Giustizia: le iniziative del Governo Monti in materia penale e penitenziaria www.governo.it, 24 febbraio 2012 Il 16 dicembre 2011 il Consiglio dei Ministri ha approvato un pacchetto di misure in materia di giustizia penale e di organizzazione degli uffici giudiziari, con l’obiettivo di porre rimedio all’emergenza carceraria e di deflazionare il processo penale. In materia penale e di carceri sono stati approvati tre provvedimenti: un decreto legge, convertito in legge a febbraio 2012; un disegno di legge, appena presentato alla Camera dei Deputati; un regolamento. Salva-Carceri La prima parte del decreto legge incide sul fenomeno delle porte girevoli che comporta l’entrata-uscita di detenuti in carcere nell’arco di 3-5 giorni. Il provvedimento riguarda le ipotesi di arresto in flagranza per i soli reati di competenza del giudice monocratico, quando si procede con rito direttissimo. I termini massimi per la presentazione dell’arrestato dinanzi al giudice sono ridotti a 48 ore e, subito dopo l’arresto in flagranza, il Pm potrà decidere se risparmiare il transito in carcere, ricorrendo ai domiciliari o alle camere di sicurezza, o se vi siano ragioni che suggeriscano comunque la carcerazione preventiva del soggetto in attesa del giudizio direttissimo. Il provvedimento non si applica ai reati di furto con strappo, furto in abitazione, rapina ed estorsione. Da quando il decreto è entrato in vigore il fenomeno delle porte girevoli si è ridotto del 21,57% (1.175 soggetti interessati dal provvedimento a dicembre 2011, altri 804 a gennaio). Per quanto riguarda la carcerazione post sentenza, è prevista la possibilità che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi sia scontata presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza. Il provvedimento prevede anche la chiusura entro il 31 marzo 2013 degli ospedali psichiatrici giudiziari con il trasferimento dei detenuti in strutture sanitarie vigilate della polizia penitenziaria. Recupero dell’efficienza del processo penale Il disegno di legge varato il 16 dicembre contiene una serie di interventi per il recupero di efficienza del processo penale. Il provvedimento interviene su quattro le materie: depenalizzazione; sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili; sospensione del procedimento con messa alla prova; pene detentive non carcerarie. Depenalizzazione Si prevede la trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia di edilizia urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica. Sono inoltre escluse dalla depenalizzazione le condotte di vilipendio comprese tra i delitti contro la personalità dello Stato. Sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili: in linea con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo si tende a garantire l’effettiva conoscenza del processo. La sospensione del procedimento non si applica nei casi dei reati di mafia, di terrorismo o degli altri reati di competenza delle direzioni distrettuali. Sospensione del procedimento con messa alla prova è prevista in caso di reati non particolarmente gravi, puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. Potrà essere concessa soltanto una volta (o due, purché non si tratti di reati della medesima indole) a condizione che il giudice ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Pene detentive non carcerarie: è prevista l’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie, ovvero la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora. Queste pene sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni, con esclusione del reato di cui all’art. 612-bis c.p. Revisione delle circoscrizioni giudiziarie Il Governo ha varato uno schema di decreto legislativo con un elenco di 674 uffici in cui il carico di lavoro non giustifica la previsione in organico delle unità di personale assegnato. Grazie all’accorpamento delle sedi giudiziarie, il personale potrà essere utilizzato dove la domanda di giustizia è più elevata. Si stima così di recuperare 1.944 giudici di pace e 2.104 unità di personale amministrativo, con un risparmio di spesa, a regime, pari a 28 milioni di euro l’anno. Edilizia carceraria Grazie ad un investimento di 446,8 milioni saranno costruiti 11.573 nuovi posti detentivi, 2.423 unità in più rispetto alle 9.150 previste dal precedente piano. Una volta attuato, il programma comporterà la realizzazione di 17 nuovi padiglioni in carceri già esistenti e di 4 nuovi istituti penitenziari. Oltre al piano di edilizia, sono stati stanziati ulteriori 57 milioni di euro per urgenti interventi di manutenzione delle carceri. Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti Il provvedimento vuole fornire al detenuto, al momento del suo ingresso in carcere, e ai suoi familiari, una guida, in diverse lingue, che indica in forma chiara le regole generali del trattamento penitenziario, e fornisce tutte le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità dei colloqui, corrispondenza, doveri di comportamento. L’obiettivo è quello di garantire una maggiore consapevolezza da parte della popolazione carceraria delle regole e dei diritti destinati a conformare la loro vita per un periodo di tempo più o meno lungo. Giustizia: noi brava gente? Non è sempre vero di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 febbraio 2012 L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente. La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più. I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, “poche storie!”. Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica. La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una “espulsione collettiva”, proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite. La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese. La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte. La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa. La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di “espulsione collettiva”, di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice. La sentenza è definitiva. I principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea - valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane. Giustizia: le “elementari” verità di Ascanio Celestini mentre la “mattanza” continua… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 24 febbraio 2012 Dobbiamo ad Ascanio Celestini alcune “elementari” verità che, proprio perché “elementari” e accecanti, si tende a non vedere, a ignorare. Chi sono gli “ospiti” delle prigioni italiane?, si chiede Celestini. Quaranta su cento sono immigrati, ecco chi sono. E qui viene la prima, interessante, questione: “In Francia e in Gran Bretagna”, nota Celestini, “gli stranieri sono arrivati molto prima che da noi. Eppure nelle loro carceri non arrivano al 20 per cento”. In Italia arrivano immigrati con più alta vocazione delinquenziale? Oppure “perché da noi per loro è tanto facile finire in galera? Forse perché nel nostro paese l’80 per cento dei migranti regolari sono stati irregolari? Forse perché la legge mette i migranti in una condizione di irregolarità permanente che permette ai nostri concittadini di sfruttarli?”. Chi vogliamo ringraziare, per questa situazione? Facciamo due nomi? Umberto Bossi, Gianfranco Fini? E magari, tanto per metterci avanti coi ringraziamenti, estendiamoli a Francesco Rutelli. Non è il solo interrogativo che Celestini ci invita a risolvere. Un buon 30 per cento di detenuti, osserva, “sono tossici che nel tempo in cui restano chiusi in gabbia passano 22 ore su 24 a risolvere il proprio problema giornaliero con la droga. Se hanno un po’ di soldi se la procurano, altrimenti si sballano infilando la testa in un sacchetto di plastica, sniffano un po’ di gas dalla bomboletta del fornelletto e spesso vanno ad arricchire il numero dei suicidi…”. Chi vogliamo ringraziare, per questa situazione? Facciamo ancora altri due nomi? Ancora Fini e Carlo Giovanardi. Ma torniamo a Celestini: “Qualcuno mi dirà che in fondo questi soggetti hanno infranto le regole e meritano la galera. Ma la metà di loro sconta una pena senza aver ricevuto una condanna definitiva mentre nelle prigioni tedesche solo il 16 per cento è recluso senza essere stato condannato con certezza. E poi in quelle prigioni ci sono 92 detenuti ogni cento posti, mentre nelle nostre ce ne sono 144. C’è un tecnico del governo che considera anche questo spread? In Europa è il dato peggiore dopo quello della Serbia”. Come uscirne? Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, ci dicono i giustizialisti della destra e della sinistra, ci sono stati trenta e passa provvedimenti di amnistia; ogni volta, dicono, le carceri italiane appena svuotate, si sono subito riempite. Segno che l’amnistia non serve. Dicono che occorre fare altro. Solo che questo “altro” non solo non dicono che cosa dovrebbe essere, ma neppure lo fanno. Ancora Celestini: “Il sistema carcerario ha bisogno di una riforma profonda. Ma soprattutto deve cambiare la nostra idea di Giustizia. In Francia, Germania e Spagna sono oltre centomila i condannati che godono di misure alternative alla detenzione. In Gran Bretagna superano i duecentomila…”. E in Italia, quanti sono? Appena tredicimila. Cosicché con amarissima ironia, si può ben dire che in Italia la Giustizia è fondata sulla galera. Forse, conclude Celestini, “è arrivato il momento di pensare che la detenzione non è l’unica pena da far scontare a un condannato”. Nel frattempo “l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere” ci avverte che un detenuto di 36 anni, recluso nel carcere di Foggia si è impiccato e siamo arrivati, dall’inizio del 2012 a quota dodici: undici nelle carceri, uno in questura. Si chiamava Ottavio M., l’ultimo suicida, era detenuto dal 2010 per una condanna a 16 anni per un omicidio. Per impiccarsi ha utilizzato il cordoncino della sua tuta. In dodici anni nelle carceri italiane sono morte 1.960 persone, 704 delle quali per suicidio. A questi morti va aggiunta la preoccupante escalation dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria: dal 2000 a oggi, secondo il segretario del SAPPE Donato Capece, “si sono uccisi circa cento poliziotti penitenziari, un direttore di istituto e un dirigente regionale”; gli ultimi due episodi un paio di giorni fa, a Formia e a Sessa Aurunca. I sindacati della polizia penitenziaria sostengono che “le infamanti ed indecorose condizioni di lavoro aggravate, spesso, da un senso di abbandono e frustrazione alimentano la spirale depressiva e la sindrome del burnout. Forse è giunto il momento che l’Amministrazione Penitenziaria comprenda che bisogna dimostrare vicinanza ed attenzione ai problemi del personale. Ancor più in questo che, indubitabilmente, il periodo peggiore che attraversa il sistema carcere dal dopoguerra”. Dice amaro Capece: “L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi degli scorsi anni - nell’ordine di 10 casi in pochi mesi! -, accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Al Dap abbiamo chiesto particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto con psicologi del lavoro ai quali le colleghe ed i colleghi possono anonimamente ricorrere. Nulla è stato fatto, e i suicidi sono purtroppo costanti”. Giustizia: Quaranta (Consulta); nelle carceri situazioni inaccettabili, la politica faccia di più di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2012 Il sovraffollamento è “inaccettabile”, ma la situazione del carcere nel suo complesso è “gravissima” e deve diventare a tutti gli effetti “una priorità” politica perché il sistema, così com’è, non garantisce la “salvaguardia dei diritti umani” ma è indegno di un Paese civile. Lo dice Alfonso Quaranta, presidente della Corte costituzionale. Che, in quanto “Corte dei diritti”, non può accettare quanto avviene sistematicamente nelle patrie galere, dove i diritti fondamentali - al di là del sovraffollamento - non vengono tutelati. Quello di Quaranta è più di un richiamo, quasi un avvertimento alla politica affinché cambi passo per garantire la legalità costituzionale. “A leggere la stampa sembra che qualcosa si muova - dice Quaranta un po’ scettico -, ma bisogna fare di più”, nonostante le difficoltà finanziarie e i tagli di spesa, “perché non è possibile -insiste - che in un Paese civile ci sia un sistema carcerario con questi gravi problemi”. I