Giustizia: più pene alternative, meno carcerazione… costruire nuovi istituti non serve di Antonella Loi Tiscali Notizie, 22 febbraio 2012 Alessandro Gallelli aveva 22 anni. Era detenuto in una cella del carcere di San Vittore, a Milano, piccoli reati, in attesa di giudizio. La sua vita si è interrotta nella notte tra sabato e domenica scorsa: si è tolto la vita impiccandosi con una felpa annodata alle sbarre della cella. “Doveva uscire tra 20 giorni per andare in comunità - sono le parole del fratello Vincenzo - perché si sarebbe dovuto uccidere?”. I familiari non si danno pace, ma il medico legale che ha eseguito l’autopsia conferma l’ipotesi del suicidio. La storia di Alessandro è quella di tanti altri detenuti - il più delle volte molto giovani - che al carcere non son riusciti a sopravvivere. Si chiamano Michele, Antonio, Aurel: hanno una media di 37,8 anni di età e molti di loro attendevano ancora di avere un processo. La macabra conta dei morti dietro le sbarre corre veloce: delle 24 vittime dall’inizio dell’anno ben dieci si sono tolte la vita mentre altrettante sono morte in circostanze ancora da chiarire. Ma è il 2011 a darci la misura della drammaticità del fenomeno: 186 morti in totale, di cui 66 suicidi. Per impiccagione soprattutto: è fin troppo semplice servirsi di un lenzuolo o di un qualsiasi altro indumento, un jeans o una maglia. Secondo i rapporti ufficiali i suicidi avvengono anche per avvelenamento, soffocamento o inalazione del gas dalla bomboletta usata per cucinare i pasti. Carceri esentate non ce ne sono: da Torino a Poggioreale (Napoli), all’Ucciardone di Palermo passando per Sassari e Cagliari le strutture hanno il loro bel da fare per prevenire morti troppo spesso “inevitabili”. Perché in un Paese dove il tasso di affollamento supera il 164 per cento - che significa 20mila detenuti in eccesso - la morte per suicidio è una voce passiva messa a bilancio. E non riguarda solo i detenuti, ma anche chi sta dall’altra parte: negli ultimi dodici anni, secondo i dati del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), sono 100 gli agenti che si sono tolti la vita, a cui si aggiunge un direttore di istituto e un dirigente regionale. “È un disastro e la situazione peggiora”, ci spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, il periodico scritto interamente da detenuti che da 15 anni informa sulle condizioni di vita carceraria. “Il caso del ragazzo morto a San Vittore alla sua prima carcerazione deve far pensare: significa che non si è stati in grado di intercettare il suo disagio psichico”. Il 22enne, accusato di molestie sessuali e di altri reati minori, forse in carcere non ci sarebbe mai dovuto entrare. “È una categoria di persone sempre più presente nei penitenziari: le carceri sono diventate delle discariche sociali per persone che creano problemi - spiega Favero - invece di dare loro gli strumenti per riabilitarsi e reinserirsi vengono parcheggiate nelle celle”. E questo è tanto più drammatico se avviene in un contesto di sovraffollamento dove le “persone sono costrette a dormire in letti a castello di quattro piani e celle dove si può stare in piedi solo uno alla volta”, aggiunge, a fronte di un organico destinato all’assistenza psicologica e all’educazione ridotto al minimo. “In Italia c’è un educatore ogni 150 detenuti e ogni psicologo può dedicare a ciascun paziente solo 10 minuti all’anno”. Una situazione ormai incancrenita che sopravvive grazie ai paradossi. “Il primo è che gli agenti penitenziari si trovano nelle condizioni di fare da educatori, psicologi e cappellani”, ci spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Noi siamo sotto organico di almeno 7mila unità rispetto a quanto stabilito nel 2001: come può un agente da solo controllare circa 100 detenuti? Infatti facciamo i miracoli - dice -, tutti i giorni sediamo aggressioni, tentativi di suicidio, ribellioni contro lo Stato e contro le guardie”. E l’estrema negativa conseguenza è che “tutto questo stress noi poliziotti ce lo portiamo dietro per tutta la giornata, in famiglia, nelle case, nella nostra vita”. Le soluzioni vanno trovate con urgenza. “Cominciamo ad assumere più personale invece di costruire nuove carceri e magari ammoderniamo quelle già esistenti che in molti casi sono fatiscenti e apriamo gli 8 padiglioni realizzati durante l’epoca Mastella ancora chiusi. I soldi per fare tutto questo ci sono - dice - stanziati dalla legge 199: non serve costruire nuove carceri”. Ma soprattutto - Capece ne è sicuro - “va riformato il sistema sanzionatorio, che significa meno carcere e più territorio”. Con il decreto “svuota-carceri” si va nella direzione giusta? “Non chiamiamolo svuota-carceri perché l’unica cosa certa è che le celle saranno ancora piene”. Bisognerebbe concentrarsi piuttosto sui reati di lieve entità, spiega Capece, “vanno tenuti sul territorio attraverso misure alternative alla detenzione, quali lavori di pubblica utilità, semidetenzione domiciliare, applicazione del braccialetto elettronico e così via. Si renda più operativo il fatidico Uepe, l’Ufficio esecuzioni penali esterne”. Perché all’interno delle strutture, per il sindacato della polizia penitenziaria, non ci dovrebbero stare più di 40-50mila detenuti, cioè coloro che, condannati a pene definitive, creano allarme sociale. “Purché la pena non sia semplicemente punitiva, ma descriva un percorso riabilitativo che non sottragga la dignità delle persone”. Dello stesso parere è la direttrice di Ristretti Orizzonti per la quale la carcerazione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di reclusione e la possibilità di far uscire tremila detenuti dalle celle - così stabilisce il decreto varato dal ministro della Giustizia Severino - è già un inizio. In soldoni servono pene alternative e percorsi di reinserimento sociale, che significa sostanzialmente un percorso lavorativo. “La pena più terribile per chi sta in carcere è il non avere nulla da fare: è pericoloso e dannoso perché queste situazioni di degrado annullano la dignità delle persone e si arriva al paradosso che chi esce dal carcere è peggiorato rispetto a quando ci è entrato”, dice Favero. E poi la popolazione carceraria sta cambiando. “Guardo dentro la mia redazione e vedo sempre meno persone con una scelta di vita criminale e sempre più uomini e donne che vengono da una vita regolare: la droga porta in cella tanti ragazzi. Pensiamo poi a chi ha compiuto reati in famiglia, un medico, un dirigente di banca. Famiglie dove c’è incapacità di risolvere i conflitti”. Gente “normale” insomma che le sbarre non le ha mai messe in conto. “E questo - conclude - ci deve far riflettere sul fatto che il carcere non riguarda solo i criminali ma tutti noi. Ecco perché bisogna parlarne”. Giustizia: svuotiamo le carceri, ma attenzione ai rischi delle misure alternative di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 22 febbraio 2012 Il ministro della Giustizia Paola Severino è certamente dotata di una solida base teorica, ma come tutti gli avvocati in attività, non manca di spirito pratico. Soprattutto crede fermamente come molti italiani all’arte di arrangiarsi, una sorta di sport nazionale. Solo così si spiega adeguatamente il decreto-legge recentissimo, appena convertito in legge, con cui si è disposto che gli arrestati in flagranza di reato debbano essere custoditi a domicilio o nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine, in attesa delle disposizioni del Pm e del Gip ai quali, contemporaneamente, vengono imposti termini ultrarapidi per provvedere a quanto necessario. In sostanza o si va in carcere (ma per ordine del magistrato) per restarci un periodo di tempo consistente, o si resta nel proprio domicilio ovvero nelle camere di sicurezza in vista della pronta liberazione. Si evita così, lo ha detto esplicitamente la stessa Severino, il deprecabile fenomeno dell’ingresso e dell’uscita dal carcere nel giro di pochissimi giorni (le cosiddette porte girevoli) che coinvolge in un anno migliaia e migliaia di detenuti e aggrava notevolmente l’emergenza carceri. Detto e fatto, il decreto e la legge sono ormai in vigore, e adesso tocca alle Procure e alla Questure farli funzionare al meglio. Purtroppo non è affatto semplice. Custodire arrestati in flagranza per un giorno o due richiede attenzione, lavoro e attitudini peculiari e le forze dell’ordine non sono idonee a tali prestazioni per le quali non sono mai state addestrate. Inoltre le camere di sicurezza sono poche e inadatte e non consentono la separazione tra uomini e donne. Infine se poliziotti e carabinieri devono svolgere le funzioni di guardiano sono automaticamente distolti da altri servizi magari più importanti per la tutela della collettività. La Severino ha subito replicato che le nuove misure sono state concertate e concordate con il ministro dell’interno, ma la polemica divampa, e, al di là delle parole, lo scontento tra agenti e carabinieri è palese e incontestabile. Forse la via tracciata dalla Severino è giustificata perché mira a conciliare (almeno in prospettiva) l’esigenza della sicurezza con il rispetto della persona, ma probabilmente, prima di dare il via al