella norma approvata dal Parlamento, in cui si prevede la chiusura dei 6 Opg italiani, è previsto anche che entro il 31 marzo 2013 “ciascuna Regione dovrà accogliere i propri pazienti in strutture residenziali non-ospedaliere di piccole dimensioni”, ricordano i promotori. “È prevista la deroga ai vincoli di bilancio delle regioni per l’assunzione di personale qualificato e sono messe a disposizione risorse economiche per l’attivazione delle strutture. Anche la Regione Lombardia dovrà arrivare a gestire nei Dipartimenti di salute mentale i propri pazienti con diagnosi psichiatrica autori di reato. Il cammino sarà irto di difficoltà, resistenze, allarmismi della ‘società della paurà”, si legge ancora nella nota. “Esprimiamo la preoccupazione che le strutture previste in sostituzione dei vecchi Opg finiscano per riprodurre situazioni simili - proseguono i fondatori del Comitato lombardo - Sollecitiamo la Regione Lombardia a impiegare i finanziamenti previsti a sostegno dei progetti terapeutici riabilitativi individualizzati a favore degli attuali internati negli Opg, in modo tale che i Dipartimenti di salute mentale competenti per territorio di residenza dei cittadini possano prendere in carico, attraverso le strutture e i servizi già presenti e disponibili, le persone dimesse dagli Opg”. Firenze: due detenuti morti nella “camera di sicurezza” della Questura, indagini in corso e nuove polemiche Firenze Today, 27 febbraio 2012 Dopo la morte di un detenuto di 26 anni, sopraggiunta nella mattina di sabato in una cella della Questura, la politica lancia un monito sulla condizione dei reclusi. L’esortazione è della consigliera del Comune di Firenze Ornella De Zordo, che segue alle richieste di chiarezza volute dai Radicali. “A Firenze, nei primi due mesi del 2012, a 226 anni dalla abolizione della pena capitale, si sono registrati 4 morti, due a Sollicciano, due nelle celle della Questura - si legge in una nota della consigliera- l’ultimo ieri. Al di là dell’accertamento di eventuali responsabilità dirette o indirette, è del tutto evidente che la situazione è insostenibile, e occorre uno sforzo straordinario per un cambiamento radicale, a partire dalla abrogazione di norme berlusconian-leghiste quali quelle sulle droghe, sull’immigrazione, sulla recidiva, ma anche nella considerazione dei diritti dei reclusi, donne e uomini che devono essere messi in condizione di scontare una eventuale pena senza rinunciare alla propria dignità e sicurezza”. “Come intendono attivarsi le istituzioni che si dichiarano democratiche perché questa drammatica e insostenibile situazione cambi radicalmente? Perché ognuno deve fare la sua parte e non demandare agli altri responsabilità che non vuole assumersi. A meno di non collocarsi dichiaratamente in una subcultura in cui il diritto è prerogativa esclusiva del potente di turno: contro questa subcultura saremo sempre al fianco di chi si oppone e lotta affinché Nessuno tocchi Caino”. Tragedia di Ahmed: indaga la procura Ha legato un pezzo di coperta alle grate della porta blindata e si è lasciato cadere, morendo soffocato dopo una lunga agonia. Ahmed Youssef Sauri aveva 27 anni e quattro settimane fa si è ucciso in una delle quattro camere di sicurezza della questura. Su quell’episodio la procura ha aperto un fascicolo, per andare alla ricerca delle cause della morte ma anche per capire perché quegli ambienti sono in condizioni definite di degrado. “Su questo secondo punto c’è poco da indagare commenta il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi Abbiamo chiesto come mai le stanze sono così ma ci dicono che non ci sono fondi per riportarle tutte ad uno stato dignitoso. Per quanto è stato possibile fare, comunque, in questura si sono attivati”. Ahmed Youssef Sauri era detenuto per un’aggressione avvenuta il pomeriggio precedente nelle stanze del pronto soccorso di Santa Maria Nuova, dove era arrivato ubriaco e aveva seminato il caos. Ad accorgersi del suicidio è stato uno degli agenti del corpo di guardia, che durante il turno devono sorvegliare tutta la questura. È andato a controllare il detenuto e si è reso conto di quello che era successo. Così è partito l’allarme al 118 ma il medico, arrivato quando l’uomo probabilmente non era ancora morto, non è riuscito a salvarlo malgrado le manovre di rianimazione. Ahmed Youssef Sauri aveva precedenti per reati legati alla droga e per una rapina in strada. Il pomeriggio prima di morire era salito sull’Eurostar Firenze-Milano visibilmente ubriaco. Alcuni passeggeri hanno chiamato la polizia e sono intervenuti la polizia ferroviaria e il 118. Quando l’ambulanza l’ha portato a Santa Maria Nuova se l’è presa con alcune persone in attesa e ha spaccato una vetrata. Poi si è scontrato con gli uomini delle volanti. Alle 22.05 è stato messo nella camera di sicurezza. Qui ha strappato un pezzo di coperta per fare una specie di corda. Si è dovuto inginocchiare e ha dovuto strisciare sulla parete per impiccarsi, visto che la grata della porta non è molto in alto. Roma: Marroni (Garante detenuti); ancora un morto a Regina Coeli, standard di vivibilità inaccettabili Agenparl, 27 febbraio 2012 Un detenuto di 65 anni è morto, nella notte fra venerdì e sabato scorsi, nel centro clinico del carcere di Regina Coeli. Lo rende noto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni che ha ricordato che si tratta del terzo decesso in meno di un mese registrato nel carcere di via della Lungara. La vittima si chiamava Giovanni Savarese, morto per cause naturali. L’uomo era ricoverato nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere ed era affetto da problemi clinici e da diabete. In carcere stava scontando una pena di diversi anni per cumulo di condanne. A quanto riferito dai collaboratori