Giustizia: quanto vale la vita di un Uomo? E quanto invece vale la vita di un Uomo “in carcere” di Valeria Centorame Notizie Radicali, 20 febbraio 2012 Utilizzo sempre malvolentieri il termine detenuto o carcerato, perché si tende fin troppo spesso a generalizzare e dimenticare che dietro quell’appellativo ci sono uomini e donne…in carne ed ossa, rei e molto e troppo spesso innocenti. Nelle società organizzate, la vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto e questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come la pena di morte. Ma mentre si combatte giustamente la pena di morte fuori dai nostri confini, in Italia invece si continua a morire in carcere, DI carcere. E si continua a morire, abbandonati dalle istituzioni in una situazione drammatica di sovraffollamento e senza il rispetto dei minimi diritti fondamentali, quale il diritto alla salute, ed alla tutela della vita. È notizia invece di poche ore fa: “La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per indagare sulle presunte carenze nei pronto soccorso degli ospedali della capitale. Dagli accertamenti dei Nas emergono carenze e disfunzioni strutturali. Il ministro della Salute Renato Balduzzi ha chiesto una “relazione dettagliata” al presidente della regione Lazio Renata Polverini”. Nel frattempo in carcere, dove gli uomini e le donne non possono decidere autonomamente di avere accesso a cure mediche (le stesse cure che debbono essere garantite a tutti i cittadini), gli stessi uomini e donne se “reclusi” debbono compilare una “domandina” all’ufficio matricola per avere una visita medica, ed attendere ore, giorni a volte mesi. Sig. Ministro se chiedesse una relazione dettagliata sulle carenze strutturali della nostra sanità in carcere verrebbe a sapere che non si viene curati in terra come nei pronto soccorsi romani, non si viene curati affatto… mentre in terra tra ratti e scarafaggi ci si dorme! Infatti una delle paure più ricorrenti in carcere è proprio quella di ammalarsi, perché senza assistenza medica anche una semplice influenza potrebbe essere fatale. Quanto vale la vita di un Uomo? E quanto invece vale la vita di un Uomo “in carcere”? Sig. Ministro saprebbe poi sempre dalla relazione, che in carcere uomini e donne, colpevoli o semplicemente innocenti in attesa di giudizio, utilizzano i rasoi per depilarsi completamente per paura di attaccarsi pulci, zecche e piattole che in situazioni di promiscuità prolificano a non finire. Sig. Ministro saprebbe inoltre che in carcere il degrado, l’insalubrità, il sovrappopolamento delle strutture penitenziarie e persino l’impossibilità di garantire l’approvvigionamento di generi per la pulizia sono fattori che costituiscono l’humus ideale per lo sviluppo di malattie infettive e ci si ammala di tubercolosi, scabbia, epatite, meningite e legionella! Malattie infettive che il solo pronunciarle crea allarme sociale, preoccupazione e titoloni di giornale, ma se accade in carcere, beh... non ci fa caso nessuno, non fa notizia, tutto rimane relegato e rinchiuso dietro le mura medioevali degli istituti penitenziari tanto chiusi che non fuoriesce proprio nulla, figuriamoci un virus. Che provvedimenti intende prendere Sig. Ministro mentre nel frattempo in carcere si continua a morire? Perché si continua a morire molto e troppo spesso anche per “morte naturale” e se dal 14 giugno 2008 sono trasferite al Servizio sanitario nazionale tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dap e dal Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia, allora il Ministero della Salute È l’organo preposto affinché siano rispettati gli standard minimi promossi dall’Oms e quindi il responsabile della tutela della salute degli uomini e donne reclusi ed in custodia dello Stato, è proprio Lei, il Ministro della Salute! Il 2010 si è chiuso con 173 morti in carcere, di cui 66 suicidi, nel corso del 2011 sono stati 186 i morti tra i detenuti nelle carceri italiane, 66 i suicidi, 96 decessi per cause naturali, un omicidio e 23 casi da accertare. La loro età media non arriva a 40 anni (39,3). Sig. Ministro cosa c’è di “naturale” nel morire nel fiore dei propri anni? Quante di queste persone si sarebbero potute salvare? Quanto il sovraffollamento incide nella mancanza di cure e di tempestività degli interventi sanitari? Quanto vale la vita di un Uomo? E quanto vale invece la vita di un Uomo “ in carcere”? Sig. Ministro con una relazione dettagliata saprebbe che in carcere anche un semplice mal di denti si rivela un odissea di dolore, perché il dentista, come il medico, come lo psicologo sono insufficienti per garantire cure ad una popolazione quasi raddoppiata rispetto agli standard legali di capienza e nel frattempo si ha difficoltà ad avere accesso anche ad una semplice aspirina. “Qui funziona così, si dimentica di essere un uomo, si dimentica di avere diritti, si dimentica di avere un anima. Ed alla fine si accetta tutto questo perché fa parte del sistema, perché quando si varca quella soglia si entra in un mondo a parte dove non esiste più uno stato di diritto ed una società civile, si smette di essere persone in carne ed ossa e si diventa “detenuti” e basterà questo appellativo per perdere all’istante ogni diritto umano, che si sia colpevoli o meno”. E ripenso alle mille dichiarazioni e prese d’atto sul tema dei tanti politici, mi torna in mente ad esempio quella della Sig.ra Donatella Ferranti, deputata Pd in Commissione Giustizia della Camera, che cito testualmente “(Agenparl, 08 set) La tubercolosi in carcere “è inevitabile, visto il sovraffollamento e le condizioni quasi disumane in cui versano le nostre carceri” Un problema - spiega - che si è acuito anche con il fatto che il servizio sanitario nelle carceri è stato disgiunto dall’amministrazione penitenziaria e affidato poi alle Regioni”. Benissimo sig.ra Ferranti mi dico… allora visto che alle parole seguono i fatti… lei è d’accordo con il provvedimento di indulto ed amnistia chiesto a gran voce dai radicali, come apripista ad una sacrosanta ed inevitabile riforma della Giustizia? Perché sappiamo tutti che ne lo “svuota carceri” o “salva carceri” che dir si voglia risolverà questo immondo problema. Ma poi rileggendo con la dovuta calma ed attenzione, mi colpisce l’utilizzo dei termini, ci ripenso, rifletto e rileggo la parola “inevitabile”… ma come “inevitabile”?? Stiamo parlando della vita di uomini e donne. E sarebbe evitabilissimo se soltanto lo Stato rientrasse nella legalità, se soltanto si rispettasse la Costituzione che garantisce e tutela la salute e la vita dei cittadini. La Costituzione: la stessa che prevede l’amnistia, basterebbe solo questo, non umanità, non clemenza, ma il rispetto delle leggi e delle regole, o no? È proprio a partire dal potere del Ministro della salute di imporre la rimozione delle cause di malessere evitabile nei confronti dei cittadini detenuti. Tutto ciò è e deve essere evitabile. Quanto vale la vita di un Uomo? E quanto vale invece la vita di un Uomo “in carcere”? In un paese civile il Ministro della Salute, una Commissione d’inchiesta, i Nas dovrebbero occuparsi di “tutto ciò”. Perché un paese civile non si rassegnerebbe ad utilizzare il termine “inevitabile”! In un paese civile la magistratura stessa aprirebbe un inchiesta sul trattamento inumano che si subisce nelle nostre carceri. Un’inchiesta proprio come quella aperta dopo le denunce dei giornali e le foto sulle carenze strutturali del pronto soccorso, oppure la vita di un uomo in carcere ha meno valore? E la magistratura Sa che per quanto riguarda la carenza di cure mediche ed il sovraffollamento che porta anche alla morte. Il reato esiste ed è previsto all’interno del nostro codice penale, perché anche se l’Italia non ha mai introdotto (ancora) il reato di Tortura all’interno del codice penale, il reato esiste e viene ben descritto da Tullio Padovani, ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore di Studi Universitari Sant’Anna di Pisa: “È La tortura accettata come una normalità. Una normalità che diventa normativa e che si fa regola in qualche modo, e si fa regola ad esempio attraverso quella strana formula che è la “capienza tollerabile degli istituti penitenziari”. In realtà non si tratta di una situazione normativa, non si tratta di una situazione che sia regola, ma è una situazione che ha un altro nome. Chiaro, univoco, indiscutibile: si chiama delitto di maltrattamenti in base all’art. 572 del codice penale”. Perché in un paese civile la vita di un uomo “avrebbe” lo stesso infinito valore. Amnistia per la Repubblica. Giustizia: l’Italia tortura… di Mauro Palma Il Manifesto, 20 febbraio 2012 Il divieto assoluto di ricorrere alla tortura trova in Italia un’estrema chiarezza teorica ma, di contro, nessuna corrispondenza pratica. Quando nell’aprile 2005 le Nazioni unite decisero di istituire uno speciale Rapporteur con il compito di proteggere i diritti umani nella lotta contro il terrorismo internazionale, gli stati europei salutarono positivamente un elemento ulteriore di analisi che si affiancava agli strumenti di controllo già da tempo in vigore, in particolare attraverso l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura. Si riaffermò così il principio che nessuna situazione d’eccezione può far derogare dal divieto assoluto di ricorrere alla tortura: inaccettabile sul piano della comune percezione di civiltà giuridica, inammissibile nella simmetria che stabiliscono tra azione dello stato di diritto e pratiche delle organizzazioni criminali, foriera di gravi distorsioni dell’azione di giustizia, tale è la forza verso l’adesione a qualsiasi ipotesi dell’accusa che la sofferenza determina. Il divieto assoluto era già del resto in convenzioni e patti internazionali su cui i paesi democratici hanno ricostruito la propria legalità ordinamentale dopo le tragedie della prima metà del secolo scorso. L’Italia, spesso inadempiente sul piano degli impegni conseguenti, quali per esempio la previsione dello specifico reato di tortura, ha sempre dichiarato la sua ferma adesione ai principi in essi contenuti. Eppure, solo negli ultimi quindici giorni sono emersi ben tre casi - diversi nel tempo e nella specificità dei corpi di forze dell’ordine che hanno operato - che fanno capire tale distanza. Asti, 2012 Ad Asti, il tribunale ha emesso il 30 gennaio una sentenza in cui, qualificando i maltrattamenti inferri da agenti della polizia penitenziaria nei confronti di due detenuti come “abuso di autorità contro arrestati e detenuti” ha dichiarato prescritto il reato. L’esito non stupisce perché non è il primo in tale direzione; colpisce però la chiarezza con cui il giudice scrive nella sentenza che “i fatti in esame potrebbero agevolmente essere qualificati come tortura” (risparmio ai lettori la descrizione puntuale dei maltrattamenti subiti dai detenuti), ma che il reato non è previsto nel codice e, quindi, il tribunale non può che far ricorso ad altre inadeguate tipologie di reato. Nessun dubbio, quindi, sugli atti commessi e provati in processo, peraltro confermati da intercettazioni di chiacchierate telefoniche tra gli imputati. Ad Asti la tortura è avvenuta, ma non è perseguibile adeguatamente. Calabria, 1976 Dall’altro capo della penisola, in Calabria, la Corte d’Appello tre giorni fa ha assolto, in un processo di revisione, Giuseppe Gulotta dopo ventidue anni di carcere, trascorsi sulla