provvedimento si sarebbe dovuto procedere a un’accurata indagine interna per stabilire se le condizioni generali delle questure e delle altre forze dell’ordine consentissero l’innovazione. Non risulta che sia stato fatto, se, in sede di audizione al Senato, il vice-capo della polizia ha criticato il provvedimento, rivelando che le camere di sicurezza non sono sufficienti né per numero né per igiene e che il personale non è adatto a svolgere funzioni di custodia. E ha aggiunto che la sperimentazione dei braccialetti elettronici di cui si parla da dieci anni si è rivelata del tutto fallimentare anche per i costi. Per esperienza vissuta posso prevedere che cosa accadrà, se non si arriva a modificare il provvedimento, come del resto in parte si è già fatto in sede di conversione. In certe località dove magistrati e funzionari si danno molto da fare i problemi saranno superati e le cose andranno avanti più o meno bene, altrove si rimpiangerà il sistema precedente. Va detto infine che da noi è difficile (qualcuno dice impossibile) programmare una seria riforma con complessi risvolti organizzativi. Si preferisce affidarci all’improvvisazione, convinti che alla fine tutto si aggiusta. Spesso è così, ma non sempre. E comunque non si dovrebbe mai innovare senza programmare, se si tratta di riforme che incidono sui diritti della persona e sulla sua dignità. Giustizia: detenuto suicida? agenti responsabili di omicidio colposo; i Sindacati si ribellano Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2012 È arrivata nel giorno in cui il sistema carcerario italiano ha contato la sua ventiquattresima morte dall’inizio dell’anno, il decimo suicidio in neppure due mesi, quello del ventenne rinchiuso a San Vittore. È la sentenza in cui la Corte di Cassazione fissa un principio destinato a suscitare una levata di scudi, quello per cui, in caso di suicidio del detenuto in cella, a risponderne può essere la guardia carceraria. La Suprema Corte, infatti, ha confermato la condanna per omicidio colposo a una agente di polizia penitenziaria che non si era accorta del suicidio di una reclusa, avvenuto durante il suo turno di sorveglianza a vista. I fatti risalgono al 24 novembre del 2004. Marina Kniazeva, quarantenne di nazionalità russa, era detenuta nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Si suicidò impiccandosi su una sponda del letto che dallo spioncino non era visibile. Non era imprevedibile, però, che lo fa facesse. Anzi. La disposizione della sorveglianza a vista era stata impartita proprio in previsione di iniziative estemporanee e pericolose della detenuta e per evitare comportamenti autolesionistici. Per questo era stato stabilito che il servizio di vigilanza venisse svolto in modo continuativo. Invece l’agente, Cosmina R., per sua stessa ammissione, da quella cella, benché l’unica occupata in quel reparto, si era allontanata. La guardia carceraria era già stata condannata per omicidio colposo dalla Corte d’Appello di Roma, il 9 marzo dello scorso anno. Ora, la quarta sezione penale della Cassazione ha confermato quel verdetto, ritenendo infondato e respingendo il suo ricorso. La motivazione è chiara: “L’omissione della condotta prescritta a Cosmina R. ha precluso a monte il tempestivo avvistamento della complessa manovra suicidaria e con essa il conseguente dovuto intervento per scongiurare il fatale esito”. Insomma, un’omissione di diligenza che per i giudici di piazza Cavour si è tramutata in una colpa in vigilando. Ma c’è chi non ci sta. La creazione di questo precedente, infatti, si incunea in un contesto che scarica il peso di tutto il sistema carcerario italiano sull’altro anello debole della catena: i baschi blu. La loro sotto dotazione di personale e di strumentazione è estrema. Un dato per tutti. In teoria, sulla pianta organica, gli agenti all’interno degli istituti di pena dovrebbero essere 45mila. In pratica, nei corridoi e nei cortili, se ne contano invece 38mila. 7mila in meno. Solo nelle Case circondariali del Lazio, secondo i dati della Uil, mancano all’appello 971 unità, a cui vanno aggiunte le carenze di 41 educatori, 65 assistenti sociali, 43 contabili e 40 tecnici. Vuoti che complicano la gestione quotidiana all’interno delle sezioni e schiacciano tutta la pressione sul personale in servizio. Tanto da avere, per i sindacati, un diretto rapporto con l’aumento dei suicidi anche tra le forze di polizia penitenziaria. Ottantacinque in dieci anni. L’ultimo proprio a Rebibbia. Un destino in comune con quello dei loro sorvegliati: sessantasei si sono tolti la vita solo durante il 2011. Per questo motivo, la “sentenza della Cassazione suscita amarezza - ha commentato il segretario del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Donato Capece. È chiaro che in una situazione di sovraffollamento come quella attuale, quando ci sono casi di vigilanza a vista prevista dagli psichiatri, ciò significa impegnare un agente 24 ore su 24 al controllo di un singolo detenuto, e questo crea situazioni spesso difficili da gestire. Bisogna anche mettersi nei panni di chi deve garantire un servizio ma non ha uomini per farlo”. Anche questo tema sarà al centro dell’incontro che nelle prossime ore si terrà nella Sala Verde del Palazzo di Giustizia tra il ministro Paola Severino e le organizzazioni sindacali. E c’è chi alza il tiro. “In quella sede chiederemo di procedere con l’apertura di centri di sostegno psicologico per noi agenti - dice Giuseppe Moretti, segretario della Federazione nazionale polizia penitenziaria della Ugl - altrimenti anche noi, come i reclusi, siamo pronti a ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo per far valere le nostre istanze. Questa sentenza, ora, non fa che esasperare la tensione che c’è per una situazione organizzativa fortemente compromessa. Siamo costretti a svolgere il servizio in condizioni assurde. Specie durante i turni pomeridiani, serali e notturni, quando accade, molto spesso, addirittura che una sola persona debba controllare due sezioni collocate su due piani diversi. Senza neppure poter contare sugli ausili di ordine elettronico, che servirebbero, eccome, perché la sorveglianza a vista, in queste condizioni, diventa troppo complessa”. Giustizia: reati “tenui ed inoffensivi”; così si ridurrà il numero dei procedimenti penali di Andrea Spinelli Barrile Agenzia Radicale, 22 febbraio 2012 Ridurre il numero dei processi (penali) è un cubo di Rubik che più si va avanti e più si complica nella sua risoluzione, aggravando lo stato amministrativo della Giustizia in Italia e accentuando il degrado delle carceri tricolore. Fermo restando il principio di obbligatorietà all’azione penale, il parlamentare del Pd Lanfranco Tenaglia ha promosso un Ddl che oggi sarà in esame alla Camera, con l’obiettivo di introdurre la possibilità di giungere al proscioglimento, senza passare dal processo (lungo e costoso), dell’imputato macchiatosi di reati particolarmente “tenui ed inoffensivi”, puntando in questo modo ad una riduzione del numero dei procedimenti penali. Il Ddl in particolare individua tre parametri (un nuovo articolo nel Codice di procedura penale, il 530-bis) per valutare correttamente tali reati prima dell’archiviazione: modalità ed occasionalità della condotta e l’esiguità delle conseguenze dannose. Lo stesso Tenaglia spiega che “se rubo una mela al supermercato il danno per il proprietario è tenue, se la rubo ad una vecchina che ha solo tre mele il danno non è più tenue”. Ma tale principio di tenuità, come già previsto per i procedimenti davanti al giudice di pace e per i reati penali commessi da minori, è da escludere per i delinquenti “abituali, professionali o per tendenza”, ma anche per i “reati tenui perpetrati” che in quanto tali tenui non sono più. Evitare “la vergogna della prescrizione” è l’obiettivo del Ddl Tenaglia, che punta alla “defilazione dei processi consentendo di concentrare le forze sui reati più gravi”. Ingiuria aggravata, guida in stato di ebbrezza senza incidenti, piccoli furti, liti, trafugazione di assegni, detenzione illegale di armi se “dimenticate” (la carabina del nonno defunto), diffamazione a mezzo stampa (si potrebbe evitare la condanna per il giornalista che cita un pezzo di un collega diffamatorio, se si dimostra di aver ritenuto la fonte attendibile), questi sono alcuni dei reati “lievi” o “tenui” che porterebbero al proscioglimento dell’imputato, se il 530-bis venisse votato dal Parlamento così com’è oggi. Tra i contrari al Ddl ci sono i verdi leghisti, che chiedono con cinquanta emendamenti maggiori tutele per le parti offese (come la possibilità di appellarsi al proscioglimento) e parla di “ddl svuota-processi”. Anche in casa Di Pietro il clima è, come sovente nella storia dell’Idv, duale tra la contrarietà e l’astensione, nell’ottica di una proposta sulla tipizzazione dei reati che potrebbe essere presentata come emendamento al Ddl. Giustizia: la Lega fa ostruzionismo sul “reato tenue”; esame proposta di legge slitta a marzo di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2012 L’ostruzionismo minacciato dalla Lega per bloccare l’approvazione della riforma sul “reato tenue”, si è materializzato