Giustizia: svuota-carceri con armi spuntate… i detenuti in meno saranno solo un migliaio di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 17 febbraio 2012 La legge impropriamente definita svuota carceri (di 211/2012, approvato martedì scorso in via definitiva dalla Camera dei deputati e ora in attesa di pubblicazione in G.U.) frenerà la crescita della popolazione detenuta ma non servirà a far rientrare il sistema nella legalità penitenziaria. Calcoli attendibili dicono che al massimo l’anno prossimo di questi tempi avremo un migliaio di detenuti in meno rispetto agli attuali 66.973 i quali devono oggi dividersi i 45.688 posti letto regolamentari. Il gap tra detenuti presenti e capienza in realtà è ancora maggiore, in quanto dai numeri ufficiali regolamentari il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non sottrae quelli relativi ai reparti provvisoriamente chiusi in quanto inagibili (si pensi al quinto braccio di Regina Coeli a Roma o a quasi tutto il carcere delle Sughere a Livorno) e per i quali vi è stato nella legge uno stanziamento ulteriore di 57 milioni di euro. Nel frattempo il Piano di edilizia carceraria procede molto lentamente. Ad oggi, dei 9 mila circa posti letto promessi, non ve ne è neanche l’ombra. Ci sono gare in fase di aggiudicazione per l’ampliamento delle carceri di Siracusa, Parma, Sulmona, Vicenza, Milano Opera, Trapani, Lecce e Taranto per complessivi 1.800 posti. Non vi è traccia dell’apertura dei cantieri. La legge comunque cerca di porre rimedio al sovraffollamento intervenendo sui flussi in entrata e sui flussi in uscita. Essa si compone di tre parti. La prima riguarda i poteri di arresto delle forze dell’ordine nel caso di persone fermate in flagranza di reato. Sono previste decisioni di tipo diverso. Di regola il pm dovrà disporre la conduzione della persona arrestata presso il suo domicilio o presso eventuale luogo di cura. Nel caso di inidoneità o indisponibilità dell’abitazione il pm disporrà la custodia nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine. Misura che dovrà essere sempre presa nel caso di scippo, furto in appartamento, rapina, salvo che il danno patrimoniale sia ritenuto molto lieve. Per i reati per i quali è previsto il collegio giudicante e non il giudice monocratico torna a essere prioritaria la custodia cautelare in carcere, sempre che ne ricorrano i presupposti di legge. I tempi per la convalida dell’arresto sono dimezzati da 96 a 48 ore. Il pm dovrà recarsi in carcere o nelle camere di sicurezza per l’interrogatorio e non viceversa; ciò al fine di ridurre il carico di lavoro del personale di polizia penitenziaria addetto alle traduzioni. Aumenta la possibilità di partecipazione al procedimento a distanza, nel senso che i testimoni in stato di detenzione possono essere auditi col sistema della videoconferenza. Vedremo se e come sarà garantito il diritto di difesa. Di fronte alle preoccupazioni intorno alla detenzione nelle camere di sicurezza, ossia nelle mani di chi ha proceduto all’arresto e non di un’autorità terza, e quindi ai maggiori rischi di violenze nei confronti delle persone fermate, il legislatore ha previsto che i parlamentari europei e nazionali, i consiglieri regionali e i garanti dei detenuti comunque nominati possano ispezionare le camere di sicurezza con le stesse prerogative previste per le carceri, ossia senza preavviso di visita ma mai fermandosi a parlare con i detenuti delle loro vicende processuali. Il secondo pilastro della legge riguarda l’estensione della fruibilità della detenzione domiciliare, già prevista nella legge 199 del 2010, a tutti quelli che devono scontare meno di 18 mesi di carcere. La legge previgente dava questa possibilità di trasformazione della pena detentiva carceraria in pena detentiva domiciliare a chi dovesse scontare meno di un anno. Nei 13 mesi di vigenza la legge 199, sorella maggiore della legge appena approvata, ha prodotto 4.665 scarcerazioni. Non ha prodotto però uno svuotamento delle carceri corrispondente in quanto molte delle persone uscite avrebbe comunque varcato le porte del carcere grazie ad altra e più flessibile misura alternativa alla detenzione. Restano in piedi tutti divieti di applicazione. Resta anche in piedi il termine ultimo di vigenza di questa norma, ossia la fine del 2013. Per allora il legislatore dovrebbe risistemare l’intero complesso delle misure alternative. Infine la terza parte della legge riguarda gli ex manicomi criminali. Essa prevede la chiusura degli attuali sei ospedali psichiatrici giudiziari (Castiglione dello Stiviere, Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Montelupo Fiorentino, Aversa, Reggio Emilia) e la contestuale nascita di più piccole strutture su base regionale dove prevalente sia la cura anziché la vigilanza che dovrà esserci solo all’esterno. In modo netto si dice che le persone non più pericolose (oggi circa 400) dovranno essere affidate ai dipartimenti di salute mentale. Per le restanti circa mille persone si apre uno scenario tutto da verificare, tenuto conto che il contestuale articolo 43 del decreto legge sulle liberalizzazioni apre alla privatizzazione delle carceri e quindi anche degli ospedali psichiatrici giudiziari. Giustizia: l’amnistia? Vale solo per i giudici di Valter Vecellio Gli Altri, 17 febbraio 2012 La discussione sui provvedimenti adottati per decongestionare le carceri ha visto costituirsi un interpartito, composto dai Gasparri e dai La Russa, dai Bossi e dai Di Pietro, fino a un Grillo con venature razziste rifiutate perfino dal suo movimento. Suonano la grancassa dell’allarmismo sociale, sostengono che con le misure falsamente definite “svuota carceri” (3mila detenuti circa finiranno di scontare la pena agli arresti domiciliari), le nostre città saranno preda di delinquenti pronti a commettere ogni tipo di reati. Ogni botte dà il vino che ha, il vino di questi signori è aceto. Lo ha dimostrato - dimostrazione definitiva, che stronca ogni speculazione - Luigi Manconi, presidente dell’Associazione “A buon diritto”: nel 2011, su 20.314 detenuti in regime domiciliare quelli che hanno commesso un nuovo reato sono appena lo 0,81%: meno di 200 su oltre 20mila detenuti. Questi i dati; il resto sono volgari e meschine speculazioni. Ad ogni modo, una misura che consente a 3mila detenuti di scontare la pena agli arresti domiciliari non risolve certo l’emergenza carceri e giustizia. Fa pensare a quel tale che vuole svuotare il mare col secchiello. Nelle nostre carceri sono rinchiuse 22mila persone in più della loro capienza. Lasciamo perdere le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti, agenti di custodia e personale penitenziario, che le nostre carceri siano una vergogna ormai lo sanno tutti; lo stesso ministro dell’Interno Cancellieri ammette che dal carcere non si può che uscire fortemente peggiorati. Per loro, la metà in attesa di giudizio, che si fa? Le carceri, poi, sono solo parte del più generale problema, quello della giustizia: ogni anno migliaia di processi vengono chiusi per scadenza dei termini; significa impunità anche per reati gravi, come l’omicidio colposo. La giustizia soffoca sommersa dai fascicoli, al punto che molti procuratori rinunciano ai giudizi. Per reati come corruzione o truffa c’è la quasi certezza dell’impunità: nel 2008, 154.665 procedimenti archiviati per prescrizione. Nel 2010 circa 170mila; circa 200mila nel 2011. È un’amnistia mascherata, clandestina (perché si finge non ci sia) e di classe: ne beneficia solo chi ha un buon avvocato che sa come dribblare tra leggi e codici, o chi ha “amici”. Nella rete ci finiscono così solo i poveri diavoli. E giusto? A questo punto, meglio non sarebbe fare un’amnistia alla luce del sole. con “paletti” certi, guadagnare 6-7 mesi, consentire ai magistrati di ricominciare da zero, e nel frattempo metter mano alle indispensabili riforme? Marco Pannella e i radicali, da tempo propongono l’amnistia, come primo provvedimento per poter mettere mano a quelle riforme che tutti dicono di volere. I maggiormente interessati (lini-ebbero essere i magistrati. Proprio dall’Anm vengono le maggiori resistenze. Come si spiega? E evidente che si vuole continuare ad esercitare il n controllo. Come le gerarchie vaticane dicono “no” a testamento biologico, eutanasia, possibilità di poter determinare autonomamente se e come e quando una vita non merita più di essere considerata tale (ed è un “no” per ribadire un formale controllo sulla gestione dei corpi, si sa benissimo che la pratica quotidiana è altra, e la si accetta purché si rispetti la legge del “si faccia, ma non si dica”), così nelle aule di giustizia: lo sanno anche i “sacerdoti del diritto” che ogni giorno si consuma l’amnistia clandestina e di classe; ma a loro va bene che sia appunto clandestina e di classe, e siano loro a gestire questa amnistia. Per continuare a gestirla, dicono “no” all’amnistia palese e con regole certe. L’Anm è poi sul sentiero di guerra perché la Camera ha votato un emendamento sulla responsabilità civile del magistrato. Un attentato, dicono, alla loro autonomia e indipendenza. La situazione è questa: siamo l’unico paese al mondo in cui un giudizio nei confronti dei magistrati (affidato ad appartenenti ala stessa categoria) passa per nove gradi: tre per l’ammissibilità, tre per individuare le responsabilità del magistrato, tre per l’eventuale rivalsa da parte del ministero di Giustizia. Dal 1988 a oggi sono state appena 406 le cause effettivamente avviate nei confronti