diritti dei detenuti, ma anche quelli degli immigrati clandestini. Una “Corte dei diritti” non può stare a guardare e perciò Quaranta - nel commentare la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per i respingimenti verso la Libia - ricorda che “a rutti” spetta “il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali” e che su questa strada la Consulta si è già mossa con alcune decisioni del 2011, sull’assistenza agli immigrati anche se privi di un titolo di soggiorno e sul diritto dei clandestini di sposare un cittadino italiano. Quarantane parla in occasione della tradizionale conferenza stampa di inizio anno, rispondendo alle domande dei giornalisti. Non senza botta e risposta. Il presidente chiede alla stampa di evitare ricostruzioni, “generalmente inesatte”, delle discussioni in camera di consiglio; anticipazioni delle sentenze che - dice - nessuno è in grado di conoscere prima poiché le decisioni “sono sempre frutto di una valutazione collegiale”; “insinuazioni” sui singoli giudici. La stampa rivendica p proprio lavoro e chiede alla Corte maggiore trasparenza nel processo decisionale, magari ricorrendo alla dissenting opinion, cioè alla possibilità che i giudici rimasti in minoranza mettano per iscritto il proprio dissenso e lo motivino, come avviene negli ordinamenti anglosassoni o, in Europa, alla Corte di Strasburgo. Il presidente non si esprime sul punto ma dice che il tema gli sta “a cuore” e che chiamerà la Corte a discuterne (ci provarono, in passato, alcuni ex presidenti tra cui Antonio Baldassarre, Cesare Ruperto, Valerio Onida, ma la maggioranza dei giudici fu contraria). Nel frattempo, resta il principio della “riservatezza della camera di consiglio” che “va salvaguardata” e la decisione della Corte è e resta una decisione “collegiale”. L’unica forma “pubblica” di dissenso si verifica quando 0 giudice relatore di una causa si rifiuta di scrivere e firmare le motivazioni e viene sostituito da un altro, com’è avvenuto in una delle sentenze depositate ieri sera, la n. 40 sul segreto di Stato (si veda l’articolo qui sotto). Dopo aver ricordato che la giustizia costituzionale è “rapida” ed “efficace”, Quaranta ha ribadito l’indipendenza della Corte dalla politica, in conformità alla sua istituzionale posizione di terzietà e neutralità, pur trovandosi, proprio per la peculiarità delle sue attribuzioni, in una condizione di contiguità oltre che con le altre istituzioni di garanzia, anche con gli organi costituzionali politici”. Ma è una “contiguità” che non intacca la “terzietà” della Corte e dei singoli giudici, ha concluso Quaranta, escludendo (“È un problema inesistente”) di aver mai sentito il fiato della politica sul collo. “Quando ne sentiamo parlare - ha chiosato - ci viene da sorridere”. Giustizia: quali misure alternative per i detenuti extracomunitari? di Nunzio Smacchia (Criminologo) Gazzetta del Mezzogiorno, 24 febbraio 2012 Con il nuovo decreto legge sul carcere, conosciuto come lo “svuota carceri” e il rimedio di una nuova politica criminale dell’attuale governo, si finirà di dire che il sovraffollamento è “insostenibile”, come denunciano i sindacati, che la detenzione è una “pena doppia”, come ha affermato il Papa, che le condizioni di vivibilità all’interno delle case di pena sono paragonabili alle “navi libiche per emigrati fuggiaschi”, come protestano i detenuti e che, infine, il Carcere è una “realtà disumana”, come evidenzia il Quirinale? La risposta non è semplice: nell’immediato qualche effetto lo sortirà, ma è il futuro che preoccupa. Questa nuova legge non contiene una ratio lungimirante, è solo un effimero palliativo che durerà l’arco di tempo di uno squarcio di sole, ma non spazzerà definitivamente le nubi che si addensano minacciose sul pianeta carcere. È indubbiamente un piccolo passo avanti sulla strada del decongestionamento, da cui bisognava uscire il più in fretta possibile, se si voleva evitare un aggravamento delle inquietudini e delle tensioni non più contenibili degli Istituti penitenziari ed è anche un primo passo verso il processo di “normalizzazione”, cui bisogna necessariamente tendere per allentare l’esigenza di sicurezza e di governabilità delle prigioni. Fino a quando nelle carceri non ci sarà un rapporto proporzionato fra numero di reclusi, numeri di posti disponibili e numero di agenti di custodia, la difficoltà del loro controllo e della loro difesa non troverà soluzione. Le ragioni di fondo che nel tempo hanno portato alla sovrappopolazione carceraria si possono ridurre a tre: l’entrata esponenziale degli stranieri, dei tossicodipendenti e degli imputati in attesa di giudizio, quest’ultimi vittime della famigerata e scriteriata carcerazione preventiva. Gli immigrati. Perché si è avuto questo aumento spaventoso, una sorta di affluenza “parallela” cresciuta di pari passo con quella degli italiani? Molti stranieri hanno risposto che il nostro sistema carcerario è tra i più garantisti e rispettosi della persona detenuta, nonostante le violenze, i maltrattamenti e i suicidi (l’aspetto più patologico dell’attuale densità carceraria) che avvengono di frequente nei nostri Istituti. E se la situazione non è degenerata, lo si deve alla nuova classe di dirigenti carcerari che sono molto rispettosi del loro ruolo costituzionale ed umano che svolgono, in quanto sono molto più preparati e sensibili rispetto a quelli del passato. Sono consapevoli che il carcere è un vero contenitore sociale, dove è rappresentata tutta la fauna della criminalità esistente, un mondo a sé stante, che ha la sua vita, le sue regole ferree che nessuno conosce bene se non si è stati “dentro”. È un invaso altamente criminogeno, un vulcano pronto a esplodere, se non si sanno contenere i malumori e le agitazioni con una politica di intelligente “accomodamento”. Il carcere può continuare a essere una perversione istituzionale, un ricettacolo di emarginati, di poveri, di disagiati mentali, una “discarica” umana, come più volte è stato detto. Ci sono carceri dove l’80% ed il 90% dei ristretti è costituito da stranieri, che vengono in Italia attirati dal miraggio del benessere. Prima si insediano accettando lavori precari e in