del Garante, la sera di venerdì Savarese si è sentito male ed ha chiesto aiuto ma, nonostante i soccorsi tempestivi e la presenza dei medici, è deceduto poco dopo. Il Centro Clinico di Regina Coeli può contare su oltre 80 posti letto divisi su tre piani: le malattie infettive al primo piano (AIDS, osservazione . persone a rischio, epatici, sospetti Tbc), la medicina al secondo (cardiopatici, obesi, dializzati, ipertesi, diabetici, anziani, disabili , ipovedenti ecc.), la chirurgia al terzo piano. “Il Centro Clinico di Regina Coeli è una struttura di riferimento nazionale per la salute in carcere, ma è anche una struttura che, come tutto il carcere, soffre di molti mali - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni. Gravi disagi strutturali come rotture di impianti e infiltrazioni, precarie condizioni igieniche, sovraffollamento e promiscuità, carenza di macchinari e di risorse economiche. All’interno del Centro Clinico non vengono ricoverati solo gli ammalati di Regina Coeli. Ci sono anche detenuti provenienti da tutta Italia con gravi patologie su disposizione del Dap, per svolgere esami e prestazioni specialistiche. A Regina Coeli c’è un detenuto che da 14 mesi aspetta un intervento chirurgico, un altro trasferito dalla Sicilia che da tre mesi aspetta un fisioterapista per iniziare il ciclo di cure; tutte situazioni che ci preoccupano molto e per le quali abbiamo incontrato la Asl di riferimento chiedendo un sollecito intervento per risolvere i casi più urgenti. Istanze sulle quali, devo dire, abbiamo trovato attenzione”. Secondo il Garante, tuttavia, è l’intero complesso di Regina Coeli a non essere più in grado di garantire standard accettabili di vivibilità per tutti coloro che lo frequentano, soprattutto detenuti ed agenti di polizia penitenziaria. “È evidente - ha detto Marroni - che l’impegno degli agenti, della direzione del carcere e dei volontari non basta più. Regina Coeli ha oltre 300 anni e li dimostra tutti, e non bastano più interventi di ristrutturazione, sia pure radicali, per rimediare a questo stato di cose. Solo qualche settimana fa avevamo proposto di chiudere il carcere ai nuovi ingressi per alleviare il sovraffollamento; ora credo che sia giunto il momento di pensare alla chiusura di Regina Coeli”. Bologna: Ucpi; alla Dozza ormai è inciviltà; derrate nei bagni, docce fredde, tra i reclusi anche un 65enne cieco Dire, 27 febbraio 2012 Tre persone in una cella in cui dovrebbe starcene una sola, costretti a stare sdraiati sul loro letto per la mancanza di spazio di movimento; quattro docce (fredde) per 75 detenuti; derrate alimentari stipate nei bagni e tre esperti-psicologi (pagati 17 euro l’ora) che devono star dietro a 480 detenuti. Sono alcune delle ‘assurdità che contraddistinguono il carcere della Dozza di Bologna, dove oggi sono entrati in visita gli avvocati penalisti guidati dal presidente dell’Unione camere penali, Valerio Spigarelli. Al di là del costante e drammatico problema del sovraffollamento - oggi alla Dozza ci sono 1.083 detenuti contro i 450 previsti dalla capienza regolamentare - i penalisti sono rimasti molto colpiti da un paio di situazioni limite: un detenuto non vedente di 65 anni, che si trova in custodia cautelare e che è assistito da un altro detenuto, e un altro recluso che è da poco reduce da un trapianto di fegato e che al momento si trova in infermeria. “Siamo di fronte ad una situazione di assoluta inciviltà, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni intollerabili, in particolare quelli in attesa di giudizio. È incredibile che nelle carceri la situazione sia ancora tranquilla: lo si deve alla maturità e alla collaborazione dei detenuti”, afferma Spigarelli. Alla base di questa situazione, spiegano i penalisti, ci sono le strutture inadeguate delle carceri (che avrebbero bisogno di ristrutturazione) e il poco personale (agenti, educatori ed assistenti sociali), sempre alle prese con risorse mancanti. Ma il problema è soprattutto una legislazione che non fa altro che appesantire il sistema delle pene e prevedere il carcere per sempre più reati, mentre le misure alternative (come la messa in prova) “sono pressoché sparite”, denuncia Spigarelli. Quanto alla cosiddetta svuota carceri, “non ha svuotato niente”. Per cambiare le cose, servono prima di tutto “provvedimenti incisivi in tema di custodia cautelare”, afferma Spigarelli. Ovvero: bisogna rendersi conto che “il carcere deve essere l’estrema ratio e non può diventare un ricettacolo delle persone ai margini della società”. La custodia cautelare va limitata, facendo tornare in vigore una serie di misure alternative ormai scomparse in tanti Tribunali di sorveglianza (Bologna compreso) come l’affidamento in prova, i lavori socialmente utili (che “a volte possono essere molto più educativi e deterrenti che restare 20 ore al giorno chiusi in una cella, come è stato per Paris Hilton fare le pulizie per un mese”, dice Spigarelli) o la semilibertà. A Bologna, nell’intero 2011, “sono stati concessi solo 57 affidamenti, un dato bassissimo”, sottolinea la presidente della Camera penale di Bologna, Elisabetta D’Errico. In secondo luogo, prosegue Spigarelli, “occorre una inversione di tendenza sull’ordinamento penitenziario”. L’unico beneficio che ancora viene mantenuto, infatti, “è la liberazione anticipata: è legata alla buona condotta e se la togliessero le carceri andrebbero in rivolta”. Ma così non si può andare avanti, e non si può certo continuare con “leggi a spot come è stata svuota carceri, che poi negli effetti non ha svuotato nulla”, afferma ancora Spigarelli. Per i penalisti è necessaria una svolta, soprattutto alla luce del fatto che oggi ad alzare la voce per denunciare la condizione delle carceri sono in tanti, dai penalisti