di un magistrato; le citazioni dichiarate ammissibili 34; le condanne 4 in tutto. Sappiamo tutti come è finita la vicenda Tortora: nessuno gli ha chiesto scusa per l’ingiusta persecuzione; anzi, i magistrati che l’hanno inquisito non solo non hanno pagato, hanno fatto tutti carriera. Un caso di pochi giorni fa, il giudice Jole Maria Celeste Milanesi: prosciolta dalla sezione disciplinare del Csm dall’accusa di aver omesso di controllare con “negligenza inescusabile” i termini di scadenza della carcerazione di un detenuto, che così è rimasto in carcere 127 giorni in più del dovuto. Per il Csm è colpa “di una lacuna del regolamento di organizzazione del giudizio direttissimo all’epoca in vigore”. Poi dici che uno s’incazza. Giustizia: carceri verso la civiltà, ma la questione resta di Luigi Iorio (Responsabile giustizia Psi) Il Riformista, 17 febbraio 2012 Il voto che ha approvato in via definitiva la conversione in legge del decreto svuota-carceri, ha suscitato mal di pancia da parte di leghisti e di dipietristi a seguito del ricorso al voto di fiducia. Una scelta determinata dai tempi stretti per la conversione, che rischiavano di far scadere il decreto (il termine è il 20 febbraio) e dall’ostruzionismo messo in atto dalla Lega. Oltre 500 gli emendamenti presentati dal Carroccio che attacca il governo Monti proprio su un punto del decreto legato al trasferimento del detenuto agli arresti domiciliari, una volto giunto a 18 mesi dal fine pena. Una posizione, a mio avviso, assurda, dal momento che pochi mesi fa il centrodestra compatto, Pdl e Lega Nord, votò a favore di una misura che prevedeva la custodia domiciliare a 12 mesi dal fine pena. La proposta era dell’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano, oggi parlamentare e segretario politico del Pdl. Possibile che sei mesi di differenza possano suscitare tali polemiche? Personalmente credo che occorra riconoscere validità al provvedimento, condividerne e apprezzarne la concretezza dopo tante promesse e troppe parole. Ciò ovviamente non toglie che la questione carceraria continui ad essere purtroppo un problema drammaticamente irrisolto. C’è ancora molto da fare, bisogna depenalizzare molti settori della nostra legislazione, riformare maggiormente la giustizia penale in materia di misure cautelari, occorre poi modernizzare le strutture, valorizzando quelle già esistenti sul territorio nazionale, formare adeguatamente il personale e intensificarlo, rendendo il carcere più umano e in linea con la Costituzione come ci richiede l’Europa e la nostra coscienza civile. L’attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi sono i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch’essi sono il risultato di un ambiente carcerario troppo degradato. Ma l’occasionale attenzione dell’opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno dopo giorno, ormai da troppi anni. Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c’è un’evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Per questo credo che i provvedimenti introdotti dal Ministro Severino sono di assoluto buon senso e vanno nella direzione di una maggiore civiltà, pur riconoscendo la necessità di dover affrontare il problema in modo più ampio, individuando soluzioni che pongano fine ad una questione ancora drammaticamente aperta. Giustizia: nuovo suicidio in carcere; 700 detenuti si sono tolti la vita dal 2000 ad oggi Redattore Sociale, 17 febbraio 2012 I dati divulgati oggi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. In 12 anni si sono tolti la vita anche 85 agenti di polizia penitenziaria. Da inizio anno già 8 suicidi e 21 decessi in totale, di cui 9 per cause ancora da accertare. Settecento in dodici anni: in tanti si sono tolti la vita dietro le sbarre delle carceri italiane dal 2000 a oggi. In totale, sono 1.954 le persone che non sono sopravvissute alla detenzione nello stesso arco di tempo. Numeri cui vanno aggiunti quelli riguardanti la polizia penitenziaria: 85 suicidi, tra cui quello del provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, Paolo Quattrone, e della direttrice del carcere di Sulmona, Armida Miserere. Altri 6, invece, gli “incidenti sul lavoro”. Sono i dati divulgati oggi dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Solo quest’anno, in neanche due mesi, sono otto i suicidi registrati e 21 i decessi avvenuti in totale, di cui 9 per cause ancora da accertare. L’ultimo suicidio in ordine di tempo è quello di Pino Cobianchi, 58 anni, che si è impiccato mercoledì scorso nella cella del carcere di Opera a Milano, dove era detenuto con una condanna a 30 anni per omicidio, più altri scampoli di pena per una serie di rapine commesse con lo pseudonimo di “Robin Hood” e alcuni furti e incendi. Nel 1979 era stato condannato a Milano per un delitto commesso l’anno prima al velodromo Vigorelli, per l’omicidio di un “ragazzo di vita”, che taglieggiava. Oggi il legale dell’uomo, Laura Antonelli, accusa: “Di questo evento tragico non sono stati informati né i famigliari né la compagna di Cobianchi. Sono stata io a darle la notizia, quando invece è un preciso diritto del familiare contemplato dall’ordinamento penitenziario, in questi casi, di essere informati”. Giustizia: Sappe; preoccupante fenomeno suicidi… e abbiamo salvato la vita a 10mila detenuti Adnkronos, 17 febbraio 2012 “Il fenomeno dei suicidi in carcere (otto detenuti in questi primi mesi del 2012) ci preoccupa. Come ci lascia sgomenti il numero degli operatori penitenziari che periodicamente si tolgono la vita (ultimo caso, ieri a Formia, quello di un assistente Capo di Polizia Penitenziaria in servizio a Roma Rebibbia). Una cosa è certa: se non fosse per la professionalità, l’attenzione e il senso del dovere dei poliziotti penitenziari le morti per suicidio sarebbero molte di più di quelle attuali: dal 2000 ad oggi, infatti, gli agenti, intervenendo prontamente, hanno impedito a 10.000 detenuti di togliersi la vita”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Certo è - prosegue Capece - che la carenza di poliziotti ed educatori, di psicologi e personale medico specializzato, unita al sovraffollamento delle carceri italiane, temi che si dibattono da tempo senza soluzione, sono concause di questi tragici episodi”. Anche il passaggio della sanità penitenziaria al servizio nazionale pubblico (ultimo atto del fu governo Prodi che venne assunto contro il parere di tutti gli operatori del settore) ha indubbiamente determinato problemi all’assistenza, anche psicologica, ai detenuti. E per colpa di queste scelte sbagliate che troppo spesso il personale di Polizia Penitenziaria è lasciato solo a gestire moltissime situazioni di disagio sociale. Non si può e non si deve - precisa il segretario generale della Sappe - chiedere agli agenti di accollarsi anche la responsabilità di tracciare profili psicologici che possano eventualmente permettere di intuire l’eventuale rischio di autolesionismo da parte dei detenuti”. “Sono stati oltre 66 mila gli atti di autolesionismo posti in essere nelle nostre carceri”, sottolinea Capece. “Non è, infatti, un caso che, negli anni, la Commissione dipartimentale per le ricompense al personale di Polizia Penitenziaria, abbia deliberato la concessione di centinaia di encomi (anche solenni) e di 300 lodi ministeriali a centinaia di poliziotti penitenziari, che con il loro intervento hanno salvato la vita a numerosi detenuti”. Giustizia: Opg; chiuderne sei… per aprirne quanti? di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 17 febbraio 2012 Non sono paragonabili il provvedimento che chiude i sei Opg e la Legge 180 che chiuse, nel 1978, gli ospedali psichiatrici civili. Per discutere seriamente del provvedimento sugli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) approvato col decreto carceri, è necessario spazzare via il trionfalismo con cui diversi quotidiani e notiziari lo hanno annunciato, facendo confusione su un punto cruciale: è vero che il decreto dispone la chiusura, entro marzo del prossimo anno, dei sei Opg attualmente in funzione; ma non è affatto vero che con questo provvedimento l’ospedale psichiatrico giudiziario viene abolito o soppresso o superato che dir si voglia. La differenza è tutt’altro che sottile. L’Opg non è solo un luogo, è un dispositivo solidamente ancorato al codice penale che ne definisce l’oggetto (l’infermo di mente autore di reato o il condannato che diventa infermo di mente), la forma (misura di sicurezza) e le funzioni (cura e custodia). E poiché il codice penale non si modifica per decreto tutto questo resta immutato. La differenza è che tra un anno potremmo non avere più poche grandi strutture dipendenti dal sistema penitenziario e con personale prevalentemente di custodia (i sei Opg) ma numerose strutture più piccole, dislocate nelle regioni, dipendenti dal servizio sanitario nazionale e con personale prevalentemente sanitario. Queste nuove strutture avranno però, sia chiaro, il medesimo compito dei vecchi Opg, ovvero assicurare cura e custodia in esecuzione della misura di sicurezza disposta dal magistrato. Questo è il punto, la ragione per cui non è corretto affermare, cosa che anche il decreto fa, che si dispone il “definitivo superamento degli Opg”: si dispone la definitiva chiusura di quelli esistenti, ma non si abolisce affatto l’istituzione, cioè la misura di sicurezza psichiatrica. Certo, il decreto affida al servizio sanitario le nuove strutture e dispone che vi sia all’esterno, se serve, una “attività