base di un processo centrato sulla testimonianza di un presunto correo, che aveva portato all’incriminazione anche di altri due giovani. Il fatto era del lontano gennaio 1976, Gulotta aveva allora 18 anni, e il processo ha avuto la revisione solo perché un ex brigadiere dei carabinieri, all’epoca in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli, ha raccontato quattro anni fa che la testimonianza era stata estorta con tortura. E con torture erano state estorte anche le confessioni dello stesso Gulotta: il sistema doveva essere stato ben convincente (lo stesso ex brigadiere li definisce “metodi persuasivi eccessivi”) ed era maturato all’interno dell’Arma nel tentativo d’incastrare esponenti della sinistra - si diceva allora extraparlamentare - nella morte di due carabinieri. La vicenda ha avuto anche un altro esito inquietante: perché il presunto correo, che aveva poi cercato di scagionare gli accusati, venne trovato impiccato in cella in una situazione che definire opaca vuol dire eufemizzare; gli altri due accusati nel frattempo erano riusciti a riparare in Brasile. Il caso “De Tormentis”, 1978 Mercoledì scorso, la ricerca di scavare in casi non risolti che viene condotta da “Chi l’ha visto” ha portato nella calma atmosfera serale delle famiglie la drammatica e torbida vicenda di gruppi speciali che operavano gli interrogatori verso la fine degli anni Settanta di appartenenti o simpatizzanti della lotta armata. Enrico Triaca ha raccontato la sua storia e le torture subite nel maggio 1978, dopo il suo arresto in una tipografia romana come fiancheggiatore delle Br: le torture vennero inflitte non da un agitato poliziotto a cui la situazione sfuggì di controllo ma da un gruppetto all’uopo predisposto, coordinato da questo signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname “De Tormentis”, osceno come il suo operare. Triaca, sparito per una ventina di giorni dopo il suo arresto, aveva denunciato immediatamente le torture subite, ma il giorno successivo alla denuncia aveva ricevuto il mandato di cattura per calunnia - l’allora capo dell’ufficio istruzione Achille Gallucci era un tipo veloce - e la conseguente condanna. Sarebbe una bella occasione la riapertura del processo per calunnia, ora che si sa chi si cela dietro quel nickname. Si sa che questi si definisce un nobile servo dello stato, che non nega ma inserisce il tutto in una sorta di necessitata situazione. Egli, sia pure con qualche successivo passo indietro, conferma. Così come già qualche anno fa un altro superpoliziotto, Salvatore Genova, in un’intervista al Secolo XIX, aveva confermato che torture erano state inflitte alle persone arrestate nell’ambito dell’indagine sul sequestro Dozier, operato in Veneto dalle Br qualche anno dopo. Allora Genova era stato indicato come oggetto di calunnia, qualcuno (il Partito Socialdemocratico, strano esito dei nomi) gli aveva dato l’immediato salvacondotto della candidatura in Parlamento, e anche se in quel caso un’inchiesta aveva contrariamente al solito, accertato fatti e responsabilità, nessuno aveva pagato; anche perché il reato che non c’è oggi non c’era ovviamente neppure allora. Ma, il tutto era stato sempre riportato al caso isolato, alla sbavatura in un contesto in cui si affermava e si ripeteva che la lotta armata era stata affrontata e sconfitta senza mai debordare dal binario del rigoroso rispetto della legalità. Questo riandare indietro di qualche anno, dal caso Dozier al caso Moro, e ritrovare stesse pratiche, stessi nomi, un gruppetto all’uopo utilizzato - “prestato” alla bisogna da Napoli al nord - ben noto a chi aveva allora alte responsabilità, dà un’ altra luce al tutto. La tortura è una pratica “sistemica” Del resto i tre fatti riportati, proprio perché hanno diverse determinazioni di territorio, di tempi in cui sono avvenute, di corpi che hanno operato, forniscono uno scenario inquietante nel rapporto che il nostro paese ha con la tortura: chi ha pratica di ricerca scientifica o sociale sa che l’ampiezza di più parametri fa passare la valutazione di quanto osservato da “episodico” a “sistemico” e cambia quindi la modalità con cui valutare il fenomeno. Interroga per esempio, in questo caso, sulle culture formative di chi opera in nome dello stato, sulle coperture che vengono offerte, sull’assenza infine, da parte delle forze politiche e culturali del paese, di una riflessione più ampia su come questi fatti siano indicatori della qualità della democrazia. L’atteggiamento della loro negazione o della loro riduzione a fatti marginali è di fatto complice del loro perpetuarsi e dell’affermarsi implicito di un principio autoritario come costruttore dell’aggregato sociale a totale detrimento dello stato di diritto. Per questo va rifiutata l’impostazione che da sempre alcuni politici e alcuni procuratori hanno avuto nell’affermare senza velo di dubbio che l’Italia, anche in anni drammatici, non ha operato alcuna rottura della legalità: per questo già trent’anni fa alcuni di noi - penso all’esperienza della rivista Antigone che uscì come supplemento a questo giornale - avviarono una serrata critica alla logica e alla cultura, oltre che alle pratiche, di quella che allora era definita “legislazione d’emergenza”. Spataro, Battisti e la magistratura Anche recentemente - esattamente un anno fa, il 19 febbraio, in occasione del dibattito attorno alla estradibilità di Battisti - il procuratore Spataro si fece carico di riaffermare su queste pagine che “l’Italia non ha conosciuto derive antidemocratiche nella lotta al terrorismo” e che “è falso che l’Italia e il suo sistema giudiziario non siano stati in grado di garantire i diritti delle persone accusate di terrorismo negli anni di piombo”. Oggi, credo, che tali asserzioni, figlie della negazione della politicità del fenomeno di allora, debbano essere riviste. Perché noti è possibile che ciò che avveniva e avviene nel segreto non sia noto a chi poi interroga un fermato o lo visita in cella. Non era possibile allora e non è possibile nei casi di maltrattamento di oggi. Il tribunale di Asti, per esempio, è severo con il direttore di quel carcere, le cui dichiarazioni sono definite a tratti “inverosimili”. E il magistrato che raccolse le testimonianze accusatrici di Gulotta come indagò sulle modalità con cui esse erano state ottenute? Così come i magistrati che videro Triaca e ascoltarono le sue affermazioni, non appena ricomparso dai giorni opachi, quale azione svolsero per comprenderne la fondatezza? La responsabilità, almeno in senso lato, non è solo di chi opera, ma anche di chi non vede e ancor più di chi non vuole vedere. Perché la negazione dell’esistenza di un problema non aiuta certamente a rimuovere ciò che lo ha determinato e apre inoltre la possibilità dimettere sotto una luce sinistra ogni altra operazione, anche quelle di chi - fortunatamente la larga maggioranza - ha agito e agisce nella piena correttezza. In un articolo di ieri su Repubblica, Adriano Sofri ricordava come molte di queste storie fossero note, almeno sfogliando i rapporti per esempio di Amnesty o anche le stesse denunce avvenute in Parlamento. È vero, ma credo che tra un “io so” detto secondo la pasoliniana memoria e una esibita dichiarazione da parte di chi in tal senso operò, ci sia una distinzione sostanziale: una distinzione tale da rendere inaccettabile il silenzio o il perdurare in una logica che nulla è accaduto e nulla accada. Oggi il continuare a negare il problema non aiuta a chiudere il passato in modo politicamente ed eticamente accettabile e utile, né a capire quali antidoti assumere per il suo non perpetuarsi. Giustizia: detenuto 21enne si impicca San Vittore; aveva denunciato violenze, scoppia polemica Redattore Sociale, 20 febbraio 2012 La sua richiesta di arresti domiciliari era stata respinta. Era in carcere da 4 mesi in attesa di giudizio. Da inizio anno 10 suicidi e 24 “morti di carcere” in totale. Sale a quota dieci il numero di suicidi nelle carceri italiane in questo inizio di 2012. In meno di due mesi si contano già, in complesso, 24 “morti di carcere”, di cui 10 per cause ancora da accertare. Quello di Alessandro Gallelli è l’ultimo nome ad aggiungersi alla lista: 21 anni, si è tolto la vita sabato sera nella sua cella del carcere di San Vittore, dove era recluso in attesa di giudizio con un’accusa di violenza sessuale. Nei quattro mesi di detenzione aveva, a più riprese, denunciato violenze. La sua storia è resa nota, ancora una volta, dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Gallelli aveva sulle spalle quattordici i capi di imputazione, tra cui violenza sessuale e molestie ai danni di ragazze minorenni. Sarebbero state proprio queste accuse a rendere la sua vita all’interno del carcere un inferno: “Il pestaggio è un triste classico del codice che vige in prigione nei confronti di chi è imputato di reati sessuali” si spiega dall’Osservatorio. Ma i vertici di San Vittore garantiscono che il giovane era in isolamento e che non poteva essere vittima di pestaggi o percosse. Inoltre, era seguito da medici specialisti e si sarebbe ucciso subito dopo una seduta psichiatrica. “Sono sconcertato per quanto di terribile è successo - afferma l’avvocato Giuseppe Lauria, del foro di Milano -. Fin da subito avevo presentato istanza di scarcerazione con richiesta di arresti domiciliari a casa dei nonni”. Richiesta respinta. “Dopo l’emissione di rigetto - riferisce ancora l’avvocato -, il padre mi aveva revocato il mandato di conferimento, ma questa vicenda mi era rimasta a cuore. Non vi erano, a mio parere, gravi indizi di colpevolezza e Alessandro era incensurato”. Secondo Lauria la negazione dei domiciliari “ha significato agire con troppa leggerezza”. E aggiunge: “Alessandro è una delle tante vittima di questo malcostume giudiziario di italica abitudine: si ricorre alla carcerazione in maniera del tutto indiscriminata”. Nessuna dichiarazione da parte della famiglia, ma è ancora l’avvocato a riferire che “lo ha sempre considerato innocente, lottando per la sua scarcerazione: era una ragazzo dal temperamento non facile, ma non certo un delinquente”. Intanto sul fatto si è aperta un’inchiesta ed è stata disposta l’autopsia. Gup venerdì scorso aveva deciso per accertamenti psichiatrici (Ansa) Venerdì scorso, un giorno prima che Alessandro Gallelli, 21 anni, si uccidesse impiccandosi nel carcere di San Vittore, il gup di Milano, Paola Di Lorenzo, aveva deciso di disporre una perizia psichiatrica nell’ambito del processo con rito abbreviato che lo vedeva accusato di violenza sessuale, stalking e atti osceni in luogo pubblico. È quanto è emerso da fonti giudiziarie. Il pm di turno Giovanni Polizzi ha aperto un fascicolo di inchiesta senza al momento ipotesi di reato né indagati su quanto accaduto a San Vittore sabato scorso, quando Gallelli si è impiccato utilizzando una felpa nella cella dove era detenuto da solo nel reparto psichiatrico del penitenziario. Da quanto si è saputo, al momento non risultano denunce su presunti episodi di violenza che potrebbe aver subito in carcere. Il giovane era stato arrestato nell’ottobre del 2011 nell’ ambito di un’inchiesta del pm Daniela Cento e su ordinanza firmata dal gip Micaela Curami. Al giovane venivano contestati 14 capi di imputazione per reati che vanno dalla violenza sessuale allo stalking. A gennaio il Tribunale del Riesame aveva respinto una richiesta