nero, poi stanchi di questo tipo di vita, decidono di fare il salto di qualità, cominciando a fare soldi senza sforzo. Ma alla fine questa nuova vita è solo un’illusione che li porta direttamente in galera, infrangendo i loro sogni “dorati”, spinti da amici che guadagnano in un solo colpo l’ammontare di un mese di duro lavoro. È evidente che con la massiccia immigrazione degli anni ‘90 e ‘00 lo scenario carcerario è cambiato molto: è avvenuta una mutazione etnico-criminale che ha modificato in peggio il volto dei penitenziari, diventati dimore di chi ha pensato di migliorare la propria esistenza inseguendo le chimere di guadagni immediati, ma è rimasto incastrato in un meccanismo criminale più grande di lui. È triste vedere tanta gente straniera che, cercando di uscire dalle maglie dello sfruttamento del lavoro e dalla miseria, è disposta a tutto, anche a rischiare condotte delittuose che portano inevitabilmente all’ammassamento delle nostre prigioni. È arrivato il momento di pensare a “misure alternative” nei paesi d’origine dei detenuti extracomunitari, in modo che ritrovino la loro cultura e il loro ambiente. Indubbiamente negli anni 70 e 80 in carcere si stava meglio, pur essendo abitato dai detenuti “politici”. Il loro ingresso in un certo senso ha dato una svolta determinante verso l’acculturazione del delinquente comune, che a contatto con i terroristi, neri o rossi che fossero, si è emancipato culturalmente. Con l’ingresso dei detenuti “eversivi” crebbe la voglia di istruzione e di formazione: si organizzava la giornata all’interno, studiando, parlando, discutendo di politica e di ideologie. Si fece un salto di “qualità” e s’incominciò a respirare aria nuova intrisa di dialettiche e riflessioni sui valori della libertà e della giustizia. Giustizia: Fp Cgil; lunedì prossimo convegno a Milano sulla riforma del sistema penitenziario Dire, 24 febbraio 2012 Una riflessione, maturata con le delegate e i delegati del sistema carcerario, relativamente al fatto che, negli ultimi anni, nell’attuale contesto sociale è aumentata in modo preoccupante la presenza in carcere di persone provenienti da situazioni di marginalità dovute alla grave crisi che stiamo attraversando e al fallimento delle politiche sociali. Questo il senso di un convegno promosso dalla Funzione Pubblica della Cgil della Lombardia e che si svolgerà lunedì prossimo, 27 febbraio, nella sala “Di Cataldo” del carcere di S. Vittore a Milano, sul tema “Analisi e proposte per un nuovo sistema dell’esecuzione penale”. La popolazione carceraria, come rileva una nota della Fp Cgil, è composta, in larga parte, da persone tossicodipendenti, immigrate, affette da problemi psichiatrici o in stato di abbandono per le quali sono necessarie risposte che l’istituto penitenziario da solo non può dare ma che devono vedere una sinergia tra “istituzione totale”, qual è il carcere, e i servizi territoriali. “Per questa ragione - ha affermato Gloria Baraldi, segretaria della Fp Cgil Lombardia - abbiamo voluto creare un momento di incontro tra gli operatori, che a diverso titolo seguono, per l’amministrazione penitenziaria, le persone ristrette, e i rappresentanti istituzionali e dell’associazionismo; perché se il fine della pena è la risocializzazione, il modo migliore è avere una stretta collaborazione con l’intera società, potenziando il sistema delle alternative al carcere. Per farlo è necessario avere figure professionali specializzate, in numero congruo e formate adeguatamente, così come di strutture idonee a ospitare le persone ristrette oltre agli operatori che lavorano con loro”. Le imminenti elezioni delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) nel pubblico impiego, che si terranno dal 5 al 7 marzo prossimi, sono per la Fp Cgil, anche in Lombardia, “un appuntamento importante - ha aggiunto Baraldi - per valorizzare il ruolo delle persone e delle loro rappresentanze che, in carne ed ossa, fanno funzionare la Pubblica Amministrazione, a maggior ragione in contesti operativi così complessi”. Giustizia: sindaco di Milano Pisapia; congratulazioni a Pagano per nuovo meritato incarico Adnkronos, 24 febbraio 2012 “Le mie congratulazioni e un grande in bocca al lupo al nuovo vicepresidente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano. Con lui si è instaurato un rapporto di profonda amicizia e di grande fiducia, dovuti anche al comune impegno per la piena applicazione dei princìpi costituzionali per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è intervenuto in merito al nuovo incarico assunto da Luigi Pagano. Luigi Pagano, prima come direttore di San Vittore e poi come Provveditore regionale alle Carceri, “ha sempre svolto il suo lavoro, nonostante i grossi problemi che vivono le carceri italiani, con grande rispetto di tutti, dagli agenti di Polizia Penitenziaria, ai lavoratori e agli operatori dell’amministrazione Penitenziaria, ai volontari e ai detenuti. A lui va il mio grazie e quello dell’amministrazione comunale, nonché - conclude Pisapia - le nostre congratulazioni per il nuovo meritato incarico al quale è stato chiamato”. Lombardia: Formigoni; via a piano per nuove carceri, dopo incontro con ministro Severino Tm News, 24 febbraio 2012 Nell’incontro con il ministro della Giustizia Paola Severino “È stato deciso di riprendere la collaborazione tra Ministero e Regione Lombardia in particolare per quanto riguarda l’attuazione di un nuovo Piano carceri, che preveda la realizzazione di nuovi padiglioni all’interno di istituti penitenziari esistenti e lo studio della possibile realizzazione di nuovi istituti penitenziari”. È quanto dichiarato dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni al termine dell’incontro, questa mattina, a Roma, col ministro della Giustizia Severino. Dal momento che con il decreto Mille proroghe i poteri di commissario delegato per l’edilizia penitenziaria sono attribuiti al dottor Angelo Sinesio, vice prefetto a Catania, è con lui che Regione Lombardia definirà a breve i particolari del nuovo piano. Liguria: Sappe; regione con percentuale più alta di detenuti tossicodipendenti (40% dei presenti) Comunicato stampa, 24 febbraio 2012 “Nelle carceri