perimetrale di sicurezza e vigilanza”. Ma questo escamotage, che sembra assegnare ai medici la cura e alle guardie la custodia, basterà a evitare porte chiuse, finestre blindate, telecamere a circuito chiuso, letti di contenzione, abuso di psicofarmaci, insomma tutti quei mezzi della cura/custodia che la psichiatria ha ereditato dall’era manicomiale? Difficile crederlo. Nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura che stanno negli ospedali generali non si è mai smesso di usarli questi mezzi, e lo si fa sempre di più in questi tempi di vacche magre: lo dicono le ricerche e i casi di persone morte nei letti di contenzione come Casu a Cagliari e Mastrogiovanni a Salerno, per citare i due più noti arrivati in tribunale. E se questo succede in strutture dove la legittimità della custodia è assai dubbia grazie alla Legge 180, come potrà non succedere in strutture che per legge devono amministrare una misura di sicurezza? Nessuna vicinanza dunque tra questo provvedimento che chiude i sei Opg e la Legge 180 che chiuse nel 1978 gli ospedali psichiatrici civili: quella riforma non si limitava alla chiusura degli ospedali ma ridefiniva lo statuto del malato di mente e i limiti del trattamento psichiatrico. La riforma dei codici penale e di procedura penale, che sola potrebbe davvero superare l’Opg, bisognerà invece aspettarla ancora, sperando che il nuovo provvedimento, e soprattutto il trionfalismo che lo ha accompagnato, non offrano l’ennesima scusa per rinviarla. Questo è infatti uno dei due pericoli su cui occorre vigilare, mentre l’altro è che questo decreto possa essere usato, dalle politiche psichiatriche e penitenziarie, per dare nuova legittimazione alla misura di sicurezza psichiatrica, e per promuovere e allargare il suo uso, magari ai tanti destabilizzati dal degrado delle carceri, oppure ai migranti senza riparo che finiscono nei servizi psichiatrici (sono soprattutto gli ingressi di detenuti e migranti che hanno fatto crescere negli ultimi due anni le presenze in Opg). Negli ultimi trent’anni invece l’uso di questa misura era stato contenuto, per cattive e buone ragioni, e nei sei Opg non vi erano mai stati più di un migliaio di internati in tutto contro i circa 1.500 attuali. Le cattive ragioni erano legate all’annoso degrado delle strutture, che fungeva da deterrente all’applicazione di questa misura; le buone ragioni erano da un lato il progressivo miglioramento nell’offerta di servizi di salute mentale e dall’altro l’egregio lavoro della Corte Costituzionale, che con una ventina di sentenze ha aperto importantissime brecce nel muro della misura di sicurezza, intervenendo sia sui percorsi di ingresso in Opg che su quelli di uscita. Due esempi, giusto per rendere l’idea. Due sentenze, la n. 253 del 2003 e la n. 367 del 2004, consentono al giudice di adottare, in luogo del ricovero in Opg, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, come gli arresti domiciliari in una struttura sanitaria normale, cioè non dedicata alle persone in misura di sicurezza, mentre una vecchia sentenza, la n.110 del 1975, aveva già stabilito la possibilità di revocare la misura di sicurezza prima del tempo minimo stabilito dalla legge. Se questa e altre possibilità offerte dalle sentenze della Corte fossero utilizzate dai dipartimenti di salute mentale, dai magistrati inquirenti e da quelli di sorveglianza, dagli istituti penitenziari - e questo accade ma troppo poco - le presenze in Opg si ridurrebbero a un terzo. Qualche anno fa, durante uno dei ciclici momenti di attenzione politica verso gli Opg, proprio su questo si era concentrata la discussione, sulla possibilità di svuotare gli Opg controllandone i canali di alimentazione. Su come si arriva in opg e sul perché è così difficile uscirne anche quando la legge lo consentirebbe, chi scrive aveva fatto all’epoca un’inchiesta (il manifesto 22 agosto e 3 settembre 2007) che mostrava come si trattasse di un problema squisitamente di “policy”, di governo cioè, di guida delle istituzioni pubbliche, per indicare loro dove andare, e come. Alcuni gesti di governo poi ci sono stati, il più importante è stato il decreto che organizzava il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni e risorse della sanità penitenziaria (Dpcm 1 aprile 2008 ), con il quale è cresciuta ancora la potenza di mezzi della macchina che potrebbe prosciugare gli Opg e aiutarci a capire a chi e perché e a quanti serve una misura di sicurezza psichiatrica. Ma nessuno si è messo alla guida di questa macchina che, come al solito, è entrata in funzione solo in alcune realtà locali, che hanno dimostrato che funziona, cioè che è possibile non inviare persone in Opg e far rientrare dentro una vita accettabile chi vi è finito. Nel frattempo sono arrivate le ispezioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la campagna per l’abolizione dell’Opg promossa da un ampio cartello di associazioni nazionali (www.stopopg.it), la denuncia autorevole della Commissione di inchiesta presieduta dal senatore Marino. Tutto questo poteva essere diretto verso l’applicazione della “riforma strisciante” realizzata dalla Corte Costituzionale, e verso la moltiplicazione delle esperienze che hanno mostrato di funzionare. E invece è arrivato l’emendamento che chiude i sei Opg consegnando alle regioni 120 milioni di euro per il 2012 e i 60 per il 2013 (ma saranno poi veri?) per la realizzazione e la riconversione delle strutture, e 36 milioni per gli oneri di gestione del primo anno. Come si potrà evitare che si moltiplichino gli Opg? Giustizia: Schifani (Senato); bisogna porre rimedio a situazione inaccettabile delle carceri Adnkronos, 17 febbraio 2012 Il decreto svuota carceri “ha dei limiti in ordine alla deflazione carceraria, ma è un primo passo e un segnale che hanno voluto dare il governo e il Parlamento. Il problema carcerario è un problema di tutti e va affrontato nell’ottica di una rivisitazione organica”. Così il presidente del Senato Renato Schifani a margine della visita di stamani alla Casa circondariale di Poggioreale a Napoli. “Questa è una struttura - ha aggiunto - che ospita il doppio dei detenuti che potrebbe ospitare. È una situazione insostenibile e inaccettabile alla quale occorre porre rimedio al più presto”. “Ho visitato dei padiglioni - ha proseguito il presidente del Senato - e ho apprezzato che alcuni di questi padiglioni sono stati ristrutturati, dove le condizioni di vita sono più che accettabili, ma ve ne sono degli altri in cui le condizioni di vivibilità sono indescrivibili e che meritano pietas umana, non certo per colpa del personale che quotidianamente opera con grande spirito di abnegazione ed umanità e in situazioni di difficoltà determinate da insufficienze finanziarie, logistiche e di sovraffollamento”. “Ho parlato con alcuni detenuti e mi hanno descritto alcune condizioni di vivibilità in cui sono costretti a resistere”. “Dei padiglioni non ristrutturati - ha aggiunto Schifani - preferisco non parlare, parlerò un giorno”. “E giusto che chi ha sbagliato venga privato della libertà, ma non della dignità”, ha commentato la seconda carica dello Stato, citando quanto detto nella sua prima visita in un carcere lo scorso 7 febbraio a Regina Coeli a Roma. “Penso - ha proseguito il presidente del Senato - che un grandissimo carcere come Poggioreale possa essere interamente ristrutturato per restituire questa struttura alla vivibilità”. “Ce la possiamo fare”, ha aggiunto. Mentre in riferimento al carcere romano di Regina Coeli ha detto che “è destinato a chiudere” a causa dell’obsolescenza della struttura. Schifani ha poi affermato che proseguirà il suo giro nelle carceri italiane e ha invitato i politici di ogni schieramento partitico a fare altrettanto, per toccare con mano “un problema che è di tutti”. Sollecitato dalle domande dei giornalisti Schifani ha poi affrontato i temi caldi dell’attualità politica. “Per le grandi riforme strutturali - ha detto il presidente del Senato - è necessaria una condivisione politica. L’incontro di oggi dei tre leader di Pdl, Pd e Terzo polo, ha contribuito senza dubbio a dare un’accelerazione che bisognerà trasformare in Parlamento. I tempi sono ristretti, per cui - ha aggiunto - serve buona volontà e condivisione politica. Sono tuttavia fiducioso e prendo atto della volontà dei leader di darsi un calendario”. In merito al decreto sulle liberalizzazioni che approderà nell’aula del Senato nell’ultima settimana del mese, Schifani ha detto invece che “il testo va migliorato ma non stravolto”. “È necessario - ha aggiunto - sburocratizzare il Paese per combattere la disoccupazione e incoraggiare i giovani”. In riferimento poi all’allarme sull’illegalità “dilagante” in Italia lanciato appena giovedì scorso dalla Corte dei Conti, Schifani ha rivolto un invito al Parlamento “ad approvare al più presto il decreto anti-corruzione”, tuttora all’esame della Commissione Giustizia e Affari costituzionali alla Camera. “Il monito della Corte dei Conti non può essere ignorato”, ha detto Schifani aggiungendo che “il Senato farà la sua parte”. Ad accogliere il presidente del Senato a Poggioreale è stato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tommaso Contestabile, che ha sottolineato come “non c’è mai stato ingresso istituzionale più alto in questo carcere”. Contestabile ha rimarcato la necessità di interventi “indispensabili” per Poggioreale, aggiungendo: “Abbiamo accolto con favore i nuovi interventi parlamentari”, riferendosi al decreto cosiddetto “svuota carceri”. Il provveditore regionale ha poi fornito alcune cifre sulla struttura, il carcere più grande d’Italia, in cui sono ospitati 2.686 detenuti, di cui 279 in regime di 41 bis, mentre 69 sono i detenuti ricoverati. Dall’inizio del 2011 ad oggi sono stati evitati 12 suicidi, mentre 136 sono stati i gesti autolesionisti posti in essere da altrettanti detenuti. Giustizia: l’Unione delle Camere Penali invia una lettera aperta al ministro Paola Severino www.camerepenali.it, 17 febbraio 2012 Illustre Signor Ministro, i prossimi 23 e 24 febbraio gli avvocati penalisti italiani si asterranno dalle udienze. Non lo faranno per la difesa delle tariffe forensi o per altre rivendicazioni parasindacali, i penalisti italiani si asterranno perché gli interventi legislativi sulla professione forense degli ultimi mesi pongono in pericolo il diritto dei cittadini di essere assistiti da avvocati realmente indipendenti, forti, preparati e liberi. Ci riferiamo, prima di tutto, al fatto che la nostra attività sia considerata esclusivamente sotto gli aspetti economici, equiparando la professione legale ad una merce e dimenticando che essa coinvolge beni costituzionali di rango primario. Ci riferiamo, poi, alla nuova disciplina delle società professionali, una soluzione che non trova eguali in altri Paesi, ed introduce un modello nel quale il singolo avvocato, trasformato in un dipendente amministrato da chi avvocato non è, perderebbe la sua autonomia ed indipendenza, ed a farne le spese sarebbe l’assistito. Ci riferiamo alla idea, astratta e dannosa, che ritiene ormai inutile che un avvocato si formi nelle aule dei tribunali, per un periodo congruo. Lei sa bene quanto sia importante la pratica vera, il confronto nelle aule di giustizia, per un penalista, perché solo lì un giovane impara a confrontarsi con l’immensa forza che lo Stato mette in campo quando esercita la pretesa punitiva. Non è cosa che si impara senza viverla sul serio, così come non si impara a fare il medico senza toccare la carne dei malati. Ci riferiamo, ancora, al fatto che tutto questo parlare di ammodernamento curiosamente non ha neppure sfiorato una delle cose che manca, da sempre, e di cui c’è drammaticamente bisogno: la specializzazione, unica soluzione che coniuga competenza e merito con l’effettività della difesa. Una mancanza che appare paradossale, nel terzo millennio, di fronte ad un corpus di norme sterminato, di fronte a riti processuali diversissimi tra loro, che stride in maniera clamorosa rispetto a quel che avviene, di nuovo, nel campo della professione medica. Quale persona si affiderebbe ad un ortopedico per un intervento al cuore? Eppure nella materia legale può succedere, e gli effetti sono assai negativi per i cittadini. Ci riferiamo infine, al controllo sui noi stessi, sugli avvocati, sui comportamenti deontologici, che vanno vagliati con serietà perché i cittadini devono poter contare su difensori che improntino il loro comportamento a canoni rigorosi; con una sterminata platea di oltre 250.000 iscritti è necessario rinnovare lo statuto dell’avvocatura, le regole disciplinari, attraverso una riforma organica, non con interventi estemporanei come si è fatto negli ultimi mesi. No, Signor Ministro, non è la questione delle tariffe o delle parcelle che ci preoccupa, ma la difesa di una funzione, quella del penalista in particolare, che è essenziale in un sistema giudiziario moderno e che non può essere misurata dagli indicatori economici, perché non si misura la libertà. Giustizia: strage di Alcamo; da 20 anni latitante in Brasile in attesa che si facesse giustizia di Francesco Viviano La Repubblica, 17 febbraio 2012 Da 20 anni latitante in Brasile in attesa che si facesse giustizia. È stato condannato per la strage di Alcamo. Ma adesso la Corte ha riaperto il processo. Al telefono racconta come è dovuto scappare nel 1992 e come vive da 21 anni lontano dall’Italia. Fino all’ultimo secondo, fino a poco prima che la Corte di Cassazione, nel 1992, pronunciasse la sentenza che lo condannava all’ergastolo, Gaetano Santangelo era rimasto in Italia aspettando fiducioso in una decisione positiva. Solo quando seppe che non c’era nulla da fare, lasciò il nostro Paese destinazione Rio De Janeiro (“Partii con un regolare passaporto direttamente per il Brasile. Nessuna avventura, nessun giro attraverso il Paraguay come scrissero i giornali dell’epoca”). In Brasile vive tutt’ora con la moglie (che lo raggiunse dopo un po’) ed un figlio che adesso ha 21 anni. Fino all’ultimo fino a quella pronuncia definitiva della Cassazione che condannava all’ergastolo lui, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli per l’uccisione di due carabinieri nella caserma di Alcamo nel 1976, Santangelo, che all’epoca dell’omicidio aveva 17 anni e, oggi, ne ha 53, aveva sperato che la giustizia facesse giustizia. Adesso, dopo 36 anni dal suo primo arresto, la giustizia sta arrivando a mettere la parola fine a un calvario che, tecnicamente, si chiama “latitanza” (“ma il Brasile ha detto no all’estradizione e io sto qui del tutto in regola”). Perché adesso, dopo che Gulotta finalmente è stato riconosciuto innocente, per Santangelo e Ferrantelli è cominciato il processo di revisione a Catania, che non si svolge davanti ad una normale Corte d’appello, ma davanti al Tribunale dei Minori perché all’epoca entrambi erano ragazzini, ingiustamente arrestati, ingiustamente torturati ed ingiustamente condannati all’ergastolo. Abbiamo raggiunto Santangelo in Brasile dove lavora nell’edilizia (“ho la mia squadra di muratori”) che ha accettato di parlare con “Repubblica” precisando però di non volere entrare nel merito della vicenda giudiziaria perché il suo processo è appena iniziato. Ecco cosa ci ha raccontato, ecco come ha vissuto fino ad ora in Brasile, le sue speranze il desiderio di tornare in Italia, il desiderio di rivedere i suoi parenti i suoi vecchi amici. E ci ritornerà quando sarà dichiarato ufficialmente innocente, quando finalmente gli toglieranno di dosso l’accusa infamante di avere ucciso due carabinieri che furono uccisi da altri. Giustizia: il dr. De Tormentis ha un nome, ma non fu il solo a usare torture contro i brigatisti di Francesca Pilla Il Manifesto, 17 febbraio 2012 Anni di Piombo: oggi l’ex ispettore vive al Vomero, tra un busto di Mussolini e pile di libri. Ma tra il 1978 e il 1982 avrebbe usato tecniche come il water boarding per far confessare gli indiziati. Un ex funzionario di polizia accusa Nicola Ciocia: era lui il torturatore dei brigatisti che Nicola Ciocia non sia stato un ispettore qualsiasi è abbastanza chiaro, altrimenti il Viminale non l’avrebbe inserito, tra il 1978 e il 1982, dopo il sequestro Moro, nelle squadre speciali addette agli interrogatori che dovevano schiacciare e azzerare le Br. Forse un missionario, nel senso di un uomo con una missione da compiere. E oggi un suo collega, “Rino” Genova, lo accusa di avere avuto la caparbietà di portarla a termine ad ogni costo. Nome in codice dottor De Tormentis, sarebbe stato lui, tra gli altri, a essere scelto dal vice questore Umberto Improta per far confessare gli arrestati, e lui avrebbe poi impiegato metodi non ortodossi come il water boarding. Una tecnica terribile, usata anche in guerra, e ai giorni nostri in Iraq o Afghanistan in spregio alle convenzioni delle Nazioni Unite, che consiste nel legare le mani dietro la schiena della vittime, alzargli le gambe sopra la testa e fagli ingurgitare acqua e sale in modo da togliere il respiro, provocando la sensazione dell’annegamento. Così nel 1978 è stato torturato il brigatista Enrico Triaca, poi condannato a due anni per calunnia per aver denunciato le torture. Solo “grazie” alla stessa tecnica avrebbe in parte parlato Ennio Di Rocco. Il quale, catturato contemporaneamente a Stefano Petrella, venne trovato in possesso delle chiavi di appartamenti-rifugio delle Br, e sottoposto a continua violenza per fargli confessare gli indirizzi dove si trovavano molti suoi compagni, tra cui Giovanni Senzani. Una “soffiata” sotto costrizione che gli costò poi la vita, ucciso in carcere durante una partita di pallone. Ad accusare Ciocia è appunto Salvatore Genova, ex funzionario dell’Ucidigos ligure. Le sue dichiarazioni sono contenute anche nel libro “Colpo al cuore” di Nicola Rao, ma è stato il giornalista Fulvio Bufi del Corriere del Mezzogiorno a dare un nome e un volto al “Dottor De Tormentis”. Eppure credere che questo sia un ufficiale isolato sarebbe da ingenui. In quegli anni la tortura nelle celle della polizia politica era prassi comune, e le squadre speciali che giravano per l’Italia non ne facevano nemmeno un segreto. Lo stesso Genova ha accusato altri colleghi, i cui nomi però sono ancora tenuti sotto silenzio. Ma i trattamenti disumani e feroci sono stati denunciati negli anni anche da tantissimi brigatisti, solo che nessuno gli ha mai dato retta. Hanno parlato gli ex Br e non solo del water boarding, ma anche della tecnica usata ad Abu Ghraib di tenere per ore i prigionieri appesi per le braccia, oppure quella di provocare bruciature su tutto il corpo compresi gli organi genitali. L’annientamento psicologico, che per le donne comprendeva anche lo stupro, era sistematico e perpetrato senza scrupoli. Ora forse si potranno iniziare a scrivere i diversi nomi dei torturatori sugli omissis protetti e consentiti dallo Stato. Alberto Buonoconto, uno dei primi nappisti catturati, era uscito talmente sfigurato da un interrogatorio che, sebbene