alle associazioni di volontariato, fino ai sindacati di Polizia penitenziaria. “Se tutti stiamo parlando lo stesso linguaggio e anche il ministro ha detto che la custodia cautelare viene applicata contro la legge, ci sarà un motivo”, aggiunge Spigarelli. Intanto, alla Dozza la situazione rimane critica. Nelle celle singole, da dieci metri quadrati, ci stanno in tre e non c’è nemmeno lo spazio per stare in piedi. “Un quarto letto a castello non viene aggiunto solo perché se no non si aprirebbe la finestra”, spiega Alessandro De Federicis, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali. Ma quando il numero dei detenuti alla Dozza sale oltre i 1.100, per terra si aggiungono dei materassi. Ci sono anche celle più grandi, da sei, tra i quali possono trovarsi anche “due detenuti con problemi psichiatrici”. Alcune celle hanno la doccia interna (che occupa tre metri quadrati su 10), ma la maggior parte dei detenuti deve utilizzare quelle al piano: sono quattro per 25 celle (75 persone). E “sono fredde e con un unico rivolo d’acqua”, afferma D’Errico, ricordando “le derrate alimentari, frutta e verdura, stipate nei bagni”. I reparti messi peggio sono quello giudiziario (dove si trova chi è in attesa di giudizio) e quello nuovi giunti, misto all’infermeria. È qui che oggi i penalisti hanno incontrato un uomo che aveva da poco subito un trapianto di fegato. “Avrebbe dovuto stare isolato per evitare contagi, ma la direttrice ha dovuto scegliere il male minore ed era quello di tenerlo in infermeria”, spiegano i penalisti. Altro caso impressionante è il detenuto non vedente di 65 anni. “Lo assiste un detenuto-piantone, che è pagato tre ore al giorno ma in realtà fa le altre 21 ore di volontariato per non lasciarlo solo”, raccontano. Del resto, la grave carenza di educatori ed esperti “fa sì che gli agenti penitenziari alla sera si trasformino in psicologi verso i detenuti”, dice De Federicis. Gli educatori alla Dozza sono in tutto sette (tre dei quali al momento assenti): devono seguire 480 detenuti, con un monte ore di 60 ore mensili pagate 17 euro (lordi) all’ora. Terni: tre detenuti con la varicella, quarantena nel penitenziario di vocabolo Sabbione Il Centro, 27 febbraio 2012 Nell'ultimo mese di sono ammalati di varicella un italiano e due stranieri, tutti messi in isolamento sanitario. Nessun allarme - precisa il comandante della polizia penitenziaria del carcere, Fabio Gallo - abbiamo solo rispettato il protocollo sanitario che obbliga la massima cautela per evitare rischi di ulteriori contagi. E' evidente che, nel momento in cui si è manifestato il primo caso di varicella, per altre due persone il contagio era già avvenuto ma ora tutto è tornato alla normalità. Da una ventina di giorni il carcere di Sabbione non accoglie detenuti. E sarà così ancora per un po' perché il blocco delle assegnazioni andrà avanti per precauzione fino alla fine di febbraio. Con la conseguenza che in questo periodo tutte le persone arrestate aTerni vengono portate nel carcere di Orvieto. Tutto è cominciato durante i controlli sanitari che vengono svolti con regolarità tra gli ospiti del penitenziario ternano. Ad un extracomunitario è stata diagnosticata la varicella ed è stato subito messo in isolamento sanitario. Nei giorni successivi si sono ammalati un altro straniero e un italiano e anche per loro è scattato l'isolamento insieme al blocco degliingressi di altri detenuti che resta in vigore fino a fine mese.Se l'emergenza causata dalla varicella pare essere alle spalle Francesco Petrelli, dirigente dell'Ugl, torna a parlare dei problemi dell'infermeria del carcere denunciando le condizioni obsolete della struttura sanitaria, fatiscente e non più al passo con i tempi, al punto che per ogni minima necessità si deve chiedere l'intervento dell' ospedale di Terni. Solo la Regione potrebbe intervenire con normative esaustive per dirimere il quadro delle regole che devono caratterizzare i rapporti tra Asl e privati in tema di qualità dei servizi. L'impiego di personale in pensione con partita iva attraverso contratti annuali contengono i costi - dice Petrelli - ma oltre a erogare emolumenti doppi privano del lavoro i giovani. Per il dirigente dell'Ugl è assurdo che l'Asl, per l'infermeria del carcere di Terni, ancora non abbia provveduto ad assegnare il contingente spettante a fronte dell'imminente raddoppio del penitenziario. I lavori di ampliamento dell'istituto sono quasi completati e a breve la ditta appaltatrice consegnerà il nuovo padiglione detentivo, che potrà ospitare altri duecento detenuti. Prima dell'estate il nuovo carcere nel carcere sarà pronto ad accogliere i reclusi. A quel punto per l'apertura sarà necessaria soltanto l'assegnazione del personale, quei settanta agenti chiesti per Terni. Usciranno dal corso a luglio - dice il comandante, Fabio Gallo. E' evidente che finché non arriverà il personale il nuovo padiglione non si puè aprire. Milano: il ministro Severino; detenuti al lavoro per la giustizia, modello da esportare Asca, 27 febbraio 2012 Il cosiddetto tavolo per la giustizia, voluto dalla presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, rappresenta un modello da esportare anche in altre città italiane. Questo, in sintesi, il pensiero del ministro della Giustizia, Paola Severino. Il guardasigilli, dopo aver incontrato i vertici del tribunale e delle istituzioni locali milanesi, ha definito il modello Milano come “una situazione virtuosa da dove partire perché anche altri tribunali sperimentino questo modello. Questo modello - ha insistito - vorrei portarlo in giro per l’Italia”. Il funzionamento della macchina giudiziaria nel capoluogo lombardo, secondo il ministro rappresenta un caso d’eccellenza soprattutto grazie al processo di