Giustizia: la legge “svuota-carceri” che riempie le celle di Alberto Gaino La Stampa, 26 febbraio 2012 Ogni giorno entrano nel carcere delle Vallette 20-25 arrestati e ne escono 5-6: se fosse così per tutti gli altri istituti di pena l’immagine delle “porte girevoli” spesa da anni per le prigioni italiane si sgretolerebbe. Sarebbe il primo e per ora unico effetto del decreto “svuota carceri” convertito da pochi giorni in legge e concepito dal ministro Paola Severino per rendere più selettiva Fazione giudiziaria. Il provvedimento riguarda gli arresti in flagranza, legati alla microcriminalità di strada, e non solo dal momento che investe anche i furti in abitazione, le rapine e le estorsioni non aggravate di cui siano stati prontamente individuati e fermati i responsabili. Reati tutti di competenza di un giudice monocratico chiamato a decidere con rito direttissimo. Le più recenti statistiche indicavano in discesa il fenomeno della microcriminalità di strada e la nuova legge sembra confermare e semmai accentuare il trend: dal 22 dicembre (giorno in cui entrò in vigore il decreto “svuota carceri”) al 23 febbraio gli arresti di questo genere sono scesi di 239 rispetto al medesimo periodo di dodici mesi fa. Quando ancora, però, vi era una coda dell’applicazione della Bossi-Fini. Sottratti quegli arresti, la differenza scende a 75 persone fermate in meno. Non è tanto e non è nemmeno pochissimo se la tendenza si consoliderà a vantaggio di azioni di polizia giudiziaria più efficaci contro il grande traffico di droga, l’usura, le estorsioni, la criminalità più pericolosa. Di sicuro a Torino sta venendo meno l’effetto porte girevoli del carcere: gente che vi viene portata e vi esce dopo le direttissime, entro 48 ore. Resta da capire se il minor numero di scarcerazioni dalle “Vallette” dipenda da una maggiore incisività investigativa, oltre che dal rigore dei giudici. La legge “svuota carceri” - a questo punto non sarebbe più il caso di chiamarla così ha dato ampio spazio in sede di conversione alla concessione degli arresti domiciliari in luogo della detenzione nelle camere di sicurezza di carabinieri e polizia (vero snodo dei provvedimento per ridurre il viavai dal carcere). Paolo Borgna, procuratore aggiunto a capo del pool “sicurezza urbana”, ha sollevato una questione molto concreta: “Gli arrestati stranieri che non esibiscano documenti di identità e non dichiarino le loro vere generalità possono essere posti agli arresti domiciliari sperando di ritrovarli dopo 48 ore per portarli alle direttissime?”. Aggiunge il magistrato: “L’esperienza quotidiana ci dice che oltre la metà degli arrestati per reati di strada è in queste condizioni”. Una circolare del procuratore capo Gian Carlo Caselli affronta il problema e, “ai fini di una leale e corretta applicazione dell’intera riforma”, fissa quali “presupposti essenziali” per gli arresti domiciliari che vi “sia una disponibilità dell’intestatario dell’abitazione messa per iscritto” (per responsabilizzarlo), “la certezza sull’identità anagrafica dell’arrestato” e “la prova dell’adeguatezza (anche in termini di servizi igienici) del luogo indicato per l’ospitalità”. Aggiunge il procuratore capo: “Mancando una sola di tali condizioni, l’arrestato andrà senz’altro custodito nelle camere di sicurezza o (sussistendone i presupposti) condotto in carcere”. Negli ultimi otto giorni sono finiti in pochissimi ai domiciliari (fra questi 3 dipendenti di Metro sorpresi a rubare merce in magazzino per 7 mila euro) e hanno evitato il carcere arrestati per reati in teoria seri ma nel caso concreto rivelatisi del tutto irrilevanti. Giustizia: da lunedì in aula alla Camera la proposta di legge sul lavoro dei detenuti Asca, 26 febbraio 2012 Sarà avviata domani in Assemblea alla Camera la discussione del testo unificato 124 contenente disposizioni per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti. Il ruolino di marcia fissato dai Capigruppo aveva previsto la discussione in Aula dal 13 febbraio, ma poi il termine è slittato al 27. L’iter referente è stato chiuso giovedì scorso dalla Lavoro, ma sul testo gravano ancora vari problemi. A cominciare dal fatto che la Bilancio aveva chiesto al Governo una relazione tecnica che non è pervenuta e, quindi, questa commissione non ha espresso il suo parere. Da rilevare che anche la Finanze, pur avendo dato parere favorevole, aveva posto numerose condizioni per chiedere chiarimenti sulle norme che introducono un credito mensile d’imposta in favore delle imprese che affidano a cooperative sociali o ad aziende pubbliche o private l’esecuzione di attività che siano occasione di inserimento lavorativo per i detenuti. Giustizia: Opg; finalmente chiudono le prigioni dell’orrore, ma i rischi non mancano di Luigi Attenasio Gli Altri, 26 febbraio 2012 “Svuotano pure i manicomi criminali, a repentaglio la sicurezza dei cittadini. Il governo fa scappare i pazzi” rigurgita in prima pagina la Padania: è la “civiltà” dei Borghezio, del dito medio alzato, degli “extra” travestiti da leprotti per il tiro a segno dei “civilissimi” cacciatori del Nordest. A parte l’ironia entro il 31 marzo 2013 verranno chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: è una importante notizia e Psichiatria Democratica come tale la registra in attesa del Regolamento attuativo che detti tempi e modi del processo di dismissione. Ci sentiamo parte di questa vittoria di civiltà per il sostegno alla commissione inchiesta del Senato di Ignazio Marino e per le migliaia di firme da noi raccolte in pochi mesi contro quei tremendi luoghi di afflizione. Dopo i mefitici miasmi padani, c’è stata una boccata di aria fresca sul Corsera: a una bellissima lettera di una signora di Firenze che scrive: “Come possiamo continuare a vivere tranquilli quando sappiamo che nel nostro paese ci sono antri dell’orrore come questi” risponde ispirato il Cardinal Martini ricordando per gli Opg l’immagine stessa dei lager: “Se ci sono ancora è perché esistono ancora uomini e donne non considerati tali perché i loro delitti sono ritenuti più grandi della loro stessa dignità umana, ma la persona è più grande del suo peccato”. Se poi il peccato, diciamo noi, è per esempio, quello di avere rubato 7 mila lire usando come minaccia una pistola di plastica e per questo aver fatto decenni ad Aversa, non di errori, ma di orrori giudiziari dobbiamo parlare. In Carceri e Ospedali Psichiatrici Giudiziari, a cura di Emilio Lupo e Salvatore Di Fede, in cui siamo con Magistratura Democratica, parlando delle 1.510 persone ancora rinchiuse negli Opg, azzardavamo qualcosa che più che una metafora è purtroppo una tragica, triste realtà, la nozione di Campi, cioè quegli spazi, per Agamben, dove l’uomo è ridotto a cosa, e la vita nel senso civile del termine, è diventata una nuda vita, puramente animale. Chi vi è rinchiuso è come chi nel diritto romano arcaico era definito homo sacer, cioè chi, giudicato per un delitto, non veniva condannato a morte con la legge civile, né sacrificato agli dei, ma poteva essere ucciso legittimamente da chiunque. Il suo corrispettivo è il “sovrano”. Anche lui non è sottoposto alla legge, può decretarne la sospensione e ha diritto di vita e di morte. Sacertà/sovranità e stato d’eccezione al posto della legge abitano e fondano i Campi, dove è di fatto sospesa la legge: che si commettano o no atrocità non dipende dal diritto umano o divino ma solo dalla civiltà e dal senso etico del “sovrano” che vi agisce provvisoriamente. Nei Campi chi ha il potere decide vita o morte dell’altro senza commettere omicidio. Il campo si apre quando alla regola si sostituisce lo stato di eccezione; ciò che vi avviene supera il concetto giuridico di crimine e vi si realizza la più assoluta conditio inhumana che sia data. Domandiamoci perché alcuni eventi sono potuti lì accadere e se i campi vanno visti come un fatto storico, anomalia del passato oppure, come dice Agamben, come la matrice nascosta, il nòmos dello spazio politico che viviamo anche oggi. Vengono in mente i Centri di Identificazione ed Espulsione, i campi Rom, ma anche lo stadio di Bari nel 91 con gli albanesi arrivati sulle nostre coste, lì ammassati in attesa e le zones d’attente di anni fa degli aeroporti francesi con persone in fermo 4 giorni per il riconoscimento dello status di rifugiato prima dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Con Cesare Bondioli, Emilio Lupo e tutta Psichiatria Democratica abbiamo chiarissimi alcuni rischi del decreto Severino: che si riproducano regione per regione soluzioni neo concentrazionarie e neo carcerarie, che non ci siano risorse economiche sufficienti e finalizzate a residenzialità “leggere” e agili e personale motivato e maturo, che il ruolo centrale non sia dei Dipartimenti di Salute Mentale di provenienza della persona coinvolta ma si ripropongano separazioni operative, che ci si dimentichi che il tema dell’imputabilità è tutto da affrontare. Esso è comunque un punto di non ritorno e di svolta radicale. Giustizia: Luigi Pagano; da Tangentopoli agli stranieri, i miei 20 anni di prigioni umane di Oriana Liso La Repubblica, 26 febbraio 2012 Il sergente Drogo a guardia della Fortezza Bastiani. I sommersi e i salvati di Primo Levi. L’occhio orwelliano di 1984. A farglielo notare, Luigi Pagano si schermisce: “Ma no, leggo anche altro, non solo cose che richiamano il carcere. Ho letto tutti i classici, tanto Dostoevskij: Delitto e castigo, I demoni...”. Torna sempre lì Pagano, l’uomo che per più di vent’anni ha legato il suo nome a San Vittore prima, come direttore, poi a Bollate e alle altre carceri lombarde, quando è diventato provveditore regionale. E che ora raccoglie foto, targhe, diplomi e sassofono e va a Roma, promosso vicepresidente del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le stagioni di Milano, Luigi Pagano le ha viste dietro mura non solide come avrebbe voluto, e sbarre. Una dimensione a cui ci si può abituare, troppo. “Non c’erano feste, ero sempre qui, quando mi sono accorto che andavo alla Rotonda (l’atrio di San Vittore da cui partono i raggi, ndr) come se andassi nel salotto di casa, che tanto era comunque a pochi metri... ho capito che era arrivato il momento di lasciare”. A lui, inequivocabilmente meridionale - “ho mischiato il pragmatismo lombardo con la pigrizia napoletana” - , quello che mancherà di Milano sembra un paradosso: “La dimensione provinciale, e non è un’offesa: le bancarelle di viale Papiniano c’è chi le odia, a me mettono allegria”. Tra tutto quello che poteva dire, lei avrà nostalgia delle bancarelle? Magari ne trova anche a Roma. “Non sono un tipo mondano, non frequento i Navigli, sto bene nella confusione spontanea di quel mercato. A Roma i romani si sentono il centro del mondo, a Milano c’è tanta integrazione, e lo dico io, che sono stato nominato provveditore delle carceri in Lombardia da un ministro leghista, Castelli”. Arrivato a Milano nel 1989, dopo varie esperienze in altre carceri italiane. Quando le dissero: San Vittore, che cosa pensò? “Era già quello un traguardo, arrivavo a Milano mentre si stava imparando a considerare i penitenziari qualcosa con cui confrontarsi, “San Vittore è un quartiere di Milano”, diceva Umberto Gay. Si iniziava a parlare di carcere aperto, di progetti culturali. Io pensavo a Strehler, Jannacci, al carcere di “Ma mi”, anche se sapevo che non era più