ieri quando l’aula della Camera ha cominciato a esaminare gli emendamenti all’articolo 1 della proposta di legge sulla “particolare tenuità del fatto”. A raffica, per quasi due ore i deputati del Carroccio hanno sparato contro quello che chiamano “svuota processi”, “amnistia mascherata”, “depenalizzazione generalizzata”, “vergogna”, e sarebbero andati avanti così per giorni visto che in questa fase i tempi non sono contingentati, bloccando l’aula, dov’è atteso il “mille proroghe”. Di qui la decisione della maggioranza di rinviare l’esame e il voto a marzo, quando (per regolamento) scatterà il contingentamento dei tempi e, quindi, la tagliola sugli interventi dei leghisti. Ora la Capigruppo deciderà se riprendere già alla fine della prossima settimana o in quelle successive. Un copione scontato, salvo per l’assenza in aula del governo, che non è passata inosservata. Il “reato tenue” era stato inserito dal ministro della Giustizia Paola Severino nel ddl varato prima di Natale su depenalizzazione e messa alla prova, in quanto misure necessarie a deflazionare il processo penale. Poi, però, era stato stralciato, ma come segno di rispetto nei confronti della Camera dove la riforma era già arrivata a buon punto. Il testo licenziato dalla commissione Giustizia, sebbene più restrittivo di quello proposto dal governo, ha avuto il via libera dell’Esecutivo, che ieri, però, non si è né visto né sentito. Ma a parte l’assenza del governo, nei primi due giorni di dibattito in aula non ci sono state sorprese, tanto meno voci dissonanti nella maggioranza. Il rischio è che come con la “svuota-carceri” qualche deputato (soprattutto nel Pdl) prenda le distanze, sensibile alle argomentazioni del Carroccio. Argomentazioni che fanno leva sulla “certezza della pena”, sulla “sicurezza”, sulla “legalità” e che, al di là della loro fondatezza, possano far breccia nell’opinione pubblica, rendendo impopolare la riforma. Il testo stabilisce che un reato può essere archiviato o l’imputato che lo ha commesso può essere prosciolto se, per le modalità della condotta, la sua occasionalità e le esigue conseguenze dannose o pericolose, il fatto viene valutato dal giudice “di particolare tenuità”. Ne resta traccia nel certificato penale e la sentenza consente alla parte offesa di chiedere il risarcimento dei danni, ma il processo si chiude subito, senza trascinarlo - come accade oggi in molti casi bagatellari - fino in Cassazione, a scapito di processi più seri. Secondo la Lega è una riforma che “dà troppo potere ai giudici” e “lede i diritti dei cittadini” che vogliono che chi commette un reato “paghi, e paghi in carcere”. Giustizia: Cassazione; insulti e vessazioni non sono “futili motivi” in determinazione dell’omicidio Il Giornale, 22 febbraio 2012 Uccidere dopo essere stati offesi vale un’attenuante. Così un operaio albanese che nell’autunno del 2008 massacrò il suo datore di lavoro in seguito ad un rimprovero dopo essere stato insultato dalla vittima –“sei una m...”, otterrà uno sconto di pena. Lo ha stabilito la Prima sezione penale della Cassazione, accogliendo il ricorso della difesa di Hamit L. che l’11 novembre di quattro anni fa, a Cividate Camuno, in Valcamonica, uccise a colpi di spranga Maurizio Ricchini, titolare dell’azienda per cui lavorava, una fabbrica specializzata nei trattamenti termici dei metalli. In appello, l’operaio - assunto in nero, come rileva la sentenza numero 6796 in “condizioni di semi sfruttamento”, pagato sei euro all’ora, - era stato condannato dalla Corte d’assise d’appello di Brescia a 16 anni di reclusione con il riconoscimento dell’aggravante dei futili motivi per avere ammazzato a sprangate il datore di lavoro, quarantaquattrenne titolare dell’azienda. Tutto era nato durante un litigio originato dal rimprovero che l’imprenditore aveva rivolto al dipendente. Esacerbato per il trattamento umiliante - così aveva sostenuto la sua difesa in tribunale - Hamit, afferrata una spranga di ferro, aveva colpito Ricchini. Poi era fuggito. Ma per poco: i carabinieri erano riusciti a bloccarlo tre ore più tardi in auto. In aula, la difesa ammise la reazione spropositata, invocando però le attenuanti poiché la furia omicida sarebbe stata scatenata dalle vessazioni cui l’imputato era da tempo sottoposto. Gli insulti di quella tragica mattina, insomma sarebbero stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Sostenendo che quel delitto fosse stato dettato “dall’esacerbato sentimento dell’onore”. Insomma un delitto di impeto compiuto da un incensurato, una persona dedita al lavoro. La Cassazione adesso ha accolto il ricorso e, annullando senza rinvio la sentenza ha osservato che l’aggravante in questione “sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale”. Sarà ora la Corte d’assise d’appello di Brescia a rideterminare, al ribasso, la pena inflitta all’albanese, contrariamente alle richiesta della pubblica accusa di piazza Cavour che chiedeva la conferma della condanna. Giustizia: rischia la soppressione il Dipartimento dei minori; allarme Gruppi alla Camera Dire, 22 febbraio 2012 Il Dipartimento per la giustizia minorile rischia di scomparire. Uno schema di decreto del presidente della Repubblica recante regolamento di organizzazione del ministero della Giustizia, in linea con la politica dei tagli per i risparmi dello Stato, prevede infatti che le attuali funzioni vengano scorporate tra il Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) e il Dog (Dipartimento organizzazione giustizia). I gruppi parlamentari in commissione Giustizia alla Camera, dove lo schema di decreto è stato trasmesso lo scorso 23 gennaio per l’espressione del parere, sono in allarme. E si preparano a evidenziare una serie di criticità per evitare che il Dipartimento per la giustizia minorile scompaia. Ieri il relatore in commissione, Federico Palomba (Idv), ha fatto una illustrazione in cui ha espresso la sua netta contrarietà al provvedimento per quanto riguarda la parte che tocca i minori. E oggi, in via d’urgenza, la commissione Giustizia svolgerà, a partire dalle 14.30, audizioni nonostante la fiducia al decreto Mille proroghe che teoricamente stopperebbe i lavori a Montecitorio. Saranno ascoltati Luciano Spina, presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minori e la famiglia; Maria Giovanna Ruo, presidente della Camera Minorile Nazionale; Gianfranco Macigno, esperto della materia. Gli articoli incriminati dello schema di decreto riguardano i compiti del Dipartimento per la giustizia minorile. La riorganizzazione comporta la perdita delle competenze su personale e risorse, trasferite, rispettivamente, al centro servizi unitario presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e a quello presso l’organizzazione giudiziaria. Di conseguenza, il Dipartimento perde due Direzioni generali (personale e formazione; risorse materiali, beni e servizi). Anche il Senato dovrà esprimere un parere. La capogruppo del Pd, in commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti, interpellata dalla “Dire” sullo schema di decreto che riorganizza il ministero della Giustizia svuotando il Dipartimento per i minori, spiega: “Siamo preoccupati, non si può smantellare un Dipartimento strategico come quello per i minori, se si vogliono fare i tagli non si facciano a scapito dei minori. Questo è uno schema dello scorso governo che recepisce indicazioni della finanziaria. Tra l’altro - aggiunge - mettere sotto il Dap alcune funzioni del dipartimento porterà a una commistione rischiosa con la giustizia per gli adulti”. Nella sua relazione in commissione Giustizia, dove oggi ci saranno le audizioni ad hoc sulla questione minori, Palomba (Idv) ha espresso la sua “totale contrarietà alla sostanziale soppressione della specificità e della specializzazione che la giustizia minorile ha acquisito nel corso degli anni, che si concretizza attraverso la soppressione dei Centri per la Giustizia Minorile e lo svuotamento delle prerogative del Dipartimento della Giustizia Minorile, privato di ogni potere di indirizzo e di gestione del personale del comparto ministeri e di polizia penitenziaria e della gestione dei beni e servizi”. Giustizia: Lo Moro (Pd); fare luce su destinazione immobili del Dap, su beneficiari e canoni Agenparl, 22 febbraio 2012 “In tempi di rigore come questo, è necessario dissipare tutte le ombre che riguardano i costi di gestione dell’amministrazione pubblica. La stampa ha puntato, recentemente, i riflettori sugli immobili destinati ai dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e non si può rimanere inermi”. A dichiararlo è l’on. del Pd, Doris Lo Moro che sul tema ha presentato questa mattina un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, Paola Severino, per conoscere la lista degli immobili a disposizione del Dap, i beneficiari e l’eventuale canone corrisposto all’amministrazione per la locazione di appartamenti, spesso di lusso. Giustizia: le Regioni chiedono confronto al Governo su chiusura degli Opg Ansa, 22 febbraio 2012 Le Regioni chiedono un confronto con il Governo sul Ddl che riguarda gli interventi per contrastare il sovraffollamento delle carceri e