informatizzazione delle procedure e alla possibilità, concessa ad alcuni detenuti, di svolgere lavori in grado di velocizzare la giustizia: “Vedere dei detenuti che lavorano per la giustizia e che scannerizzano i fascicoli, mi pare un segnale estremamente forte e importante”. Tutto ciò, ha detto ancora la Severino, è la conseguenza più immediata della “collaborazione e forti sinergia” che a Milano sussiste tra “tutti coloro che operano per la giustizia e nella giustizia”. E soprattutto grazie a un impegno comune che “si possono ottenere risultati significativi”. Per questo, l’intenzione è di esportare il modello Milano nel viaggio che sto facendo in giro per l’Italia. Sono già stata al tribunale di Catania, proseguirò con Torino”. Brescia: personale polizia penitenziaria ridotto per i tagli; le torrette sono vuote, detenuto riesce a scappare Corriere della Sera, 27 febbraio 2012 Quanti agenti erano in servizio ieri mattina lungo il muro di cinta del carcere di Brescia quando un detenuto è scappato? “A noi risulta nessuno” dichiara Roberto Santini, del sindacato autonomo degli agenti. Possibile? “Sì, anche a noi risulta così: zero agenti” conferma Luigi Pagano, responsabile degli istituti di pena dell’intera Lombardia. L’evasione di Fatmir Gashi, rapinatore kosovaro che ieri mattina se n’è andato insalutato ospite dal carcere di Canton Mombello, non passerà alla storia come la più spettacolare. Sono bastati tempismo, agilità e l’incredibile circostanza verificatasi nel vecchio fortino al centro della città: causa penuria di personale, conseguenza di tagli e blocco del turn over, nessuno stava facendo la guardia lungo il perimetro del carcere. E Gashi non ci ha pensato due volte prima di saltare il muro mentre due suoi compagni sono stati ripresi poco prima che tagliassero pure loro la corda. I numeri prima di tutto spiegano come è potuto accadere che un detenuto sia scappato con tanta facilità. “Canton Mombello potrebbe ospitare 250 persone - dice Santini, dirigente del Sinappe - e invece là dentro ce ne sono 520; la pianta organica prevede 300 agenti, se ne contano appena 180 e ieri mattina al momento dell’evasione l’intera struttura era affidata ad appena 12 uomini in divisa”. Ieri anche una concatenarsi di circostanze ha spianato la strada a Fatmir Gashi. Il kosovaro era considerato uno tranquillo; era dentro per delle rapine compiute in provincia di Brescia, il suo “fine pena” era fissato nel 2016. Era stato assegnato alla pattuglia dei “lavoranti” ed era in servizio alle cucine di Canton Mombello. Alle 10 in punto il detenuto è uscito in cortile spingendo un carrello con i bidoni dell’immondizia. Li doveva svuotare e, regolamento alla mano, questa operazione richiedeva la presenza di un agente, invece Gashi era solo; o meglio: era in compagnia di due compagni di cella che poco più tardi sono stati trovati nascosti proprio dentro i bidoni. Il kosovaro ha approfittato di un mucchio di mattoni e calcinacci appoggiati contro il muro, ha iniziato la scalata aiutato anche da un lampione e addio. Nessun agente era nelle torrette anche perché ieri c’erano da piantonare tre detenuti in ospedale e 7 uomini sono stati “sacrificati” a quel servizio. Tanto il sistema di videosorveglianza avrebbe provveduto a vigilare. “Macché, anche quello risulta solo parzialmente in uso: ormai non ci sono più soldi né qui né nel resto d’Italia” denuncia Santini. A Brescia si precipita Pagano, prende atto della situazione avvia un’inchiesta interna mentre iniziano le ricerche in tutta Brescia. Ma di Gashi nessuna traccia. Uil: dal 2009 evasi 40 detenuti “Considerato che continuano ad essere inascoltati i nostri ripetuti e reiterati allarmi sugli effetti nefasti che il depauperamento degli organici della polizia penitenziaria determinano sulla sicurezza penitenziaria, ma sociale, appare utile rammentare alcuni numeri sui detenuti evasi negli ultimi tre anni ed in questo scorcio del 2012. “Dopo l’ennesima evasione beffa di ieri a Brescia il Segretario Generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, sottolinea come sia in evidente crescita il numero degli evasi e delle tentate evasioni “È del tutto evidente che il numero degli evasi, delle evasioni e delle tentate evasioni è cresciuto in maniera proporzionale alle vacanze organiche ed alla conseguente diminuzione dei livelli di sicurezza che si possono garantire all’interno delle nostre carceri. Sino a qualche anno fa - sottolinea Sarno - un’evasione era da considerarsi un evento straordinario, tant’è che se ne contavano al massimo una o due l’anno. Da qualche tempo, invece, l’evasione pare essere divenuta evento ordinario. Dal 2009 ad oggi, infatti, sono evasi dagli istituti penitenziari e dagli Istituti Penali per Minori ben 40 detenuti (9 nel 2009, 10 nel 2010, 14 nel 2011 e già 7 nel 2012). Nel medesimo periodo 39 le evasioni sventate ( 8 nel 2009, 17 nel 2010, 13 nel 2011 ed una nel 2012). Così come ogni udienza in aule di giustizia piuttosto che visite o ricoveri ospedalieri rappresentano momenti di rischio, considerato che le scorte sono sistematicamente, ma necessariamente, sottodimensionate rispetto ai livelli di sicurezza previsti. Ogni evasione, senza dubbio, rappresenta una sconfitta non solo per la polizia penitenziaria quanto per lo Stato. Credo di poter affermare che sventare una evasione non sia più solo una questione di professionalità quant’anche di mera fortuna” Tra le ragioni di questo trend in rialzo la Uil Penitenziari individua le carenze organiche e l’impossibilità di agire in chiave preventiva “ È del tutto naturale che l’assottigliamento costante delle unità preposte alla sorveglianza determini l’abbattimento dei livelli di sicurezza. Praticamente non si riesce più a fare la battitura (controllo