italiane il 25% circa dei detenuti è tossicodipendente ma in Liguria la percentuale “schizza” addirittura al 40%, la più alta in Italia. Se per un verso è opportuno agire sul piano del recupero sociale, è altrettanto necessario disporre di adeguate risorse per far fronte alla possibilità che all’interno del carcere entri la droga. Alcuni recenti fatti di cronaca a Sanremo hanno dimostrato che è sempre più frequente il tentativo, anche da parte dei detenuti appena arrestati o di familiari e amici si ristretti ammessi a colloquio, di introdurre sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari. Spesso la professionalità della Polizia Penitenziaria consente di individuare i responsabili e di denunciarli all’autorità giudiziaria, ma ciò non è sufficiente. Per questo auspichiamo si provveda ad istituire anche in Liguria, in analogia a quanto già avviene in altre Regioni, un distaccamento di unità cinofile del Corpo di Polizia Penitenziaria.” È quanto dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando le dichiarazioni odierne di Eraldo Ciangherotti, assessore comunale ai Servizi Sociali di Albenga e responsabile dell’Osservatorio Comprensoriale per le Tossicodipendenze, sull’alta percentuale di drogati nelle carceri liguri. Martinelli sottolinea ancora “nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, oggi i ristretti nelle carceri liguri con problemi di tossicodipendenza sono circa il 40% dei presenti. Gli ultimi dati disponibili in nostro possesso evidenziano ben 300 a Marassi (su 715 presenti), 100 a Sanremo, 55 a La Spezia, 44 a Pontedecimo, 42 a Chiavari, 40 a Imperia e 37 a Savona. I numeri di quanti sono in trattamento metadonico sono abbastanza contenuti: 59 a Marassi, 19 a Sanremo, 9 a La Spezia, 10 a Pontedecimo, 8 a Chiavari, 5 a Imperia e 3 a Savona. La legge prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò queste persone continuano a rimanere in carcere. Noi riteniamo sia invece preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle Comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che essendo malate hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione. Va però anche detto che vi è chi (detenuti appena arrestati, come avvenuto a Pontedecimo, o amici e familiari ammessi a colloquio) tenta di introdurre sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari, ma grazie alla professionalità della Polizia Penitenziaria ciò viene impedito. Noi riteniamo si possa e si debba fare un ulteriore sforzo per contrastare con forza queste possibilità. Il nostro Contratto di Lavoro del 1995 prevede, tra le specializzazioni del Corpo di Polizia Penitenziaria, i conduttori di unità cinofili; tale servizio è già stato attivato in sette regioni d’Italia per cui rinnoveremo al Provveditore della Liguria la nostra richiesta di attivarsi presso il Dipartimento centrale penitenziario al fine di avviare l’iter per l’istituzione di un distaccamento di unità cinofile del Corpo anche nella nostra Regione.” Cagliari: la Provincia studia possibile impiego detenuti in lavori di pubblica utilità Ansa, 24 febbraio 2012 La Provincia di Cagliari sostiene le misure alternative alla detenzione, a partire dai lavori di pubblica utilità, anche alla luce del problema del sovraffollamento delle carceri. Il ricorso a questi strumenti è stato rilanciato dalla commissione Politiche sociali, che questa mattina ha sentito in audizione Anna Dettori, capo area dell’ufficio esecuzione penale del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Abbiamo avviato nelle scorse sedute un confronto sulle misure alternative al carcere per valutare la possibilità - ha spiegato il presidente della commissione, Emanuele Armeni (Pd) - che possano essere eseguite anche in Provincia e per individuare i settori che maggiormente si prestano alla loro esecuzione. Queste misure si applicano a persone che non destano allarme sociale”. Dettori ha ricordato che il giudice di pace, su richiesta dell’imputato, può applicare la pena del “lavoro di pubblica utilità”, che prevede la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività e che può essere svolta presso lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni o anche presso organizzazioni di volontariato. Possono accedervi i detenuti che devono scontare una condanna non superiore a sei mesi, per esempio chi è stato trovato ubriaco alla guida. Due ore di lavoro di pubblica utilità, equivalgono a un giorno di pena scontata. Roma: due morti in cella in meno di un mese, oggi protesta davanti a Regina Coeli Corriere della Sera, 24 febbraio 2012 Sit in dei familiari dei detenuti e dei Radicali in via della Lungara: “Decessi dietro le sbarre evitabili: fare chiarezza”. Due detenuti morti in meno di un mese. Un reparto che, nei giorni del grande freddo e della neve a Roma, è rimasto senza riscaldamento per oltre una settimana. Organici insufficienti per il corpo di guardia. Celle sovraffollate. È la fotografia del carcere romano di Regina Coeli. Per protestare contro questa situazione e, in particolare, per chiedere chiarezza sulla morte del detenuto Massimo Logello - trovato privo di vita nella sua cella lo scorso 30 gennaio -, cittadini, parenti dei detenuti e una delegazione di deputati ed esponenti del Partito Radicale, si radunano la mattina di venerdì 24 davanti al portone di via della Lungara. La manifestazione - presente l’onorevole Rita Bernardini - si terrà dalle 10 alle 14, ed è stata organizzata da Marco Logello, fratello di Massimo, secondo il quale il congiunto non sarebbe stato curato in tempo mentre era detenuto, e i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi. Bernardini ha presentato sulla vicenda un’interrogazione, sottolineando la necessità di chiarire se sia vero che - pur essendo presente nel penitenziario un defibrillatore - non vi fosse, quando se ne rese necessario l’impiego, un medico in grado di farlo funzionare. Pochi giorni dopo la morte di Logello, il 10 febbraio, un altro decesso a Regina Coeli: un 30enne romano è stato trovato privo di vita dagli agenti di Polizia penitenziaria all’interno della sua cella nella IV sezione (quella riservata ai tossicodipendenti). L’uomo