quello, certo”. Era un periodo di relativa calma, prima di Tangentopoli. “Io sono arrivato in un San Vittore già pacificato, in qualche modo, con il terrorismo degli anni di piombo e che già aveva digerito anche la vecchia malavita, la ligera. Novanta e passa per cento dei detenuti erano italiani, l’ondata di stranieri era ancora lontanissima. Ci sono stati ancora due, tre anni di preparazione agli anni Novanta, finiva la Milano da bere e ce ne accorgevamo anche qui dentro”. Poi, San Vittore finisce nelle case degli italiani all’ora del tg. “Tangentopoli e le stragi mafiose - con gli omicidi di Falcone e Borsellino si alza tantissimo l’attenzione per i detenuti accusati di mafia - , la scoperta dell’Aids che poteva uccidere: è arrivato tutto assieme. Il giorno che fu arrestato Mario Chiesa qui c’era la delegazione della Corte europea contro la tortura, avevamo più di duemila detenuti, nel 1993 c’erano 2.400 persone stipate qui dentro”. Com’erano i detenuti politici? “Qui dentro nessuno usava il “lei non sa chi sono io”, a volte era più mio l’imbarazzo di vedere ex ministri e grandi manager in cella, non ero preparato. Ma nessuno mi ha mai fatto pressioni per trattamenti di favore, tanti lavoravano, anche senza cambiare vita poi radicalmente come Sergio Cusani”. Il 20 luglio 1993 Gabriele Cagliari si suicida, dopo quattro mesi in cella. “Due giorni prima ci avevo parlato, con Cagliari, gli avevo appunto chiesto se voleva lavorare, mi aveva detto no. Della sua morte mi ricorderò per sempre il rumore infernale, subito dopo, della battitura delle sbarre. In mezzo a quel rumore abbiamo scoperto che un altro detenuto, Nikolic, si era impiccato con il lenzuolo. Non sono uno psicologo, ma so che non capisci prima quello che sta per succedere. I suicidi, anche se rari, sono sempre sconfitte, e sono l’evento più traumatico in un carcere. Perché c’è il rischio emulazione, perché non puoi permetterti di andare in tilt. E la tua famiglia deve imparare a vivere con queste tensioni, non c’è altro modo”. Dire ai parenti: si è suicidato, raccoglierne gli sfoghi, le accuse. “È dura, ma l’ho sempre fatto. Qualsiasi parola è un loro diritto, in quel momento”. Ci sono anche le evasioni, a sconvolgere gli equilibri in carcere. “Nel 2003 un albanese scappa, dopo aver bucato il muro con il cucchiaio. Arrivano gli ispettori da Roma, dico: guardate che qui si evade come nell’Ottocento, le mura sono una fetenzia. Di notte gli agenti devono stare all’erta come il sergente di Buzzati, in attesa di qualcosa che non sai quando e se accadrà”. Com’è il suo rapporto con i detenuti? “Ho sempre chiarito che non sono un educatore né un cappellano, ma il muro. Se mi devo incazzare lo faccio, ma questo vale anche per quelli fuori, con cui devo litigare sempre per i fondi... Ma non ho mai perso il senso dell’umanità, con tutti, una persona non è il suo reato”. Si favoleggia dei capricci di Patrizia Reggiani Gucci, del suo furetto in cella. “È una donna di carattere. Una notte, anni fa, arriva Vittorio Sgarbi per incontrarla. Le dice, allibito: ma tu non puoi restare qui. Lei lo bloccò: io sto bene qui”. Chi esce dal carcere, poi viene a cercarla? “Mi capita, certo, sono nate anche amicizie, con ex terroristi che hanno fatto percorsi molto profondi, e anche con qualche ex malavitoso. C’è chi mi vuole far sapere se fuori ce la fa. Un ex detenuto mi ha scritto di recente una lunga lettera. Peccato fosse tutta in arabo, e io l’arabo non lo conosco”. Giustizia: poveri e anziani sempre più disperati, si improvvisano banditi per sopravvivere di Cristiana Mangani Il Messaggero, 26 febbraio 2012 La povertà, l’emarginazione, la crisi dietro l’aumento di rapine e furti di tenue entità. I magistrati e gli investigatori ci fanno i conti ogni giorno, trovandosi davanti sempre più spesso il pensionato che ruba le bistecche o il pane al supermercato perché non sa come arrivare a fine mese. A piazzale Clodio, il dato registrato non sembra tale da aggravare il già pesante quantitativo di processi che affliggono il più grande Tribunale d’Europa. Ma è chiara anche la ragione, perché - come spiega il procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani - “questi reati prevedono una querela di parte”. “Bisogna ammettere, però - aggiunge - che all’interno del dato che riguarda le rapine o i furti è certamente aumentata la tipologia prevista dall’articolo 624 del Codice penale e non quella del 625 clic disciplina le aggravanti della violenza e delle armi”. Insomma sempre più disperati si improvvisano ladri. E la conferma arriva anche dagli analisti della Polizia di Stato che sottolineano come le modalità di esecuzione per questo tipo di furti e di rapine siano diverse. “È certamente la crisi che sta determinando un maggiore aumento di reati di tenue entità - viene ribadito dagli addetti ai lavori - Infatti sempre più spesso ci capitano persone che fanno tre o quattro rapine da cinquanta, cento curo al giorno, per tentare di racimolare i soldi per vivere. Non tutti questi casi, comunque, finiscono negli uffici della procura. “È necessario distinguere tra chi agisce per bisogno e chi si organizza per rubare - sostiene il sostituto procuratore antimafia, Carlo Lasperanza. Per il taccheggio sistematico, quello organizzato con le borse schermate, si procede all’arresto. Quando c’è l’esimente dello stato di necessità, come sempre più spesso accade, non si procede nemmeno. Molti reati di questo tipo, infatti, vengono commessi da persone incensurate che hanno perso il lavoro e hanno figli. O da pensionati che non sanno come vivere con i pochi soldi che ricevono. Sono storie di disperazione. E infatti, ci è capitato di ricevere segnalazioni di chi, ladro improvvisato, per non correre il rischio di essere scoperto, sceglie di mangiare direttamente all’interno del supermercato. Ruba per fame e mangia immediatamente la refurtiva, così non deve portare niente fuori”. Per loro difficilmente si aprirà la porta del carcere e correranno il rischio di un processo. A meno che il negoziante non sceglierà di andare avanti con la denuncia. Qualche volta accade, anche perché, soprattutto in alcune zone della periferia romana, i commercianti non ne possono più di essere svaligiati. Ma tra il bisogno di giustizia e quello di umana pietà, c’è anche il disperalo che finisce ugualmente dietro le sbarre. Ne sa qualcosa don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia, da anni a contatto con i diseredati. “È giusto che alla gente venga detto - chiarisce - che chi finisce in carcere per furto o borseggio è sempre più spesso una persona che ha letteralmente bisogno di essere sfamata e vestita, gente che entra in carcere nuda, senza nulla. Arrivano solo i miseri, coloro che sono totalmente emarginati e che oggi costituiscono il 60 percento della popolazione detenuta. Recentemente-ricorda - io stesso ho portato a casa un vecchietto di 88 anni finito dentro per un reato di 4 anni fa. Il carcere diventa quasi un luogo di sosta nel quale, nonostante la fatica di vivere, c’è chi trova rifugio”. L’aumento della violenza, dunque, come effetto della crisi. E a ribadirlo è stato anche il procuratore generale della Corte d’Appello, Luigi Ciampoli, secondo il quale “il momento di forte crisi economica, è determinante per leggere questi fenomeni. È colpa della mancanza di soldi - conferma -di lavoro, di possibilità, a portare inevitabilmente a una reiterazione e a un aumento d i fatti criminali contro il patrimonio, come rapine e furti”. Giustizia: la vicenda di Giuseppe Uva presentata all’Assemblea parlamentare Ocse www.innocentievasioni.net, 26 febbraio 2012 Il giorno 23 febbraio, alle ore 10.30, Lucia Uva ha presentato la vicenda di suo fratello Giuseppe Uva davanti alla Commissione democrazia e diritti umani dell’assemblea parlamentare dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). “Mi chiamo Lucia Uva e sono qui oggi per raccontare la vicenda di mio fratello, Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto per oltre tre ore nella Caserma dei carabinieri della nostra città, Varese. Verso le 2.30 di mattina mio fratello Giuseppe e un suo amico, Alberto Biggiogero, mentre tornano a casa dopo aver bevuto qualche bicchiere di vino, prendono delle transenne accatastate ai margini della strada e le spostano al centro della carreggiata. In quel momento arriva una volante dei carabinieri. Uno dei due militari scende dalla macchina e urla contro Giuseppe dicendogli “Uva, proprio te cercavo questa notte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare”. Giuseppe scappa e inizia l’inseguimento. Il suo amico Alberto sarà il testimone oculare della vicenda e i fatti che vi racconto sono tutti riportati nella denuncia che Alberto ha presentato. I carabinieri riescono a raggiungere Giuseppe che viene scaraventato dentro la volante con pugni, calci e ginocchiate. Nel giro di qualche minuto sopraggiungono due volanti della polizia e Alberto sale su una di queste. Le tre vetture partono e si dirigono alla caserma dei carabinieri. Al loro arrivo viene richiesto l’intervento di una terza volante della polizia. Queste tre macchine, che costituivano l’intera forza di pattugliamento della città di Varese per quella notte, rimangono nella caserma dei carabinieri per oltre 2 ore e mezzo. Mio fratello viene portato in una stanza, mentre Alberto, che è rimasto nella sala d’aspetto, dice di sentire le urla disperate di Giuseppe e il suono di colpi sordi. Quando prova a protestare, gli uomini intorno a lui urlano e lo minacciano. In un momento in cui rimane solo Alberto chiama il 118, ma il centralinista, invece di mandare un’ambulanza, telefona in caserma per chiedere conferma. La risposta che riceve è la seguente: “No son due ubriachi, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi”. Dopo quasi un’ora arriva un dottore della guardia medica e i carabinieri dicono ad Alberto, prima di lasciarlo andare via, che Giuseppe si stava facendo del male da solo, sbattendo contro le sedie, la scrivania, il muro e gli stivali degli uomini presenti nella stanza. Verso le 6.00 del mattino viene chiamata un’ambulanza e richiesto un Trattamento sanitario obbligatorio: un dispositivo di legge ideato per persone con malattia mentale che rifiutano le cure. Verso le 6.30 di mattina Giuseppe arriva all’ospedale di Varese, scortato dai carabinieri, e trasferito nel reparto psichiatrico, dove gli vengono iniettati degli psicofarmaci. Mio fratello, in tutta la sua vita, non aveva mai avuto problemi psichiatrici. Alle 10.30 di quello stesso giorno muore per arresto cardiaco. Quel pomeriggio sono entrata nella camera mortuaria e ho visto il corpo, a cui ho fatto anche delle fotografie. Mio fratello era irriconoscibile: aveva il naso deformato, un bozzo dietro la testa, sulla mano un livido enorme, la schiena e il fianco completamente blu. Poi, vedo il pannolone. E mi chiedo, perché a mio fratello hanno fatto indossare un pannolone? Guardo nel sacchetto in cui c’erano le sue cose, prendo i pantaloni e mi accorgo che sono tutti macchiati di rosso nella parte che va dal cavallo alle tasche posteriori. Allora gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli ho spostato il pene e ho visto che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Nel referto medico c’è scritto che la morte è avvenuta per un evento “non traumatico” e nella cartella clinica manca ogni