di arresti domiciliari avanzata dalla difesa, così come aveva fatto il gip in precedenza. Si è arrivati dunque al processo con rito abbreviato davanti al gup Di Lorenzo che venerdì scorso ha deciso di disporre una perizia psichiatrica per valutare le condizioni mentali del giovane. Il pm Polizzi intanto ha deciso di acquisire una relazione dal carcere e la cartella sanitaria del Policlinico dove il giovane è arrivato agonizzante e poi è morto. Si è saputo anche che nel marzo dello scorso anno Gallelli era stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio che aveva evidenziato alcuni disturbi di asocialità. Medici: non erano emersi rischi, perizia doveva valutare sua compatibilità con carcere (Ansa) Dalle visite psichiatriche a cui era sottoposto Alessandro Gallelli, il giovani di 21 anni che si è suicidato sabato scorso nel carcere di San Vittore, non erano emersi rischi di comportamenti autolesionistici. È quanto emerge dai primi accertamenti nell’ambito dell’inchiesta sull’accaduto, aperta dal pm di Milano Giovanni Polizzi. La perizia psichiatrica, disposta dal Gup Paola Di Lorenzo venerdì scorso, avrebbe dovuto valutare proprio, oltre alla capacità di intendere e di volere dell’imputato, anche la compatibilità col carcere in relazione alle sue condizioni mentali. Gallelli si trovava nel reparto di psichiatria di San Vittore dal gennaio scorso, dopo che nei mesi precedenti (era stato arrestato a ottobre 2011) aveva mostrato, da quanto si è saputo, comportamenti aggressivi. Lo stesso Gallelli aveva chiesto di essere trasferito. Anche nel corso di un’udienza del processo aveva avuto un atteggiamento aggressivo e anche per questo il giudice aveva ordinato la perizia. L’uomo era accusato di diversi episodi di violenza, come palpeggiamenti e molestie, nei confronti di alcune donne, anche contattate su Facebook e la sua aggressività si era mostrata anche in un’altra occasione quando aveva gettato un televisore fuori dalla finestra della sua casa. L’autopsia disposta dal pm verrà effettuata domani. Direzione San Vittore: non ci risulta che suicida possa essere stato vittima di violenze (Tm News) “Lo escludiamo, non ci risulta che possa essere stato vittima di abusi o violenze, siamo esterrefatti e affranti per quanto è accaduto, è un fatto che ci sta distruggendo anche perché non sembrava essere un soggetto a particolare rischio e nei giorni precedenti non aveva manifestato segnali che potessero far presumere un fatto come questo”. I vertici della casa circondariale di San Vittore a Milano, smentiscono che Alessandro Gallelli, il detenuto che si è suicidato sabato scorso nel penitenziario milanese di San Vittore, sia stato vittima di percosse da parte di altri detenuti come sembra che il giovane abbia raccontato ai genitori. Gallelli aveva compiuto 22 anni il settembre scorso e si trovava a San Vittore dal 21 ottobre 2011 con la pesante accusa di violenza sessuale e molestie ai danni di ragazze minorenni. Secondo quanto è possibile apprendere il giovane sarebbe stato trovato impiccato con la giacca della tuta sportiva che indossava intorno alle 17.30 nel reparto di psichiatria (dove era stato portato per una seduta con lo psicologo) e malgrado i ripetuti interventi da parte dei medici e dei soccorritori di rianimarlo è deceduto circa un’ora dopo all’ospedale Policlinico. Nel gennaio scorso, l’istanza di scarcerazione con la richiesta degli arresti domiciliari presentata dal suo legale era stata respinta. Prima di questo caso, l’ultimo suicidio nel vecchio penitenziario che sorge nel centro di Milano, risaliva al 15 gennaio 2010, quando il 25enne Mohamed El Aboubj morì per aver inalato il gas della bomboletta da campeggio usata per alimentare il fornelletto della sua cella. Ferrante (Pd): 10 suicidi in 90 giorni, contro collasso serve anche amnistia (Il Velino) “L’ennesimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane, il decimo in 90 giorni, ripropone con forza la situazione drammatica degli istituti di pena nel nostro Paese, e le relative condizioni in cui vivono i reclusi e lavorano gli operatori. Non facciamoci distrarre da arditi progetti di carceri in project financing, ma affrontiamo con coscienza la strada percorribile e inevitabile del ricorso alle pene alternative e a forme di amnistia”. Lo dice il senatore del Pd Francesco Ferrante, in merito al suicidio di un ragazzo 21enne, rinchiuso nel carcere di San Vittore, che si è tolto la vita impiccandosi. “L’auspicio è che questo Governo - continua Ferrante - si dimostri più attento del precedente alla portata della strage silenziosa che si aggiorna drammaticamente tra le mura delle carceri italiane: dal 2000 al 20 febbraio 2012, secondo i dati dell’associazione Ristretti Orizzonti, sono 702 i suicidi dei detenuti, oltre a quelli del personale di guardia, che ha visto solo nelle ultime 48 ore due guardie carcerarie togliersi la vita. Mi auguro che la mia ventesima interrogazione della legislatura sulla situazione descritta riceva finalmente risposta dal Ministro Severino, cui chiedo di riferire sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere e nei Cie in modo che possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle, invece, avvenute per cause sospette. Chiedo anche al Ministro - conclude Ferrante - se non ritiene ormai indispensabile e urgente ricorrere a forme di pene alternative e di amnistia per garantire un’immediata riduzione dell’affollamento delle carceri italiane, ormai al collasso.” Papa (Pd): un suicidio ogni 5 giorni, stato in flagranza di reato, urge amnistia (Adnkronos) “Ormai siamo di fronte ad un bollettino di guerra quotidiano. Dieci suicidi accertati dall’inizio dell’anno significa un suicidio ogni cinque giorni. Uno Stato democratico e civile può permettersi tutto questo?”. A chiederlo è il deputato del Pdl Alfonso Papa, commentando la morte di un detenuto nel carcere di San Vittore, “una vicenda - sottolinea - sulla quale occorrerà fare chiarezza”. “In Italia - continua l’onorevole Papa - non esiste la pena di morte, ma si muore di pena. Nel 42% dei casi, poi, ad essere ristretti in cubicoli mortiferi sono persone in attesa di giudizio, proprio come Gallelli, l’uomo suicida a San Vittore, ventiduenne e incensurato”. ‘Il decreto cosiddetto svuota carceri - secondo il deputato Pdl - non svuota un bel niente, e lo sappiamo tutti. Chi ha vissuto sulla propria pelle questa pena nella pena ha il dovere della memoria e della denuncia, innanzitutto a nome di tutti quelli che “sono suicidati” dallo Stato italiano. L’amnistia - conclude Papa - rappresenta il primo passo per interrompere la flagranza di reato da parte dello Stato”. Orlando (Pd): ennesimo suicidio dimostra opportunità intervento governo (Agenparl) “L’ennesimo suicidio in un carcere italiano, il decimo dall’inizio di quest’anno, dimostra la drammatica situazione che vivono i detenuti e l’opportunità dell’intervento che il governo ha promosso nei giorni scorsi con il decreto salva-carceri. Purtroppo episodi come questo svelano tutta la strumentalità di chi ha tentato di speculare sulla paura dei cittadini per squallide esigenze di propaganda”. Lo dichiara Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd. Sappe: il pestaggio di chi è imputato di reati sessuali non è un “classico” (Dire) “Abbiamo tutti il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari del detenuto di 21 anni Alessandro Gallelli che è morto suicida nel carcere milanese di San Vittore, come lo abbiamo per tutti coloro che hanno perso un proprio caro detenuto. Ma sono gravi le affermazioni dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere laddove sostiene che “il pestaggio è un triste classico del codice che vige in prigione nei confronti di chi è imputato di reati sessuali”. A dichiararlo è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, rispetto alle dichiarazioni odierne alla stampa dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere circa il suicidio a Milano S. Vittore di un detenuto 21enne. “Quali prove ha l’Osservatorio per formulare tali gravi considerazioni? - si legge nella nota. Il carcere non è un luogo terra di nessuno, dove ognuno può fare ciò che vuole. E la Polizia penitenziaria garantisce ordine e sicurezza nonché la tutela di tutti i detenuti, tanto più se imputati o colpevoli di reati a sfondo sessuale. Non è questo il momento delle opinioni o dei giudizi ma quello che la Magistratura accerti - come sempre con serenità, equilibrio ed obiettività - gli elementi di cui è in possesso per fare luce anche su questa morte in carcere. Ma è chiaro che il contenuto di certe dichiarazioni e di certi articoli di stampa sono inaccettabili, tanto più quando tendono a sminuire il fondamentale contributo quotidianamente svolto dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria per garantire nelle carceri italiane ordine, sicurezza ed ogni tutela alle persone private della libertà”. Giustizia: Capece (Sappe); sì all’amnistia, il sistema carcere è una bomba pronta ad esplodere Notizie Radicali, 20 febbraio 2012 L’amnistia è un provvedimento necessario, il sistema carcere è una bomba che può esplodere da un momento all’altro. Il mondo politico a parte i radicali, è indifferente, latitante. Parla Donato Capece, segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria Sappe. “Siamo fortemente preoccupati per la situazione che si è creata. Il carcere, che sicuramente cambia la vita a tutti coloro che vi vengono rinchiusi, finisce con il raccogliere le tensioni, paure, drammi che finiscono con lo scaricarsi sull’agente di polizia penitenziaria” Il Parlamento ha approvato dei provvedimenti... “Piccoli palliativi, non sono assolutamente sufficienti. Il problema va affrontato alla radice. Bisogna avere la consapevolezza che nel carcere si muore, per abbandono, inedia, stress...”