era in carcere dallo scorso novembre, era in attesa di giudizio per reati connessi alla droga. Il giorno prima di morire aveva avuto un colloquio con i suoi familiari. “Ogni decesso che avviene entro le mura di un istituto di pena italiano, al di là di se e quanto siano naturali le circostanze che lo determinano e se questo avrebbe potuto essere o meno evitato - scrivono i Radicali - costituisce la ricaduta più tragica della rovina del sistema di custodia penale nazionale”. Ogni decesso pone in sistema carcerario “fuori dalla legalità e dallo stato di diritto”. I Radicali ribadiscono come “anche da detenuti, si dovrebbe poter morire magari in ospedale o agli arresti domiciliari per incompatibilità col regime detentivo”, anziché, “a causa di prognosi cliniche infauste, dentro una cella o nell’infermeria dell’istituto”. Catania: detenuto non autorizzato a partecipare al funerale del figlio; le ragioni del magistrato La Sicilia, 24 febbraio 2012 Dal presidente f.f. del Tribunale di Sorveglianza di Catania, dott. Carmelo Giongrandi, ieri ha diffuso una nota relativa al caso (riportato dal nostro giornale) del funerale di un bambino deceduto nei giorni scorsi e del permesso di assistere ai funerali negato al padre e a un fratello. “Con riferimento alle notizie giornalistiche diffuse recentemente sulla stampa locale in merito alla mancata concessione da parte del Magistrato di Sorveglianza di Catania, del permesso c.d. di necessità, previsto dall’art. 30 dell’Ordinamento penitenziario, a due detenuti (padre e figlio), di partecipare al funerale del loro congiunto, si precisa quanto segue. Ai detenuti che rappresentano la necessità di incontrare un familiare agli stessi legato da stretti rapporti di parentela e che si trovi in imminente pericolo di vita per gravi ragioni di salute, l’Ufficio di Sorveglianza di Catania concede normalmente l’autorizzazione a recarsi presso l’abitazione del congiunto; concede altresì l’autorizzazione a recarsi presso il cimitero nel caso in cui segua la morte del familiare; non concede invece normalmente l’autorizzazione a partecipare al funerale del familiare deceduto, in considerazione della necessità di tutelare le superiori ragioni di ordine pubblico e di sicurezza nella traduzione del detenuto, legate soprattutto alla difficoltà per gli agenti di scorta, in numero limitato, di effettuare sul detenuto medesimo la vigilanza ed i controlli del caso, a fronte di una moltitudine di presenti, per lo più parenti ed amici del ristretto, che come di consueto partecipano ad un funerale. Riguardo al caso specifico di cui si è riferito sulla stampa locale, si ribadisce che è stata comunque soddisfatta la legittima aspettativa dei detenuti a partecipare al grave evento familiare, tanto prima del decesso del congiunto attraverso l’autorizzazione a fargli visita da vivo, quanto successivamente, attraverso l’autorizzazione a recarsi al cimitero. Il Magistrato di Sorveglianza, nell’esercizio della sua delicata funzione, ha in tal modo correttamente e doverosamente bilanciato l’esigenza di assicurare, a fini rieducativi, il carattere umanitario all’esecuzione della pena, in un momento doloroso segnato dal verificarsi di un grave evento familiare che ha colpito la famiglia e la vita del detenuto, con l’esigenza di ordine pubblico e di tutela della collettività, che parimenti deve costantemente guidare il suo operato”. Cosenza: denuncia di Rita Bernardini; carcere di Castrovillari… la vicenda Altomare di Maurizio Bolognetti Notizie Radicali, 24 febbraio 2012 Il 2012 è iniziato da meno di due mesi e nelle patrie galere già contiamo 11 suicidi, o forse sarebbe meglio parlare di omicidi di stato, figli di condizioni di detenzione che violano la legalità costituzionale e le convenzioni internazionali sulla tortura e a tutela dei diritti umani. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: il carcere in questo nostro paese è assurto a luogo di tortura per l’intera comunità penitenziaria. Non ci sono solo i detenuti e gli agenti di Polizia penitenziaria che decidono di farla finita nel carcere, “consistente e allarmante nucleo di nuova shoah”, nelle patrie galere va in scena quotidianamente la commedia dell’assurdo. In queste ore, per esempio, apprendiamo di un detenuto settantaduenne, il sig. Altomare, che si è rotto un femore nel carcere di Castrovillari, una struttura che merita in pieno la definizione di carcere d’oro. Oro per chi lo costruì a metà degli anni 80 e ferro arrugginito, che fa capolino dal cemento armato, per chi ha la sfortuna di esservi ristretto o di lavorarci. Altomare, indigente e con problemi di incontinenza, è stato arrestato qualche mese fa in esecuzione di una pena divenuta definitiva. Una volta tradotto nelle anguste celle del carcere di Castrovillari, che poche settimane fa sono state oggetto di una interrogazione parlamentare presentata dall’On. Rita Bernardini, l’area sanitaria del carcere gli ha affiancato un detenuto con il compito di fargli da badante. Nonostante queste cautele è però successo che pochi giorni fa Altomare sia caduto nelle docce e si sia rotto un femore. Non so di quale crimine sia accusato il sig. Altomare, ma mi chiedo se abbia un senso costringere un settantaduenne con problemi di salute in un cubicolo di due metri per tre, con un altro detenuto a fargli da assistente. Altomare attualmente è ricoverato presso il carcere di Castrovillari e noi ci chiediamo se non sia il caso di concedergli i domiciliari, consentendogli di far ritorno alla casa di riposo. Non vorremmo dover leggere, tra qualche mese, il suo nome nel bollettino diffuso dall’Associazione “Ristretti Orizzonti” su coloro che decidono di farla finita. Enna: allagamenti in carcere, protesta il sindacato della polizia penitenziaria Sappe www.vivienna.it, 24 febbraio 2012 Sono bastati 48 ore di pioggia per mettere in ginocchio il carcere, la caserma Agenti, gli uffici della Direzione Amministrativa, Chiesa, celle e corridoi, che sono stati invasi dall’acqua con relativi corti circuiti elettrici. A denunziare questa incresciosa situazione il Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe. È stato necessario sfollare una