delle grate), ad operare la bonifica e il controllo degli ambienti e spesso nemmeno ad assicurare le ordinarie perquisizioni di celle e detenuti. Conseguentemente aumenta l’audacia e la consapevolezza nei detenuti che sempre più tentano di evadere, spesso riuscendoci. La polizia penitenziaria paga a caro prezzo una vacanza organica, oramai attestata intorno alle settemila unità, ma aggravata dallo sconsiderato contingente distratto dai compiti operativi in carcere. Purtroppo - rimarca il Segretario Generale della Uil Penitenziari - si preferisce aumentare le fila di baschi blu impiegati nei palazzi del potere piuttosto che rafforzare le prime linee penitenziarie. Prendiamo atto con favore che nell’incontro dello scorso 22 febbraio il Ministro Severino ha indicato tra le priorità proprio l’esigenza di un progetto che recuperi forza lavoro all’interno dei penitenziari, considerato che le circa 3.500 unità impiegate, a vario titolo, in strutture non penitenziarie sono un lusso che non possiamo permetterci e rappresentano un’offesa grave ai sacrifici delle prime linee. Purtroppo da anni poniamo questo problema e tutte le dichiarate intenzioni del Dap sono cadute nel vuoto. Domani risponderemo alla convocazione fattaci pervenire dal Pres. Giovanni tamburino, Capo del Dap, e non mancheremo di dedicare larga parte dell’incontro alla spinosa questione degli organici e dell’impiego della polizia penitenziaria. Occorre una svolta vera ed incisiva. Noi - conclude Eugenio Sarno - auspichiamo che la nuova dirigenza del DAP possa riuscire laddove altri hanno fallito anche per la spinta conservatrice di alcune organizzazioni sindacali che tendono a tutelare privilegi e privilegiati invece che favorire l’operatività e la sicurezza nelle frontiere penitenziarie”. Siracusa: detenuto straniero tenta suicidio, salvato da agente Agi, 27 febbraio 2012 Un agente della polizia penitenziaria ha sventato la notte scorsa il suicidio di un detenuto extracomunitario nel carcere di contrada Cavadonna a Siracusa. Il fatto è avvenuto alle 2.30 in una sezione protetta del penitenziario. L’immigrato si è arrotolato la cintura dell’accappatoio al collo, l’ha legata a una finestra della sua cella e ha tentato di impiccarsi. È stato subito soccorso dall’agente di custodia e quindi rianimato dal personale medico in servizio nel carcere. Il recluso adesso sta bene ed è sorvegliato a vista. La notizia è stata resa nota dal vice segretario nazionale dell’Osapp, Mimmo Nicotra, che ha commentato: “Ancora una volta la professionalità della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. Il mese scorso a Siracusa i detenuti ad alta sicurezza hanno protestato anche per il freddo, i termosifoni sono9 spenti a causa assenza di risorse. Nonostante la grave carenza di personale di polizia penitenziaria, un agente si occupa di più posti di servizio, continuiamo a fornire sicurezza ai cittadini”, ha concluso Nicotra, che ha sollecitato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziari ad assegnare alla Sicilia il personale carcerario previsto dall’ultimo concorso. Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); consentire a detenuto di incontrare madre e figlio che abitano a Milano Ansa, 27 febbraio 2012 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, rivolge un appello a favore di un detenuto del carcere di Cosenza E. M., che chiede di poter incontrare l’anziana madre e il figlio minorenne, entrambi residenti a Milano e che non vede da oltre un anno e mezzo. “Il detenuto - afferma Corbelli in una nota - mi ha scritto una lettera chiedendomi di aiutarlo. “Mi rivolgo a lei - scrive E.M. nella lettera a Corbelli secondo quanto riferisce quest’ultimo - che è una persona che aiuta tanta povera gente. Sono detenuto da un anno e sette mesi. Sono stato condannato a sei anni. Ho fatto appello contro questa ingiusta condanna. Non le scrivo però per quanto riguarda la mia vicenda processuale perché ci penserà il mio avvocato a dimostrare la mia innocenza. Le scrivo per portare alla sua attenzione il mio dramma e la grande ingiustizia che sto vivendo. Da 18 mesi, da quando sono in carcere a Cosenza non ho potuto mai incontrare l’anziana madre malata e il figlio minorenne, che vivono a Milano, la mia città. Ho presentato regolare domanda di avvicinamento ma non ho ancora avuto alcuna risposta. Continuo a ricevere lettere molto strazianti dai miei cari. Mia madre, anziana e malata, e mio figlio minorenne non possono affrontare il lungo viaggio da Milano a Cosenza per venirmi a trovare. Per questo ho chiesto l’avvicinamento, per poter incontrare i miei familiari. Chiedo solo un atto di giustizia giusta e umana”. ‘Non conosco questo detenuto - afferma Corbelli - né la sua storia processuale. Rivolgo questo appello chiedendo, nel rispetto della legge e confidando nella sensibilità dei giudici competenti, che venga consentito a quest’uomo di poter vedere e incontrare l’anziana madre malata e il figlio”. Padova: al Due Palazi riprende il laboratorio teatrale condotto ormai da vent’anni da Tam Teatromusica Redattore Sociale, 27 febbraio 2012 Torna ad alzarsi il sipario sul carcere Due Palazzi di Padova, dove è ripreso il laboratorio di teatro condotto ormai da vent’anni da Tam Teatromusica, che nel 2011 aveva subito una battuta d’arresto a causa dei tagli finanziari. Ospite d’eccezione per la riapertura è stato, lo scorso sabato, Ascanio Celentini, che ha incontrato un gruppo di detenuti. L’attore-regista, impegnato con lo spettacolo “Pro Patria. Senza prigioni, senza processi”, che affronta anche il tema della detenzione, ha spiegato: “I detenuti non sono il reato che hanno commesso, ma sono altro, sanno fare altro”. E ha aggiunto: “Nel mio lavoro ho scelto di occuparmi in particolare dello