la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Chiediamo un confronto con il Governo, che sta accelerando molto su questo tema, per capire quale è la tempistica e quali le risorse”, ha spiegato il coordinatore della Commissione Bilancio della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’assessore della Lombardia, Romano Colozzi. “Le risorse con le quali si vogliono garantire le infrastrutture - ha aggiunto Colozzi - derivano dal Fondo per l’edilizia sanitaria, che sta diventando una sorta di bancomat e sono, tra l’altro, già finalizzate, nei bilanci regionali, ad altri progetti. Ci sono già accordi sottoscritti, in tal senso, tra le varie Regioni e il Governo. Di qui la richiesta di incontrare l’Esecutivo nazionale”. Giustizia: Sappe; incontro tra ministro Severino e Sindacati Polizia Penitenziaria Comunicaro stampa, 22 febbraio 2012 Si è svolto questa mattina, nella Sala Rosario Livatino del Ministero della Giustizia, il previsto incontro tra il Sappe e le altre Organizzazioni Sindacali dell’intero Comparto Penitenziario con la Ministro Guardasigilli avv. Paola Severino. Era presenti anche il Capo di Gabinetto Filippo Grisolia ed il Vice Capo Vittorio Paraggio, il neo insediato Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, accompagnato dalla Vice Capo Matone e dal Direttore del Personale e della Formazione Turrini Vita. Nel suo intervento, disponibile nel formato audio sul nostro sito internet www.sappe.it, il Segretario Generale del SAPPE Donato Capece ha auspicato che il provvedimento recentemente licenziato dal Parlamento per contrastare la tensione nelle carceri sia il primo passo per una più complessiva e generale riforma strutturale di tutta l’esecuzione penale. Ha sottolineato le criticità che quotidianamente affrontano gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e lo stress che esso inevitabilmente produce , invitando ancora una volta Ministro e Capo Dipartimento a stabilire gli organici del DAP, delle Scuole, dei Provveditorati, anche prevedendo la costituzione di un apposito tavolo tecnico. Ha denunciato come si sia perso il conto delle unità distaccate in quelle sedi; delle decine di direttori, educatori, assistenti sociali distaccati al DAP, nelle Scuole e nei Provveditorati e di come gli Istituti penitenziari patiscano le carenze nelle carceri proprio di queste figure professionali, tanto da indicare la più evidente contraddizione del Paese di avere carceri senza direttore titolari e un consistente numero di dirigenti presso la sede Dipartimentale. Il SAPPE ha sollecitato ancora una volta l’assunzione dei 551 idonei non vincitori dell’ultimo concorso per Agente ed ha evidenziato i grandi problemi che i poliziotti penitenziari devono quotidianamente affrontare in relazione ai tagli delle risorse economiche in materia di lavoro straordinario e servizi di missione fuori sede, denunciando anche come buona parte dei mezzi in uso ai Nuclei Traduzioni siano inadeguati e obsoleti. “Bisogna dare serenità ai nostri poliziotti penitenziari”, ha sottolineato Capece, che ha pure suggerito una alternativa alle bombolette di gas che i ristretti detengono in cella e che spesso vengono usate come armi contro i poliziotti, come veicolo suicidario e come surrogato di stupefacente per taluni tossicodipendenti in carcere . In commercio infatti esistono altri tipi di fornelli, utilizzati ampiamente anch’essi nel settore del campeggio, che utilizzano un altro tipo di combustibile il quale per le proprie caratteristiche chimico-fisiche, non crea alcun problema di salute passiva, non può essere utilizzato per tentativi di suicidio e nemmeno può essere convertito in esplosivo artigianale. Si tratta di un combustibile alcolico che viene “rivestito” di un gel che ne determina una maggiore stabilità e trasportabilità-stoccaggio. Tale tipo di gel viene ampiamente impiegato anche nel settore militare proprio per le sue caratteristiche di efficienza-efficacia. Abbiamo infine richiamato la necessità di riallineare le carriere della Polizia Penitenziario – ruolo direttivo, ispettori e sovrintendenti – a quelle delle altre Forze di Polizia, in modo di avere analogia di progressioni economiche e di carriere. La Ministro ha assicurato attenzione ai problemi esposti, anticipando alle componenti sindacali di avere pronta una lettera al Presidente del Consiglio Monti per definire la questione connessa alla corresponsione anche al Personale di Polizia Penitenziaria degli assegni una tantum. Ha comunicato di avere dato mandato al DAP affinchè si concretizzi a breve la fattibilità di prevedere per quanto più possibile il ricorso, l’estensione e l’ampliamento alle video conferenze per il Personale dei Nuclei e, per quanto concerne lo stress psico-fisico dei poliziotti, di attendere gli esiti dei lavori della Commissione istituita al DAP per la stipula di protocolli d’intesa finalizzati a realizzare punti di ascolto per lenire il disagio lavorativo. Ha detto che il provvedimento recentemente licenziato dal Parlamento è solo il primo passo verso una nuova concezione di esecuzione della pena che preveda il ricorso alla detenzione in carcere ai casi più gravi: ci ha informato di avere consegnato alla Camera dei Deputati, per i successi iter parlamentari, un disegno di legge che disciplini nuove modalità di controllo delle persone diverse dalla detenzione (come, ad esempio, la messa in prova e la depenalizzazione di alcuni reati). Ed ha chiesto, al SAPPE ed agli altri Sindacati, un contributo a realizzare quelle riforme che intende perseguire e che pongono al centro la dignità della detenzione ed il rispetto e la serenità per coloro che in carcere lavorano. Il neo Capo del Dipartimento Tamburino ha voluto chiarire, per parte sua e per evitare fraintendimenti rispetto a quel che si sente in giro, che ha grande rispetto e stima per il Corpo di Polizia Penitenziaria, che non è solo un Corpo di Polizia dello Stato di pari dignità con le altre Forze dell’Ordine – di assoluta Serie A! - ma, anzi, è di A+. Ha sottolineato di voler porre al centro della sua azione l’ottimismo quale veicolo imprescindibile per rivedere e ripensare l’azione complessiva dell’Amministrazione penitenziaria. In conclusione, ha detto che pur nel breve tempo trascorso dal suo insediamento ha già dato disposizioni per la verifica della distribuzione del Personale del DAP, compreso il Reparto Scorte, per l’accertamento di correttivi alle modalità operative del Servizio delle traduzioni nel senso appena delineato e, di concerto con il Direttore del Personale e della Formazione Turrini Vita, ha avviato la redazione delle piante organiche per il DAP, le Scuole ed i Provveditorati regionali. L’auspicio del SAPPE è che alle parole dette oggi seguano segnali concreti nelle direzioni indicate. Giustizia: morire a vent’anni tra le mura del carcere di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 22 febbraio 2012 Se un ragazzo di ventun anni si uccide a San Vittore, la nostra centralissima e vetusta galera, ciò che possiamo provare è un senso di infinita vergogna. Ma poi, purtroppo, scattano reazioni automatiche. Lo storico degrado del vecchio carcere. L’insopportabile sovraffollamento. La legge non scritta della galera, che prevede pestaggi ai detenuti per reati sessuali. Lo sdegno degli agenti di custodia, che rivendicano di aver tutelato quella vita in pericolo, e lamentano condizioni intollerabili anche loro. La famiglia della vittima, inerme. La direzione, che si dichiara annichilita dalla tragedia. Insomma, pare che sappiamo già tutto, e tutto abbiamo già visto. San Vittore decrepito e affollato, ma s’è ucciso due giorni fa un altro detenuto a Opera, carcere moderno. Resta il fatto che Alessandro G., detenuto da quattro mesi con una sfilza di imputazioni per reati sessuali, incensurato, magari poteva aspettare il processo agli arresti domiciliari. Glieli hanno negati il mese scorso. Aspettava una perizia nel reparto psichiatrico. La prima cosa che dovremmo pensare, di fronte all’ennesimo suicidio, è che c’è troppa gente in galera. Che molte di queste persone dovrebbero esser messe fuori, ad aspettare il lento processo. Vuotate San Vittore, e non tornate a riempirlo com’è ora. I genitori: “ce l’hanno ucciso” Si sentiva in un incubo e per questo si ripeteva che presto si sarebbe svegliato. Ma erano passati appena pochi giorni dall’arresto, lo scorso ottobre, e Alessandro, incensurato, sarebbe rimasto in cella a San Vittore per altri quattro mesi, fino al suicidio di sabato sera. Alessandro G., 22 anni, figlio di operai, un fratello maggiore e una sorella più piccola, si è impiccato usando come cappio la sua felpa. Solo poche ore prima era andato a trovarlo un volontario. “Va tutto bene” gli aveva detto Alessandro con un mezzo sorriso. “Ce l’hanno ucciso - dicono ora i genitori - Vogliamo giustizia”. Alessandro era accusato di vari episodi di violenza: palpeggiamenti e molestie che oggi per il codice penale equivalgono a violenze sessuali, stalking, atti osceni in luogo pubblico e altri reati su ragazze diciassettenni. Comportamenti in parte dovuti al consumo di droghe, in parte a una debolezza psicologica: in primavera Alessandro era stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio che aveva evidenziato un disturbo della personalità. A ottobre il carcere, disposto dal tribunale per il pericolo di reiterazione del reato, dato che molti episodi erano stati consumati via Facebook. Proprio il giorno prima della tragedia il gup Paola Di Lorenzo aveva disposto una perizia psichiatrica per valutare, oltre alla capacità di intendere e di volere dell’imputato, anche la sua compatibilità con la detenzione. Nel frattempo il ragazzo era stato trasferito in isolamento. Nei primi due mesi in carcere aveva raccontato ai genitori continue provocazioni da parte degli altri detenuti, di essere oggetto di ingiuriee di essere spesso preso a pugni, tanto da preferire di non fare più la doccia e non usufruire dell’ora d’aria. Poi a gennaio, il trasferimento in isolamento nel reparto di psichiatria, anche a seguito di alcuni comportamenti aggressivi in carcere e durante un’udienza quando aveva inveito contro i carabinieri e il giudice. Un’aggressività che Alessandro aveva manifestato anche prima dell’arresto, in casa, quando un giorno aveva gettato una televisione fuori dalla finestra. Proprio per questo i famigliari avevano chiesto il trasferimento in comunità. “Alessandro non era un tossicodipendente, perché faceva uso saltuario di droga. Doveva curarsi - spiega Antonio Romano, l’avvocato della famiglia - Perciò avevamo fatto istanza di trasferimento in comunità, trovando una struttura a San Zenone al Lambro che era disponibile”. Il gup ha però respinto la richiesta, in attesa della nuova perizia. “L’ultima volta che abbiamo parlato con Alessandro - racconta in lacrime la madre Mirella - ci ha raccontato che dormiva vestito perché sentiva freddo, di non avere nemmeno il dentifricio. Ce l’hanno ucciso. Vogliamo la verità”. Ora sarà l’inchiesta del pm Giovanni Polizzi, che ha disposto per oggi l’autopsia, a chiarire eventuali responsabilità nella tragedia. Dai primi accertamenti, risulta che non risultassero rischi di autolesionismo. “Escludiamo che il ragazzo sia stato vittima di abusi o violenze - fanno sapere dalla direzione di San Vittore non sembrava un soggetto considerato a rischio, non aveva manifestato segnali che potessero far presumere un fatto come questo”. Giustizia: da poliziotto al carcere… dopo 10 anni arriva l’assoluzione “il fatto non sussiste” di Valentina Marsella Secolo d’Italia, 22 febbraio 2012 L’odissea decennale di Luigi Taglialatela, accusato di aiutare i clan. Da tutore della legge e della sicurezza al carcere. Con accuse pesanti. Associazione a delinquere, corruzione e favoreggiamento a membri di un noto clan. Ma era innocente, come ha stabilito la terza sezione della Corte d’Appello di Napoli il 25 giugno del 2010, dopo tre gradi di giudizio e dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa mesi prima dalla stessa Corte. Assolto perché il fatto non sussiste. Protagonista dell’ennesima vicenda di errore giudiziario, Luigi Tagliatatela, ex funzionario di pg della Squadra anticrimine della Questura di Avellino. E ora l’ex poliziotto, andato in pensione nel 2009, mentre attendeva la sentenza che lo avrebbe scagionato, chiede il conto allo Stato. Per l’ingiusta detenzione, il danno morale e biologico subiti, e il danno economico. Perché sua madre, distrutta dal dolore, si è lasciata morire, sua moglie ha ancora molti strascichi di quello choc e una delle sue figlie si è ammalata di anoressia. Ma soprattutto, quella che era l’immagine di un uomo in divisa rispettabile e perbene è stata offuscata in un attimo. Tanto che dopo la bufera giudiziaria l’uomo non ha voluto più indossarla quella divisa che gli aveva dato tante soddisfazioni prima di quel dolore. Saranno il suo legale, Gaetano Aufiero, insieme all’avvocato Gabriele Magno dell’associazione “Vittime errori giudiziari Art. 643” a occuparsi della richiesta risarcitoria nei confronti di Tagliatatela, che oggi racconta la sua esperienza del carcere. Lui che da poliziotto il mondo dietro le sbarre lo aveva visto solo per accompagnare o far uscire di galera i detenuti, lui che è stato ammanettato dai colleghi di una vita. “Umiliato e trattato come l’ultimo dei delinquenti”, denuncia oggi, a distanza di 10 anni dall’incubo che ha vissuto. Luigi Tagliatatela ricorda come fosse ora la notte dell’arresto. È il 3 giugno del 2002, quando, nel corso di un’operazione che vede coinvolti alcuni agenti del carcere di Avellino accusati di essere corrotti e di rifornire i detenuti di telefoni e droga, l’uomo subisce una perquisizione nel cuore della notte. Sono i suoi colleghi di una vita e volti a lui noti a entrare in casa sua con l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Allo choc, racconta, “si aggiungono mortificazioni: prima di andare in carcere uno dei miei colleghi ha visto che mi mettevo il ponte ai denti. E mi ha detto: “Cosa hai in bocca?”. Sapeva perfettamente che avevo quel ponte”. E poi l’arrivo nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, con “l’ispezione corporale e l’isolamento in cella di sicurezza per 48 ore, senza l’ora d’aria giornaliera a cui avevo diritto. Se uno non si ammazza lì - sottolinea Tagliatatela - non si ammazza più da nessuna parte”. Fin dall’inizio l’allora funzionario di polizia grida la sua innocenza, denunciando una cospirazione contro di lui, dovuta ad antichi rancori nel suo ambiente. La sua difesa fa subito notare che l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti non ha nulla a che fare con le accuse rivolte agli agenti “corrotti” del carcere avellinese, che Tagliatatela “non ha mai visto e non conosce”. Gli inquirenti lo accusano di aver diffuso notizie riservate a esponenti di un noto clan, come riferito da alcuni pentiti. Ma anche questa tesi pian piano verrà smontata, come verrà fatto notare che il “Gigino” indicato da un pentito non era lui, ma un suo omonimo che guidava le volanti nel ‘98. Mentre Luigi ha smesso di guidare le volanti nel ‘94. Dopo i primi 10 giorni di carcere, il 13 giugno 2002 il Riesame stabilisce che Tagliatatela deve restare in carcere, addebitandogli però solo i reati di corruzione e favoreggiamento, dunque eliminando quello di associazione a delinquere. In sede di udienza preliminare, il 20 e 29 agosto, viene rinviato a giudizio per i due reati, ma quello che viene considerato il suo “presunto corruttore -racconta - non viene rinviato a giudizio”, ed esce di scena. L’ex funzionario resta in carcere fino al 14 luglio del 2003. Il processo di primo grado si conclude il 15 giugno 2004, con una condanna a 4 anni di carcere e 5 anni di sospensione dai pubblici uffici. Si arriva alla prima udienza di appello, il 4 aprile 2007. Nel frattempo Taglialatela, stanco e stremato, invece di tornare a fare il poliziotto, chiede di essere riformato. Nel 2009 va in pensione, e dopo qualche tempo la terza sezione della Corte d’Appello di Napoli conferma la condanna di primo grado. La Cassazione annullerà quel verdetto con rinvio alla stessa Corte, che il 25 giugno 2010 lo assolve dopo 9 anni di calvario giudiziario, perché il fatto non sussiste. Ma intanto è passato un decennio, e la vita di Taglialatela è cambiata radicalmente. n dramma del carcere da innocente gli ha lasciato paure, attacchi di panico, frustrazione. Il pensiero di quelle prime 48 ore in cella di sicurezza e senza aria, la sensazione di soffocamento dietro le sbarre sovraffollate, non lo abbandonano ancora oggi. “Ho sempre le gomme in tasca - racconta - perché se si asciuga la gola mi manca l’aria e non riesco a respirare. E ho anche delle fissazioni: se non riesco a ricordare un nome o qualcosa vado in panico, così mi scrivo le cose per la paura di non ricordare. Una volta ho chiamato mio fratello a mezzanotte e mezzo perché non mi veniva il nome di un attore americano. Mi mancava l’aria. Per fortuna mi ha detto quel nome e ho ripreso a respirare”. E ancora, la mancanza di qualsiasi diritto e la lontananza dagli affetti, tanto da far vedere ogni cosa da un’angolazione diversa. “Pensi che al funerale di mia madre - rileva l’uomo - ero felice, perché mi avevano dato il permesso di uscire dal carcere e ho passato una giornata con la mia famiglia, pranzando a casa. Ancora oggi - spiega - non riesco a perdonarmi di aver festeggiato dopo il funerale”. L’ex poliziotto ricorda quella notte di capodanno a cavallo tra il 2002 e il 2003, quando aveva comprato una bottiglia di spumante da stappare a mezzanotte con i compagni di cella. Ma i secondini, “mortificandomi, me l’anno portata all’una di notte e per giunta calda. In carcere i diritti non esistono. E ho imparato che andare in galera non è difficile, lo è molto di più uscirne dopo aver dimostrato la propria innocenza”. Crudo il racconto delle condizioni di detenzione, con il “materasso pieno di croste, il cuscino lurido, tazza e lavandino in condizioni disumane. E il vitto immangiabile. Meno male che il mangiare me lo portava mia moglie”. E poi la denuncia delle sue conversazioni registrate, violando le regole: “Non ero mica al 41 bis”. L’unica nota positiva del carcere, racconta ancora, sono stati i pochi legami stretti “con i più deboli, per cui cercavo