stanza occupata da dodici detenuti ed alloggiare gli stessi in celle oltre la capienza sancita per legge. “L’Amministrazione - evidenzia l’esponente sindacale - ha avuto un’intera stagione estiva e circa due anni di tempo dalla nostra prima segnalazione per correre ai ripari e porre rimedio alle notevoli infiltrazioni d’acqua che invadono la struttura Penitenziaria con seri danni irreparabili, ma nulla è stato fatto. Non c’è alcun interesse per porre rimedio alle lacune del Carcere ennese “solo parole”, che non bastano per eliminare le condizioni di disagio e rendere più dignitoso l’ambiente lavorativo per il personale di Polizia Penitenziaria e gli operatori che vi operano. Abbiamo denunciato la posizione latente dell’Amministrazione Penitenziaria, che nonostante l’avvicendamento dei vari Capi di Dipartimento Regionale e Nazionale continuano a tralasciare il problema del Penitenziario di Enna”. “La caserma Agenti, era stata tinteggiata nell’occasione dell’intitolazione della Casa Circondariale all’Assistente Capo Bodenza, ucciso dalla mafia, solo per apparire con una veste positiva agli occhi delle Autorità, che hanno visitato il carcere, è semplicemente indegno prendersi gioco della dignità professionale di uomini e donne di un corpo di Polizia dello Stato. Le condizioni dei servizi igienici sono pessime per via dei tagli alle risorse destinate alla pulizia e alla fornitura di detersivi. La struttura presenta evidenti segni di deterioramento, pareti e soffitti sono scrostati e pieni di muffa, l’umidità è costantemente presente, in più parti l’intonaco è crollato, cornicioni crollati. La pioggia ha causato un forte corto circuito e si teme per l’incolumità di tutti soprattutto per il poliziotto che opera a stretto contatto con le apparecchiature elettroniche A pochi giorni di un evento critico, ove gli Agenti salvarono la vita ad un detenuto, si ammassano i problemi per gli Agenti che si fanno carico di forte stress psicofisico. Nonostante i disagi e lo stress a cui viene sottoposto duramente l’Agente Penitenziario, l’Amministrazione Penitenziaria rimane assente ed insensibile, obbligando gli stessi operatori ad espletare attività lavorativa straordinaria da oltre cinque anni, obbligandoli altresì a recarsi presso i Reparti della Polizia Penitenziaria di fuori distretto”. Padova: 120 detenuti lavorano con coop Giotto; Pitti Immagine entra a presentare “Taste 2012” Redattore Sociale, 24 febbraio 2012 Assemblaggio di valigie, costruzione di biciclette, call center per importanti realtà padovane e nazionali, chiavi per la firma digitale, cucina e la famosa pasticceria: sono questi i campi in cui si muove da anni la cooperativa Giotto all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. Una realtà in continuo movimento e sempre in espansione, con un unico obiettivo: dare un’opportunità di riscatto ai detenuti, dimostrare l’importanza del lavoro in carcere, far uscire un giorno persone capaci di reinserirsi e costruirsi un futuro. Oggi la cooperativa dà lavoro a 120 ristretti: tanti, soprattutto se si pensa che in tutt’Italia a lavorare all’interno del carcere - fatta eccezione per i dipendenti dell’amministrazione pubblica come gli “scopini” e gli “spesini” - sono 866. La storia della Giotto nasce da lontano, da una cooperativa agricola che ha scoperto “per caso” il mondo del carcere. Ne è nata una sinergia che contribuisce a rendere il Due Palazzi un istituto di pena “modello”, come definito da molti. Importanti firme (Roncato per le valigie, ad esempio) hanno deciso di investire nell’esperienza, consapevoli di avere in cambio un prodotto di qualità. Ma c’è anche l’azienda Ulss di Padova e aziende come Fastweb che affidano ai detenuti la gestione del call center. La presentazione di Taste 2012 ha offerto l’occasione di accendere i riflettori sull’esperienza padovana, anche grazie alle testimonianze di alcuni detenuti. Davor, 46 anni, è in carcere dal 2001 e dal 2005 si trova a Padova: “Ringrazio per questa opportunità - ha detto - perché ho potuto interrompere l’ozio completo dei primi anni di detenzione, riuscendo finalmente a provvedere a me e alla mia famiglia. Il lavoro ci fa sentire uomini e spero che altre aziende possano decidere di entrare in carcere”. E sulla situazione carceraria ha aggiunto: “È al tracollo, non solo per il sovraffollamento ma anche perché manca tutto, perfino la carta igienica”. Francesco ha invece sottolineato che “sta a ognuno di noi decidere cosa fare della propria vita. Il lavoro, oltre a inorgoglirmi, è per me l’unica fonte di sostentamento. Questo mi fa sentire degno di rispetto”. E infine Thomas, 32 anni: “Quando sei qui tutto riparte da zero. Per me è un’opportunità per ripartire e ritrovare la strada persa”. Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, sottolinea: “A noi non preme tanto insegnare un mestiere, ma insegnare ai detenuti un metodo di lavoro, in modo da prepararli per quando usciranno da qui”. Boscoletto ha sottolineato l’importanza del dibattito che si aprirà lunedì in Parlamento in materia di lavoro in carcere: “Potrebbe essere una svolta storica”. Pitti Immagine entra per presentare “Taste 2012” Il marchio Pitti Immagine ha fatto il suo ingresso oggi nel carcere di Padova, dove da anni la cooperativa Giotto ha lanciato una fortunata linea di dolci e panettoni. I due mondi si sono incontrati per presentare l’imminente manifestazione “Taste 2012”. Il simbolo del gusto e dello stile - il marchio Pitti immagine - ha fatto il suo ingresso oggi in un luogo che più agli antipodi non si può: il carcere. Per la precisione il carcere di Padova, dove da anni la cooperativa Giotto ha lanciato una fortunata linea di dolci e panettoni. I due mondi si sono incontrati per presentare in una location inedita l’imminente manifestazione “Taste 2012” organizzata proprio da Pitti Immagine (Firenze, 10-12 marzo). Una manifestazione che ha già visto protagonista la cooperativa Giotto, che figura tra gli espositori anche degli scorsi anni. “Oggi per noi è un momento di festa - ha sottolineato il presidente della Giotto, Nicola Boscoletto -, ma vogliamo dedicare questa giornata ad Alessandro, il ragazzo di 21 anni che