avesse rifiutato qualsiasi denuncia proprio perché non credeva nella giustizia dello stato, l’allora giudice Lucio Di Pietro stabilì di procedere d’ufficio. Nemmeno a dirlo, il perito inviato dal tribunale stabilì che Buonoconto era stato vittima di violenza, ma ormai non può raccontare più nulla perché si è suicidato a casa dei genitori appena uscito di prigione. Ora viene fuori il nome di Ciocia, ormai un uomo anziano con l’apparecchio acustico di 73 anni che vive rinchiuso nella sua bella casa napoletana del Vomero, tra un busto di Mussolini e montagne di libri di diritto. Dal 1984, infatti, ha lasciato la polizia per dedicarsi all’avvocatura, rifiutando il trasferimento da Napoli. Convinto fascista, è stato commissario della Fiamma tricolore, e attivo almeno fino al 2003. Lui ora nega ogni addebito, ma nel libro di Rao si era dilungato in descrizioni crudissime; ammette solo di avere schiaffeggiato una volta un nappista, che tra l’altro smentisce l’episodio. In molti, avvocati e magistrati dell’epoca - tra questi Libero Mancuso, candidato lo scorso anno alle comunali di Napoli per Sel -, lo difendono descrivendolo come una “persona correttissima”. Ma si sa, quella è stata una pagina nera della storia italiana, con un’infinità di sfumature. In realtà che le torture ci fossero, nei sotterranei delle caserme, lo sapevano tutti; avvocati e giudici che arrivavano in aula con l’imputato “già confessato”. Lo stesso Genova fu accusato di aver torturato i fiancheggiatori delle Br per ottenere le informazioni sul nascondiglio di Dozier. Ma perché ora dovrebbe accusare proprio Ciocia (e non solo) e dopo più di trent’anni, quando quei reati non sono nemmeno perseguibili in quanto ormai prescritti? Di regola non si dovrebbe mai terminare un articolo con un punto di domanda, ma purtroppo su questa faccenda sono ancora tanti i silenzi e le responsabilità da accertare. Roma: detenuto morì a Regina Coeli per anoressia, tre medici rinviati a giudizio Agi, 17 febbraio 2012 Tre medici del reparto sanitario del carcere di Regina Coeli sono stati rinviati a giudizio dal gup Nicola Di Grazia per la morte del 32enne Simone La Penna, avvenuta in cella il 26 novembre del 2009. Omicidio colposo è il reato contestato dal pm Eugenio Albamonte al dirigente del reparto Andrea Franceschini e ai medici Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano, che dovranno comparire come imputati davanti al tribunale monocratico il prossimo 11 luglio. Secondo l’accusa, i tre non si sarebbero accorti del progressivo deperimento di La Penna: piuttosto che vigilare sulle sue condizioni di salute, lo avrebbero lasciato morire senza prestargli le dovute attenzioni benché fosse evidente la gravità della sua situazione soprattutto a livello psichiatrico. Rinchiuso il 27 gennaio del 2009 nel carcere “Mammagialla” di Viterbo per scontare una condanna definitiva a due anni e cinque mesi, La Penna, che all’epoca pesava 79 kg per 1,73 cm di altezza, cominciò a manifestare subito le prime complicazioni: vomito, diarrea e iporrea, con perdita di quasi 20 kg, e immediato ricovero presso l’infermeria del carcere e poi all’ospedale Belcolle di Viterbo. Trasferito a Regina Coeli l’8 giugno, il detenuto venne portato, per alcuni giorni, al Sandro Pertini a fine luglio. Nel frattempo, il tribunale di sorveglianza aveva respinto una richiesta di arresti domiciliari ritenendo il regime detentivo compatibile con lo stato di salute dell’uomo. E ciò nonostante i consulenti di parte sostenessero come La Penna fosse in grave stato disadattivo psichiatrico, con ansia e umore depresso, e con disturbi dell’adattamento e dell’alimentazione, tutti legati alla presenza in carcere. La situazione del detenuto peggiorò improvvisamente e il 26 novembre La Penna, che ormai pesava 45 kg, fu trovato in cella privo di vita. Per il pm Albamonte, i tre imputati avrebbero omesso di “improntare un tempestivo approccio specialistico di natura psichiatrica alla patologia diagnosticata che veniva avviata solo dopo 43 giorni dal trasferimento a Regina Coeli” e di “esercitare il doveroso controllo sulla effettiva somministrazione della terapia farmacologica prescritta dal medico psichiatra”. Infine, riscontrata l’inefficacia del trattamento sanitario complessivo e di quello psichiatrico, avrebbero omesso “di assumere, di propria iniziativa, le determinazioni mediche preordinate a favorire il trasferimento del detenuto presso una struttura sanitaria in grado di meglio fronteggiare la patologia”. Il rinvio a giudizio disposto dal giudice è stato accolto con soddisfazione dai familiari della vittima che, in polemica con la strategia difensiva degli imputati (che hanno negato ogni responsabilità), hanno commentato a fine udienza: “Ce lo hanno ammazzato, che cosa pensavano...che fosse morto di indigestione?”. Giustizia: Sdr; appello dall’Opg di Montelupo “salvatemi da questo inferno” Agenparl, 17 febbraio 2012 “Sono stanco di tutto, chiedo aiuto per essere salvato da questo Inferno”. È il toccante appello che C.P. 34 anni, di Selargius, affetto da schizofrenia, internato nell’Ospedale Psichiatrico di Montelupo Fiorentino, ha inviato all’associ azione “Socialismo Diritti Riforme” sollecitando il suo ritorno in Sardegna. Lo rende noto la presidente Maria Grazia Caligaris sottolineando che “la Regione deve provvedere al più presto per dare una soluzione alternativa agli Opg e restituire dignità alle persone dichiarate incapaci di intendere e di volere ma condannate per episodi di intolleranza”. “Il caso di C.P. deve indurre - afferma Caligaris - a una seria riflessione sull’immediato futuro di persone con una famiglia dotata di scarsi mezzi ma determinata nel volerlo tenere vicino. Il ragazzo, privo di una gamba, era stato prelevato da una Comunità di Ploaghe dov’era ricoverato e trasferito in Toscana, in attuazione di un’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, per trascorrere due anni in una struttura la cui attività è stata di recente dimezzata dopo forti contestazioni. Il provvedimento era stato adottato dopo alcuni gravi episodi di intolleranza che C.P. aveva commesso nella Comunità e che erano stati segnalati al magistrato. Il giovane era stato, peraltro, assolto, perché incapace di intendere e di volere, dall’accusa di violenza sessuale per avere pesantemente importunato una donna”. “C.P., nonostante la gravità della malattia e la pericolosità sociale sfociata in episodi di molestia ed intolleranza, non può stare a Montelupo Fiorentino. La Regione - osserva la presidente di Sdr - deve attuare gli impegni assunti nei confronti di questi cittadini particolarmente deboli. Ha infatti ricevuto la delega delle funzioni per accogliere in nuove strutture o nelle Comunità ritenute idonee i cittadini sardi internati negli ospedali psichiatrici. La vicinanza dei familiari alle strutture costituisce una condizione determinante anche per il mantenimento dell’equilibrio. In questo particolare caso alla difficile situazione psichica si aggiunge la menomazione fisica particolarmente pesante”. “Le condizioni di C.P. preoccupano particolarmente la madre ed i familiari del giovane, che impossibilitati ad andare a trovarlo in Toscana chiedono il suo trasferimento in Sardegna. “Capisco - scrive il giovane - che quelli come me non vengono presi in considerazione, però io sono senza una gamba. Aiutatemi”. Una possibile soluzione - conclude l’ex consigliera regionale socialista - potrebbe venire dal Servizio di Igiene Mentale di Selargius che segnali al Tribunale di Sorveglianza di Firenze una struttura idonea in Sardegna. Si tratta insomma di offrire un’opportunità alternativa a un giovane che deve essere accudito e curato tenendo conto anche dei precedenti atti di autolesionismo che lo hanno visto vittima-protagonista”. Bari: riparte l’inchiesta per morte di Carlo Saturno; disposta nuova perizia su cure e assistenza di Mara Chiarelli La Repubblica, 17 febbraio 2012 La morte di Carlo Saturno, il 22enne trovato impiccato in cella. Il pm indaga per istigazione al suicidio: il ragazzo soffriva di problemi psichici dopo gli episodi di violenza subiti nel penitenziario minorile di Lecce che aveva denunciato. Riparte da una consulenza psichiatrica l’inchiesta sul decesso di Carlo Saturno, il detenuto 22 enne di Manduria, morto il 7 aprile 2011 nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari, dopo essersi impiccato in cella otto giorni prima. Il sostituto procuratore titolare del fascicolo, Isabella Ginefra, indaga per istigazione al suicidio, ipotizzando in sostanza che sia stato costretto da persone o situazioni a farla finita. Per questo, il magistrato ha affidato l’incarico per ulteriori perizie tecniche che ricostruiscano i mesi precedenti a quel 31 marzo, quando il ragazzo è stato trovato appeso a un lenzuolo nella sua cella. La perizia dovrà verificare anche, attraverso le cartelle cliniche e le relazioni dei diversi medici che lo hanno avuto in cura, che a Carlo Saturno siano state prescritte tutte le terapie necessarie. I fratelli e le sorelle di Saturno non hanno mai creduto alla tesi del suicidio. Nei mesi scorsi, il legale della famiglia, l’avvocato Tania Rizzo del foro di Lecce, ha depositato in Procura a Bari una denuncia, sempre a carico di ignoti, in cui si chiede di indagare non solo per istigazione al suicidio, ma anche per omicidio colposo. La denuncia porta la firma della sorella Anna e vorrebbe accertare che al giovane sia stata garantita in carcere tutta l’assistenza sanitaria