riferimento alle lesioni che io ho visto con i miei occhi. Anche nel comportamento dei militari che lo hanno fermato si riscontrano delle illegalità: Giuseppe viene ammanettato più volte e gli viene sequestrato il telefonino ma nelle relazioni dei carabinieri non viene scritto, non gli vengono sottoposti, e nemmeno preparati, i verbali di elezioni di domicilio e nomina dell’avvocato difensore, i reati che gli vengono contestati, disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone e ubriachezza, non prevedono l’arresto in flagranza e, infatti, non viene compilato nessun verbale di arresto. Non si sa, quindi, a che titolo mio fratello sia stato trattenuto per oltre tre ore in quella caserma. La vicenda processuale che stiamo vivendo è molto complicata. All’inizio non vennero svolte indagini e solo dopo molto tempo vennero aperti due fascicoli: uno per omicidio colposo contro i medici che avevano somministrato gli psicofarmaci, in quanto è stata valutata la possibilità che i farmaci fossero incompatibili con lo stato etilico di Giuseppe, e uno contro ignoti, a seguito della denuncia presentata da Alberto Biggiogero. Il primo processo, che vede imputati tre medici, sta andando avanti. Del fascicolo aperto contro ignoti, invece, non si sa ancora niente. Alberto Biggiogero non è stato mai ascoltato in questi quattro anni, nonostante lui racconti molto chiaramente le violenze che si sono consumate quella notte. Nell’ottobre del 2011 il giudice ha disposto degli accertamenti sui pantaloni indossati da Giuseppe quella sera e una riesumazione del corpo per effettuare una nuova autopsia. I risultati di questi approfondimenti ancora non si conoscono. Quello che si sa, per ora, è che non sono stati i farmaci a causare la morte. Il sostituto procuratore della repubblica di Varese, che ha condotto le indagini, a nostro avviso non le ha svolte nella maniera corretta, arrivando anche a dire in tribunale che quelle sui pantaloni di Giuseppe erano macchie di pomodoro. Per questo abbiamo deciso di presentare un esposto al consiglio superiore della magistratura, perché venga valutato quanto il suo operato sia stato corretto. Senza ombra di dubbio, comunque, si può dire che le indagini riguardanti la notte trascorsa in caserma sono state gravemente carenti da tutti i punti di vista. Il 5 febbraio 2012 è stata presentata la memoria difensiva della dottoressa Finazzi, uno dei medici indagati per omicidio colposo, la quale dichiara che Giuseppe le disse di essere stato picchiato dalle forze dell’ordine durante la permanenza in caserma. Questi nuovi elementi, così come i risultati degli esami che sono stati effettuati sul suo corpo, spero che portino finalmente a una svolta delle indagini. Nonostante il percorso per avere un degno processo che accerti la verità sulla morte di mio fratello sia stato, e sia tutt’ora, così difficile, io voglio avere ancora fiducia nelle istituzioni del mio paese. Ma, come me, molte altre famiglia si trovano ad affrontare processi simili e a vedersi per molti anni negata giustizia. Ancora più spesso, queste morti avvengono nel completo silenzio, senza essere conosciute, con giudici che decidono per archiviazioni frettolose e famiglie che non hanno la forza di sostenere lo strazio e il costo che questi processi comportano. Hanno provato a uccidere Giuseppe due volte. Per lui e per tutti gli altri che sono morti come lui, io ho giurato di non fermarmi davanti a niente, fino a che non conoscerò la verità”. Giustizia: caso Aldrovandi; la madre di Federico citata a giudizio per diffamazione di Luigi Spezia La Repubblica, 26 febbraio 2012 La giustizia può avere casi paradossali. Uno di questi riporta alla morte di Federico Aldrovandi, il ragazzo di Ferrara che al ritorno a casa dalla discoteca, il 25 settembre del 2005, è finito sotto i colpi della polizia che lo ha picchiato a morte durante un controllo. Patrizia Moretti è la madre di Federico e si deve soprattutto al suo coraggio se la giustizia ha fatto il suo corso, favorendo un’indagine che ha portato alla condanna anche in appello di quattro agenti per omicidio colposo. Il paradosso è questo, che ora Patrizia Moretti va a giudizio. A citare lei e i giornalisti della Nuova Ferrara è stata Maria Emanuela Guerra, pm di Ferrara che per prima ha avuto il fascicolo sulla morte di Federico. Patrizia Moretti è indagata di diffamazione per aver detto, soprattutto, che il fascicolo del pm Guerra è sempre stato vuoto, perché non erano state fatte vere indagini sulla morte di Federico. Ma come spiega l’avvocato Fabio Anselmo: “Tutto quello che la signora ha detto su Guerra è vero, anzi è scritto in atti giudiziari. Allora dovrebbero querelare anche i giudici”. Patrizia Moretti pronunciò la frase incriminata sul fascicolo vuoto dopo averla letta nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado Francesco Caruso. Lo stesso concetto è stato ripreso in appello e dal gup di Ferrara Monica Biglietti, che condannò alcuni agenti di polizia per falsa testimonianza e omissione di atti di ufficio dopo la morte del ragazzo. Con tutto ciò, la signora dopo la perdita del figlio e la giustizia ottenuta contro tante resistenze, va a processo. “È una forma di pressione, come se certi funzionari si sentissero intoccabili”, commenta la signora Patrizia, indagata insieme a due giornalisti della Nuova Ferrara e al direttore Paolo Boldrini, che dice: “Al giornale hanno chiesto, tra causa penale e civile, 1,8 milioni. Un’assurdità”. Lettere: il ministro dice che oggi il carcere è tortura, ma non fa nulla per cambiare le cose di Francesco, dal carcere di Agrigento www.radiocarcere.com, 26 febbraio 2012 Pubblichiamo una lettera, letta ieri nel corso della puntata di Radio Carcere su Radio Radicale, scritta da una persona detenuta nel carcere di Agrigento che si dice stupefatto e deluso circa la politica adottata da questo Governo, ed in particolare dal Ministro della Giustizia, per affrontare la grave emergenza presente nelle carceri. Non si tratta di una lettera isolata. Sono ormai tantissime infatti le lettere scritte dalle carceri italiane dove si evidenza l’incapacità di questa politica ad affrontare concretamente una situazione carceraria vergognosa. Una situazione carceraria che rischia seriamente di esplodere e di non essere più controllabile. “Cara Radio Carcere, dalla mia cella guardo cosa fa questa politica di Governo sul fronte carceri e resto stupefatto. Recentemente il Ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato che il carcere oggi è tortura. Ora, visto che oggi la situazione è tanto grave, mi domando: perché il Ministro Severino non adotta un provvedimento serio per affrontare tale emergenza? Perché non pone seriamente il problema al Parlamento? La verità, secondo me, è che se la Severino non affronta seriamente l’emergenza carceri, non le resta che prendersi la responsabilità di tale omissione e, di conseguenza, si deve dimettere. In caso contrario, ovvero se la Severino di fatto non affronta l’emergenza carceraria, significa che si associa al degrado carcerario e a questa politica indifferente. Una politica che non fa l’unica cosa da fare ora, ovvero una legge di amnistia e di indulto seguita magari da riforme necessarie. La sensazione che ho è che anche questo governo dei tecnici ci stia prendendo in giro, come giustamente detto dai microfoni di Radio Carcere, e non capisce invece, o vuole non capire, che l’Italia ha certamente bisogno di riforme economiche ma anche e soprattutto di una seria riforma della Giustizia. Fino a quando durerà questa presa in giro? La saluto con tanta stima. Lettera: perché non si parla mai del lavoro degli educatori penitenziari? di F.G. www.detenutoignoto.com, 26 febbraio 2012 Buonasera, sono un educatore penitenziario, oggi ci chiamano funzionario giuridico pedagogico ma come si dice cambiano le parole ma la musica è la stessa! Entrando in carcere ogni giorno vivo sulla mia pelle tutte le cose che voi, giustamente dite e rivendicate. Ascolto appena mi è possibile Radio Radicale e tutti i dibattiti sulle condizioni del carcere e sui modi più giusti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti per primi ma anche degli operatori e condivido pienamente. Però mi chiedo perché quando parlare di operatori nominate la Polizia Penitenziaria (e non agenti di custodia come ho sentito dire proprio oggi alla radio) i direttori, gli psicologi, i medici e addirittura i volontari. Ma raramente ho sentito parlare degli educatori. Saprete certamente che come figura professionale lavoriamo a strettissimo contatto con i detenuti e che condividiamo il peso del lavoro soprattutto con i colleghi della Polizia Penitenziaria, molto di più di tutte le altre figure professionali. Ovviamente in una comunità complessa come quella del carcere ogni figura ha la sua funzione ed è importante a prescindere dal ruolo che svolge. Tutti cerchiamo di fare del nostro meglio per cercare di rendere la situazione meno drammatica. Proprio per questo mi sento “offesa” dal fatto che non ci siano mai parole anche in nostro favore, come se non esistessimo. Credo che sappiate le tante competenze dell’educatore penitenziario, il fatto che siamo i primi ad essere chiamati in causa in situazioni di disagio nella quotidianità dei ristretti, il fatto che lavoriamo anche noi con organici ridottissimi, il fatto che ci chiedono di “inventarci” ogni giorno modi che possano contribuire alla rieducazione dei detenuti, con sempre meno risorse. Credo che sappiate che facciamo parte dei consigli di disciplina, del gruppo osservazione e trattamento, che teniamo contatti con la Magistratura di Sorveglianza e che siamo chiamati a fare moltissime altre cose. La nostra figura professionale ha oggi un nome per così dire altisonante “funzionario di area pedagogica”... ma provate ad informarvi a quanto ammontano i nostri stipendi e metteteli poi in rapporto al carico di lavoro e alle responsabilità umane e professionali che caratterizzano il nostro lavoro. Apprezzo molto tutto quello che fate ma per favore dateci almeno la soddisfazione di essere ricordati come parte della comunità carceraria alle pari delle altre figure istituzionali e non, perché ne facciamo parte a pieno titolo! Sardegna: carceri cadono a pezzi e personale all’osso; l’emergenza sul tavolo del ministro La Nuova Sardegna, 26 febbraio 2012 Al ministro alla Giustizia Paola Severino ha descritto la terribile sensazione provata nel girare tra le celle del carcere sassarese di San Sebastiano, dove capita che 8 detenuti si dividano uno spazio minuscolo con gabinetto a vista. Il segretario nazionale del Sappe Donato Capece ha raccontato l’emergenza carceri che riguarda l’intera isola, tra strutture che cadono a pezzi e organici all’osso. Il ministro ha ascoltato e dato le prime risposte. Non tutte sono positive. La prima novità riguarda l’imminente apertura dei penitenziari di Nuchis (Tempio) e di Massama (Oristano). Il 28 febbraio i rappresentanti isolani del Sappe (il sindacato della polizia penitenziaria) incontreranno il provveditore regionale per fare il punto sulle nuove strutture. Si sa già, però, che nella fase iniziale si dovrà andare avanti con gli organici attuali, decisamente striminziti. È stato il ministro Severino a confermarlo ieri. Il Guardasigilli ha annunciato uno studio, in tempi brevi, per valutare quante unità servono complessivamente