. Detenuti che si tolgono la vita, agenti di custodia che si suicidano… “Proprio l’altro giorno un collega impegnato nel suo tempo libero nella banda musicale del corpo della polizia penitenziaria, una persona splendida, non ce l’ha fatta più, e si è tolto la vita”. L’ennesimo suicidio… “Ormai non si contano più, anche tra gli agenti della polizia penitenziaria. Da tempo abbiamo chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di istituire i punti di ascolto psicologici; ma soprattutto occorre porre mano a riforme strutturali. Il carcere è un sistema che esplode, non può continuare a essere il contenitore dove buttare dentro tutto quello che non ci piace; ma sono questioni e problemi che a quanto pare non interessano a nessuno, a parte Marco Pannella, Rita Bernardini, i Radicali…”. Riforme strutturali, diceva… “Il carcere è una polveriera che può esplodere da un momento all’altro. Noi chiediamo aiuto. E sì, a questo punto, l’amnistia è necessaria, primo passo di una serie di riforme indispensabili”. Insomma, tante parole, pochi fatti… “Non ci stancheremo di denunciare la sostanziale indifferenza del mondo politico. Il 22 febbraio incontriamo il ministro della Giustizia Paola Severino. Le chiederemo quali altre iniziative vuole porre in essere per deflazionare il sistema carcere. E con i colleghi delle altre organizzazioni sindacali stiamo studiando forme di lotta per evidenziare la situazione. E saranno clamorose”. Giustizia: Gilberto Corbellini; con la chiusura degli Opg si rischia la riapertura dei manicomi? Notizie Radicali, 20 febbraio 2012 Storico della Medicina, studioso di Biotetica ed Epistemologia Medica, docente all’Università della Sapienza di Roma, collaboratore del supplemento culturale del “Domenica del Sole 24 Ore”, Gilberto Corbellini da sempre è a fianco dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca. Tra i suoi ultimi libri: “Ebm. Medicina basata sull’evoluzione” (2007); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia” (con Giovanni Jervis, 2008); “Perché gli scienziati non sono pericolosi” (2009); “Scienza, quindi democrazia” (2011). “Radio Radicale” lo ha intervistato. All’interno del cosiddetto “decreto svuota-carceri” approvato dal Parlamento, c’è un provvedimento sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, di cui è prevista la chiusura entro il 1 febbraio 2013. Entro quella data gli internati dovranno essere trasferiti in “Strutture Psichiatriche Residenziali”. Per garantire la sicurezza si prevede quella che viene definita un’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza ma esclusivamente esterna; all’interno il personale invece dovrà essere esclusivamente sanitario. C’è chi, come “Stop Opg”, pur essendo favorevole all’abolizione, ha espresso riserve. e riserve rispetto al provvedimento, e teme che si finisca con il ricostituire, a più di trent’anni di distanza dalla legge 180, si analoghe strutture: brutalmente, i manicomi o quello che definiscono il “paradigma manicomiale”. Lei di questi “paradigmi”, nel libro con Jervis si è occupato. Razionalità negata. Psichiatria e Antipsichiatria in Italia”. Cosa intendono gli esponenti di “Stop Opg” quando parlano di “paradigma manicomiale”? Quale è il retroterra storico-culturale di queste posizioni? “Si possono distinguere due livelli. Uno era sacrosanto, una battaglia di civiltà, cioè il superamento dei manicomi e della concezione di tipo reclusivo nella gestione della malattia mentale, per come era stata gestita nel mondo occidentale dalla fine del 1700 in poi. Infatti queste strutture sono giustamente state chiuse e superate. Il problema è la tesi sulla base della quale c’è stato questo superamento, che ha caratterizzato la battaglia antipsichiatrica di Franco Basaglia e della sua scuola; e cioè che la malattia psichiatrica non esiste o che comunque i disordini del comportamento non sia un problema del quale la medicina si debba interessare, ma sia piuttosto il prodotto di fattori legati al disagio sociale ed economico, con conseguente negazione della possibilità di avere un approccio medico al problema. È evidente che si scontrano due punti di vista. Ignazio Marino è un medico, e si pone il problema di come far si che persone che hanno commesso dei reati connessi al proprio stato mentale, a causa di problemi dei quali oggigiorno abbiamo conoscenza medica, non siano messe nelle condizioni di non poter guarire o comunque migliorare la propria condizione. Dall’altra parte c’è la negazione tout court della possibilità di identificare in termini clinici dei problemi legati a comportamenti che possono avere una manifestazione antisociale o di pericolosità sociale. Il problema non è parlare di malattia mentale e di pericolosità sociale ad essa associata in generale: la malattia mentale non esiste in sé, ma esistono malattie particolari legate a disturbi del comportamento che possono portare delle persone ad avere, in determinate condizioni, comportamenti socialmente pericolosi. Ritengo che questo sia un problema che la politica deve affrontare”. Uno degli esponenti di “Stop Opg”, Peppe Dell’Acqua, direttore del Dsm di Trieste, in un documento, sostiene: “Siamo certamente debitori del nostro assetto genetico e somatico, e tuttavia acquista un valore prevalente quello che ci accade in termini economici, sociali, relazionali e culturali nel corso della vita. Ad occuparsi non di malattia mentale ma di persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale sono chiamati operatori professionali di diversi profili ed operatori cd naturali ( maestri, operai, sportivi, gente ordinaria). I luoghi della cura, non più specifici e dedicati, sono i luoghi della normalità, i contesti di vita, le istituzioni sanitarie, sociali e giudiziarie, che a tutti i cittadini, in un modo o nell’altro, accade di attraversare nel corso della loro vita. Il carcere è una di queste, anche il carcere”. Questa lettera si collega in qualche modo alla negazione del fatto che esista una malattia da curare in contesti specifici… “Questa è una visione utopica, e le utopie producono solo danni nel momento in cui si tenta di metterle in pratica. Come se un familiare con un basso livello di istruzione o un paesino o di un quartiere periferico di Roma possano concorrere secondo una logica idealistica alla cura di individui che invece hanno una necessità in molti casi di un supporto farmacologico, proprio perché il loro cervello non risponde adeguatamente alle situazioni relazionali o agli stimoli sociali che invece le altre persone, prive di quel genere di problema, affrontano dando luogo ad altri tipi di comportamento. Queste persone hanno bisogno di trattamenti adatti alla loro specifica condizione, non si può generalizzare pensando che ogni forma di disturbo che noi possiamo avere possa essere curata a prescindere da un’analisi della condizione clinica particolare; per fare questo ci vogliono degli specialisti che agiscono sulla base di esperienze che sono state valutate, e non sulla base di esperienze che hanno riguardato magari dei contesti privilegiati e molto particolari, non generalizzabili. Quello che è stato fatto a Trieste, seppure molto importante, a mio parere, per una serie di evidenti ragioni non può essere esportato universalmente: se già andiamo a vedere nel sud Italia ci rendiamo conto di quali sono state le pesanti conseguenze che la legge Basaglia ha portato alle famiglie dei malati. Non viviamo in un mondo ideale, e questa considerazione differenzia tale approccio da quello di Marino. Anche nel caso di Marino, tuttavia, vorrei vedere quanto verrà calato di queste buone intenzioni; chi imposterà il tipo di organizzazione ed il tipo di servizi che verranno forniti in queste strutture. Certamente in Italia non mancano le persone che sarebbero capaci di farlo, ma dobbiamo rivolgerci a professionisti che stiano il più possibile al di fuori di queste dispute ideologiche. Paventare il ritorno ai manicomi nell’Italia di oggi è insensato, il problema è avere delle strutture sanitarie che possano aiutare persone che, come indiscutibilmente provato, nella società non trovano aiuto, perché la società ideale immaginata da chi nega l’esistenza della malattia mentale, aggiungo fortunatamente, non esiste”. “Stop Opg” nelle sue prese di posizione, richiede che, al posto di tali strutture, siano invece usati i fondi stanziati per prendere in carico gli ex internati attraverso i servizi territoriali, quello che definiscono il “Progetto Terapeutico Riabilitativo Personalizzato”: un progetto che segue l’individuo non all’interno di un contesto di esclusione, ma nella vita quotidiana, o comunque con un approccio terapeutico. Voi nel vostro libro vi eravate occupati dei vari approcci terapeutici, arrivando anche ad alcune conclusioni. Come dovrebbe essere curata la malattia mentale? C’è un unico approccio? Rispetto agli internati degli Opg, quale pensi possa essere l’approccio più efficace? “Non sono uno psichiatra, e quindi non mi pronuncio. Tra l’altro, sulla base delle conoscenze di storia della psichiatria, si possono osservare degli avanzamenti nel trattamento di alcune malattie rispetto ad altre, l’efficacia della psicoterapia in certe condizioni e la sua completa inefficacia in altre, così come il supporto farmacologico può essere utile in certe situazioni, e quanto la socializzazione i alcuni casi può costituire un danno per queste persone il cui comportamento sociale deve essere ricostruito con un percorso progressivo. La parola personalizzazione nell’ambito del trattamento delle malattie mentali, come forse di quasi tutte le condizioni patologiche, va valorizzata; ma quando ne parliamo dobbiamo dire anche su quali tipi di indicatori del comportamento individuale ci basiamo e quali prove abbiamo sulla sua efficacia. Non siamo più nell’età in cui il medico, o qualcuno che confonde la propria visione politica o filosofica con le esigenze dei malati, può dire “In nome della mia autorità si fa così”. Da qualche decennio, in medicina, i trattamenti vanno valutati sulla base delle prove di efficacia, chi li sponsorizza deve portare dei dati clinici, anche perché vi vengono investiti dei soldi pubblici ed è dunque necessario assicurare ai cittadini che i progetti nei quali vengono investiti i loro soldi abbiano delle prove a sostegno della loro efficacia. Da questo punto di vista dobbiamo guardare a tutta la letteratura relativa ai risultati nella gestione degli individui con disturbi mentali determinanti una pericolosità sociale ottenuti da paesi che hanno affrontato la questione con uno spirito meno ideologico del nostro. Non vorrei, ma non credo sarà il caso, che questo tipo di polemica riattizzi un’impostazione ideologica sottesa a questo tipo di polemica che non ha fatto bene, in primo luogo, ai malati, che invece avrebbero bisogno di maggiore sobrietà in materia”. Dunque abbiamo il dovere di fornire il miglior trattamento possibile ai malati, ma proprio per questo non possiamo fornirne solo uno. “Non posso entrare nel merito di queste cose, anche se ho letto abbastanza di tutte le forme di intervento a cui si è fatto ricorso e so che ci sono delle prove dell’efficacia di vari strumenti in relazione a situazioni differenti. Non tutti rispondono allo stesso modo a tutti i tipi di intervento, ma non è che se caliamo tutti nel cosiddetto sociale otteniamo immancabilmente dei risultati risolutivi e benefici. Queste persone hanno commesso dei crimini e dopotutto è ampiamente dimostrato che alcune di loro non sono in grado di rendersi conto delle conseguenze di una serie delle proprie azioni, motivo per cui sono state dichiarate incapaci di intendere e volere, non avvertono quel tipo di inibizioni che il resto di noi avverte”. Ci sono state anche delle sentenze in proposito… “Esattamente. Ci sono state recentemente due sentenze, una a Trieste l’altra a Como, in cui nel caso di due reati di omicidio, uno dei quali piuttosto efferato, si sono ridotte le pene riscontrando in tali individui un profilo genetico, con relative peculiari modalità di funzionamento del cervello rilevate tramite delle neuro-immagini, che li predispone, date certe condizioni, a un comportamento socialmente pericoloso. Tali situazioni vanno dunque gestite in modo particolare, diverso da quello che si userebbe con una persona con una depressione grave, o affetta da qualche forma di disturbo dissociativo, situazioni molto diverse. Lo stesso concetto di pericolosità sociale si riferisce proprio a situazioni di persone suscettibili di arrecare sofferenze agli altri proprio in condizione della loro incapacità a rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni”. Giustizia: Lega; dopo svuota-carceri… ora è in arrivo lo svuota-processi Dire, 20 febbraio 2012 “Questo è un provvedimento insostenibile: mentre lo svuota carceri minava la certezza e l’effettività della pena, lo svuota processi mina la certezze del diritto scardinando il nostro diritto e introducendo di fatto una depenalizzazione dei reati. La Lega esige il rispetto delle regole delle Costituzione e vuole una giustizia certa in base al quale chi ha commesso un reato deve pagare e deve pagare rimanendo in carcere. Così la deputata della Lega, Maria Piera Pastore, intervenendo in aula durante la discussione generale sulla proposta di legge sulla tenuità del fatto di cui è relatore Lanfranco Tenaglia. “La Lega Nord su questo provvedimento - dice Pastore - era contraria fin dall’inizio, tanto che in commissione abbiamo presentato emendamenti soppressivi e non votato il mandato al relatore. Per diminuire i processi pendenti e ridurre l’irragionevole durata dei processi” si propone “un atteggiamento favorevole a chi commette i reati”. Nei fatti, continua, “si concede di non andare in carcere d’ufficio: la particolare tenuità viene individuata per qualsiasi reato e si affida al giudice la discrezionalità di valutare se il reato è grave o no. I paletti messi in commissione sono generici”. Poi fa una provocazione: “Meglio sarebbe abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, perché così si eviterebbe di perseguire chi si è limitato a rubare una mela al supermercato. Se invece manteniamo l’obbligatorietà dell’azione penale facciamo comunque il processo e poi prosciogliamo”. Il governo, conclude Pastore, che ha dato parere favorevole con il ministro alla Giustizia Paola Severino appoggia “un provvedimento svuota processi in linea col provvedimento svuota carceri. Dove finisce la certezza del diritto, dove la certezza delle pene, che fine fanno le regole?”