spaesamento: quello dei manicomi, delle fabbriche, del carcere... ma anche quello di ognuno di noi, tutti a diverso modo spaesati e privi di un proprio campanile, tutti in cerca di un centro. E il teatro, come l’arte e la cultura, può aiutarci a ritrovare il centro, il campanile”. Il laboratorio è condotto dagli attori e registi Maria Cinzia Zanellato e Loris Contarini secondo il metodo della “drammaturgia dell’esperienza”, mettendo cioè al centro la storia personale, la provenienza sociale e culturale di ogni detenuto. Il progetto nasce con l’obiettivo di favorire occasioni di dialogo e di scambio tra le persone detenute e la realtà esterna ai fini di un reinserimento sociale. La realizzazione di uno spettacolo serve proprio a questo duplice scopo: da un alto a creare un senso di appartenenza tra gli attori, dall’altro lato a testimoniare che i detenuti non sono solo il reato che hanno commesso, ma sono persone. Un primo studio dello spettacolo confluirà nella terza parte di “Contrappunti”, rassegna di teatro, musica e danza organizzata da Tam Teatromusica in collaborazione con il comune di Padova, la regione Veneto e Arteven, con il sostegno del ministero per i Beni e le attività culturali. Riparte così un’esperienza che già in passato ha ricevuto notevoli riconoscimenti: è stata segnalata nel sito del ministero della Giustizia come gruppo tra i più significativi in Italia per il teatro in carcere ed è stata inclusa tra le migliori otto buone pratiche italiane da una ricerca transnazionale sul ruolo socioeducativo dell’arte e della cultura. Nel 2000, inoltre, ha ricevuto il prestigioso “Premio Enrico Maria Salerno” e nel 2010 lo spettacolo “Annibale”, interpretato da un detenuto, è stato selezionato per il “Premio Off” del Teatrostabile del Veneto. Una mattina in carcere con Ascanio Celestini (Il Mattino di Padova) L’autore-attore ieri ha incontrato un gruppo di detenuti del Due Palazzi per “inaugurare” il laboratorio teatrale del Tam, che riprende dopo un anno. Un bizzarro corteo, ieri alle 9, entra nella casa di reclusione Due Palazzi, quella dei “definitivi”. Mescolandosi per un momento ai pendolari del giorno di visita che aspettano il turno, e portandosi dietro gli occhi grandi e seri di quelle due piccolissime bambine, accanto alla mamma, abituate a passare cento controlli per vedere il papà, una volta alla settimana. Il corteo è capeggiato dal gruppo di Tam Teatromusica, con Cinzia Zanellato e Loris Contarini che hanno organizzato l’incontro con i detenuti e portato a m di ospite-testimonial Ascanio Celestini, 40 anni, per “festeggiare” il rinnovato finanziamento della Regione (16 mila euro) al loro laboratorio di teatro in carcere. Che era stato sospeso per il 2011 causa tagli. E che dalla scorsa settimana è ricominciato e si ispirerà a “Le città invisibili” di Italo Calvino: nel 2010 lo frequentavano in una trentina, ora sono 50 e più i detenuti che si sono presentati. Curiosi, emozionati, impazienti di vita. Per lo più italiani, mentre l’altr’anno la maggioranza era di stranieri. Alcuni sono vecchie conoscenze, felici di riprendere quegli incontri settimanali: “è un’occasione grandissima per noi - spiega un detenuto sui 40, italiano, e attorno altri annuiscono, chi in felpa, chi elegantissimo in giacca blu - io avevo fatto un ruolo nello spettacolo precedente, non vedo l’ora di ricominciare. Per noi è un grande sostegno psicologico”. Aggiunge un altro, nordafricano, sui 30: “La maggior parte di noi qui dentro non ha alcuna attività, a parte la palestra due volte la settimana. Il laboratorio teatrale: ho iniziato, mi piace, voglio continuare”. La biblioteca del carcere, intitolata a Tommaso Campanella, zeppa di gialli ma anche di volumi di poesia, filologia romanza e Promessi Sposi, ospita l’incontro. Ci si arriva, va da sé, dopo cancelli, inferriate, porte e portoni. E dopo il lunghissimo corridoio del piano terra con le pareti affrescate da riproduzioni di Klimt, Picasso, Matisse, cornici dipinte sul muro comprese. Fatte dai residenti. Bellissime. Sono più di 50 i detenuti presenti (su 830, tutti con pena già definitiva); poi, oltre a quelli del Tam, c’è Barbara Maculan dell’associazione Mimosa (che ha “portato” Celestini quest’estate a esibirsi nella marginale piazzetta Gasparotto); ci sono Anna Gesualdi e Giovanni Trono, che il teatro lo fanno nel manicomio giudiziario di Aversa (“dove oltre al resto c’è il problema dell’abbandono reale, le famiglie spesso spariscono di fronte alla pazzia criminale, non ce la fanno. Dove c’è un’umanità fortissima, che ti sovrasta. Dove, dopo uno spettacolo, un paziente-detenuto che aveva recitato è corso sgomitando al microfono, doveva dire qualcosa con urgenza. Ha detto, gridato il suo nome. Ed è andato via. Voleva esistere”). C’è Donatella Massimilla, romana di Milano, del Centro europeo teatro-carcere che lavora per fare rete di queste esperienze oltre le sbarre e si danna sulla cassa delle ammende, un ricco fondo statale che dovrebbe essere destinato ad attività nelle carceri ma è bloccato da tempo immemore. Ascanio Celestini arriva puntualissimo, con tascapane d’ordinanza, pieno di energia nonostante la sera prima fosse in scena al Verdi con “Pro patria”, ieri sera lo aspettasse un’altra replica e domenica pomeriggio il tris (sempre tutto esaurito). Si siede, si toglie gli occhiali da sole, e comincia. A raccontare e ragionare. A partire dallo spaesamento, di quando si perde il rapporto con il proprio campanile, che vuol dire comportamenti, cibo, abiti. “Lavoro sulle persone che non trovano più il loro centro del mondo: fabbriche, manicomi, carceri. Luoghi, voi lo sapete - eccome, rispondono ridendo i detenuti - dove al centro non c’è mai l’individuo”. Parla del disagio mentale, di chi sente le voci, e