di rendermi utile. Si sa, dietro le sbarre sono i più forti a prevaricare. Ma dare una mano a chi ne ha bisogno ti aiuta a non impazzire”. Marche: Vademecum del carcere e “Liberamente”, progetti per migliorare la vita dei detenuti www.gomarche.it, 22 febbraio 2012 “Il carcere non può rappresentare semplicemente un luogo dove scontare la pena, ma deve essere anche un’opportunità di rieducazione e di reinserimento, nel rispetto di condizioni di vita compatibili con la dignità umana”. Così il Presidente dell’Assemblea legislativa Vittoriano Solazzi ha spiegato l’obiettivo dei due progetti presentati questa mattina a Palazzo delle Marche e promossi dal Garante regionale dei detenuti. Nei sette istituti di pena marchigiani, quasi la metà dei reclusi, il 44% di 1.186, sono stranieri. Da questo dato di partenza è nata l’idea dell’Autorità di garanzia di pubblicare un “Vademecum del carcere” multilingue per aiutare i detenuti a comprendere le leggi che disciplinano il regime penitenziario. Dopo uno studio sui paesi e le appartenenze linguistiche condotto in collaborazione con il Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria), il volume, stampato in 1500 copie da distribuire in ogni cella, è stato tradotto in otto lingue: italiano, inglese, francese, spagnolo, albanese, rumeno, cinese, arabo. “In questo Bignami del carcere - ha spiegato il Garante Italo Tanoni - ogni detenuto può trovare in sintesi le principali informazioni che regolano la vita quotidiana, dagli aspetti sanitari all’alimentazione, al personale dell’istituto, alle telefonate, ai reclami”. Nella guida una parte viene riservata alla figura del Garante, con indicazioni concrete sulle sue funzioni, sulla casistica trattata negli scorsi anni e sul come rivolgersi al suo ufficio. La sinergia tra diverse istituzioni sta anche alla base di “Liberamente”, la seconda iniziativa presentata questa mattina alla stampa. Frutto della collaborazione tra il Garante, l’Ufficio scolastico regionale, la Casa circondariale di Montacuto e il Liceo artistico Mannucci di Ancona, il progetto è stato avviato nell’aprile del 2011 con l’allestimento di due laboratori formativi di 36 ore, uno di scrittura poetica e uno di pittura, e un programma di quatto incontri con artisti di fama internazionale, tra i quali il maestro Bruno D’Arcevia e i poeti Gianni D’Elia e Umberto Piersanti. “Una proposta sperimentale e innovativa - ha detto Tanoni - che riesce a dar voce ai sentimenti dei detenuti, alle espressioni delle loro passioni interiori, alle preoccupazioni legate a un vissuto quotidiano senza far nulla”. Al termine del ciclo di lezioni, nello scorso luglio, sono stati consegnati gli attestati di partecipazione ai 34 allievi ed è stato realizzato un video durante il quale vengono mostrate le opere pittoriche e recitate le poesie dall’artista e attore Nicola Borghesi. “Abbiamo in progetto di realizzare una mostra di tutti i lavori realizzati aperta al pubblico” - ha annunciato il professor Bruno Mangiaterra, docente del liceo Mannucci e curatore del laboratorio di pittura. Dopo la positiva esperienza, il progetto Liberamente è stato inserito anche nel programma di iniziative dell’Ombudsman per il 2012, ampliando la collaborazione con il Liceo classico Perticari di Senigallia e coinvolgendo questa volta la casa circondariale di Barcaglione. Oltre alla consigliera regionale Franca Romagnoli e ai Direttori dei due carceri anconetani Santa Lebboroni (Montacuto) e Maurizio Pennelli (Barcaglione), erano presenti i rappresentanti delle varie istituzioni che ruotano intorno al pianeta carcere. Pistoia: appello al Comune per la nomina del Garante dei Diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2012 Il 24 gennaio, rispondendo in aula all’interpellanza sulle condizioni di invivibilità del carcere S. Caterina di Pistoia, a prima firma Lorenzo Lombardi, l’Assessore alle politiche sociali, Paolo Lattari, ha affermato che “Dobbiamo mantenere alta l’attenzione”. Il giorno stesso il Consiglio ha diramato il comunicato n. 28 annunciando che “Presto verrà nominato il garante dei diritti dei detenuti”. Nel frattempo sono giunte due buone notizie - a noi molto presenti - su questo fronte: la prima è la creazione, curata in primo luogo dall’Assessore Lattari, di un “tavolo di osservazione che coinvolga il comune ed altri soggetti” con riunioni mensili; la seconda è l’approvazione, d’intesa con la Provincia di Pt, di un protocollo sulle attività che il Centro Impiego di Pistoia estenderà anche ai cittadini reclusi. Sono due segnali che dimostrano lodevole, concreta attenzione da parte delle istituzioni locali. Riteniamo comunque che le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di polizia, del personale amministrativo e del volontariato all’interno del carcere siano pessime e pericolose, come quelle del 90% circa degli istituti penitenziari italiani. Per questo, la nomina del Garante dei Diritti dei detenuti costituirebbe un’ulteriore, importante forma di aiuto e assistenza per la comunità penitenziaria tutta, per i cittadini e per le stesse istituzioni locali. La tempestiva nomina di tale figura pubblica cui affidare questa precisa e specifica responsabilità è un provvedimento da prendere, come sottolineato dallo stesso Assessore nel suddetto comunicato. Per questo, ci appelliamo al Sindaco, al Presidente del Consiglio comunale, alla Conferenza dei Capigruppo e a tutti i Consiglieri comunali di Pistoia perché venga attuato l’impegno assunto il 24 gennaio compiendo subito l’ultimo passo necessario per ottenere la nomina del Garante dei Diritti dei detenuti per il Comune di Pistoia. Occorre però che ciò avvenga prima dello scioglimento dell’attuale Consiglio e prima delle elezioni amministrative del prossimo maggio. Rinviare la nomina del Garante, pur con plausibili motivazioni, alla nuova Amministrazione potrebbe costituire un pericolo e costoso ritardo per un atto che viene ormai considerato non solo opportuno ma ormai necessario in una situazione sempre più grave. La gravità di questa situazione è testimoniata anche da quanto affermato dagli aderenti al maggior sindacato di Polizia Penitenziaria, il Sappe, il 17 febbraio scorso, a seguito dell’ennesimo episodio di violenza verificatosi nel carcere di Lucca. Si dichiarano “preoccupati dell’escalation di violenza nelle carceri toscane e soprattutto dall’immobilismo dei vertici dell’Amministrazione delle carceri regionale”, ricordando le aggressioni degli ultimi tempi “avvenute nei penitenziari di Sollicciano, Porto Azzurro, Lucca, Pistoia e S. Gimignano”. Prime adesioni: Rita Bernardini, deputata radicale; Alfonso De Virgiliis, imprenditore, già candidato Presidente Regione Toscana per la Lista Bonino-Pannella; Matteo Angioli, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale; Irene Testa, segretaria Associazione radicale Il Detenuto Ignoto; Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone; Francesco Morelli, Ristretti Orizzonti; Giuliano Capecchi, Associazione Liberarsi. Piacenza: detenuto tenta di impiccarsi in cella, salvato da un agente Il Piacenza, 22 febbraio 2012 Nel pomeriggio di oggi un detenuto di origine magrebina ha tentato il suicidio alle Novate. A darne notizia è GIovanni Battista Durante, segretario generale del Sappe. "L'uomo, utilizzando le lenzuola, si è impiccato alle sbarre della finestra - spiega in una nota Durante - ma un agente, accortosi subito del gesto, ha aperto la stanza, è entrato e lo ha sollevato sulle spalle. Fortunatamente, in quel momento c'erano anche altri due detenuti nei pressi della cella che hanno aiutato l'agente". "L'uomo è stato adagiato a terra e sottoposto alle successive cure del medico chiamato immediatamente chiamato dall'agente che, con grande inutio e capacità professionali, è riuscito a salvare una vita all'interno delle affollate capacità professionali, è riuscito a salvare una vita all'interno delle affollate carceri italiane: un sovraffollamento da cui non è esente il carcere di Piacenza, dove ci sono circa 200 detenuti in più rispetto ai posti previsti". "La capacità dellì'agente di intercettare il disagio del detenuto - sottolinea Durante - ha fatto in modo che l'uomo non riuscisse a portare a termine il suicidio. Ricordiamo che sono più di mille i detenuti che gli agenti riescono a salvare ogni anno, nonostante le grandi difficoltà operative dovute alla carenza di personale e al sovraffolamento. Chiediamo che all'agente vengano adeguatamente riconosciute, attraverso la lode o altra ricompensa, le grandi doti umane e professionali dimostrate in quest'occasione". Pordenone: l’On. Manlio Contento incontra il ministro “il sito del nuovo carcere non si tocca” Messaggero Veneto, 22 febbraio 2012 “Il piano straordinario dell’edilizia carceraria resta inalterato. Così come il sito, confermato a Pordenone”. Il decreto svuota carceri approvato in via definitiva questa settimana alla Camera stanzia 52 milioni di euro per interventi di emergenza sia per strutture già in attività sia per adeguare le camere di sicurezza. Questo provvedimento non intacca il piano carceri (nel quale è ricompresa la nuova casa circondariale di Pordenone), documento