. Lettera al Procuratore della Repubblica di Napoli: “maltrattamenti agli animali… e ai detenuti” di Riccardo Polidoro (Presidente Ass. “Il Carcere Possibile Onlus”) Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2012 Illustrissimo Procuratore, su “La Repubblica” del 14 febbraio u.s. è stato pubblicato l’articolo di Dario del Porto, dal titolo “Gabbie anguste e struttura fatiscente, la Procura apre un’indagine sullo zoo”. Abbiamo così appreso che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli “indaga sulle condizioni del giardino zoologico di Viale Kennedy. Il fascicolo, affidato al P.M. Giovanni Corona, del pool coordinato dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, è stato aperto dopo un sopralluogo nel parco effettuato alla fine di dicembre dagli agenti del corpo forestale…L’inchiesta è aperta per l’ipotesi di reato di maltrattamenti di animali…”. Indagine giusta che mi auguro raggiunga il suo scopo: la punizione di eventuali responsabili e soluzioni per gli animali degne di un Paese civile. Ma, in qualità di Presidente de “Il Carcere Possibile Onlus”, associazione della Camera Penale di Napoli, che da anni si occupa della tutela dei diritti dei detenuti, e da cittadino, mi chiedo perché quello che legittimamente si vuole venga garantito agli animali, non è assicurato a coloro che sono rinchiusi negli Istituti di pena. Nella casa circondariale di Napoli-Poggioreale, a fronte di una capienza tollerabile di 1.300 detenuti, ne sono rinchiusi circa 2.800. La recente visita del Presidente del Senato e innumerevoli ispezioni di parlamentari hanno denunciato la mancanza di spazi vitali: persone costrette a convivere in celle dove non è possibile letteralmente muoversi, dove si è obbligati a stare per 22 ore al giorno, cucinando nello stesso spazio usato per i bisogni corporali, in condizioni igieniche disastrose. Nei giorni scorsi, accompagnato da alcuni Procuratori Aggiunti e da un nutrito numero di Sostituti Procuratori, Lei ha visitato l’Istituto di Poggioreale, toccando con mano il degrado di alcuni padiglioni. “Il Carcere Possibile Onlus”, nel 2009, ha depositato alla Procura della Repubblica di Napoli un esposto sulle condizioni igienico sanitarie degli Istituti di Pena del circondario di Napoli, ivi compresa la Casa Circondariale di Poggioreale, facendo specifico riferimento ai controlli che le Asl competenti devono effettuare ogni sei mesi per verificare il rispetto delle leggi vigenti in materia. Dopo un’indagine, durata due anni, è stata chiesta dal Suo Ufficio l’archiviazione dell’esposto, non accolta dal Giudice delle Indagini Preliminari, che ha indicato al Procuratore delegato di effettuare ulteriori approfondimenti investigativi. Vale la pena ricordare che i detenuti sono portatori di diritti pieni ed inalienabili, proprio come i soggetti liberi. Se la soluzione dei problemi che affliggono il sistema penitenziario spetta “alla politica”, la Magistratura deve fare la sua parte, investigando sulle violazioni di legge e condannando coloro che di tali azioni e/o omissioni sono eventualmente responsabili. La “notizia di reato” c’è e proviene da più fonti, anche molto qualificate. Il principio dell’ obbligatorietà dell’azione penale non prevede deroghe e il Suo Ufficio ha un fascicolo aperto da oltre due anni. La “supplenza” dell’organo giudiziario, che abbiamo visto in altre situazioni, potrebbe forse finalmente eliminare l’extraterritorialità delle carceri, dove la Legge e i principi costituzionali non trovano applicazione. Lettere: Bambini senza sbarre… di Agnese Moro La Stampa, 20 febbraio 2012 Sono tra i 100 e i 150 bambini che ogni settimana incontrano a San Vittore. Così come nel carcere di Opera, e in quello di Bollate. Sono gli operatori di “Bambini senza sbarre Onlus”, nata dieci anni fa a Milano, presidente Lia Sacerdote, associazione impegnata a sostenere i genitori in carcere e i loro figli. Sono varie le iniziative alle quali danno vita, fuori (attività di rete anche tra istituzioni, in Italia e in Europa, attività editoriale e di ricerca, anche questa al livello europeo) e dentro il carcere. Si chiama “Spazio Giallo” il luogo che ogni giorno l’Associazione rende disponibile ai giovanissimi, magari accompagnandoli al colloquio con il genitore detenuto. “Uno spazio - si legge nel loro sito (www. bambinisenzasbarre.org) - dove si sentono “previsti” e “pensati”, dove possono utilizzare giochi ed essere seguiti da operatori professionali”. Il primo Spazio è stato aperto a San Vittore nel 2007; nel carcere di Bollate è attivo dal 2010. “Non si tratta di un lavoro di animazione - dice Lia -, ma di un lavoro sulle relazioni”, e sui fantasmi che le disturbano, come gli stereotipi che accompagnano il carcere - fuori i buoni, dentro i cattivi, che possono colorare negativamente agli occhi dei figli la figura del genitore che abita il carcere, rischiando che quest’ultimo venga visto come persona da temere o della quale vergognarsi. Lo Spazio, analogamente, aiuta i genitori reclusi a vivere al meglio la visita dei propri figli. Finalizzati a esercitare pienamente la dimensione della genitorialità, alla quale non devono rinunciare a causa della condizione di carcerati, sono, inoltre, i “Gruppi di parola”. Vengono anche organizzati colloqui individuali di sostegno psicopedagogico al genitore detenuto, da cui può nascere un percorso condiviso di “accompagnamento”. Ci sono poi gli “Atelier di mediazione”: “Uno spazio e un tempo - si legge nel sito - dove pensare ai propri figli mentre si confezionano oggetti di stoffa (oggetti messaggio) destinati a loro, come strumento concreto di mantenimento del legame”. Ogni attività vede il pieno coinvolgimento di tutti gli operatori penitenziari. Ma di questo aspetto tanto importante e nuovo riparleremo prossimamente. “Il carcere sta cambiando. Lentamente, ma sta cambiando”, dice Lia Sacerdote. Grazie proprio a persone come loro. Piemonte: appello di Pd e Radicali; il Garante dei detenuti serve Adnkronos, 20 febbraio 2012 “Istituire il garante regionale delle carceri non è un lusso, rappresenta, invece, un aiuto concreto all’intera comunità penitenziaria”. Lo ha sottolineato il presidente del Gruppo consiliare del Pd piemontese, Aldo Reschigna, nel corso di una conferenza stampa promossa con i radicali per sollecitare la nomina del garante regionale dei detenuti. Il centro-destra - ha aggiunto - non può portare l’argomento “aboliamo il garante per ridurre i costi della politica” quando recentemente ha bocciato in Commissione le nostre proposte di risparmio inerenti la macchina regionale. L’unica spesa per il garante è quella di una indennità di carica dignitosa - ha concluso - tutti i costi di struttura saranno a carico di uffici e personale regionale già esistenti. All’incontro è intervenuto anche Franco Corleone (Garante detenuti Comune di Firenze) che ha osservato: ‘il garante serve per cercare di attenuare il profondo deterioramento delle condizioni di vita nelle carceri italiane, riscontrabile in questi ultimi anni. I diritti o valgono anche e soprattutto per gli ultimi o sono privilegi dei potenti. Per questo dico che il garante è un servizio alla democrazia tout court. Infine, Igor Boni, presidente Associazione Radicale Adelaide Aglietta e membro Giunta Radicali Italiani, ha evidenziato che il garante serve anche per avvicinare le 13 carceri piemontesi al resto del territorio; serve a far uscire informazioni dal carcere, non sarebbe una vittoria dei Radicali ma del Piemonte. Sarebbe una risposta di civiltà all’ipocrisia con cui chi ogni giorno si richiama ai valori sacri della Costituzione poi tollera che, ogni giorno, tali valori siano offesi e calpestati oltre le sbarre, in tutta Italia. Noi andiamo avanti - ha concluso -con il nostro appello, a prima firma Emma Bonino, ogni giorno più ricco di adesioni, e con il digiuno a staffetta iniziato il 15 gennaio scorso. Un Garante al servizio della comunità penitenziaria (Notizie Radicali) di Igor Boni, Salvatore Grizzanti, Giulio Manfredi (Associazione Radicale Adelaide Aglietta) Si tratta di un aiuto concreto per detenuti, agenti e operatori . La sua abolizione costituirebbe una marcia indietro, una regressione politica ma anche culturale. Fra il 2000 e il 2005, i consiglieri regionali radicali Carmelo Palma e Bruno Mellano effettuarono circa 100 visite ispettive nelle carceri piemontesi. Tali visite servirono a comprendere che i 13 istituti penitenziari della regione hanno caratteristiche e problemi uno diversi dall’altro; e che tali problemi non potevano essere sicuramente risolti con visite ispettive sporadiche e frammentarie (seppur sempre auspicabili, anche da parte dei consiglieri regionali attuali!). Occorreva istituire una figura nuova, in grado di interagire con i vari soggetti (direttori carceri, agenti polizia penitenziaria, detenuti, educatori), in grado di ridurre il danno derivante sia dal sovraffollamento sia dal fatto incontestabile che il carcere svolge ormai le funzioni di discarica sociale, con tutte le violenze, frustrazioni, dolore che questo comporta. Tali riflessioni portarono alla presentazione, il 7 febbraio 2005, della prima proposta di legge per l’istituzione del garante regionale delle carceri. Da allora sono state ben 12 le regioni italiane (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta) ad aver approvato leggi istitutive del garante; nove regioni hanno nominato poi effettivamente un garante delle carceri; esistono poi anche sette garanti provinciali e 18 garanti comunali, fra cui quello del comune di Torino. In Piemonte, la proposta radicale fu ripresa dai consiglieri Rocchino Muliere (Pd) e Mariangela Cotto (Forza Italia) e divenne legge regionale sul finire della passata legislatura (L.R. 28 del 2 dicembre 2009). Le motivazioni che