nell’isola per bilanciare il rapporto detenuti-agenti/educatori. Il segretario Capece ha fatto presente che l’isola è considerata terra disagiata, dalla quale gli educatori si tengono a distanza: “Un problema risolvibile solo ipotizzando incentivi di tipo economico”. La Severino ha ascoltato e preso appunti, concordando sul fatto che la Sardegna dal punto di vista degli organici nelle carceri è una delle regioni più penalizzate d’Italia. Ed è evidente che il problema sarà ancora più pressante quando saranno inaugurate le due nuove strutture, in grado di ospitare dai 300 ai 350 detenuti ciascuna: al momento non è previsto l’arrivo di neppure un agente di polizia in più. Lo stesso numero di detenuti potrà accogliere, nella fase iniziale, il penitenziario di Bancali: a pieno regime, secondo i programmi, gli ospiti potranno essere quasi 900. Capece ha sottolineato l’urgenza di aprire la struttura per mandare definitivamente in pensione la casa circondariale di San Sebastiano, dove i detenuti sono 196 a fronte di una capienza regolamentare di 190. In teoria, dunque, un vero sovraffollamento non c’è: ma a rendere la situazione invivibile, spiega Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe, è il fatto che “un piano è chiuso perché è a rischio crollo. Dunque i detenuti sono ammassati nella parte rimanente, all’interno di celle fatiscenti e gelide”. I 196 detenuti del carcere (181 uomini e 15 donne) di via Roma saranno i primi a trasferirsi a Bancali. Nel penitenziario nuovo di zecca (la cui apertura è stata di recente rimandata a ottobre) troverà posto anche una quota di detenuti algheresi. Nel carcere di San Giovanni i reclusi sono 171 a fronte di una capienza di 159: anche in questo caso, a leggere i dati del Ministero aggiornati al 30 gennaio, non ci sarebbe emergenza sovraffollamento. Ma anche ad Alghero, spiega Cannas, “la situazione è critica perché la sezione D è chiusa, in attesa che venga messa in sicurezza”. Stesso discorso a Nuoro: a Badu ‘e Carros un’ala è interessata a lavori di ristrutturazione. Evidente in tutta la sua gravità l’emergenza nel carcere cagliaritano di Buoncammino: 549 detenuti in una struttura che può ospitarne 345. Entro un anno, quando i quattro nuovi penitenziari saranno aperti (Nuchis, Massama, Bancali e Uta), la popolazione carceraria nell’isola (attualmente 2150 detenuti) potrebbe aumentare di circa 800 unità, visto che un’ampia quota degli spazi disponibili sarà riservata ai reclusi trasferiti da strutture dismesse o sovraffollate. Un numero molto inferiore, dunque, rispetto ai 2000 arrivi paventati dal deputato del Pdl Mauro Pili che ha denunciato un piano segreto del Ministero per trasformare la Sardegna nella nuova Cayenna d’Italia. Se il dato di Pili venisse confermato, allora sì che il sistema esploderebbe. Don Cannavera: carceri strapiene? va ripensata l’idea della detenzione La polemica sulle carceri sta assumendo toni sempre più forti: i penitenziari stanno scoppiando. Il sovraffollamento è anche stato argomento di riflessione del Papa, che ha sottolineato la gravità delle condizioni di vita in carcere. “Problemi che non possono essere risolti con la costruzione di nuovi istituti di pena - ha però sottolineato don Ettore Cannavera, fondatore e animatore della comunità “La collina” di Serdiana. Le carceri italiane sono una grande accozzaglia di tutto, ma assolutamente inadatte a risolvere i problemi dei reclusi”. “Non sarà un caso - ha aggiunto il prete sociologo - se per i detenuti che hanno scontato la pena la possibilità di tornare dietro le sbarre sia del 70 per cento, mentre per chi ha fatto un percorso diverso attraverso la rieducazione e il recupero dei valori la recidiva sia appena del 10 per cento. Sono dati sui quali il ministero della Giustizia dovrebbe riflettere e lavorare prima di continuare a progettare e costruire enormi luoghi di detenzione sempre meno orientati al recupero di chi deve tornare nella società civile”. Quello di don Ettore Cannavera è un sogno realizzato. Perché lui c’è riuscito nella comunità sulle colline di Serdiana, dove tanti giovani hanno ritrovato la forza per dare un senso alla loro vita. “Se ce l’hanno fatta loro, possono farcela tutti - ha insistito. Non hanno fatto altro che ricominciare a vivere. In carcere dovrebbe andare chi è veramente un criminale, ma se andiamo a studiare la situazione attuale nelle carceri italiane, soltanto una minima parte, intorno al 20 per cento, è di delinquenti veri, gli altri sono poveri diavoli. I penitenziari stanno scoppiando perché sono stati riempiti con tossicodipendenti, ladruncoli, stranieri e persone con disagi mentali. Ma se per questi - ha continuato don Ettore Cannavera con quella convinzione che gli deriva dai risultati - si pensasse a una detenzione diversa, la situazione carceraria sarebbe ben diversa e anche le spese ridotte di molto”. Il prete sociologo per detenzione diversa intende un carcere aperto dove i detenuti siano seguiti da sociologi, educatori ed esperti delle varie attività in cui saranno impegnati nel loro percorso di pena che sarà così anche propedeutico al loro ritorno nella società. “Non più detenuti che trascorrono il tempo in cella a non far nulla, sdraiati in branda con tempi scanditi da pranzo e cena e che fanno qualche lavoretto per recuperare pochi euro - ha spiegato don Ettore -, ma giovani che lavorano, che si guadagnano lo stipendio impegnandosi in attività che potranno diventare la loro occupazione futura a fine pena. Credo in una detenzione che dia un futuro a chi ha sbagliato: la punizione dev’essere educativa. Il carcere è fallimentare, lo dicono i numeri - ha concluso - ma nessuno li guarda e così si continuano a costruire penitenziari e spendere per il mantenimento senza raggiungere il risultato più importante: il recupero del condannato”. Sardegna: Simspe; assistenza sanitaria a rischio, no al trasferimento di nuovi detenuti La Nuova Sardegna, 26 febbraio 2012 “Se in Sardegna dovessero arrivare, come si dice, 2.000-2.400 detenuti dalle carceri del nord Italia, sarebbe un fatto grave, anche perché una crescita così forte della popolazione avverrebbe in un momento di transizione e di incertezza che prevede il passaggio della medicina penitenziaria al Sistema sanitario nazionale”. La denuncia è del direttivo della Società italiana di medicina e Sanità penitenziaria che sottolinea la gravità della situazione. “La competenza della sanità penitenziaria è stata trasferita, già dal mese di settembre dello scorso anno, alla Regione - sostiene la Simspe - ma ancora non è stata organizzata nei fatti l’assistenza ai detenuti. Si va avanti a vista, i contratti sono stati prorogati fino a settembre 2012, ma i medici e gli infermieri che assistono i detenuti non hanno, in questo momento, un punto di riferimento stabilito nella sanità sarda”. È evidente che la vertenza pone in rilievo anche il ruolo e il futuro dei medici penitenziari: “Potranno continuare a agire nello stesso modo - chiede il direttivo della Simspe - quindi con il pieno riconoscimento del ruolo e delle competenze acquisite, oppure si deciderà di fare a meno di chi da decenni opera nelle carceri?”. Per la Simspe la situazione è preoccupante: “Se arrivano più di duemila detenuti, così come viene messa in evidenza la carenza di personale di custodia, altrettanto occorrerà fare per i medici. Perché un carico umano così rilevante, comporterà un aggravio del lavoro oltre a una crescita significativa della spesa sanitaria. Si dovranno, infatti, continuare a trattare patologie infettive importanti già presenti negli istituti sardi, ma si aggiungeranno altre situazioni complesse”. La Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria ha promosso incontri con le Università di Cagliari e Sassari per promuovere Master in Medicina penitenziaria per istruire il personale oltre che dal punto di vista sanitario, anche legale e psicologico. “Abbiamo proposto all’assessorato regionale alla Sanità la costituzione di un tavolo tecnico, per organizzare al meglio il servizio sanitario, mettendo a disposizione esperienze ventennali nel campo della medicina penitenziaria. Purtroppo la proposta è caduta nel nulla. Forse l’obiettivo è fare a meno di chi, per anni, ha lavorato negli istituti?”. Firenze: detenuto di 26 anni muore nella cella di sicurezza della Questura di Maria Vittoria Giannotti La Stampa, 26 febbraio 2012 Il giovane era stato arrestato nella notte per ubriachezza. Aveva solo 26 anni. Per il 118 è infarto, ma la procura dispone l’autopsia. Un mese fa nelle celle dei sotterranei si era impiccato un altro ragazzo immigrato. Era entrato nella camera di sicurezza della questura nella notte, ubriaco ma apparentemente in salute. Quando ieri mattina intorno alle undici gli agenti si sono affacciati alla sua cella, si sono accorti che non dava segni di vita. Gli hanno toccato il collo per controllare il battito cardiaco e hanno capito che non c’era un minuto da perdere. Ma per Rami Chaban, un marocchino senza fissa dimora di 26 anni, fermato nella notte a Firenze per rapina e tentata violenza sessuale, non c’era più niente da fare. In pochi minuti in via Zara è arrivata l’auto con il medico, poi - dato che le condizioni del paziente erano disperate - un’ambulanza. Nonostante gli sforzi dei medici il cuore del giovane non ha ripreso a battere. Le manovre di rianimazione sono andate avanti per oltre mezz’ora, ma verso mezzogiorno i sanitari si sono arresi. E così, nel momento in cui Rami Chaban avrebbe dovuto varcare le porte del carcere di Sollicciano, il suo corpo è arrivato, chiuso in una bara, all’istituto di medicina legale di Careggi. Qui, nei prossimi giorni, sarà effettuata l’autopsia. Il medico del 118, nel suo referto, ha escluso la presenza di traumi e ferite. Parla di “arresto cardiocircolatorio”, ipotizzando una morte dovuta a cause naturali. Ma c’è un precedente che non può passare inosservato. Neppure un mese fa, il 28 gennaio, sempre nelle celle dei sotterranei della questura fiorentina, un marocchino ai 26 anni, fermato per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, si era impiccato appendendo un lembo di coperta alla grata della porta blindata. All’indomani di quella morte, la Procura aveva aperto un’inchiesta, ma non sono emersi elementi che facciano pensare a una dinamica diversa dal suicidio. Ora la nuova indagine dovrà stabilire cosa abbia ucciso Rami Chaban e dovrà fugare ogni dubbio sulla presenza di una ferita alla testa, riscontrata dal medico legale in una successiva ispezione cadaverica. Una lesione che potrebbe essere stata provocata durante la concitata rianimazione. Di certo, per ora, c’è solo la sequenza degli eventi che, al termine di una serata ad alta gradazione alcolica, ha portato il 26enne in cella. Venerdì sera, il giovane, noto alle forze dell’ordine, era uscito con una donna polacca e il suo compagno, anche lui marocchino. Quando il fidanzato della ragazza si era allontanato per qualche minuto lasciando soli i due, nei pressi della stazione Leopolda, Rami Chaban avrebbe importunato la ragazza. Lei avrebbe reagito respingendolo bruscamente, e lui le ha sottratto con la forza il cellulare. Al ritorno del fidanzato, la giovane gli ha raccontato l’accaduto e lui ha deciso di chiamare la polizia: tra i due uomini ci sarebbe stata una colluttazione. Gli agenti della Polfer hanno bloccato e arrestato