che il ministro della Giustizia Paola Severino intende riprendere per mano a breve, come ha confermato al deputato pordenonese Manlio Contento tre giorni fa. Il decreto svuota carceri, dunque, non cambia le priorità di edilizia penitenziaria. Il 19 gennaio scorso nella Gazzetta ufficiale è stata pubblicata la nomina del nuovo commissario delegato al piano carceri, il prefetto Angelo Sinesio. Il 3 febbraio, inoltre, Giovanni Tamburini è stato nominato capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Il piano straordinario resta inalterato”, conferma l’onorevole Manlio Contento. Tre giorni fa ha incontrato il ministro della Giustizia: “Ha detto che intende vedere il piano carceri e che a breve farà le sue valutazioni”. Allo stato, quindi, Pordenone resta tra le nuove strutture prioritarie: “Nel sito indicato dal Comune di Pordenone”, puntualizza Contento, in Comina, nelle modalità concordate a suo tempo, quanto a contributi, ovvero compartecipazione statale (20 milioni su 40) e della Regione (altri 20 milioni) che non sono stati ancora previsti nei capitoli di bilancio dell’ente. La settimana scorsa, inoltre, la commissione Giustizia della Camera ha approvato un ordine del giorno che impegna i neonominati, Sinesio e Tamburini, a riferire alla stessa commissione la cui convocazione verrà fissata nei prossimi giorni. Quanto al decreto svuota carceri, dei 52 milioni stanziati non sono previsti finanziamenti per Pordenone, bensì per interventi di emergenza nelle strutture carcerarie già operative e per l’ammodernamento delle camere di sicurezza. Enna: Sappe; carcere allagato dalla pioggia, mentre nuova ala è ancora chiusa per lavori Agi, 22 febbraio 2012 Secondo il Sappe, sindacato della polizia penitenziaria che parla di “situazione gravissima”, nel carcere di Enna si sono allagati la caserma degli agenti di custodia, alcune celle, diversi locali, la biblioteca e la chiesa. Già nella notte era stato necessario spostare alcuni detenuti in altre celle, dove comunque sono in soprannumero. In alcuni locali si sono avuti anche corto circuiti a causa dell’acqua inflitratasi nell’impianto elettrico. La nuova ala del carcere, sottolinea il Sappe, rimane intanto chiusa per i lavori che vanno a rilento, mentre i detenuti sono costretti a vivere in celle anguste che si allagano ad ogni pioggia. Roma: Radicali; il 24 manifestazione per verità sulla morte di Marco Loggello Agenparl, 22 febbraio 2012 "Con la deputata Radicale Rita Bernardini accompagneremo, venerdì 24 febbraio mattina, dalle 10 alle 14, la manifestazione organizzata da Marco Logello, fratello di Massimo, morto lo scorso 30 gennaio nel carcere di Regina Coeli". Lo dichiara, in una nota, Irene Testa Segretaria dell'Associazione Radicale Il Detenuto Ignoto. "Secondo le dichiarazioni di Marco Loggello, - prosegue Irene Testa. Massimo non sarebbe stato curato in tempo mentre era detenuto, e i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi. Altro aspetto inquietante della vicenda, che è stata oggetto di un'interrogazione parlamentare della deputata Bernardini, riguarda il defibrillatore che, seppur presente nell'istituto, a testimonianza di alcuni detenuti, il medico non sarebbe stato in grado di far funzionare. Ogni decesso che avviene entro le mura di un istituto di pena italiano, al di là di se e quanto siano naturali le circostanze che lo determinano e se questo avrebbe potuto essere o meno evitato - e probabilmente non è questo il caso - costituisce la ricaduta più tragica della rovina del sistema di custodia penale nazionale, e uno dei sintomi sempre più drammatici del suo essere patologicamente fuori dalla legalità e dallo stato di diritto. Ci sembra utile ricordare - conclude Testa - che, anche da detenuti, si dovrebbe poter morire magari in ospedale o agli arresti domiciliari per incompatibilità col regime detentivo a causa di prognosi cliniche infauste, invece che, come nella maggior parte dei casi avviene, dentro una cella, o al più, nell'infermeria dell'istituto. Nel nostro trovarci profondamente ritrosi a dover accettare con rassegnazione le lesioni costantemente inferte ai diritti umanitari e civili di ogni cittadino detenuto, risiede il senso della nostro sostegno ai familiari di Massimo Loggello". Catanzaro, la verità rende liberi? Le risposte dei detenuti in “La mia vita è un romanzo” www.ntacalabria.it, 22 febbraio 2012 Sarà presentato in anteprima assoluta giovedì 23 febbraio, alle ore 15.30, presso la Casa circondariale di Catanzaro, “La mia vita è un romanzo”, il volume pubblicato dalla casa editrice catanzarese “Edizioni La Rondine” che ha voluto raccogliere i racconti frutto del laboratorio di scrittura creativa tenuto lo scorso anno nel carcere di Catanzaro. Protagonista dell’iniziativa, promossa con il sostegno dell’assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Catanzaro, è stato nei mesi scorsi l’attore e regista Eugenio Masciari, attivo dal 1972 sia in teatro che nel cinema e nella televisione al fianco di maestri del calibro di Giorgio Strehler, Nanni Moretti, Mario Monicelli e Roberto Benigni. All’interno del libro si possono scoprire le riflessioni sulla libertà, nascoste tra le mura di un carcere, da parte di ergastolani privati di qualsiasi beneficio e costretti a trascorrere in carcere il resto della loro vita. I partecipanti al corso di scrittura, superando i propri limiti concettuali e culturali, si tengono ben lontani dal raccontare la propria storia, ma parlano di libertà, giustizia, libero arbitrio, fisica quantistica e teologia, traendo spunto dal pensiero di Platone, Sofocle, Faust, Shakespeare, Gesù. “Il carcere è nell’essenza un’istituzione necrofila”, scrive uno degli autori, nella quale a dispetto di tutto “sopravvive l’amore per la vita”. Un’esperienza utile a porre all’attenzione dell’opinione pubblica le problematiche del reinserimento sociale dei condannati e del rispetto del principio di legalità. “A volte non è facile individuare un’iniziativa che non sia fine a se stessa - afferma Angela Paravati, direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro -, che non si ponga come mero intrattenimento o semplice distrazione. A volte le difficoltà sono molteplici e non sempre tutte interne all’istituzione carceraria, soprattutto in un momento quale quello attuale, in cui le innumerevoli criticità che attanagliano il mondo penitenziario rendono impossibile offrire valide opportunità ai soggetti detenuti senza l’apporto della società civile. Questa iniziativa ha voluto rappresentare un minimo contributo volto ad offrire a delle persone che hanno sbagliato la possibilità di intraprendere un percorso diverso, nell’obiettivo di aprire uno spiraglio al cambiamento in una dimensione progettuale e creativa”. Secondo la direttrice del carcere catanzarese “i racconti sono scritti non per far piacere ai lettori giocando con destrezza sull’emotività - prosegue - ma per il piacere e la voglia di esprimere le proprie opinioni. Sembra quasi che i momenti del corso si siano trasformati in momenti di incontro con opportunità terapeutiche, nell’apertura di spazi di pensiero e di accoglimento della sofferenza. Ed è sicuramente positivo che si abbia voglia di lottare per cambiare le cose ritenute ingiuste, per trovare la forza per alzarsi e avere la più importante rinascita”. Sugli spunti di discussione sollevati dal romanzo si avrà modo di dibattere in occasione della presentazione a cui porterà i propri saluti il presidente della Provincia Wanda Ferro. Interverranno, tra gli altri, l’Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, mons. Vincenzo Bertolone; il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, Maria Antonietta Onorati; il Provveditore regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu; l’assessore regionale alla Cultura, Mario Caligiuri; l’autore Eugenio Masciari. Durante l’evento l’attrice Anna Macrì del “Teatro di Calabria Aroldo Tieri” leggerà alcuni passi tratti dal volume. Televisione: domani a “UnoMattina” (Rai 1), storie vere di gioventù bruciata Italpress, 22 febbraio 2012 “Ragazzi con la pistola di chi è la colpa?”