le sente veramente, ma lui non è solo quello: sa fare anche altre cose. E tu glielo devi dire, che sa fare anche altre cose, devi riconoscerlo anche per quello. Perché “il sintomo non è la persona; perché io sono colpevole di un reato, ma non sono il reato”. Lo interrompe un detenuto: “ecco, queste attività, il teatro, e così poche ce ne sono, ci aiutano a superare lo spaesamento. Ecco quello che fanno. Uno spaesamento che sennò ti rimane anche fuori, anche quando esci”. Le finestre a sbarre bianche si affacciano su uno scorcio di cortile e sul muro di cinta affollato di gabbiani appollaiati e attentissimi. Dalle finestre piovono pezzi di pane, tocchi di formaggio e loro si fiondano in massa. E arriva Giovanni Caruso, 53 anni, siciliano, che mai rinuncerebbe a quel teatro, che ha scoperto in carcere anche se teatrante deve esserci nato. Arriva vicino ad Ascanio, acchiappa il microfono e dice la sua. Poi i due che fanno teatro nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa raccontano, sono giovani, hanno la competenza e la profondità di tante vite assieme: loro stanno con gli ultimi tra gli ultimi, “anzi no, ché i veri ultimi sono quelli con patologie psichiatriche non riconosciute che rimangono in carcere. E raccontano del silenzio che annichilisce quelle persone, “perché un matto non può parlare, ogni cosa che dice viene attribuita alla sua pazzia. E di cosa significhi ridargli voce”. Riprende Ascanio, che con le parole ci respira anche, e vola dallo straniamento del carcere e dei manicomi (“l’ultimo lo stanno per chiudere, quasi 40 dopo la legge Basaglia: ma adesso arrivano quelli privati”) a quello fuori, dei luoghi dove viviamo di cemento, modellini ingranditi, alieni al mondo umano. Sono passate quasi tre ore, squilla il telefono della guardiola: è ora di andare. Tutti sopra i detenuti, invita la guardia. Ma tutti sono lì a chiacchierare, a far capannello con gli esterni e tra loro. Tutti sopra i detenuti, ripete con decisione. Tolmezzo (Ud): il teatro sbarca in carcere, con l’associazione di volontariato penitenziario “Vita Nuova” Messaggero Veneto, 27 febbraio 2012 Grande successo ha riscosso ieri pomeriggio, all’interno del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, lo spettacolo comico-musicale voluto e organizzato dalla associazione di volontariato penitenziario “Vita Nuova” di Tolmezzo. Alla manifestazione di solidarietà rivolta ai detenuti della casa circondariale hanno preso parte, con il direttore del carcere, Silvia della Branca, anche l’assessore provinciale Adriano Piuzzi e, per il Comune di Tolmezzo, l’assessore ai servizi sociali Cristiana Gallizia. Presenti inoltre alcuni volontari che operano all’interno della struttura di via Paluzza. Ad allietare il pomeriggio, molto singolare e di “evasione” per i carcerati, il duo musicale Fausto Zarabara e Enzo Azzarone assieme alla complice partecipazione, molto esilarante, del comico Romeo Patatti. “Un pomeriggio vissuto diversamente - commenta il presidente di “Vita Nuova”, Bruno Temil - da chi il sole lo vede attraverso le sbarre. Non sono mancati brani musicali che hanno cercato di far sentire meno opprimente lo stato di isolamento in cui vivono queste persone. Brani di Albano, di Cementano e di Vasco Rossi che hanno creato un’atmosfera davvero di emozione e anche di partecipazione solidale per queste “vite imprigionate” lontane dai loro affetti familiari”. Molta commozione tra i presenti ha suscitato l’esibizione di un detenuto che ha cantato “Tu si na cosa grande” dell’indimenticabile Modugno, che ha chiuso questo significativo momento di solidarietà e di vicinanza della comunità esterna ai reclusi di questo carcere. Immigrazione: nuovo bando gestione vita al Cie Bologna; oggi 70euro al giorno… come faremo con 30? di Michela Suglia Ansa, 27 febbraio 2012 Per letto, una base di cemento su cui poggiano materasso, lenzuola di carta e coperta. Se si allunga un braccio ecco un altro letto, poi un altro e un altro ancora. Cinque in tutto. Essenziali, quasi da convento. Stridono con le foto di riviste che tappezzano le pareti, il televisore in alto sempre acceso e decine di bottigliette di plastica e mandarini sul tavolo in fondo. È la stanza-tipo delle 18 donne recluse ora al Cie di Bologna. Più disordinate quelle degli uomini (attualmente 50), spesso con i tappeti stesi per pregare. Sono tutti in stanzoni senza maniglie da cui si può uscire per fare due passi nel cortile. Di cemento e protetto dalle grate. È il “carcere in orizzontale” degli stranieri senza permesso di soggiorno e con decreto di espulsione che, in attesa di essere identificati, vivono al Cie per settimane o mesi. A Bologna ciascuno costa in media 69,5 euro al giorno. Ma dal primo agosto, con il nuovo bando e i tagli ministeriali annunciati, si dovrebbe scendere a 30 e la Misericordia, che gestisce la struttura di via Mattei, si chiede come fare. Anzi, a quei livelli dubita di partecipare alla gara. Al Cie calcolano che, pur tagliando tutto il possibile e facendo molti strappi alle regole, al massimo si potrebbe scendere a 42 euro. E invece qui ogni giorno tra colazione pranzo e cena vanno via 12 euro, altri 28 per l’assistenza socio-assistenziale, poi ci sono infermieri e medici (quest’ultimi pagati 23 euro lordi l’ora e presenti a turni 24 ore su 24), 2,5 euro come gettone dato ai reclusi per le spese essenziali. Oltre al fatto che i circa 80 lavoratori vanno pagati secondo i rispettivi contratti nazionali. Ma la fatica di far quadrare i conti fa a cazzotti con la rabbia, la vita vuota e i tanti perché su cui si arrovellano le persone trattenute: “Perché sono qui? Cosa ho fatto? Perché devo restarci ancora?”