il 27enne, accompagnandolo in questura. In cella, Rami Chaban è arrivato intorno alle 4 del mattino: sembrava tranquillo, non ha dato in escandescenze, spiegano gli agenti, ancora sconvolti. In via Zara avrebbe dovuto trascorrere solo poche ore. Dopo la tragedia del 28 gennaio scorso, la vigilanza nelle camere di sicurezza era stata aumentata. Per questo motivo gli agenti incaricati della sua sorveglianza, in attesa del trasferimento, lo hanno controllato più volte. Poco prima che scattasse l’allarme, un poliziotto si era affacciato: “Sembrava che dormisse profondamente”, ha spiegato. Radicali: secondo decesso da chiarire nella Questura di Firenze “Quello di oggi è il secondo caso di morte da chiarire che avviene all’interno della camera di sicurezza della Questura di Firenze”. Lo affermano in una nota il senatore radicale Marco Perduca e Maurizio Buzzegoli, segretario dell’associazione Andrea Tamburi, richiamando anche il caso avvenuto il 28 gennaio scorso, quando un arrestato si suicidò nella camera di sicurezza della questura di Firenze. Perduca e Buzzegoli sottolineano inoltre che il nordafricano deceduto stamani “è la quarta vittima dall’inizio dell’anno nel capoluogo fiorentino connessa con lo stato illegale della giustizia italiana alla quale di decreto Severino non ha dato purtroppo risposte capaci di andare alla radice del problema, anzi, parrebbe quasi aggravarlo”, facendo riferimento anche ai due detenuti morti suicidi a gennaio a Firenze: uno era recluso nel carcere di Sollicciano, l’altro nell’istituto penitenziario a custodia attenuata Gozzini. “L’inidoneità della struttura a trattenere i custoditi e la conseguente difficoltà da parte degli agenti ad assicurare l’integrità fisica di quest’ultimi devono essere valutati quanto prima” aggiungono Perduca e Buzzegoli, augurandosi che il questore di Firenze “possa quanto prima far chiarezza su quest’ultima morte, rispettando la concezione che la giustizia deve farsi carico, oltre che della vittima, anche dell’autore del reato”. Padova: serve un Garante per i diritti, anche per i detenuti padovani Il Mattino, 26 febbraio 2012 Non sarà la nuova Legge cosiddetta “svuota-carceri” a risolvere la situazione degli istituti penali cittadini. Stiamo parlando delle locali Case circondariale e di reclusione dove oggi sopravvivono - pressoché ammassati - rispettivamente 210 detenuti in attesa di giudizio per 98 posti e 830 detenuti in esecuzione penale per meno di 400 posti regolamentari. Questo migliaio di persone che vive alla prima periferia della nostra città non tornerà certo, da un momento all’altro, a riversarsi nelle proprie abitazioni. Una buona parte perché è in attesa di giudizio, e quindi programmaticamente sottratta non solo ai benefici della nuova legge, ma anche a qualsiasi ipotesi di trattamento (istruzione, formazione, lavoro) e prospettiva prossima di reinserimento; un’altra parte perché autrice di reati che - in modo vincolante - impediscono l’accesso a qualunque beneficio. Ma soprattutto la maggior parte di coloro che hanno da scontare meno di un anno e mezzo di carcere (ed in effetti sono molti), perché di fatto priva, oltre che di un adeguato supporto difensivo, anche di una residenza fuori dal carcere e di qualunque altra forma di sostegno socio-abitativo. Secondo i dati recentemente forniti, dall’entrata in vigore della prima legge “Svuota carceri” (la legge Alfano 199 del 2010) fino al 31 gennaio di quest’anno, in tutto il Veneto sono uscite 311 persone; l’estensione da 12 a 18 mesi della soglia di pena detentiva che consente l’accesso alla detenzione domiciliare, decretata dalla nuova legge, potrà tutt’al più aumentare proporzionalmente una cifra di questo genere. Continueranno quindi a registrarsi, all’interno degli istituti sovraffollati, sistematiche e quotidiane violazioni dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale: non certo per cattiva volontà degli operatori né per mancanza di professionalità o di umanità. Ma perché il numero dei detenuti presenti all’interno dei nostri istituti continuerà - con buona pace della “Svuota carceri” - ad ostacolare la finalità rieducativa della pena, la quale non può che passare attraverso la presa in carico individuale, l’offerta di servizi rieducativi e formativi, la disponibilità di risorse per il trattamento e il reinserimento di chi è sottoposto a pena detentiva. Purtroppo nei nostri istituti, ad oggi, lungi dall’essere adeguatamente disponibili le “risorse del trattamento”, a mancare sono addirittura i detersivi, la carta igienica, l’acqua calda, e poi lo spazio vitale (tre persone in dieci metri quadri), servizi igienici dignitosi (muffa e acqua che cola dal soffitto), strutture adeguate per la socialità. Manca soprattutto il lavoro, che dovrebbe costituire il perno del trattamento, e che riesce a raggiungere - nella casa di reclusione modello di Padova - meno di un terzo dei detenuti. Per tutto questo si è formato a Padova, nell’ultimo anno, un cartello di realtà e di associazioni molto diverse tra loro, che chiedono all’amministrazione comunale - che sanno attenta al tema dell’accoglienza nella legalità - l’istituzione, anche nella nostra città, di un Garante dei diritti dei detenuti: qualcuno che visiti quotidianamente quella parte di città che gli altri non vedono mai, sovrappopolata, dimenticata - fa notizia solo in occasione di morti e suicidi -, strumentalizzata politicamente e mediaticamente quando serve ad alimentare la paura. Nella convinzione che una cultura della legalità non possa che andare a vantaggio di tutta la città, questa è davvero l’occasione di svelare l’altra faccia del diritto - spesso invasivo e repressivo - dimostrando che esso può diventare davvero uno strumento di tutela dei più deboli. Solo vedendosi per una volta riconosciuti i propri diritti, chi ha infranto la legge può cominciare a capire il valore dei diritti degli altri. Camera penale di Padova, Giuristi democratici, Antigone, Ristretti Orizzonti, Acli, Beati i Costruttori di Pace, Cgil Padova, Cgil Funzione pubblica Padova. Sassari: nuovo direttore; detenuti liberi di circolare all’interno dell’istituto e stop a suicidi La Nuova Sardegna, 26 febbraio 2012 “Il carcere deve creare un utile cittadino, consentire a chi è recluso di sottoporre a una visione critica il passato. E chi lo fa, dev’essere premiato”. Lungi dal voler dispensare pillole di filosofia Francesco D’Anselmo, 54 anni, si sta arrotolando le maniche della camicia. Napoletano, laurea in Giurisprudenza, specializzazioni in Diritto amministrativo e del Lavoro, da ottobre è direttore di San Sebastiano. Tre i suoi obiettivi: detenuti liberi all’interno dell’istituto, niente più suicidi e trasferimento al nuovo carcere di Bancali appena possibile: “Spero entro il prossimo anno, a costo di portare i vecchi letti”. La sfida più difficile parte da un ossimoro: garantire ai reclusi la “libera” circolazione nel perimetro carcerario. E se il perimetro è quello della casa di pena sassarese, divenuta nota nel 2000 per i pestaggi ai detenuti, il progetto può sembrare utopia. Da sei anni direttore della Scuola di formazione del personale penitenziario di Monastir, ha vent’anni d’esperienza tra le celle di mezza Italia: Rimini, Parma, Forlì, Ancona, Castelfranco Emilia, che nel 2005 trasformò nel penitenziario a misura di tossicodipendente, sorta di spazio intermedio tra luogo di detenzione e comunità di recupero, poi finito nell’occhio del ciclone per contrasti con San Patrignano. Esperienza della quale D’Anselmo resta orgoglioso. Certo che si possa umanizzare persino il decadente istituto di via Roma, che guida solo tre giorni alla settimana, da dirigente-pendolare di un Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con grosse carenze d’organico. San Sebastiano sarà il peggiore istituto della sua carriera. “Sotto il profilo strutturale, sì. È cosa nota. L’edificio è vetusto e per migliorarlo occorrono continui pareri della Soprintendenza perché è un bene tutelato. Ma cerchiamo di fare piccoli interventi, dove si può”. Appunto, come le viene in mente di lasciare i detenuti liberi nelle sezioni per tutto il giorno? “Non è solo una mia idea, è un intendimento del Dap. Ma è l’Europa che ce lo ha chiesto quando la Corte di Giustizia ha condannato parzialmente l’Italia per la detenzione. Quel verdetto impone di garantire uno spazio minimo di 7 metri quadrati per recluso”. Con i nostri 8 detenuti in stanze da 16 mq, siamo molto lontani. “È per questo che dobbiamo iniziare a compensare queste carenze in altri modi, ad esempio mettendo a disposizione spazi alternativi come una sala ricreazione, un posto dove i detenuti possano incontrarsi, parlarsi, fare giochi di società o uno sport quale il ping pong. Non lo dico io, lo prevedono alcune circolari del Dap che ritengo molto coraggiose, che hanno preso atto del sovraffollamento e cercano di porvi rimedio. In questo caso, a costo zero”. Nel 2008 un detenuto è morto con un cappio al collo, forse per un omicidio. Da allora ci sono stati altri due suicidi. Per non parlare dell’inchiesta in corso su un possibile traffico di droga tra i bracci. Come si fa a tenere i detenuti liberi? “Credo che possiamo farcela, anzi dobbiamo. Per prima cosa studiamo la storia di ogni recluso, vicenda giudiziaria e comportamento in istituto. Esclusi quelli ad alta pericolosità, in base alla valutazione assegniamo una sorda di bollino, bianco, giallo o rosso. Ovviamente, il codice bianco è attribuito a chi può essere trasferito nella sezione, per ora solo una, dove le porte delle stanze saranno aperte. Iniziamo con una fase sperimentale, con circa 25 detenuti con codice bianco. Ma l’intento è quello di estenderlo a tutti”. Come fa a non temere per la sicurezza? Finora le politiche detentive sono state incentrate su questo anche per i vuoti d’organico della polizia penitenziaria. “Sono fiducioso. Rendere la detenzione più umana deve essere un imperativo. La sicurezza e il trattamento devono interagire. Solo così i detenuti iniziano a responsabilizzarsi: chi ha il codice bianco e infrange le regole perché fa qualcosa di sbagliato, torna ad essere recluso come prima. Sono convinto che nessuno rischi di perdere la possibilità di stare meglio”. I gesti di autolesionismo e i suicidi sono ancora troppi, in tutta Italia. “È questo l’aspetto che ci preoccupa di più. Stiamo lavorando per aumentare il contatto con i familiari: cerco di concedere più telefonate, anche verso i cellulari (proibite, tranne in casi particolari, ndr) proprio perché sono convinto che sentirsi vicini ai propri affetti faccia da deterrente alla disperazione”. Non può bastare nelle carceri-discarica del nostro Paese. “Lo so, ma punteremo sul lavoro, con progetti esterni o piccoli incarichi nel carcere. Penso ai voucher Inps, buoni convertibili in contributi, a chi tinteggia le pareti della stanza e così via. Oggi sembra un’utopia. Ma so che è possibile”. Pisa: assegnati 18 agenti al carcere Don Bosco Il Tirreno, 26 febbraio 2012 Diciotto agenti di custodia in più, un primo passo verso il superamento delle tensioni scaturite dopo l’ultima evasione, ma permane un contesto strutturale di sovraffollamento che rende disagevole e a tratti disumano la detenzione e l’attività lavorativa all’interno del carcere. Si è svolta nei giorni scorsi la visita all’istituto di pena Don Bosco da parte della delegazione