. Questo il tema di “Storie Vere”, condotto da Georgia Luzi e Savino Zaba, in onda all’interno di UnoMattina domani alle 10.00 su Rai1. Nella mini fiction di apertura, si parlerà di baby gang a Milano, con il racconto di uno dei ragazzi coinvolti. Il tema della puntata verrà affrontato poi, attraverso le storie in studio. La prima vede protagonista Luigi D’amore, zio di un ragazzo ucciso durante una rapina. A seguire la storia di Davide Cerullo. Il giovane dopo aver trovato la fede in carcere, ha scritto un libro per raccontare la sua esperienza. Infine l’esperienza di Eugenia Carpora preside di una scuola a Caivano, in provincia di Napoli, un territorio difficile in cui i giovani sono costantemente a rischio. Interverranno, in studio, Domenico Ferrara, giornalista de “Il giornale” e Melita Cavallo, Presidente del Tribunale dei Minori. Stati Uniti: Dipartimento di Giustizia; numero di stupri in carcere supera quello tra popolazione Vita, 22 febbraio 2012 Per la prima volta il Dipartimento di Giustizia americano ha pubblicato una stima ufficiale sugli abusi sessuali commessi nelle carceri Usa. I numeri relativi alle denunce effettivamente presentate erano molto bassi: nel 2008, per esempio, il governo aveva registrato 935 casi confermati di abuso sessuale. Dopo aver svolto indagini, ed eseguito alcuni calcoli, il Dipartimento di Giustizia è arrivato a un numero ben diverso: 216.000 vittime (non casi di violenza, ma vittime: molte di loro subiscono più abusi nel corso dell’anno). In base a questi inediti, sconvolgenti dati, il Dipartimento di Giustizia ha informato l’opinione pubblica americana del fatto che lo stupro in carcere rappresenta la maggioranza di tutti gli stupri commessi negli Stati Uniti, facendo degli Usa il primo paese nella storia del mondo a contare più stupri di uomini che di donne. Le vittime di violenza sessuale fuori dal carcere sono infatti circa 213mila l’anno, il 90% delle quali sono di sesso femminile. Indonesia: polizia seda rivolta in carcere Bali, 3 feriti Ansa, 22 febbraio 2012 Le forze di sicurezza sono intervenute stamattina all’alba in una prigione di Kerobokan, sull’isola indonesiana di Bali, dove sono incarcerati diversi cittadini australiani, dopo una rivolta che ha causato tre feriti. Lo rendono noto fonti di polizia. “Un centinaio tra poliziotti e militari sono penetrati nella prigione all’alba. Sono stati costretti ad aprire il fuoco e tre persone sono rimaste ferite alle gambe e ricoverate”, spiega un responsabile della polizia locale. La calma nel carcere è stata riportata verso le 7 ora locale (mezzanotte in Italia) ed i detenuto sono stati fatti rientrare nelle loro celle. I dodici detenuti australiani presenti nel carcere di Bali “sono sani e salvi”, ha specificato a Sydney un portavoce del ministero degli Esteri australiano. Honduras: Procuratore; accidentali cause incendio carcere Comayagua Adnkronos, 22 febbraio 2012 Il procuratore generale dell’Honduras, Luis Rubì, ha certificato la natura accidentale dell’incendio che ha provocato la morte di 360 detenuti nel carcere di Comayagua la notte del 14 febbraio. “L’incendio è stato un fatto puramente accidentale e non provocato da criminali”, ha dichiarato Rubi parlando con i giornalisti e citando anche l’esito delle indagini condotte da esperti locali ed americani. Il rapporto completo sulla tragedia, la peggiore che ha colpito un carcere del paese in tutta la sua storia, sarà pronto tra 15 giorni, ha concluso. Israele: oltre 500 palestinesi detenuti amministrativi, dieci sono bambini InfoPal, 22 febbraio 2012 l Centro palestinese per la difesa dei prigionieri ha rilasciato alcuni commenti sulla pratica israeliana delle detenzioni amministrative, provvedimenti illegali in base alla legislazione internazionale e ai principi della legge umanitaria. La detenzione amministrativa, senz’accusa e rinnovabile a oltranza, viene adottata da Israele per porre il detenuto in uno status indefinito dal quale potrebbe anche non uscirne mai più, perché essa viene applicata attraverso proroga anche per lunghi anni. Soprattutto, il detenuto non potrà mai difendersi da un’accusa perché un’accusa può non esserci. Oggi Israele detiene oltre 500 palestinesi in questa condizione, quindi in detenzione amministrativa, dieci sono bambini: anche contro di loro non ci sono capi di imputazione, ma rimangono in carcere, deprivati del diritto a una difesa legale; non saranno mai portati davanti a un giudice, quindi non saranno processati. “La detenzione amministrativa è una manifestazione della mentalità coloniale israeliana nei confronti del popolo palestinese; è arbitraria, viene applicata senza distinzione di alcun tipo e, soprattutto, è la prova delle smisurate violazioni di Israele alle leggi internazionali. Essa dimostra la brutalità delle pratiche dell’occupazione israeliana contro un intero popolo”, commentano dal Centro. Israele: anniversario (in carcere) di Abu Sisi, l’ingegnere “prelevato” da un treno ucraino di Leonard Berberi www.linkiesta.it, 22 febbraio 2012 Non sciopera. Non fa rumore. Non parla. Anzi, a dirla tutta: sembra quasi non esistere. Eppure esattamente da un anno è uno dei detenuti palestinesi più sorvegliati. “Fermato” in modo rocambolesco in Europa, fatto sparire per tre settimane, poi portato davanti a un giudice israeliano. Quindi rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Mentre si sospira per la fine dello sciopero della fame (dopo 66 giorni) di Khaled Adnan, c’è un altro protagonista delle carceri israeliane. Un uomo sul quale aleggiano misteri e contraddizioni. Si chiama Dirar Abu Sisi, ha 43 anni, una moglie (ucraina), sei figli che l’aspettano a casa, a Gaza City, e un lavoro alla centrale elettrica della Striscia. Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio 2011 Abu Sisi sparisce. Era salito da poche ore su un treno alla stazione di Kharkov, in Ucraina. Destinazione: Kiev, a 500 chilometri di distanza, dove l’aspettava il fratello, da 15 anni in Olanda. Ma nella capitale l’uomo non ci arriverà mai. Veronika, la consorte, inizia a parlare subito di un rapimento dei servizi segreti. Anzi, dice di più: “quelli del Mossad hanno preso mio marito”, denuncia. La donna passa giorni interi a parlare con giornalisti e diplomatici, politici e uomini dell’Intelligence ucraina. Ma niente. Fino a quando, tre settimane dopo, una domenica pomeriggio, arriva l’ammissione da parte israeliana: l’ingegnere palestinese è nelle mani dello Stato ebraico. In stato di detenzione. A rendere pubblico qualcosa di competenza dei servizi segreti di Gerusalemme è stato un giudice del tribunale di Petah Tikva (vicino a Tel Aviv): il togato autorizza soltanto la pubblicazione del fatto che Abu Sisi sia in una galera israeliana. Quanto alle ragioni, il silenzio assoluto. Passano i giorni. La famiglia del palestinese reclama il marito-padre a Gaza City. In Ucraina si chiedono come sia possibile che agenti dei servizi segreti stranieri vengano e facciano un pò quel che gli pare. Spunta anche una prima versione, ufficiosa, sui motivi del “rapimento”: l’uomo da mesi lavorerebbe alla costruzione di una bomba potente e sarebbe in contatto con 007 siriani, libanesi, iraniani. Si tratterebbe, poi, dello stesso Abu Sisi indicato come uno degli uomini di fiducia di Hamas e quindi vicino a chi detiene da quasi cinque anni il soldato israeliano Gilad Shalit. Elementi, indizi, sospetti, accuse. Quanto basta per convalidare il fermo. Poi il carcere. Intanto continuano le indiscrezioni. Raccontano, quelle voci, che Abu Sisi sarebbe stato prelevato un’ora dopo la partenza del treno ucraino da uomini vestiti con la divisa dell’ente ferroviario locale. L’operazione, tutta gestita dal Mossad, sarebbe scattata dopo l’ok delle autorità ucraine. L’ingegnere palestinese sarebbe poi stato portato all’aeroporto di Poltava, sempre un Ucraina. Una destinazione famosa già in passato per voli segreti con a bordo persone non meglio identificate. Arrivato in Israele, Abu Sisi sarebbe stato tenuto prima al centro di detenzione dello Shabak (il servizio di sicurezza dello Stato ebraico) di Petah Tikva, poi trasferito nella prigione di Shikma, vicino Ashqelon. Poi di Abu Sisi si perdono le tracce. Di nuovo. Nessuno parla o scrive dell’uomo prelevato da un treno in corsa in Europa. Fino a quando, su Shehab News Agency, un’agenzia stampa, non compare il racconto di un ex detenuto, ex vicino di cella di Abu Sisi e ora libero grazie allo scambio tra i carcerati palestinesi e Gilad Shalit. Rivela, il detenuto, quel che l’ingegnere di Gaza City gli avrebbe raccontato. “Sette uomini mi hanno ammanettato e bendato”, avrebbe detto Abu Sisi. “Mi hanno prelevato da un treno, mi hanno portato vicino Kiev, mi hanno fatto sedere su una sedia e poi mi hanno detto: “Sai chi siamo? Quelli dell’intelligence israeliana”. Poi ad Abu Sisi quegli uomini avrebbero tolto la benda. “Ho visto davanti a me Yoram Cohen”. Non è uno qualunque, Cohen. Di lì a qualche settimana diventerà il capo dello Shin Bet, i servizi di sicurezza dello Stato ebraico. Un numero uno “in pectore” che, in terra straniera (Ucraina), “sequestra” un cittadino e lo interroga. A chi di queste cose s’intende, la presenza di un uomo chiave della sicurezza israeliana sembra “altamente improbabile”: “Non è nella prassi dell’Intelligence dello Stato ebraico”, dicono. E comunque. Avrebbe raccontato ancora Abu Sisi: “Mi hanno fatto un sacco di domande su Gilad Shalit. Mi hanno chiesto conto dei miei rapporti con Al-Qassam, il braccio armato di Hamas”. Gli agenti israeliani avrebbero fatto le stesse domande per ore. “Mi hanno anche malmenato, mi hanno tirato schiaffi, calci e pugni”, avrebbe rivelato ancora l’ingegnere palestinese. “Sono andati avanti così per 5-6 ore”. L’indicazione temporale, a dire il vero, è una stima. L’uomo palestinese non aveva orologi o altro. La testimonianza finisce qui. Da Israele non hanno né confermato, né smentito. E restano ancora sconosciute le accuse, quelle vere. Anche se fonti qualificate si limitano a dire che l’accordo a cavallo tra settembre e ottobre 2011 per la liberazione di Gilad Shalit sarebbe avvenuto anche grazie ai “consigli” di Dirar Abu Sisi, l’ingegnere di Gaza City.