si è ucciso domenica a San Vittore, e alla sua famiglia. Oggi vogliamo dimostrare che a fatti negativi come questo si può rispondere con il bene”. Boscoletto ha rimarcato l’importanza del lavoro in carcere in contrasto alla recidiva “che dal 90% scende al 15% se il detenuto prima della scarcerazione ha la possibilità di lavorare”. “I dolci di Giotto è un esperimento sociale di grande rilevanza - ha commentato Gaetano Marzotto, presidente di Pitti immagine - ed è un esempio di eccellenza artigianale italiana, di passione per la qualità del prodotto e di capacità commerciale. Per questo abbiamo aderito all’invito della cooperativa qui in carcere, mettendo per una volta da parte l’imparzialità verso gli espositori”. Pavia: arrestato agente coinvolto in evasione, avrebbe favorito la tentata fuga di due boss Tm News, 24 febbraio 2012 Stavano pianificando un’evasione dal carcere due esponenti della ‘ndrangheta, Luigi Mancuso e Nicodemo Filippelli, affiliati alla Locale di Legnano e detenuti a Pavia. Per farlo non avevano esitato a coinvolgere un agente carcerario, secondo quanto hanno accertato le indagini della Squadra Mobile di Milano. L’inchiesta si è conclusa con l’arresto dell’assistente capo della polizia penitenziaria Claudio Carlo Gallo, 45enne campano di origini svizzere, in servizio presso l’istituto di detenzione pavese dal 1993. Per Gallo, la pesante accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa. Per Alessandro Giuliano, Capo della squadra mobile di Milano, “sono stati documentati rapporti impropri tra un operatore della polizia penitenziaria e persone all’esterno riconducibili alla Locale di ‘ndrangheta di Legnano”. Le indagini, condotte insieme con la polizia penitenziaria, sono nate da una segnalazione degli stessi agenti carcerari di Pavia, come ha spiegato Incoronata Corfiati, commissario della polizia penitenziaria: “Le attività di indagini partono da una serie di segnalazione o di comportamenti che manifestano condotte anomale da parte degli appartenenti alla polizia penitenziaria”. Referente all’esterno dell’agente corrotto era il 30enne Alessandro Magaraci, barista in un locale di Legnano intestato a un incensurato ma riconducibile, secondo gli investigatori, agli stessi Mancuso e Filippelli. C’era progetto evasione da Pavia Gli investigatori ipotizzano che i due affiliati alla ‘ndrangheta rinchiusi nel carcere di Pavia stessero progettando un’evasione contando sulla collaborazione di Claudio Carlo Gallo, l’assistente capo di Polizia Penitenziaria arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo le ipotesi d’accusa, il suo rapporto con ambienti della ‘ndrangheta sarebbe nato proprio dalla frequentazione con i due detenuti arrestati per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Bad Boys” all’interno del carcere. Non è chiaro quali fossero i compensi previsti per l’uomo che faceva da tramite con l’esterno. Le indagini sono iniziate nel maggio 2011 su iniziativa del nucleo centrale della polizia penitenziaria, che ha notato comportamenti sospetti dell’agente. La squadra mobile di Milano è intervenuta a supporto delle indagini nei mesi successivi. Gli inquirenti hanno stabilito da intercettazioni e email che Gallo, appartenente alla sezione di Alta sicurezza del carcere, assicurava i contatti di Mancuso e Filippelli con l’esterno incontrando periodicamente Alessandro Magaraci. All’esterno del carcere i messaggi venivano passati al barista considerato affiliato alla ‘ndrangheta e sfiorato dalle indagini che avevano portato all’arresto di Mancuso e Filippelli. Magaraci lavora nel bar “Stomp” di Legnano, ritenuto un luogo di ritrovo per gli appartenenti alle cosche locali. I detenuti sono stati trasferiti in un’altra struttura nell’autunno scorso. Francia: perquisizioni su detenuti nudi dichiarate illegali, ma in alcune carceri sono praticate Redattore Sociale, 24 febbraio 2012 Giudicate degradanti, umilianti e un attentato alla dignità umana, le perquisizione compiute sui detenuti nudi dopo i colloqui, sono illegali e non dovrebbero più essere fatte dal 2009. Ma in alcuni istituti la pratica continua come rende noto un rapporto. Regolarmente condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le perquisizioni integrali sui detenuti dopo i colloqui continuano in alcune carceri francesi. Dal 2009 queste pratiche non possono più essere “sistematiche” ma devono essere “adattate alle necessità di sicurezza e alla personalità dei detenuti”. Alla luce di questa evoluzione legislativa alcuni detenuti hanno cominciato a intraprendere le vie legali. Nell’agosto del 2011 l’Osservatorio internazionale delle prigioni (Oip) ha lanciato una campagna per sostenere i ricorsi individuali. Nella maggior parte dei casi i tribunali hanno dato ragione ai reclusi. Da settembre l’Oip ha chiesto anche una revisione dei regolamenti interni. Intanto il 22 febbraio l’Autorità Garante dei prigionieri ha diffuso un rapporto che mette in luce come le perquisizioni sui detenuti nudi, anche se illegali, continuano alla luce dell’interpretazione di una circolare dello scorso aprile. Spagna: il Direttore generale Amministrazione penitenziaria guadagna 60mila euro l’anno lordi Corriere della Sera, 24 febbraio 2012 Angel Yuste è stato nominato Direttore generale dell’amministrazione penitenziaria spagnola. È un giurista e criminologo di 55 anni, che lavora nelle carceri da sempre. Chiaramente targato Partido Popular, sotto il governo Aznar tra il 1996 e il 2004 aveva questo stesso incarico. Con l’arrivo del socialista Zapatero si era rifugiato nelle amministrazioni locali. A dicembre, i Popolari hanno premiato la sua fedeltà restituendogli la poltrona. La sua busta paga, però, non è neppure paragonabile a quella dell’ormai ex pari grado italiano Ionta, che nel 2010 ha ricevuto oltre 500mila €. In Spagna, re Juan Carlos incassa uno stipendio di 140 mila euro. Tutti gli altri dipendenti pubblici devono stare sotto. Il Presidente della Corte Costituzionale 130 mila, il premier non arriva a 80 mila. Il reddito di Yuste, appena nominato, non è pubblico. Ma in base al suo grado non supererà i 60 mila euro lordi, tredicesima e quattordicesima incluse.