sorreggono la legge non sono state intaccate dal tempo; anzi, risultano ancora più forti, vista la situazione esistente nelle carceri italiane e, in particolare, piemontesi: 5.200 detenuti stipati in 3.634 posti regolamentari; esistenza di strutture vetuste, con infiltrazioni d’acqua, docce non regolamentari, mancanza di possibilità di lavoro sia dentro il carcere sia per chi esce, inadeguata attuazione della normativa (DPCM 1° aprile 2008) per il trasferimento alle Asl delle competenze in materia di sanità penitenziaria, scarsità di educatori (e quindi insufficiente istruzione delle pratiche per le misure alternative da sottoporre ai magistrati di sorveglianza). A proposito della magistratura di sorveglianza, è estremamente preziosa la testimonianza del Dr. Giovanni Tamburino, audito recentemente dalla Commissione Straordinaria Diritti Umani del Senato della Repubblica nella sua veste di Coordinatore nazionale dei Magistrati di Sorveglianza: i 168 magistrati di sorveglianza esistenti in Italia devono smaltire circa 300.000 pratiche di detenuti. E sono proprio i magistrati di “sorveglianza” che dovrebbero “sorvegliare” quello che accade nelle carceri, reprimendo abusi e violenze. Il Dr. Tamburino (che è stato poi nominato Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) sottolineava in audizione che proprio il sovraccarico di lavoro sulle spalle dei magistrati di sorveglianza era stata una delle cause della comparsa sulla scena dei garanti delle carceri. In Piemonte non è stato così; ad oltre due anni dall’approvazione della legge, né il Consiglio Regionale precedente né quello attuale hanno provveduto alla nomina del garante, come imponevano loro rispettivamente gli artt. 7 e 2 della L. R. 28/2009. Preso atto dell’inerzia del Consiglio Regionale, l’Associazione Radicale Adelaide Aglietta ha promosso un’iniziativa nonviolenta a partire dal 15 gennaio scorso: Salvatore Grizzanti e Igor Boni (segretario e presidente Ass. Aglietta) hanno digiunato per dieci giorni, ottenendo di essere ricevuti dal Presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo (che aveva comunque provveduto all’indizione del bando per il garante e all’acquisizione delle domande dei candidati), che ha calendarizzato nell’ordine del giorno del Consiglio la nomina del garante. Dal 15 gennaio è in corso un digiuno a staffetta e la raccolta di adesioni su un Appello per il garante, a prima firma Emma Bonino; lo hanno sottoscritto, fra gli altri: Luigi Manconi (Presidente di “A Buon Diritto”); Vladimiro Zagrebelsky (Direttore Ldf - Laboratorio Diritti Fondamentali); Marco Bonfiglioli (Dirigente Provveditorato Amministrazione Penitenziaria); Leopoldo Grosso (vice-presidente Gruppo Abele); Donata Canta (segretaria generale Camera del Lavoro di Torino); Valentino Castellani (già sindaco di Torino); Maria Pia Brunato (garante dei diritti dei detenuti comuni di Torino); Domenico Arena (direttore carcere Alessandria, “San Michele”). Il Consiglio comunale di Torino ha approvato una mozione che chiede alla Regione la nomina del Garante. In tale contesto, riteniamo che l’approvazione della Pdl 188 (che intende abolire, fra gli altri, anche il garante regionale delle carceri) costituirebbe una marcia indietro, una regressione politica ma anche culturale grave e inspiegabile. Riteniamo del tutto improprio il richiamo che i proponenti fanno ai “costi della politica”. Come radicali, siamo da sempre favorevoli a un oculato utilizzo del denaro pubblico; pertanto, siamo assolutamente favorevoli ad economie di scala (per esempio, l’utilizzo di strutture regionali già esistenti per le funzioni di segreteria e di archivio). Non si può e non si deve, invece, fare l’economia di un istituto, di una persona, che deve essere messa in grado di affrontare la mole di lavoro prima accennata con la dovuta tranquillità economica (stiamo parlando di uno stipendio di 3.000 euro mensili; nulla se confrontato alle mille nomine regionali). E a proposito di costi, quanto è il costo economico per i contribuenti piemontesi della situazione esistente nelle carceri della regione (tenendo presente che il costo di un detenuto è pari a 160 euro al giorno; il costo di un detenuto tossicodipendente in una comunità terapeutica non va oltre i 50 euro al giorno)? Troviamo, poi, francamente inspiegabile la proposta di assegnare le funzioni del garante all’Osservatorio regionale sull’usura. Le funzioni e la stessa mission dell’Osservatorio sono del tutto altre rispetto alle funzioni e alla mission del garante. L’unico risultato che si otterrebbe sarebbe di snaturare l’Osservatorio, senza ottenere un garante all’altezza dei compiti affidatigli. Le stesse valutazioni possono essere fatte rispetto alla proposta di “aggregare” il garante agli uffici del Difensore Civico regionale. Ben venga, lo ripetiamo, l’utilizzo di strutture comuni, ma è sotto gli occhi di tutti come il Difensore Civico regionale è oberato di una mole di ricorsi (basti pensare a quelli in materia sanitaria) tale da impedirgli di dedicarsi seriamente alle problematiche carcerarie. Occorre, invece, una figura nuova, munita di adeguata professionalità ed esperienza, che si ponga al servizio dell’intera comunità penitenziaria (non solo dei detenuti, ma anche di tutto il personale che vive nel carcere), che sappia valorizzare le sinergie possibili, i finanziamenti possibili (vedi “Cassa delle Ammende”), le risorse celate e misconosciute dietro le sbarre. Tutto ciò premesso, invitiamo i proponenti a ritirare la Pdl 188. Invitiamo, altresì, il Consiglio Regionale del Piemonte a nominare al più presto il garante regionale delle carceri, adempiendo finalmente ai dettami della L.R. 28/2009, e dando, così, un segnale importante di attenzione reale al pianeta carcere. C’è n’è un disperato bisogno! Sardegna: Pili (Pdl); in arrivo 2.400 detenuti, Governo vuole trasformare regione in Cayenna Adnkronos, 20 febbraio 2012 “Il governo vuole trasformare la Sardegna nella Cayenna italiana. Secondo fonti qualificate apprendo che sarebbero destinati alle carceri sarde dai 2200 ai 2400 detenuti provenienti dalle carceri del nord Italia”. Lo ha detto il deputato sardo del Pdl Mauro Pili, dopo la visita nel carcere di Macomer (Nu), dove un terrorista di Al Qaeda, recluso con l’accusa di terrorismo internazionale ha aggredito un agente rischiando di ucciderlo. “È un dato - spiega Pili - che se fosse confermato sarebbe di una gravità inaudita che metterebbe a rischio il già sottostimato organico delle carceri sarde. Una decisione inaccettabile soprattutto per il fatto che il governo non tiene in assoluto buon conto il parametro delle proporzioni territoriali, che dovrebbe tener presente non il numero delle carceri, ma i parametri distributivi nazionali legati alla territorialità dei reati per i quali si sconta la pena”. “La Sardegna - prosegue Pili - non si può far carico di un peso detentivo di gran lunga superiore alle altre regioni italiane”. Secondo il deputato sardo infatti in Sardegna “oggi esiste una carenza nell’organico della polizia penitenziaria che oscilla tra i 150 e i 200 uomini. Prima di affrontare qualsiasi emergenza si deve sanare questa carenza secondo un piano di riorganizzazione delle carceri, comprese quelle nuove, i cui piano di attuazione deve partire dal presupposto fondamentale del giusto equilibrio tra numero di detenuti e numero di agenti”. “Senza questi presupposti - conclude Pili - la Sardegna rispedirà al mittente questo piano inaccettabile ed iniquo”. Roma: Cassazione condanna agente che non aveva controllato a vista detenuta suicida Ansa, 20 febbraio 2012 Confermata, dalla Cassazione, la condanna per omicidio colposo nei confronti di una agente della polizia penitenziaria addetta alla vigilanza a vista su una detenuta russa ricoverata nell’infermeria del carcere romano di Rebibbia con problemi psicologici che, la notte del 26 novembre 2004, si tolse la vita impiccandosi alla sponda del letto. Per sua stessa ammissione, l’agente si era allontanata dalla cella di Marina Kniazeva - che era l’unica ricoverata in quel reparto - e non aveva svolto il servizio di vigilanza in modo continuativo come era stato prescritto dalle disposizioni dei superiori mirate a scongiurare comportamenti autolesionistici. ‘L’omissione della condotta prescritta - sottolinea la Suprema Corte respingendo il ricorso dell’agente Cosmina R. - ha precluso, a monte, il tempestivo avvistamento della complessa manovra suicidaria e, con essa, il conseguente dovuto intervento per scongiurare il fatale esitò. Il suicidio della detenuta russa sollevò interrogazioni parlamentari che chiedevano, all’allora Guardasigilli Roberto Castelli, informazioni su come mai avesse potuto verificarsi il suicidio di una reclusa guardata a vista. Con questa decisione della Cassazione è stato convalidato il verdetto emesso lo scorso 9 marzo dalla Corte di Appello di Roma. Rimini: Bernardini (Ri); detenuti ammassati e il Magistrato di sorveglianza non si è mai visto di Grazia Buscaglia Il Resto del Carlino, 20 febbraio 2012 Anche Rimini non sfugge alla regola nazionale: la situazione delle carceri è drammatica. È quello che è emerso durante la visita ispettiva compiuta ieri mattina ai “Casetti” del deputato radicale Rita Bernardini, accompagnata dal consigliere comunale Pd, Vincenzo Gallo, dal garante dei detenuti della regione Emilia Romagna Desi Bruno. Rita Bernardini parte subito all’attacco: primo bersaglio il nuovo magistrato di sorveglianza, il dottor Franco Rafia, ossia chi si occupa della sorveglianza dell’esecuzione della pena, visitando i carceri a lui assegnati. “Il nuovo magistrato di sorveglianza è stato nominato ad agosto e da agosto non si è mai recato nel carcere di Rimini, quindi è inottemperante alle norme previste dal nostro ordinamento”, tuona la deputata radicale che poi entra nel merito dettagliato del pianeta carcere di Rimini: “Qui da voi ci sono 204 detenuti di cui il 70% sono stranieri su una capienza di 150. Vale a dire che ci sono 54 prigionieri in più. Ci è stato spiegato che da aprile la situazione poi peggiora in modo esponenziale. Noi abbiamo visitato, accompagnati dal comandante delle guardie carcerarie, Fernando Picini. E qui la descrizione diventa impietosa: “In 16 metri quadrati si trovano sei detenuti - continua la Bernardini. Non parliamo poi delle condizioni igieniche, completamente inesistenti con acqua che filtra dalle pareti, wc e docce in condizioni disastrose. In questo girone dell’inferno ci sono ben 60 detenuti, in massima parte stranieri. La maggior parte è in attesa di giudizio, ma è mischiata con altri che hanno già una condanna definitiva. Ci hanno raccontato che in estate, quando la popolazione carceraria cresce a dismisura, oltre ai tre letti a castello nei 16 metri quadrati aggiungono anche due materassi per terra. E questa sarebbe vita?”