. “Qui la testa continua a girare, pensa troppo e c’è sempre rabbia”, racconta con il suo italiano Mary, nigeriana che da 10 mesi abita nella stanza F8 del Cie e gira in ciabatte e un rosario al polso. “Mangiare sempre pasta. Poi dormo e guardo la televisione”, ripete una sua connazionale, badante in nero a Brescia che otto mesi fa è stata “beccata” dalla polizia ed è finita qui. Viene invece da Perugia Amid, tunisino di 24 anni con lavoretti vari, una storia di spaccio e un figlio di un mese che non ha potuto riconoscere essendo al Cie. L’espressione più triste è di Gloria, che 15 anni fa è venuta in Italia dalla Nigeria e che ora lotta con un disturbo della tiroide per cui è stata operata e deve prendere farmaci a vita. “Ma il peggio è stato con la neve, non si poteva nemmeno uscire dalla stanza”, racconta. Più arrabbiata e logorroica Johanna che ricorda bene il suo primo giorno al Cie: “All’inizio mi sono spaventata, ai miei amici ho detto: aembra una tomba.., non sembra anche a te?”. Inferno di disperati (Redattore Sociale) C’è una donna nigeriana con Aids conclamato e gravi problemi di tiroide, c’è un tossicodipendente sotto metadone, c’è una giovane madre a cui i servizi sociali hanno tolto la figlia di due anni, dichiarandola “adottabile”. È un “inferno della disperazione” quello che Sandra Zampa, parlamentare Pd, ha trovato questa mattina all’interno del Cie di Bologna. “Le persone dormono su gradoni di cemento, coprendosi con lenzuola di carta”, racconta Zampa. “Nella promiscuità più assoluta vivono i malati, i tossicodipendenti, le badanti che i vicini hanno denunciato perché prive di permesso di soggiorno, gli ex detenuti che non sono stati identificati e, una volta scontata pena, vengono trasferiti qua dalla Dozza”. Il numero di reclusi si è ridotto rispetto all’estate scorsa, periodo dell’ultima visita di Zampa. “Ci sono 30 uomini e 17 donne”, racconta la parlamentare, “fra le donne molte sono giovanissime e vittime di tratta”. All’interno del Cie, la deputata ha raccolto le storie delle persone che l’hanno avvicinata. “C’è un caso gravissimo: si tratta di una donna nigeriana con Aids conclamato e problemi di tiroide, che ha evidentemente diritto ad uscire”, dice la parlamentare. “Chiede di non tornare in Nigeria, che per lei equivarrebbe a morire perché non potrebbe ottenere le cure che le sono necessarie” aggiunge Roberto Morgantini, volontario ed ex responsabile dell’Ufficio stranieri Cgil, anche lui in visita stamane nella struttura. Zampa racconta anche di un’altra donna, “giovanissima e anch’essa nigeriana, che mi ha avvicinato disperata: i servizi sociali di Padova le hanno tolto la figlia di due anni, che ora è stata dichiarata adottabile. Il suo destino è di venire rimpatriata senza la figlia. Un’altra ragazza, di 21 anni, si stava ancora chiedendo per quale motivo fosse lì”. Per le detenute del Cie, ma anche delle carceri della città, Zampa e Morgantini stanno organizzando una serie di iniziative in concomitanza con la festa dell’otto marzo: “Vorremmo coinvolgere il dentro e il fuori in eventi che permettano lo scambio, porteremo dentro le mura in cui ci sono delle donne recluse della musica e delle attività” anticipa Morgantini. La vera emergenza è però legata ai bandi ministeriali che assegneranno la gestione dei Cie (l’appalto per Bologna scade ad agosto) in base a un drastico ribasso dei costi: si parte da una base di 30 euro al giorno per persona. “Oggi la spesa viaggia tra i 64 e i 72 euro pro capite”, dice Zampa, che ha già pronta un’interrogazione parlamentare sulla vicenda. “Ci si chiede come farà il gestore a onorare tutti gli impegni spendendo meno della metà. Si rischia l’apertura a mercati illegali”. Con costi di gestione così ribassati “ne risentirebbero i servizi primari e anche tutte le attività sociali costruite dentro il Cie in questi anni” dice Morgantini. Da tempo sono già state tagliate attività prima coperte da fondi comunali: “C’era un laboratorio di disegno, che ora non esiste più”, racconta Zampa. “Anche lo sportello diritti, che era aperto quattro volte la settimana e offriva informazioni legali ai detenuti, è stato chiuso”. Un’altra “assurdità incredibile dal punto di vista economico e soprattutto per la dignità delle persone” è la norma che prevede la possibilità di prolungare la detenzione fino a 18 mesi. “Quella norma”, dice Zampa, “è stata approvata sotto il ricatto della Lega Nord: ora va eliminata. Chiederò al ministro Cancellieri di tornare sulla questione: da questo governo tecnico mi aspetto che si occupi non solo di economia, ma anche di valori legati alla dignità delle persone e alla democrazia. Ci si ispiri al modello inglese, dove chi viene trovato senza documenti viene aiutato e ha sei mesi di tempo per trovare casa e lavoro. Nei centri finisce solo chi si rifiuta di farsi identificare, e la permanenza massima è di sei mesi”. Libia: appello Hrw per rilascio due giornalisti Press Tv detenuti Tm News, 27 febbraio 2012 La milizia libica che detiene due giornalisti che lavorano per l’emittente iraniana Press Tv deve immediatamente consegnarli alle autorità giudiziarie del Paese. Lo ha dichiarato un rappresentante dell’organizzazione Human Rights Watch (Hrw). “Le milizie non devono arrestare e trattenere gente”, ha dichiarato Sidney Kwiram, interpellata a Tripoli sulla sorte di rinviare di Nicholas Davies e il cameraman Gareth Mongomery-Johnson, arrestati martedì in Libia. I due giornalisti sono stati arrestati da componenti della brigata di Misurata (ovest). La direzione dell’emittente in lingua inglese ha annunciato due giorni fa l’arresto dei due uomini a Misurata e il loro trasferimento in un carcere a Tripoli. A Londra, il ministero degli Esteri ha pubblicato un breve comunicato che annuncia che due britannici erano trattenuti in Libia e che beneficiavano di assistenza consolare.