della Provincia formata dal presidente Andrea Pieroni, dalla sua vice Alessandra Petreri, dall’assessore Silvia Pagnin e dal presidente della quarta commissione consiliare Massimiliano Casalini. A ricevere gli amministratori provinciale il direttore pro tempore Francesco Frontirrè. “Intendiamo ribadire la volontà di continuare ad offrire la nostra collaborazione - sottolinea il presidente Andrea Pieroni - raccogliendo da una parte le istanze di disagio e dall’altra approfondire e confrontarci su quali potranno essere futuri progetti volti a favorire l’integrazione, il reinserimento dei detenuti e comunque cercare di sostenere quelle attività trattamentali a cui la detenzione dovrebbe costituzionalmente tendere, oltre a quelli già in atto”. “Nel visitare la sezione femminile - aggiunge la vice presidente Alessandra Petreri - la sezione giudiziaria e quella medica, oltre a renderci conto della fatiscenza della struttura e del sovraffollamento che sappiamo essere cronico, abbiamo preso coscienza di quanto siano importanti cose che possono sembrare banali, ma che invece per chi vive in uno stato di reclusione possono essere di importanza primaria, come dei televisori o una lavatrice per permettere a chi non ha familiari di farsi il bucato”. “Tra i vari interventi già messi in atto - precisa l’assessore Silvia Pagnin - segnalo i percorsi lavorativi all’interno degli istituti, sostegno alla formazione scolastica, l’erogazione di borse lavoro e attivazione tirocini formativi, corsi di alfabetizzazione, interventi di mediazione linguistico culturale e attività di informazione rivolte ai detenuti stranieri sulla propria posizione giuridica e sui propri diritti”. Roma: relazione del Consigliere regionale Fabio Nobile (Fds) sulla visita a Rebibbia www.articolotre.com, 26 febbraio 2012 Proseguono le visite del Consigliere regionale Fabio Nobile della Federazione della Sinistra presso gli istituti penitenziari del Lazio. Dopo il carcere minorile di Roma di Casal del Marmo e l’istituto Regina Coeli, il consigliere si è recato presso il penitenziario di Rebibbia N. C. Il quadro che ne emerge è allarmante. Gli istituti penitenziari del Lazio rappresentano, un microcosmo nel quale si riflettono i principali problemi delle carceri italiane: il sovraffollamento supera il 137%, le 14 carceri laziali dovrebbero ospitare 4461 persone mentre gli effettivi sono più di 6300 (ed è da evidenziare il dato per cui il 46% di questi sono in attesa di giudizio); la carenza di personale supera il 35% e per quanto riguarda gli educatori e gli assistenti sociali la carenza è superiore al 40%. Per quanto riguarda il carcere di Rebibbia è lo stesso direttore, Carmelo Cantone, a segnalare che vi sono delle effettive criticità e dei problemi legati essenzialmente alla diminuzione dei fondi voluta dal precedente governo e avallato dall’attuale. Ciò rientra, del resto, nel piano economico-politico degli ultimi anni dei “tagli ad ogni costo” per fronteggiare la crisi, ed è chiaro che tale manovra si abbatte principalmente sulle situazioni più disagiate ed emarginate della società, quali, in tal caso, le carceri. Ciò comporta che a Rebibbia celle progettate per due detenuti hanno al loro interno tre o quattro persone, e le celle per quattro ne ospitano fino a sei, fortunatamente, afferma Cantone, ci sono a Rebibbia 351 celle singole che ancora vengono utilizzate come tali ed assegnate in base all’”anzianità” di detenzione o per coloro che hanno problemi di salute. Fortunatamente, in quanto, ammette lo stesso Cantone, in altre carceri non è così, e anche la cella singola è divisa da due o tre detenuti, come, ad esempio, nel carcere di Padova. Relativamente al lavoro nel carcere, spiega il direttore che i detenuti-lavoratori si dividono in generici o professionali. I secondi sono coloro che seguono un determinato percorso di formazione professionale e vengono assunti da aziende private pur lavorando all’interno del carcere sotto la guida di cooperative sociali che hanno in gestione dai privati l’organizzazione del lavoro nel penitenziario, un esempio sono i circa venti detenuti che lavorano come call center Telecom Italia o i dieci che svolgono mansioni informatiche per Società Autostrade. Paradossale è invece la situazione dei lavoratori generici. Si tratta dei detenuti che svolgono mansioni di pulizia, mensa etc. per conto dell’Istituto di Rebibbia stesso. Ebbene gli stipendi dei generici non vengono adeguati alle tabelle salariali correnti dal 1994 con il risultato che molti di loro, una volta usciti dal carcere, ricorrono al Giudice del Lavoro per ottenere, giustamente, il riconoscimento del lavoro svolto in carcere ed il relativo adeguamento salariale. Nella maggior parte di questi casi l’adeguamento salariale è riconosciuto dal Giudice ed il Carcere si trova comunque a pagare, dice bene Cantone “i soldi che non escono dalla porta, escono poi dalla finestra” con relativa multa. La soluzione è semplicissima e sarebbe quella dell’adeguamento dei salari dei detenuti agli ultimi criteri remunerativi. Sul sovraffollamento la situazione di Rebibbia rispecchia in pieno la disastrosa condizione della regione Lazio e del territorio nazionale, i posti previsti sarebbero all’incirca 1200 ma detenuti effettivi sono 1780, record negativo dell’ultimo periodo ma, afferma lo stesso Cantone, eccezion fatta per il periodo successivo all’ultimo indulto tale “quota” non è mai scesa al di sotto dei 1600 detenuti. A tale situazione che determina anche un maggior stress psicologico per il detenuto, con relativi danni a breve, medio e lungo termine, si aggiunge la piaga della tossicodipendenza che a Rebibbia tocca il 35% dei detenuti, ed in tale 35% sono ricompresi solo i tossicodipendenti abituali e non gli occasionali, inoltre l’utilizzo di droghe riguarda sempre meno le droghe leggere e sempre più la cocaina ed il “ritorno”, sempre che se ne sia mai andata, dell’eroina. Il traffico delle sostanze viene dall’esterno del carcere ma non ci sono abbastanza uomini per svolgere un controllo capillare dato l’immenso via vai di persone che si crea in un grande istituto, per di più sovraffollato, quale Rebibbia. Caso particolare sono i detenuti transessuali, secondo il direttore questi risultano poco partecipativi nelle attività carcerarie e l’unico modo per coinvolgerli sono spettacoli o corsi, quali quelli organizzati in collaborazione con il circolo “Mario Mieli”, che riguardano per l’appunto l’identità di genere. C’è però da dire che in una situazione quale quella già altamente discriminata del transessuale, il voler rivendicare la propria identità di genere è giustificata ed è da apprezzare come lo sforzo di voler ribadire con coscienza il proprio status di discriminato, ed anche, il voler costruire anche all’interno del carcere un percorso socio-politico, rivolto anche ai detenuti non transessuali, può essere un traino per un progetto di sensibilizzazione al problema che, partendo da una situazione doppiamente difficile quale quello del transessuale in carcere, si apra anche alla società civile esterna specie nel 2012 che è l’anno per la depatologizzazione del transessualismo. Girando per l’istituto saltano all’occhio quelli che sono, invece, i problemi strutturali, grandi infiltrazioni d’acqua sulle pareti, l’impianto d’illuminazione vecchio, la reale questione del sovraffollamento, espressa da una cella di 22 metri quadrati per sei persone, ciò nonostante la guida del direttore porti, probabilmente, nelle zone più “accettabili” dell’istituto. I detenuti hanno a disposizione due ore d’aria la mattina e due il pomeriggio e l’ora di “socializzazione”, nella pausa pranzo, durante la quale è loro “concesso” di tenere la cella aperta. Nota positiva è il fatto che i detenuti girano liberamente nell’istituto, tra un settore e l’altro, senza la “scorta” della polizia penitenziaria, grazie ad un sistema di identificazione elettronico tramite pass magnetici. Difficile è anche la situazione lavorativa della Polizia penitenziaria che subisce la mancanza di organico sia durante il turno di giorno, che è più lungo del previsto e dura fino alle 22 sia durante la notte quando, a fronte dei tre agenti per ogni 200 detenuti, c’è solo uno effettivo. L’elemento assurdo da segnalare è che pur se a Rebibbia il personale penitenziario risulta formalmente presente molto spesso risulta impiegato all’esterno dell’istituto, così che se già il personale manca di 800 unità quello effettivamente presente si riduce a 400 unità. La serie di visite del consigliere Nobile continuerà anche nelle altre strutture laziali e ciò per porre l’accento su un problema soprattutto civile che riguarda il trattamento non del “detenuto” in quanto tale, ma del “detenuto” in quanto persona. Il diritto all’inviolabilità ed alla sacralità della persona umana, quale sia stato il suo errore che comunque sta pagando, deve essere da monito per ricordare che compito dello Stato non è semplicemente quello di “sorvegliare e punire” ma di rieducare, riabilitare consentire al soggetto, che esprime volontà di ravvedimento, di avere i mezzi per intraprendere un cammino di risocializzazione, per poter reinserirsi nella società. Le condizioni delle carceri in cui il soggetto ristagna su se stesso, nel sopore della coscienza, senza che gli venga dato sostegno psicologico ed educativo, sono un problema civile, sociale, giuridico e politico. Sono condizioni frutto di una società mercificata in cui il ruolo del cittadino è quello di essere produttivo ed allineato con il sistema, coloro che escono fuori dal seminato, e molto spesso sono coloro che appartengono alle fasce più deboli e povere emarginate dal benessere del mercato, vengono considerati errori da eliminare se non fisicamente (come purtroppo accade se si pensa che nel 2011 ci sono state 186 morti nelle carceri italiane di cui 66 per suicidio) socialmente, rendendoli, anche tramite la correità dello Stato nella questione delle tossicodipendenze, masse inermi, incapaci ed inabilitati a poter esprimere un proprio contributo nella società. “Chi sbaglia paga” e questo è un dato di fatto, ma altro dato di fatto è che spesso si paga più del dovuto, sacrificando la propria dignità di persona, ed in tal caso è lo Stato che “sbaglia” rendendosi complice di un sistema a cui fa comodo lasciare che l’opinione pubblica identifichi il marcio sempre con le stesse persone, con coloro che continuano a scontare la pena anche fuori dal carcere. Siracusa: Sindacati di Polizia penitenziaria; carcere di Augusta… un purgatorio sulla terra www.augustaonline.it, 26 febbraio 2012 Ennesimo appello dei sindacati di categoria a seguito della dura relazione a seguito dell’ispezione periodica dei rappresentanti sindacali che è stata resa nota e di cui Augusta online pubblica un ampio stralcio. Una situazione ai limiti della vivibilità per gli agenti di custodia e per i detenuti. La situazione della casa di reclusione di Brucoli è nota per il sovraffollamento, per la carenza degli agenti e per la fatiscenza di una struttura che senza adeguate manutenzioni rischia di tramutarsi in una trappola. “È avvilente - scrivono Michele Pedone e Fabio D’Amico - che, nonostante la costante e puntuale informazione fornita sulle condizioni fatiscenti della struttura della casa di reclusione di Augusta, ancora oggi non sembra vi siano stati seri e risolutivi interventi