. I racconti poi continuano nel dettaglio: “Abbiamo parlato con detenuti che non hanno neanche un euro per chiamare la madre, la moglie e dire loro che sono in carcere, storie di miseria umana, sono esseri dimenticati da tutti”, spiega Irene Testa dell’associazione “Detenuto ignoto”. Anche le guardie carcerarie sono vittime di questo stesso sistema: “A Rimini su una pianta organica che prevede 140 agenti, ce ne sono effettivi solo 102”, racconta Rita Bernardini. E ai Casetti c’è un solo psichiatra. “Mancano gli psicologi, gli assistenti sociali per una popolazione carceraria fatta al 65% di tossicodipendenti. Unico fiore all’occhiello è quella sezione Andromeda composta da 16 ex tossici che hanno avviato un percorso di recupero. Ma all’interno del Casetti non si può neanche studiare, ci sono solo corsi per le scuole elementari”, conclude la Bernardini. Da qui la necessità di dar vita ad un garante dei detenuti, istanza di cui si è fatto portavoce presso l’attuale consiglio comunale, l’avvocato Vincenzo Gallo del Pd “per dar voce anche a chi è dietro le sbarre, dimenticato da tutti”. Rimini: la Garante; 204 detenuti in 150 posti; mancano soldi per cambiare i materassi Dire, 20 febbraio 2012 Il carcere ospita attualmente 204 detenuti (che nei mesi estivi arrivano anche a 300), mentre la capienza regolamentare sarebbe di 145/150. Il 70% di questi sono stranieri (maghrebini, albanesi e romeni), mentre il 60/65% è tossicodipendente. Con la nuova legge che prevede la detenzione domiciliare, potrebbero uscire 30/35 detenuti. Inoltre, si registra una carenza di risorse che si scontra “con le più elementari esigenze di vita”, per esempio la sostituzione dei materassi. È un ritratto a luci e ombre quello che il Garante dei detenuti regionale, Desi Bruno, dipinge dopo aver visitato l’istituto Casetti di Rimini. Dopo la visita di due giorni fa del deputato radicale Rita Bernardini, Bruno si è recata sul posto ieri. Tra le sei sezioni del carcere, il Garante regionale apprezza Andromeda, l’area che prevede la custodia attenuata per tossicodipendenti finalizzata a un successivo inserimento in comunità (16 posti): “è il fiore all’occhiello del carcere riminese, un’esperienza- scrive Bruno in una nota- certamente da esportare anche in altre realtà”. Delle altre quattro sezioni, prosegue il Garante, la prima è “la peggiore per condizioni di vita e sovraffollamento, con celle di 15/16 metri quadrati in cui vivono sei persone, con letti a castello a tre posti, che in estate possono arrivare a 10, con i materassi stesi a terra. Il reparto, da ristrutturare completamente, è fatiscente, vi piove dentro, con i bagni in pessime condizioni”. Un’altra sezione è invece chiusa in attesa di una ristrutturazione i cui fondi dovrebbero essere già stati stanziati, ma non si hanno notizie. Anche in questo caso, Bruno ha assicurato il proprio interessamento, chiedendo notizie al Provveditorato regionale alle carceri sul progetto e sulle relative risorse. Ci sono poi altre due sezioni da poco ristrutturate e una per i transessuali. La popolazione carceraria a Rimini è per lo più composta da persone in attesa di giudizio (68 in attesa del giudizio di primo grado, 26 appellanti, 22 ricorrenti, 88 condanne definitive) e sono stati segnalati alcuni casi psichiatrici. Sono assicurate due classi di alfabetizzazione per stranieri e le scuole elementari, mentre manca la scuola media. Sono presenti due psicologi, uno per la sezione “attenuata” e uno per il resto dei detenuti, con una copertura mensile di 30/36 ore. Ci sono inoltre sei educatori, due mediatori culturali (uno maghrebino e uno albanese) e un numero effettivo di agenti pari a 102/103 su una pianta organica che ne dovrebbe comprendere 145. Ai detenuti, conferma il Garante nella sua nota, è assicurata l’assistenza dentistica e psichiatrica e ci sono 4/5 medici generici che coprono le necessità delle persone rinchiuse per un arco temporale che va dalle 8 alle 22. “I detenuti incontrati chiedono di poter lavorare”, sottolinea Bruno. In carcere sono presenti la Caritas, che si occupa dell’abbigliamento per gli indigenti, e i sindacati, che aiutano sulle pratiche di disoccupazione. “Come Ufficio regionale - conclude il Garante - ho assicurato la massima disponibilità e collaborazione per la costituzione di una rete con l’amministrazione riminese per lavorare sul tema del carcere e per un maggiore coinvolgimento delle associazioni di volontariato, di cui auspico una maggiore presenza all’interno del carcere”. Caserta: Radicali in visita al carcere di S. M. Capua Vetere… un girone dantesco di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 20 febbraio 2012 Nella giornata di ieri una delegazione dell’associazione radicale per la Grande Napoli, accompagnata dall’onorevole Alfonso Papa - iscritto a sua volta dell’associazione - ha effettuato una visita ispettiva all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Al termine del giro ispettivo, abbiamo raccolto le impressioni del presidente dell’associazione per la Grande Napoli, Luigi Mazzotta - membro del Comitato nazionale di Radicali Italiani - e dell’onorevole Alfonso Papa (Pdl). Entrambi gli interlocutori hanno confermato una realtà già tristemente nota ai tanti cittadini che seguono l’evolversi del perenne stato di illegalità, imperante nelle carceri italiane. Mazzotta ha rilevato gli aspetti positivi della visita, ovvero il poter denunciare una realtà che conferma quanto i radicali stanno cercando di comunicare al resto del paese. Il caso di Santa Maria Capua Vetere può considerarsi un paradigma del degrado carcerario italiano. Qui infatti è possibile rilevare ogni forma di disfunzione del sistema. Dal sovraffollamento alla fatiscenza, dalla carenza cronica di risorse fino a problematiche del tutto fuori dall’immaginazione di chi non vede coi propri occhi certe aberrazioni. A buon peso, Santa Maria Capua Vetere conferma - qualora fosse necessario - l’inutilità del decreto Severino, per tutti noto in maniera fuorviante come “svuota carceri”. Partiamo dal primo punto, il sovraffollamento. Così Luigi Mazzotta: “La visita di stamane effettuata in compagnia dell’On. Papa ed Elio De Rosa della ass. Legalità e trasparenza di Caserta presso l’istituto penitenziario di S. M. Capua Vetere è stata molto positiva dal punto di vista dell’accertamento relativo al sovraffollamento dei detenuti. I dati ci hanno reso ragione nel ritenere che in questo ultimo periodo, in questo carcere si sono verificati aumenti sproporzionati ed abbiamo potuto verificare una situazione che supera i limiti di tollerabilità in materia di rispetto della dignità umana”. Papa rincara la dose, snocciolando dati a dir poco allarmanti: “Su una capienza complessiva di 521 posti, qui ci sono 952 persone ristrette - 190 stranieri - in celle fino a 9 persone in 20 metri quadri”. La carenza di risorse viene evidenziata sempre da Papa, che ha spiegato: “Recentemente è stato ritinteggiato un padiglione, nel tentativo di renderlo un po’ meno invivibile. Data la scarsità di risorse, i dipendenti della struttura hanno speso 50 euro a testa di tasca propria”. Lo stato d’abbandono in cui versa questo penitenziario è stato più volte denunciato dagli stessi operatori che lavorano al suo interno, ma dal Dap finora non sono giunte risposte. Personale insufficiente e mezzi obsoleti, con in più la difficoltà a rifornire di carburante gli automezzi. Il fallimento del decreto Severino, oltre all’ennesima dimostrazione di abusi nell’uso della carcerazione preventiva, è palese seguendo il ragionamento proposto da Papa. “Lei sa quanti detenuti a Santa Maria usufruiranno del decreto Severino? Zero. Il motivo sta nel fatto che il 70% di detenuti è in attesa di giudizio definitivo, mentre per beneficiare dello “svuota carceri” occorre essere condannati con sentenza passata in giudicato”. Poi, ha aggiunto Papa: “Il turbamento è palpabile non solo fra i detenuti, ma anche tra gli agenti. Essi sono ancora scottati dall’ultimo caso di suicidio di un collega, avvenuto a Rebibbia. Per uscire dall’illegalità non servono provvedimenti tampone ma un’amnistia come base su cui poggiare la riforma della giustizia”. Problematiche aggiuntive per i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono date dalla sua attiguità rispetto al sito di stoccaggio di San Tammaro. D’estate l’aria diventa irrespirabile e oltre al cattivo odore, i detenuti sono esposti a contaminazione da scorie. Mazzotta ha così chiosato:” Questo carcere è una discarica sociale su una discarica ambientale, un luogo da girone dantesco che come il carcere di Poggioreale andrebbe definitivamente chiuso”. Come se non bastassero tutti questi dati, Papa ci informa che perfino l’acqua può diventare un lusso da queste parti. “Non esiste un rifornimento idrico attraverso tubature. L’acqua viene estratta da pozzi artesiani, purificata e dolcificata prima di essere data ai detenuti. D’estate, in periodi in cui i pozzi sono secchi, qui manca l’acqua sia per bere che per lavarsi”. Insomma, a Santa Maria Capua Vetere la dignità dei cittadini detenuti è un fastidioso optional, al punto che non sarebbe fuori luogo affiggere all’ingresso della struttura, il celeberrimo monito dantesco: “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”. Firenze: Rc; rendere pubblici i dati sulle carenze di personale nelle carceri Nove da Firenze, 20 febbraio 2012 Oltre al sovraffollamento, alle carenze igieniche sanitarie, alla mancanza di materie prime, al rispetto dei diritti, “nelle carceri scoppia anche il problema degli organici. Gravi carenze organiche - spiegano i consiglieri provinciali Andrea Calò e Lorenzo Verdi - sono manifeste nella polizia penitenziaria e per gli altri operatori”. Rifondazione Comunista chiede alla Provincia di Firenze di “rendere pubblici i dati sulle carenze organiche, segnalando le criticità e contrastando la precarizzazione”. Presentata una domanda d’attualità. Di seguito il testo. “Mentre la situazione nelle carceri è al limite della sopportabilità e della congruità con quanto prevede la Carta Costituzionale - dal sovraffollamento, alle carenze igieniche-sanitarie, alla mancanza - non godono di buona salute gli organici della polizia penitenziaria da tempo in sofferenza sotto organico e sottoposti ai tagli di risorse del governo. Alcuni dati: le unità di polizia penitenziaria per le carceri toscane stabilite con decreto nel 2001 dovrebbero essere 3012 mentre sono solo circa 2200 quelle effettive, alcune delle quali distaccate fuori regione o in servizi non operativi. E il problema si ripercuote non solo nell’impossibilità di garantire il servizio ma anche nello stato psicofisico degli addetti. Solo negli ultimi due giorni si sono verificati due suicidi di agenti, uno nel casertano ed uno a Formia, che fanno salire il numero a 8 soltanto negli ultimi mesi. Una situazione drammatica che non può essere ignorata dalle Amministrazioni Locali che hanno competenze in materia carceraria. Gli scriventi Consiglieri Provinciali di Rifondazione Comunista a fronte delle gravi carenze degli organici della polizia penitenziaria chiedono al Presidente della Provincia di Firenze e all’Assessore competente di riferire sulla situazione degli organici negli istituti carcerari del territorio provinciale a partire dalla polizia penitenziaria ad arrivare agli altri operatori, segnalando oltre alle carenze organiche anche le criticità. Altresì chiediamo di sapere se le organizzazioni sindacali hanno investito l’Amministrazione provinciale sulle gravi carenze organiche e cosa ha intenzione di fare la Provincia di Firenze per quanto di sua competenza per risolvere e contrastare le carenze e la precarizzazione”. Mantova: Pd; non chiudere l’Opg di Castiglione delle Stiviere, è una struttura modello Adnkronos, 20 febbraio 2012 “L’Opg di Castiglione delle Stiviere non ha nulla a che fare con gli altri 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari sparsi in tutta Italia. È una struttura di eccellenza, che può essere presa come modello per la riforma che giustamente il Parlamento e il Governo ritengono di dover fare. Chiuderlo sarebbe una perdita per tutto il sistema giudiziario italiano, mentre una riorganizzazione potrebbe partire proprio dall’esperienza accumulata in quella struttura”. È la posizione espressa dal Pd Lombardia, dopo una visita nell’Opg mantovano. L’appello è di Gian Antonio Girelli, segretario della Commissione Sanità e assistenza del Pirellone, che sabato ha partecipato al sopralluogo con i consiglieri regionali Fabio Pizzul e Giovanni Pavesi. La richiesta è di non sbarrare le porte della struttura che, come gli altri Opg, dovrà chiudere entro marzo, in accordo con il decreto svuota carceri del ministro Severino. Sarebbe “uno spreco di competenze e di esperienze professionali” secondo il Pd lombardo. “Settant’anni di storia, 310 detenuti su una capienza tollerabile di 220, anche con gravi problematiche psichiatriche. L’Opg mantovano - ricordano i consiglieri - è il punto di riferimento per i pazienti, donne e uomini, della Lombardia e del Piemonte. Duecento gli operatori presenti, tutti in carico alla sanità lombarda: la struttura è di fatto assoggettata all’azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova”. Secondo il Pd, “creare strutture più piccole potrebbe essere una soluzione e lo si potrebbe fare già a Castiglione, dove potrebbe trovare sede una modulo più contenuto, con un massimo di 100, 120 pazienti detenuti”. Girelli avverte: “Il tempo stringe e mancano ancora risorse e indicazioni chiare per l’applicazione del decreto. Noi chiediamo che tanta esperienza sul fronte dell’accoglienza e anche della riabilitazione sia valorizzata. È importante che in tempi molto brevi anche la Regione si occupi dell’argomento e per questo chiederò alla prossima seduta che la commissione Sanità e assistenza possa audire i responsabili dell’Opg”. Altolà del Pd: l’Opg resti pubblico (Gazzetta di Mantova) No alla chiusura dell’Opg. Ma “no anche all’idea di esternalizzarne i servizi o peggio ancora privatizzarli”. Il Pd regionale fa sentire la sua voce direttamente a Castiglione con un “blitz” di tre consiglieri “per capire di persona la realtà di questa struttura” e anche per mettere un paletto a difesa dell’”operato d’eccellenza della struttura e dei suoi dipendenti”. Il punto di partenza è il decreto legge “svuota carceri”, votato da Pdl e Pd che stabilisce il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il prossimo marzo, sostituiti da piccole comunità (20 pazienti) gestite in condizioni di sicurezza e sorveglianza. La Regione Lombardia, che ha recentemente istituito una commissione speciale sull’emergenza carceraria, varerà un piano d’azione chiedendo al governo ulteriori risorse per il reinserimento dei detenuti nella società e gli interventi edilizi. In questo contesto va letta la visita condotta dal mantovano Giovanni Pavesi con i colleghi Gian Anton io Girelli, di Salò, e il milanese Fabio Pizzul (figlio del celebre telecronista). “In sede nazionale il Pd ha dato l’ok alla chiusura - ha detto Pizzul. Ma qui abbiamo toccato con mano una realtà diversa dalle altre. C’è un patrimonio di competenze che non deve andare disperso. Castiglione può essere modello per la riforma”. Un concetto ribadito anche da Girelli: “Castiglione è diversa dagli altri Opg e da qui deve partire l’esempio per le altre strutture”. Per Pavesi “il rischio ora è evitare l’esternalizzazione o la privatizzazione. La struttura deve rimanere pubblica”. Affrontato anche il vero problema dell’Opg castiglionese, il sovraffollamento con 312 pazienti, oggi, contro i circa 200 autorizzati. “Noi siamo già struttura sanitaria e non carceraria - ha detto il direttore della struttura Antonino Calogero. Il problema è che al momento mancano fondi certi e tempi adeguati per la trasformazione chiesta dalla legge svuota carceri. Inoltre occorre creare strutture d’accoglienza, ma anche percorsi di cura e riabilitazione”. Un tema rilanciato anche dal responsabile area comunità dell’Opg, il dottor Gianfranco Rivellini: “I nostri dipendenti ed i pazienti sono già in carico alla Regione e al sistema sanitario nazionale. Qui a Castiglione un finanziamento ad hoc ci permetterebbe di ristrutturare internamente la struttura per trasformarla in piccole comunità, per un totale di 100, 120 pazienti come prevede la nuova legge. Ma serve coinvolgere e responsabilizzare le Asl di provenienza dei degenti in cura”. Cagliari: Sdr; al Buoncammino 204 detenuti oltre capienza regolamentare Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2012 Sono in costante aumento i detenuti nella Casa Circondariale di Cagliari. Erano 532 il 31 dicembre scorso 187 in più rispetto ai posti letto, sono diventati dopo un mese 549 con 204 persone private della libertà oltre la capienza regolamentare di 345 presenze. Il carcere di Buoncammino però non è solo in questa negativa classifica. Gli tiene testa quello di Iglesias con 50 detenuti oltre il regolamento. Sono infatti 112 anziché 62. I dati, al 31 gennaio 2012, sono stati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Nella realtà detentiva della Sardegna - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” - il sovraffollamento si concentra in 7 strutture su 12 con una sofferenza che spesso sfocia in atti di autolesionismo gravi. Se il maggiore divario si conferma nella Casa Circondariale di Cagliari, forte preoccupazione suscita la condizione di Iglesias dove per la maggior parte sono detenuti sex offender. Persone quindi che hanno necessità di particolari attenzioni per il recupero e il reintegro sociale. Un altro Istituto quello di Macomer (Nuoro) registra una pesante condizione con 83 detenuti presenti, in maggioranza extracomunitari, a fronte di 43 posti regolamentari”. “Situazioni di disagio contenuto sono presenti anche ad Oristano (+22), Alghero (+12) e Sassari (+9) e Lanusei (+4) ma non si può dimenticare - sottolinea la presidente di Sdr - che la maggior parte delle strutture detentive della Sardegna sono ottocentesca; quella di Lanusei addirittura ricavata da preesistente convento inadeguato a garantire la dignità di detenuti e Agenti di Polizia Penitenziaria. I numeri purtroppo fotografano una drammatica situazione che non può essere più protratta senza incorrere in ulteriori pesanti illegalità da parte dello Stato”. “È evidente che la nuova legge svuota carceri potrà ridurre la pressione detentiva - conclude Caligaris - ma resta il problema di quanto tempo sarà necessario per renderla operativa. Ecco perché occorre almeno il rafforzamento della Magistratura di Sorveglianza e delle figure professionali necessarie per accelerare le pratiche. C’è il rischio che si ripeta il flop del precedente decreto anche per la tipologia dei detenuti spesso senza casa e senza famiglia. Una più attenta ricognizione sullo stato dei singoli Tribunali di Sorveglianza e una conseguente immediata azione per rimpolparli potrebbe evitare nei prossimi mesi altra sofferenza e altre situazioni pericolose per l’integrità dei cittadini privati della libertà”. Roma: stupefacenti in carcere; un arresto e perquisizioni operate da Nucleo Investigativo Polpen Agi, 20 febbraio 2012 Una persona è finita in manette, perquisizioni sono state eseguite in varie zone della Capitale. Questo il risultato di un’indagine, ancora in corso, che trae origine da una serie di rinvenimenti di droga in un penitenziario romano, che ha portato gli inquirenti a ipotizzare che vi fosse un reale tentativo di introduzione di stupefacenti nelle carceri della città da parte di soggetti che, a vario titolo, vi accedono. Questa mattina, uomini del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria di Roma, nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Francesco Polino, hanno effettuato una serie di perquisizioni personali e locali per reprimere la detenzione e lo spaccio di stupefacenti. Anche attraverso intercettazioni, pedinamenti e servizi di osservazione e controllo, gli agenti sono riusciti ad arrestare T.M., 26enne romano, trovato in possesso di 30 grammi di cocaina, già suddivisa in dosi e pronta per essere venduta, assieme ad altro materiale detenuto illecitamente. Il giovane è stato accompagnato negli uffici del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, in attesa della convalida dell’arresto da parte dell’autorità giudiziaria. Messico: 40 detenuti morti in scontri tra gang rivali nel carcere di Apodaca Ansa, 20 febbraio 2012 Quaranta i morti accertati finora, diversi i feriti. E ci sarebbe stato anche un incendio nel carcere che ospita 3 mila detenuti e ora è presidiato dalle forze dell’ordine che cercano di contenere la rabbia dei familiari, senza notizie certe dei loro cari: “Che ci ascoltino, ci sono molti familiari qui e ci sono molti innocenti all’interno che sono feriti”, dice una di loro. “Abbiamo bisogno di ambulanze, vogliamo che il governatore Rodrigo Medina ci ascolti. Non ci stanno ascoltando. All’interno ci sono molte persone innocenti”. E sarebbero una quarantina i decessi già registrati in questa prigione negli ultimi mesi, oltre a un grave incendio che in maggio ha ucciso 14 persone. Si tratta del secondo incidente in qualche mese negli istituti penali dell’area di Monterrey, teatro di una sanguinosa rivalità tra due cartelli della droga. Pakistan: violenze domestiche contro donne e bambini diventano reato Asca, 20 febbraio 2012 Il senato del Pakistan ha approvato una legge che definisce le violenze domestiche contro donne e bambini come reato penale, punibile con carcere e multe. La legge è stata approvata all’unanimità ed entrerà in vigore dopo la firma del presidente Asif Ali Zardari. Coloro che verranno condannati per violenze domestiche affronteranno una pena minima di sei mesi dietro le sbarre e una multa di almeno 100 mila rupie (oltre mille dollari). La nuova legge sarà applicata anche alle persone adottate e ai lavoratori domestici di una famiglia. In precedenza, le violenze contro donne e bambini fra le mura di casa non prevedevano l’arresto ed erano considerate affari interni della famiglia. Libia: procuratore generale smentisce morte in carcere ex annunciatrice tv Masrati Nova, 20 febbraio 2012 Il procuratore generale libico, Abdel Aziz al Hassadi, ha smentito oggi le notizie circolate nei giorni scorsi sull’uccisione in carcere dell’annunciatrice della tv libica Hala Masrati. La giornalista era nota come “l’annunciatrice di Gheddafi” da quando, alla vigilia del crollo del regime, era apparsa in tv impugnando un revolver per minacciare gli oppositori del colonnello. Al Hassadi ha assicurato che l’annunciatrice viva e si trova in una prigione di Tripoli. Nei prossimi giorni inoltre, il procuratore la incontrerà per un colloquio. Venerdì scorso alcune media arabi e stranieri avevano annunciato l’uccisione della Masrati in cella, l’esecuzione sarebbe avvenuta perché la donna avrebbe oltraggiato le forze rivoluzionarie proprio nel giorno delle celebrazioni del primo anniversario della rivolta contro Muhammar Gheddafi. La Masrati, assai nota per la sua fedeltà al regime di Gheddafi, si trova in stato di detenzione da quando stata catturata dai militari agli ordini del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), mentre nell’agosto scorso stava tentando la fuga da Tripoli.