necessaria. Saturno soffriva infatti di problemi psicologici e aveva bisogno di essere supportato dagli psicofarmaci. Problemi che aveva da quando nel 2004 era stato vittima di episodi di violenza nel carcere minorile di Lecce. Fu picchiato per due volte dalle guardie che ebbe poi il coraggio di denunciare. Il 17 novembre scorso Saturno aveva già tentato il suicidio tagliandosi le braccia. Ma non era stato l’unico gesto di autolesionismo. Nei mesi precedenti, hanno spiegato gli agenti di polizia penitenziaria, aveva tentato di ingerire delle lamette. I familiari sono decisi ad andare fino in fondo. “Vogliamo capire cosa è successo - le parole della sorella Anna - non siamo convinti del suo suicidio, vogliamo sapere se è stato assistito adeguatamente dai sanitari in carcere, vogliamo sapere la verità”. Dai primi accertamenti compiuti dagli investigatori inoltre, sembrerebbe che il giovane non volesse farla finita davvero. Saturno non avrebbe voluto suicidarsi, ma soltanto richiamare l’attenzione su di lui. Gli inquirenti hanno effettuato un sopralluogo nella cella in cui Saturno è stato trovato impiccato con un lenzuolo al letto a castello lo scorso e hanno notato che il corpo del giovane era proprio davanti al finestrino della cella. Il 22enne probabilmente voleva farsi vedere. Voleva che qualcuno si accorgesse del gesto che stava facendo e lo fermasse. Altrimenti, riflettono gli investigatori, si sarebbe nascosto nella cella e dall’altro lato del letto. Voleva forse compiere l’ennesimo atto di autolesionismo ma non per morire. Solo per ricevere maggiori attenzioni. Come era già accaduto altre volte. Gela (Ct): il carcere inaugurato lo scorso novembre è semi-vuoto, ma con la tv al plasma di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2012 Il decreto si chiama “svuota carceri”, ma sulla costa meridionale della Sicilia, a Gela, c’è un carcere che è già vuoto, senza bisogno di decreti: può ospitare 96 detenuti, ce ne sono solo 39 che non fanno alcuna attività, non hanno assistenza sanitaria e nessuno gli dà un flacone di shampoo per lavarsi i capelli, ma possono guardare la tv nello schermo piatto ultramoderno, come si legge nell’interrogazione dei Radicali che lo hanno visitato il 31 dicembre scorso. Progettato negli anni 50, i lavori iniziarono nel 1982; e dopo varie inaugurazioni, con tanto di sindaci con la fascia tricolore, è stato effettivamente aperto il 28 novembre 2011. È il carcere più nuovo d’Italia, le sedie e i tavoli del nuovissimo teatro sono ancora imballati, ma funziona a metà, l’esatto opposto del vecchio penitenziario catanese di piazza Lanza, dove sono reclusi 569 detenuti a fronte di una capienza di 155 posti letto: un indice di sovraffollamento del 367 per cento, tra i più alti d’Italia. E se a Gela non uscirà nessuno, qui sono solo circa cinquanta i reclusi a beneficiare del decreto legge “svuota carceri” convertito martedì scorso alla Camera, in un istituto di pena in cui otto-dieci detenuti ammassati in una cella, denunciano i radicali, sono la prassi. E dove, tagliuzzati alla meglio, i vecchi maglioni diventano copricapi improvvisati di lana per difendere la testa dal gelo, visto che fuori la temperatura è pochi gradi sopra lo zero, dietro le sbarre si muore di freddo, e stare in dieci dentro una cella non riscalda l’ambiente: i termosifoni ci sono, “ma non funzionano per mancanza di fondi”, così i maglioni diventano berretti e le calze vengono adattate a fasce per coprire le orecchie, visto che in carcere è proibito far entrare i cappelli di lana, con cui i detenuti possono “coprire il volto e non farsi riconoscere”. Il girone infernale è il reparto “Nicito”, soprannominato “isolamento”, in condizioni strutturali fatiscenti, come lo ha definito la delegazione radicale guidata dall’on. Rita Bernardini che l’ultimo dell’anno è andata a visitare per la quarta volta gli “ospiti dello Stato ristretti” nel penitenziario catanese, traducendo nell’ennesima interrogazione l’esito della visita. Costruito più di 100 anni fa, il carcere di piazza Lanza ha ancora le celle di sette metri quadrati, senza la doccia e con il wc alla turca, in alcuni casi a vista. La luce arriva da un piccolo lucernario che i detenuti aprono e chiudono con un vecchio filo di ferro: il reparto non è mai stato ristrutturato, le celle sono piccole, umide e buie, i muri scrostati, la doccia comune ha solo 2 piatti-doccia e si presenta in condizioni strutturali e igieniche pessime. La cayenna è la cella n. 20, detta “cella liscia”: è senza materasso e con il wc a vista. Quello di piazza Lanza non è un caso isolato: oggi 172 istituti penitenziari italiani su 204, pari all’84,31 per cento, sono sovraffollati oltre la capienza regolamentare. E 103 istituti su 204, pari al 50,49 per cento superano la capienza tollerabile. La regione record per sovraffollamento è la Calabria (77,6 %) seguita da Puglia (76,3%), Emilia Romagna (73,7%), Marche (72,l%) e Lombardia (65,9%), secondo i dati della Uil Pa Penitenziari, e il carcere con il più alto tasso di affollamento resta Lamezia Terme (193,3%), seguito da Busto Arsizio (164,7%), Vicenza (155,5%). Brescia Canton Mombello (152,5%), Mistretta (137,5%). Qui, a prima vista, nessuno dovrebbe tentare il suicidio, fenomeno in tragica, costante crescita (66 detenuti nel 2011 più 8 agenti di polizia penitenziaria). Condizione dei reclusi che in Sicilia subisce un’ulteriore beffa: il governo Lombardo ha abolito la figura del garante dei detenuti, ritenuta evidentemente inutile, ruolo finora ricoperto dal sen. Salvo Fleres, mantenendone, però, l’appannaggio, oltre centomila euro, nella previsione di bilancio. Modena: detenuto in sciopero della fame ricoverato al policlinico in gravi condizioni di salute Gazzetta di Modena, 17 febbraio 2012 Un detenuto di origine albanese è stato trasferito dalla Casa Circondariale di Modena alla sezione Carceraria del Policlinico di Modena poiché le sue condizioni fisiche e psicologiche erano molto precarie. Il detenuto da quasi quattro anni si trova recluso per scontare una pena relativa ad una condanna del 2008 per abusi e maltrattamenti sulla moglie. Negli ultimi dieci giorni il detenuto ha messo in atto uno sciopero totale della fame: non mangia né beve da quasi 10 giorni poiché si trova in una situazione di esaurimento e depressione dovuta a una situazione carceraria disumana. Note sono ormai le situazioni delle carceri italiane, ma ancora più disastrata è quella della Casa Circondariale di Modena: mancano agenti, manca il lavoro interno, manca un sostegno reale ed efficiente ai detenuti, mancano i soldi per l’igiene minima dei detenuti. Ma è possibile che in dieci giorni nessuno si sia accorto che una persona non mangia più, sta perdendo peso e non risponde alla vita sociale all’interno dell’Istituto? Ebbene a Modena sì, questo è possibile. Solo nella tarda mattinata con l’intervento dei famigliari è stato possibile evitare il peggio, accettando di farsi iniettare una flebo che idrati il corpo e per il momento ha iniziato a bere. Anche a Modena mancano i minimi diritti umani all’interno di quell’Istituto e se si prova a segnalarli ci si ritrova col rischio di non poter usufruire dei benefici penitenziari. Poche sono le persone che usufruiscono di misure alternative e manca il lavoro interno da garantire un po’ di attività. Che possibilità di revisione critica avranno mai? Che possibilità di recupero dà la società e gli operatori al singolo individuo alla luce dell’art. 27 della Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione rieducativa? Ora per l’uomo, che si trova nella sezione carceraria del Policlinico, si è in attesa di una espulsione che lo stesso detenuto aveva già richiesto con istanza presentata a gennaio. Egli non aveva potuto ottenere neanche una misura alternativa. Non gli rimarrà altro (forse) che ritornare nel suo paese per allontanarsi psicologicamente dal reato e fisicamente da un paese che non è in grado di mostrargli un senso di civiltà umana all’interno delle sue carceri. Lettera firmata Lucca: Sappe; due detenuti si barricano in cella e picchiano agenti intervenuti La Nazione, 17 febbraio 2012 Sei feriti. Secondo il Sappe, Sindacato Autonomo di polizia penitenziaria, i due detenuti “facinorosi” erano “ben conosciuti dalla Direzione del carcere lucchese per le violenze perpetrate nelle settimane precedenti”. Si sono barricati nella cella, hanno smontato i letti e usato le spalliere come bastoni per colpire gli agenti. Sei sono stati feriti: per uno, che ha riportato la frattura di due dita della mano destra, la prognosi è di 15 giorni. I suoi colleghi hanno prognosi che vanno da 5 a 7 giorni. È successo stamani, secondo quanto denuncia la segreteria regionale del Sappe, nel carcere San Giorgio di Lucca. I detenuti erano pronti anche a scagliare anche bombolette di gas e olio bollente. Secondo quanto spiega il Sappe, Sindacato Autonomo di polizia penitenziaria, i due detenuti “facinorosi” erano “ben conosciuti dalla Direzione del carcere lucchese per le violenze perpetrate nelle settimane precedenti”. Lo scorso 13 febbraio, spiega il segretario nazionale del sindacato Pasquale Salemme, “avevamo manifestato le nostre preoccupazioni”, con una lettera indirizzata al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana, “per la presenza al carcere di Lucca di un detenuto tunisino, che già lunedì scorso si era barricato nella cella minacciando di darle fuoco e che già in diverse occasioni aveva aggredito il personale di