economici per far fronte alle emergenze. L’insostenibile situazione rende l’istituto un luogo insicuro per tutti, operatori e detenuti. Giorno dopo giorno aumentano i rischi per la sicurezza di tutti i lavoratori che rappresentiamo, i quali, anziché sentirsi tutelati dall’amministrazione penitenziaria che dovrebbe essere l’élite delle istituzioni statali, vivono in un clima decisamente infelice, tendente solo ad abbassare il livello morale e professionale anche dei dipendenti più dediti al lavoro”. L’ispezione, prevista dalle vigenti leggi, evidenzia alcune gravi carenze: “l’ennesimo cedimento delle inferriate esterne e lo scoppio e il cedimento della canna fumaria del gruppo elettrogeno, - segnalano i sindacalisti - vanno ad aggiungersi ad una lunga lista di gravissimi problemi mai risolti. Si pensi al fatto che in caso di blackout l’istituto penitenziario resterebbe al buio totale. Speriamo che mai si verifichi tale evenienza”. I rappresentanti degli agenti nella relazione sottolineano “l’ineccepibile interesse mostrato dalla direzione dell’istituto verso i gravissimi problemi strutturali e igienico sanitari e di cui gli organi competenti sono stati abbondantemente notiziati”. Indicando nei vertici nazionali e regionali gli interlocutori principali, del resto la crisi attuale degli istituti di pena, a livello nazionale, occupa spesso le prime pagine dei media. La grave situazione del carcere di Augusta è stata più volte oggetto di articoli di cronaca per i “seri rischi per l’incolumità fisica dei lavoratori (riferimento note del comando provinciale Vigili del fuoco riguardanti l’anello antincendio non funzionante, presenza di serbatoi gas inutilizzati, scoppio e cedimento della canna fumaria gruppo elettrogeno , impianti elettrici non a norma, camminamento muro di cinta ecc.). A demotivare e creare ansia e stress ai dipendenti - continua la relazione - vi è anche la componente fondamentale della salubrità degli ambienti di lavoro”. Come riferito dai sindacati : l’unico stanziamento, di circa 50.000 euro, per lo svuotamento dei cunicoli, pulitura pozzetti e rifacimento impianto di scarico e idrico delle sezioni detentive, si potrà intervenire solo per una limitatissima tranche di lavori, quali l’espurgo delle acque melmose ed, eventualmente, un limitatissimo ripristino delle tubazioni di qualche cella. “Considerato quanto verbalizzato dal personale del Servizio igiene degli ambienti di Vita - Asp 8 Siracusa, nelle visite ispettive effettuate a luglio 2011 e il febbraio 2012, risulta che l’aspetto relativo ai problemi carattere igienico-sanitario resta irrisolto, così come tutto il resto, a meno che non vi sia l’immediata assegnazione di fondi sufficienti per il proseguo dei lavori in maniera seria concreta al problema (almeno 150.000 euro)”. Numerosi i rischi igienico sanitari elencati dai due ispettori: “pareti scrostate, sanitari spesso mal ridotti, pulsometri per lo scarico dell’acqua usurati, locali docce fatiscenti, cancelli e portelloni di accesso alle tubazioni arrugginiti, vetri delle finestre lesionati e/o rotti ……..impianto di riscaldamento non funzionate, presenza rilevante insetti, infiltrazioni acqua piovana, mancanza impianto allarme, precarietà dei dispositivi elettrici delle celle ecc.”. Nella precedente comunicazione del settembre 2011 - si legge nella relazione - avevamo definito la situazione strutturale della Casa di reclusione di Augusta “esplosiva”: oggi, purtroppo, non si può far altro che ribadire tale situazione! L’Amministrazione, una volta per tutte, deve determinare stanziamenti economici adeguati al proseguo dei lavori già iniziati, a rendere salubri e sicuri i luoghi di lavoro dei reparti detentivi, e ad eliminare eventuali ulteriori strutture prossime a cedere. Immediato, altresì, deve essere l’intervento economico da disporre a favore del ripristino a regime del gruppo elettrogeno e del rifacimento dell’impianto antincendio (non funzionante) ed elettrico non a norma. Della irrisolta questione e dei rischi a cui viene posto quotidianamente il personale di polizia penitenziaria , ma anche i detenuti dell’istituto, si notizierà la Procura della Repubblica di Siracusa, Organo al quale, verrà chiesto di individuare eventuali responsabili che hanno determinato negli anni una “pericolosa” e “illegittima” situazione in un contesto “particolare” e “delicato” come un istituto di pena. Sarebbe opportuno - conclude la dettagliata relazione - l’immediato stanziamento di fondi adeguati per gli interventi di cui la casa di reclusione necessita per l a salvaguardia di tutti. Agli organi di stampa con preghiera di pubblicazione affinché l’opinione pubblica abbia cognizione della reale situazione e condizione in cui gli operatori di Polizia Penitenziaria sono costretti ad espletare la propria attività volta a garantire la sicurezza del Paese”. Teramo: detenuto con patologie psichiatriche ferisce due agenti nel carcere di Castrogno Ansa, 26 febbraio 2012 Due agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere teramano di Castrogno sono rimasti feriti, in maniera non grave, in una colluttazione con un detenuto con patologie psichiatriche, avvenuta all’interno dell’infermeria dove l’uomo era stato portato. Il detenuto - G.I. - è un 50enne di origini napoletane, condannato all’ergastolo, con un passato nel clan camorristico che faceva riferimento a Cutolo. Le sue patologie in passato ne avevano reso necessario il ricovero in centri specializzati. Proprio in infermeria avrebbe cercato di aggredire il medico che lo stava visitando. Gli agenti sono intervenuti per bloccarlo ma sono stati aggrediti a loro volta. Il segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Pallini, ha denunciato “come sia caduto nel vuoto l’appello lanciato appena qualche giorno fa all’amministrazione regionale e centrale di non inviare più nella struttura teramana detenuti con patologie psichiatriche”. Firenze: detenuto tenta due volte il suicidio in 24 ore nell’Opg di Montelupo Il Tirreno, 26 febbraio 2012 Per due volte, in 24 ore, ha tentato il suicidio e, in entrambe le occasioni, è stato salvato dagli agenti in servizio nell’Opg di Montelupo Fiorentino (Firenze). È quanto dice in una nota il Sappe provinciale a proposito di 23enne, italiano, che mercoledì scorso ha cercato di impiccarsi con un lenzuolo appeso alla finestra e giovedì, 23 febbraio, ha dato fuoco ai suppellettili della cella. Solo “la prontezza, il senso civico e l’abnegazione” degli agenti penitenziari in servizio, si legge nella nota, “che hanno messo a repentaglio la loro incolumità” hanno permesso agli agenti di mettere in salvo l’internato, non senza difficoltà visto “che pesa oltre un quintale”, e poi spengere l’incendio. Il Sappe ricorda che alcuni reparti dell’Opg sono già stati chiusi, pur essendo questa una delle poche strutture dove vi sono “celle singole che possono ospitare soggetti cosiddetti di difficile gestione”. E allora cosa succederà tra un anno (31 marzo 2013) quando, si chiede il sindacato, “ci sarà la chiusura totale degli Opg. Saranno pronte strutture idonee ad ospitare soggetti pericolosi e psicolabili?”. Ancona: domani delegazione del Consiglio regionale in visita a Montacuto www.anconatoday.it, 26 febbraio 2012 Il Consiglio regionale in visita nelle carceri: da Montacuto scatta il “tour”. Obiettivo della visita guidata, toccare con mano i problemi del carcere marchigiano. Durante il tour verrà distribuito ai detenuti il “Vademecum del carcere” Delegazione di Consiglieri regionali a Montacuto. Scatta domani, lunedì 27 febbraio, la visita del Consiglio regionale al carcere di Montacuto, prima tappa del tour per i sette istituti di pena marchigiani, promosso dall’Assemblea legislativa in collaborazione con il Garante regionale dei detenuti. A partecipare al sopralluogo saranno il Vicepresidente Giacomo Bugaro, Franca Romagnoli, Rosalba Ortenzi, Gianluca Busilacchi, Maura Malaspina, Giancarlo D’Anna, Giovanni Zinni, Roberto Zaffini ed Enzo Marangoni. Ad accompagnare la delegazione dei consiglieri in visita sarà l’Ombudsman regionale Italo Tanoni che con l’occasione consegnerà alla Direttrice Santa Lebboroni le prime 150 copie del “Vademecum del carcere”, una sorta di guida per aiutare i detenuti a vivere meglio il carcere e a comprendere le leggi e le regole che lo governano. L’opera, tradotta in 8 lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo, albanese, rumeno, cinese, arabo) verrà infatti distribuita in ogni cella e sarà a disposizione dei detenuti. Su 385 detenuti del carcere di Montacuto, infatti, quasi la metà (151) sono stranieri. “Il carcere non può rappresentare semplicemente un luogo dove scontare la pena, ma deve essere anche un’opportunità di rieducazione e di reinserimento, nel rispetto di condizioni di vita compatibili con la dignità umana” - ha dichiarato il Presidente Vittoriano Solazzi. Di qui l’importanza della guida. Obiettivo del tour: toccare con mano i problemi del carcere marchigiano (sovraffollamento, carenza di personale e inadeguatezza delle strutture) per tentare di porre rimedio. Le prossime tappe del tour sono in programma il 12 marzo a Fermo e il 14 marzo ad Ascoli”. Brescia: evasione dal carcere di Canton Mombello, 24enne kosovaro in fuga www.giornaledibrescia.it, 26 febbraio 2012 Clamorosa evasione nella mattinata dal carcere di Canton Mombello. A fuggire uno dei tre detenuti che hanno tentato la fuga, il solo ad essere riuscito a far perdere le proprie tracce. Secondo la prima ricostruzione, l’evasione è andata a segno alla luce del solo, attorno alle 10.15 di domenica mattina. I tre detenuti - tra i quali il 24enne kosovaro Fatmir Gashi, cui ora le forze dell’ordine danno la caccia - si sarebbero calati con una corda dalle cucine della casa circondariale di via Spalti S. Marco, raggiungendo così il cortile interno. Da lì sarebbero saliti sul muro di cinta calandosi quindi nel confinante impianto sportivo del tennis. Due dei tre fuggitivi sono stati riacciuffati dalla Polizia penitenziaria ancora sul muro. Non così per il 24enne, scappato e sparito nel nulla. L’uomo, in cella per rapina da circa due anni, è descritto come alto circa 1 metro e 75, con capelli corti e mori, vestito di blu. La caccia all’uomo è solo all’inizio. Padova: Coisp; con la legge “svuota carceri” Questura a rischio collasso Il Mattino di Padova, 26 febbraio 2012 Protesta del Coisp davanti agli uffici di piazzetta Palatucci. Solidarietà del consigliere regionale Pipitone (Idv) e dell’assessore provinciale Pavanetto (Pdl). “Questo decreto, che vuole creare micro carceri sparse per le questure, a Padova, come nelle altre città venete, creerà grossi problemi”. Lo ha detto Antonino Pipitone, consigliere regionale di Italia dei valori al termine della manifestazione protesta del sindacato di polizia Coisp contro il decreto svuota-carceri, che si è svolta davanti alla questura di Padova alla quale ha partecipato assieme ad altri esponenti Idv. “Le celle di sicurezza - ha aggiunto Pipitone - sono pensate solo per mantenere i soggetti temporaneamente in stato di fermo. Quelle di Padova, peraltro nuove e molto pulite, che il questore Montemagno ci ha permesso di visitare, sono cinque, senza brande, ma con panchine di cemento piastrellato, su cui appoggiare un materassino”. “Questo esempio - ha rilevato - spiega bene la fragilità di un provvedimento che pensa