polizia penitenziaria”. Era stato chiesto di “valutare l’opportunità di adottare dei provvedimenti urgenti atti a scongiurare situazioni ben più incresciose”, continua il Sappe, come quella di oggi. “Siamo davvero preoccupati dell’escalation di violenza nelle carceri toscane e soprattutto dall’immobilismo dei vertici dell’Amministrazione delle carceri regionale” precisa il sindacato ricordando le aggressioni degli ultimi tempi “avvenute nei penitenziari di Firenze-Sollicciano, Porto Azzurro, Lucca, Pistoia e San Gimignano”. “Siamo davvero stanchi di subire passivamente l’inerzia di un’amministrazione che non adotta nessuna idonea determinazione nei confronti di chi si è reso responsabile di episodi così gravi” conclude la nota ribadendo che i mancati provvedimenti non possono, e non devono, “ricadere pericolosamente ed esclusivamente sulle donne e gli uomini della polizia penitenziaria”. Alghero: tensioni tra gruppi di detenuti stranieri, 40enne libico aggredito a pugni e calci La Nuova Sardegna, 17 febbraio 2012 Nel carcere algherese di San Giovanni è in corso un conflitto tra bande che potrebbe sfociare in una vera e propria guerra etnica. Martedì pomeriggio un detenuto libico è stato aggredito selvaggiamente da altri quattro di origine albanese e romena. Durante il pestaggio la vittima ha riportato una frattura al braccio e un grave trauma cranico, tanto che oggi sarà sottoposta a un intervento chirurgico. E adesso gli agenti della polizia penitenziaria temono furibonde rappresaglie. Secondo le indiscrezioni trapelate dall’istituto di pena tutto sarebbe cominciato intorno alle tre del pomeriggio, quando nel cortile all’interno del carcere si stava svolgendo una partita di calcetto. Stando a quanto si è appreso, Henchi Hassan, 40 anni, studente universitario magrebino che deve scontare la pena sino al 2021 per spaccio di stupefacenti, in una concitata fase di gioco sarebbe “entrato” in maniera brusca sulle gambe di un avversario. E questo intervento falloso avrebbe immediatamente scatenato un’accesa discussione tra i detenuti in campo, con spintoni e minacce da una parte e dall’altra. La rissa era nell’aria, al punto che sempre secondo alcune testimonianze lo stesso Hassan, probabilmente per evitare guai, avrebbe deciso di abbandonare il match e di rientrare subito nella sua cella. Peccato che ad attenderlo all’ingresso della sezione ci fosse un detenuto di origine albanese (già identificato), che coprendosi il volto con un giubbotto nel tentativo vano di non farsi riprendere dalle telecamere di videosorveglianza avrebbe iniziato a picchiare lo studente libico senza pietà. Non basta. Dopo qualche minuto sul luogo del pestaggio sarebbero arrivate altre tre persone di origine balcanica che hanno rincarato la dose di botte, lasciando disteso a terra il malcapitato. Soltanto l’arrivo degli agenti di polizia penitenziaria, messi in allarme dalle urla, ha evitato un epilogo ben più drammatico. Hassan, tuttavia, è stato subito portato in infermeria, dove il medico lo ha trovato con la faccia gonfia, riscontrandogli una frattura al braccio e un grave trauma cranico. La prognosi è di 45 giorni di cure e stamattina sarà operato d’urgenza in un ospedale che rimane top secret. Premesso che il fallo di gioco potrebbe essere verosimilmente soltanto un pretesto per giustificare un regolamento di conti di natura niente affatto sportiva, va anche detto che al momento non risulta che nei confronti degli aggressori siano stati presi provvedimenti, anche perché quando sono avvenuti i fatti il direttore dell’istituto di pena, Elisa Milanesi, si trovava in missione nel carcere di Tempio. E il comandante Antonello Brancati è in ferie. Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, teme una ritorsione dei detenuti arabi. Santa Maria Capua Vetere: l’On. Alfonso Papa e i Radicali visitano il carcere Il Mattino, 17 febbraio 2012 L’On. Alfonso Papa (Pdl) oggi è stato presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) per condurre una visita ispettiva insieme ad una delegazione di Radicali Italiani, composta da Luigi Mazzotta, segretario dell’associazione radicale “Per La Grande Napoli” e Elio De Rosa, tesoriere dell’associazione radicale “Legalità & Trasparenza” di Caserta. Nella struttura, informa una nota, sono detenute 952 persone a fronte di una capienza di 522 unità. Sono 167 i carcerati tossicodipendenti, 199 gli stranieri. Soltanto in 245 casi c’è stato un processo che ha portato ad una condanna definitiva, nel resto dei casi si tratta di cittadini in attesa di giudizio. La sezione femminile è estremamente sovraffollata, contenendo in un solo padiglione addirittura 57 donne. Le problematiche più importanti che affliggono la struttura sono il sovraffollamento, la carenza di acqua, in particolare nei mesi estivi, causa deficienze infrastrutturali (l’approvvigionamento idrico avviene tramite pozzi artesiani) e la presenza nelle vicinanze di una discarica, con i conseguenti disagi. È in costruzione un nuovo padiglione che difficilmente potrà essere aperto, per l’impossibilità, allo stato attuale, di far funzionare i servizi igienici. Presso la Casa Circondariale prestano servizio 489 agenti, 1 psicologo, 2 educatrici. L’unico Magistrato del Tribunale di Sorveglianza deve occuparsi anche del Carcere di Carinola e dell’Opg di Aversa. “È una struttura al collasso che si tiene in piedi soltanto per il senso di responsabilità dei detenuti e l’encomiabile lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria, i quali - ha detto Alfonso Papa all’uscita - ultimamente hanno addirittura anticipato del denaro per urgenti lavori di manutenzione, in assenza dei fondi necessari. I dati che rendiamo pubblici sono la fotografia di un sistema Giustizia “carcerogeno” e di un sistema penitenziario che non rispetta il dettato costituzionale in materia di rieducazione”. Luigi Mazzotta, segretario dell’associazione radicale “Per la Grande Napoli” ha affermato”. Continuiamo la nostra lotta per l’amnistia e la giustizia. Siamo impegnati in un ciclo di visite ispettive nelle carceri della Campania. Il prossimo 10 marzo, in un convegno che organizzeremo a Napoli, presenteremo le informazioni raccolte e le nostre proposte per migliorare le condizioni dei detenuti nella nostra regione”. Firenze: Pd; lunedì incontro pubblico con il presidente del Tribunale di sorveglianza Adnkronos, 17 febbraio 2012 “Vite S.o.s.pese - Il sovraffollamento penitenziario: riforme di sistema e soluzioni urgenti” è il titolo dell’incontro pubblico che si svolgerà lunedì 20 febbraio, a partire dalle 17.30, al teatro di Rifredi. L’iniziativa è organizzata dai forum Politiche sociali e Giustizia del Pd metropolitano di Firenze metropolitana del Pd di Firenze e rientra nel percorso di avvicinamento alla conferenza programmatica del partito che si terrà il 30 e 31 marzo alla Limonaia di villa Strozzi. A confrontarsi sul tema del sovraffollamento nelle carceri saranno la capogruppo Pd nella commissione Giustizia del Senato Silvia Della Monica, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo, il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maria Pia Giuffrida, il garante regionale per i Diritti dei Detenuti Alessandro Margara, il responsabile Carceri e Diritti dei detenuti Pd della Toscana Roberta Rossi e il segretario metropolitano del Pd di Firenze Patrizio Mecacci. Introducono Antonio Pala e Massimiliano Annetta, responsabili dei Forum Politiche sociali e Giustizia del Pd metropolitano. Modera Stefano Pagliai del Forum Giustizia del Pd della Toscana. “Questo incontro - dicono il segretario Mecacci e Antonio Pala - rientra nelle iniziative che abbiamo deciso di organizzare dopo la nostra visita a Sollicciano nel dicembre scorso. L’obbiettivo non è soltanto sottolineare l’abisso che attualmente separa la realtà carceraria da quanto prevede la Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, ma anche individuare possibili soluzioni per migliorare le condizioni delle carceri italiane. Siamo convinti che l’abuso del ricorso alla custodia cautelare, prodotto da leggi ingiuste e assurde come la Bossi-Fini, la ex-Cirielli e la Fini- Giovanardi, sia il primo nodo da sciogliere per far fronte all’emergenza carcere, altrimenti qualsiasi altra soluzione avrà solo il sapore di un ripiego”. Immigrazione: oltre mille nei Cie, reclusi fino a 18 mesi Redattore Sociale, 17 febbraio 2012 È il dato aggiornato sugli 11 centri di identificazione e di espulsione attivi ora in Italia. Da Gorizia a Trapani sono trattenuti gli stranieri che devono essere identificati e rimpatriati. È una detenzione amministrativa. Sono oltre mille gli immigrati reclusi in questo momento negli 11 Centri di identificazione e di espulsione attivi in Italia da Gorizia a Trapani. Sono 956, di cui 107 donne, ai quali bisogna aggiungere i trattenuti nel Cie di Torino, dove ci sono una sezione maschile e una femminile. Torino è l’unica prefettura italiana a non averci fornito il numero esatto. Il Cie di Torino ha una capienza di 180 posti. Nei Cie vengono reclusi come in un carcere gli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno che non hanno ottemperato a una precedente espulsione dall’Italia. Si tratta di una detenzione amministrativa ma può durare fino a un anno e mezzo per effetto dell’ultimo pacchetto sicurezza del 2011 che ha triplicato il tempo di detenzione. Non bisogna avere commesso alcun reato penale per essere reclusi nei Cie, anche se spesso nei centri di detenzione finiscono stranieri che hanno già scontato una pena in carcere e anche dopo anni di reclusione non sono stati identificati. 18 mesi è il tempo massimo che le autorità italiane hanno a disposizione per identificare e rimpatriare nei paesi d’origine i migranti reclusi. A volte si tratta anche di vittime di tratta o di violenza e di persone che vivono in Italia da vent’anni con le proprie famiglie ma hanno perso il lavoro per la crisi e con esso il permesso di soggiorno. A Bari Palese sono reclusi 108 uomini, a Bologna 48 uomini e 17 donne, a Brindisi 50 uomini, a Lamezia Terme (Cz) 55 uomini, a Milano in via Corelli ci sono 90 uomini, al Cie di Modena 60 uomini, a Ponte Galeria, nel Cie di Roma che è il più grande d’Italia ci sono 140 uomini e 90 donne, a Trapani 46 uomini nel Serraino Vulpitta e 228 nel Cie di Milo, 24 uomini si trovano nel Cie di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia. Quest’ultima struttura avrebbe una capienza di 248 posti ma è stata devastata dalle rivolte e quindi è agibile in forma molto ridotta. Quasi tutti i Cie hanno meno reclusi della capienza massima, con la sola eccezione di Trapani che è anche l’unica città ad avere due Centri di identificazione e di espulsione. Nei due Cie siciliani il numero dei reclusi supera i posti disponibili che sarebbero 43 al Vulpitta e 204 a Milo. I Cie di Caltanissetta e di Crotone sono chiusi. Il dato sul numero dei trattenuti nei centri di detenzione varia continuamente a causa dei continui rimpatri e dei nuovi ingressi. Libia: i prigionieri della rivoluzione di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 febbraio 2012 Sei celle spoglie. A terra materassi e coperte. Muri grigiastri, potenti luci al neon. Non hanno finestre, le porte di ferro pesante sono chiuse dall’esterno da un semplice chiavistello privo di lucchetto. Contengono una ventina di prigionieri. I primi che ci mostrano - Mohammad Milud e Salah Mohammed - sono entrambi ventenni, catturati una settimana fa con l’accusa di spacciare “alcool e droga” e di possedere “troppe armi”. Ma quello che considerano più pericoloso è Munir Al Burawi, 39 anni, nipote di Thuami Khaled, uno dei capi dei servizi segreti interni al tempo di Moammar Gheddafi. “Era un criminale, un killer spietato al servizio della dittatura. Ha ucciso due persone solo l’estate scorsa. Lo teniamo qui da 50 giorni, in attesa di processo”, dice Kais Ezalouk, responsabile dei 450 uomini (saranno 600 tra pochi giorni) componenti la brigata Fursan che controlla Janzur, il quartiere di Tripoli da cui il 20 agosto passarono le colonne rivoluzionarie provenienti da Zintan prima di conquistare il quartiere generale del Colonnello. La caserma della Fursan è in una vecchia fabbrica di sapone. Ci siamo venuti due giorni fa per cercare di comprendere il fenomeno che oggi, a un anno dallo scoppio della rivoluzione culminata in ottobre con il linciaggio di Gheddafi, sta pregiudicando l’intero processo di rinnovamento politico: la guerra civile, lo scontro tra le brigate che furono il motore delle sommosse, oltre agli abusi, le violenze gratuite e all’incapacità del governo transitorio di assumere il controllo sulle realtà locali. A prima vista i miliziani in erba che, su base volontaria, compongono la brigata sono ancora carichi di entusiasmo. “Non vogliamo nascondere nulla. Ben venuta la stampa. La nostra unica arma contro i criminali del passato è tenerli in cella sino a che il governo centrale non sarà in grado di occuparsene”, sostengono. Non è però difficile cogliere i limiti del volontarismo rivoluzionario eletto a sistema. Appena i loro secondini voltano la testa, i prigionieri che sino a un secondo prima ci assicuravano di “essere trattati benissimo” fanno smorfie di paura e allarme. E sono gli stessi miliziani a denunciare la gravissima anarchia interna. “Dai ministeri non ci dicono nulla. Assurdo. Un anno fa il primo nucleo di intellettuali che cercò di organizzare le sommosse a Bengasi era composto per lo più da avvocati. Possibile che non ci abbiano ancora fornito un valido sistema di leggi per giudicare gli uomini del vecchio regime? A Tripoli neppure sanno quanta gente teniamo in carcere”, denunciano. Il risentimento lievita quando si parla di salari. “Finora nessuno è stato mai pagato. Qualche settimana fa ci è stato promesso un versamento di 2.500 dinari (circa 2.000 dollari, ndr) a testa per i single e 4.000 per gli sposati con prole. Ma nessuno ha mai visto nulla Che ne fanno dei soldi? Dove hanno messo i fondi che stavano all’estero? Non è che finiamo con dei dirigenti corrotti come prima?”, quasi gridano. Il loro malcontento è però solo un riflesso pallido di quello che sta dilagando nel Paese. Nella sola zona di Tripoli si contano circa 100 milizie (250 sulla costa da Misurata al confine tunisino): ragazzini armati che controllano le strade, spesso in lotta tra loro. Le meno amate dai locali sono quelle di Zintan e Misurata, 10 mila uomini in rotta con gli 80 mila delle 85 brigate di Tripoli. Le organizzazioni internazionali denunciano torture sistematiche nelle loro carceri, che potrebbero contenere oltre 8.500 detenuti. Arrivi all’aeroporto internazionale e scopri che circa mille miliziani di Zintan si occupano della sicurezza. Sono talmente forti che anche l’Alitalia ha dovuto riferirsi direttamente a loro, e non al ministero della Difesa, per cercare di assicurare i propri voli su Roma Negli ultimi mesi le tensioni locali sono spesso diventate scaramucce armate con morti e feriti. Vai all’università principale della capitale e scopri che gli studenti prima che degli esami sono preoccupati per la loro incolumità. “Sono cresciuti i furti d’auto. L’arbitrarietà ai posti di blocco è totale. Se rispondi male rischi un proiettile nel cranio. Anche le ragazze hanno paura, si parla di abusi e violenze sessuali. Quando la polizia regolare prenderà finalmente il posto delle milizie?”, lamentano. Fioriscono le teorie complottistiche. “C’è qualcuno che ci boicotta perché vuole il nostro petrolio”, è uno dei mantra più diffusi. La Nato non è più portata in palmo di roano. Anzi. E inevitabilmente la popolarità del presidente del Consiglio Transitorio, quello stesso mitico Mustafa Abdel Jalil che solo tre mesi fa era adorato come il padre della rivoluzione, oggi è in caduta libera A fine gennaio gli arrabbiati di Bengasi hanno vandalizzato la sede del governo locale. Jalil è dovuto fuggire. E c’è il rischio che nuove proteste possano turbare le grandi commemorazioni di domani per l’anniversario della rivoluzione. Un recente sondaggio delle università di Oxford e di Bengasi (su di un campione di 2.000 persone) rivela che oltre il 40% chiede un leader forte. Vogliono un capo carismatico, non una coalizione di dirigenti illuminati. La logica è semplice: sempre più il bisogno di ordine sta prevalendo sulla richiesta di democrazia “il grande rischio è che la rivoluzione si trasformi in dittatura”, ammette apertamente Jihad Maatug, un ingegnere 33enne, che dopo aver partecipato all’assedio di Sirte l’estate scorsa è entrato nel gruppo dirigente che si occupa di riorganizzare il ministero della Difesa Già a Sirte aveva denunciato con durezza gli abusi commessi dai ribelli contro le popolazioni civili legate a Gheddafi. Ma ora è ancora più autocritico, tanto da citare ironico la “Fattoria degli animali”: “Il rischio è nell’aria. Stiamo diventando come i maiali e le pecore del classico di George Orwell!”. Honduras: Usa collaborano indagini su incendio del carcere dove sono morti 355 detenuti Adnkronos, 17 febbraio 2012 Gli Stati Uniti hanno inviato in Honduras una squadra di esperti Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (Atf) per indagare sulle cause dell’incendio nel carcere che ha provocato la morte di 355 detenuti. Lo ha reso noto l’ambasciata americana a Tegucigalpa, precisando di aver ricevuto una richiesta di aiuto da parte del governo dell’Honduras per l’inchiesta sulle cause dell’incendio. Dolore del Papa per le vittime Il Papa ha espresso il suo profondo dolore per le vittime dell’incendio che mercoledì scorso ha devastato il carcere di Comayagua, in Honduras. In un messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, Benedetto XVI eleva le sue “ferventi” preghiere per gli oltre 350 morti, manifestando la sua “vicinanza spirituale” ai familiari auspicando un “rapido e totale recupero dei feriti”. Il Papa, in un momento “di così grande tristezza”, invoca su tutti “l’amorevole protezione di Nostra Signora di Suyapa”. Il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha sottolineato la gravità dell’accaduto in una nota trasmessa dalla Radio Vaticana. “Tragedie simili - ha osservato - le ricordiamo bene negli ultimi anni. Non sono rare. Ancora in Honduras più di cento morti a San Pedro di Sula nel 2004. E poi in Cile, Algeria, Repubblica Dominicana, Brasile, Arabia Saudita, Marocco, El Salvador, Tunisia, Argentina, Messico. Se c’è un incendio in un carcere, vi è quasi sempre una strage”. Per padre Lombardi, “il fatto che delle persone abbiano sbagliato non le priva di ogni dignità, non giustifica che vengano abbrutite in un clima di violenza che degrada non solo loro ma spesso anche chi se ne deve occupare e rende praticamente impossibile ogni recupero alla vita sociale”. In merito, il portavoce ricorda “il documento del Sinodo africano pubblicato dal Papa in Benin, che evoca la condizione terribile dei carcerati in Africa e le visite dei Papi nei carceri romani, fino a quella di due mesi fa a Rebibbia”.