di scaricare i detenuti sulle spalle di polizia e carabinieri, ed al Coisp abbiamo infatti testimoniato tutta la nostra vicinanza. Solo chi non ha nessuna conoscenza della reale situazione delle forze dell’ordine può architettare simili soluzioni, ed anche le questure del Veneto rischieranno il collasso”. “Mi unisco ai vari sindacati di polizia - aggiunge l’assessore provinciale alla Sicurezza Enrico Pavanetto - agli agenti e a tutte le persone che in questi giorni hanno deciso di lanciare una forte protesta contro il decreto Svuota carceri. Il mio è un secco “no” a questa soluzione per motivi talmente banali da essere sotto gli occhi di tutte le persone di buonsenso. Se l’alternativa era quella di risolvere la questione del sovraffollamento delle case di reclusione lasciando a piede libero migliaia di criminali, non servivano certo dei guru mascherati da professori. Era sicuramente meglio, invece, pensare alle carceri private”. Bologna: domani una delegazione dell’Unione Camere Penali Italiane visita la Dozza Comunicato Stampa, 26 febbraio 2012 Dopo la visita al Cotugno di Torino, a Rebibbia a Roma ed al carcere di Trieste, il giorno 27 febbraio 2012 ad ore 10,30 il Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, avv. Valerio Spigarelli, il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali Italiane avv. Alessandro De Federicis, il responsabile della Commissione diritti umani e carcerazione speciale dell’Unione Camere Penali Italiane avv. Roberto d’Errico, il Presidente ed i componenti del Consiglio direttivo della Camera Penale “Franco Bricola” di Bologna visiteranno la locale Casa Circondariale “Dozza”. L’evento si inserisce in un percorso intrapreso dall’Unione Camere Penali Italiane ed è dimostrativo della particolare attenzione che l’Associazione dei penalisti italiani rivolge alla situazione delle carceri ed alle drammatiche condizioni di vita delle persone ristrette nei penitenziari italiani. Di assoluto rilievo è altresì la disponibilità mostrata dalla Direzione dalla Casa Circondariale “Dozza” che ha immediatamente risposto positivamente alla richiesta di visita al carcere. Roma: consegnati libri universitari a detenuti del reparto G8 di Rebibbia Tm News, 26 febbraio 2012 Nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso si è svolta la consegna di libri universitari ai detenuti del gruppo universitario del reparto G8. L’iniziativa, promossa dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Filippo Pegorari, ha ottenuto l’appoggio del consigliere regionale del Lazio, Chiara Colosimo, che ha materialmente provveduto all’acquisto dei volumi. “Quanto ho fatto - ha detto la Colosimo - non deve essere visto come un atto di carità è piuttosto un gesto concreto di supporto a persone che, pur recluse, stanno facendo di tutto per crearsi un futuro diverso da quello che si prospettava loro quando sono entrati in carcere. E lo studio, il sapere, diventa la fonte da cui poter attingere per raggiungere tale obiettivo”. Per Pegorari, “l’iniziativa rientra nell’ambito delle azioni promosse dall’Ufficio che dirigo per favorire l’inserimento lavorativo di persone detenute”. Il Gruppo Universitario del Reparto G8 di Rebibbia Nuovo Complesso è composto da 16 persone, tutte iscritte alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza” ed è diretto da Sergio Boeri, che si è laureato con 110 in Diritto Civile con il celebre Professore Nicolò Lipari. Stati Uniti: stop a privatizzazione carceri “vantaggi economici minimi e aumento detenuti” Corriere della Sera, 26 febbraio 2012 L’America paga la tutela della sicurezza dei cittadini con una popolazione carceraria enormemente superiore - in alcune realtà anche dieci volte superiore - a quella di molti Paesi europei: 731 detenuti per ogni 100 mila abitanti, quasi l’1% della popolazione dietro le sbarre o soggetta a misure restrittive (arresti domiciliari, libertà vigilata, braccialetto elettronico). Un costo enorme (economico e sociale) per la collettività. Che si trasforma in occasione di business per l’industria dei penitenziari privati, cresciuta parallelamente al boom dei detenuti (più che triplicati negli ultimi 30 anni soprattutto per la moltiplicazione degli arresti per droga e immigrazione clandestina). Aziende come la Corrections Corporation of America, che gestisce 66 penitenziari ed è quotata alla Borsa di Wall Street. Ora, approfittando della crisi finanziaria che attanaglia le amministrazioni locali Usa, la società ha messo sul tavolo 250 milioni di dollari per acquistare le carceri che il settore pubblico è disposto a dismettere in rutti gli Stati dell’Unione. Col vento delle privatizzazioni che soffia forte soprattutto nelle amministrazioni conservatrici pronte a smantellare anche servizi pubblici molto delicati, sembrava che società come Corrections Corporation avessero davanti una prateria. E invece, a sorpresa, il Senato della Florida giorni fa ha bocciato la cessione di 26 prigioni dello Stato caldeggiata dal governatore repubblicano Rick Scott. Sarebbe stata la più grossa privatizzazione di carceri della storia americana, ma sono stati proprio nove senatori conservatori a far pendere la bilancia per il “no”. E resistenze stanno emergendo anche in Stati come la Louisiana, l’Arizona e il Michigan, in passato favorevoli a privatizzare anche i penitenziari. Tardivi scrupoli morali? Non esattamente: società di analisi e authority di controllo hanno cominciato a indagare scoprendo che i vantaggi economici di una gestione privatistica dei penitenziari sono minimi e, spesso, addirittura inesistenti, se si tiene conto anche di alcuni fattori “occulti”. Ad esempio il rifiuto delle aziende carcerarie di prendere in custodia detenuti con problemi psichici o altre patologie serie che richiedono cure costose. Una realtà davanti alla quale anche gli ideologi della privatizzazione a tutti i costi hanno dovuto tirare il freno. Ci si comincia a rendere conto che a fare i pasdaran del liberismo anche in casi come questo si danneggia l’economia di mercato, anziché farla trionfare. Nella sua offerta di acquisto di penitenziari, Corrections Corporation avverte i mercati che per operare economicamente avrà bisogno di celle sempre occupate almeno al 90%. E in Pennsylvania tempo fa sono stati condannati due giudici che avevano ricevuto mazzette in cambio di un’impennata delle condanne detentive di giovani che avevano commesso reati minori. Francia: carceri nella bufera; perquisizioni corporali bandite da anni, ma ancora praticate Associated Press, 26 febbraio 2012 Nonostante siano ormai passati tre anni dalla messa al bando delle perquisizioni corporali, giudicate degradanti, umilianti e un attentato alla dignità umana, in alcune carceri francesi sono prassi consolidata dopo i colloqui. E dire che questa pratica è condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. E infatti, alla luce appunto della recente evoluzione legislativa in tal senso, alcuni detenuti hanno cominciato a intraprendere le vie legali per difendere i propri diritti. Nell’agosto del 2011 l’Osservatorio internazionale delle prigioni d’oltraple, Oip, ha lanciato una campagna per sostenere i ricorsi individuali. Nella maggior parte dei casi i tribunali hanno dato ragione ai reclusi. Da settembre l’Oip ha chiesto anche una revisione dei regolamenti interni. Intanto il 22 febbraio l’Autorità garante dei prigionieri ha diffuso un rapporto che mette in luce come le perquisizioni sui detenuti nudi, anche se illegali, continuano alla luce dell’interpretazione di una circolare dello scorso aprile. I detenuti sono costretti a questa pratica ogni volta che vengono a contatto con il mondo esterno. Per questo motivo qualcuno è addirittura arrivato a limitare i contatti con la propria famiglia per non subire la vergogna della perquisizione. “Ho annullato un incontro e ho chiesto a mia moglie di venirmi a trovare una volta al mese anziché una ogni 15 giorni. Voglio evitare il più possibile questa pratica. A 72 anni trovo tutto questo degradante. È un attentato alla dignità umana”. Questa la testimonianza di un detenuto del carcere di Bourg-en-Bresse. A causa della perquisizione corporale, da settembre a oggi, sono state condannate le direzioni dei carceri di Rennes, Oermingen e Poitiers-Vivonne. Al momento non si sa ancora se queste carceri si siano adeguate o meno alla legge, in quanto le stesse amministrazioni non hanno voluto rivelarlo. Secondo l’Oip, l’unico carcere francese ad aver bandito nella sua totalità questo tipo di pratica è il penitenziario femminile di Rennes. Jean-Marie Delarue, a capo dell’autorità indipendente che controlla le prigioni, ha dato la colpa della situazione attuale alla circolare dell’aprile 2011 che avrebbe generato il “malinteso”. Sorge spontanea una domanda: allora perché questa circolare esiste? Lo spiega il direttore di una delle carceri in questione. “Ultimamente è successo che alcuni detenuti siano tornati in cella con delle sostanze stupefacenti e dei telefoni portatili”. Scoperte che hanno giustificato le perquisizioni nel periodo compreso tra il 18 gennaio e 18 febbraio 2012, ovvero il giorno dopo la sentenza del tribunale amministrativo di Strasburgo, il quale annullava le perquisizioni corporali sistematiche dei detenuti usciti dal parlatorio. Perché “la perquisizione è una limitazione della libertà individuale delle persone. Significa imporre la propria forza, mostrare l’autorità”. Anche contro ogni limite della decenza, e della dignità altrui. Indonesia: domata rivolta in carcere isola di Bali, nessun detenuto è riuscito a evadere Tm News, 26 febbraio 2012 Le autorità indonesiane hanno annunciato di aver ripreso il pieno controllo di un carcere sovraffollato del paradiso turistico di Bali, dove era scoppiata una rivolta. Nel carcere di Kerobokan è scoppiata una rivolta tra bande rivali ma tutti i (circa) mille detenuti, tra i quali una sessantina di stranieri, reclusi sono stati rintracciati. “Abbiamo il controllo sulla prigione. La situazione è tornata normale e o detenuti seguono i nostri ordini”, ha affermato Bambang Krisbanu, responsabile della sicurezza al ministero della Giustizia, “Posso confermare che nessun detenuto è evaso durante le rivolte”. La presenza di polizia nel penitenziario era ridotta al minimo, con meno di dieci guardie armate all’ingresso, anche se gli agenti erano pronti a fornire assistenza per garantire la sicurezza. Lo ha riferito il portavoce della polizia di Bali, Hariadi. “Non c’è stata finora alcuna richiesta di assistenza dal personale del carcere. Significa che il personale è riuscito a gestire la situazione e anche i prigionieri”, ha spiegato. Il carcere ospita decine di detenuti stranieri, compresi dodici australiani, e le autorità temevano che i detenuti che avevano assunto il controllo del carcere potessero utilizzarli come ‘moneta di scambiò. Ai giornalisti è stato consentito di entrare per rendersi conto della situazione. Tutti i detenuti sono rientrati nelle loro celle, ad eccezione di quelli che le hanno avute danneggiate nella rivolta. Il traffico di veicoli e pedoni sulla strada affollata immediatamente di fronte al carcere è tornato alla normalità, anche se nell’ingresso principale c’è ancora il nastro della polizia. Le forze indonesiane hanno fatto irruzione mercoledì a Kerobokan per riprendere il controllo dopo una notte di roghi e sassaiole.