Giustizia: dopo la legge “salva-carceri”, ora via libera alle riforme di Evelina Cataldo Il Riformista, 16 febbraio 2012 La prima tessera apposta al mosaico degradato della giustizia affronta con impegno realistico l’annosa emergenza carceraria. L’attuale decreto “salva-carceri” introduce un principio di progressività della custodia in caso di arresto, una graduale chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e l’estensione della detenzione domiciliare ai detenuti con residuo pena di 18 mesi, previo parere favorevole di buona condotta. Un provvedimento che tenta di arginare le incongruenze procedurali da cui trae origine il fenomeno delle cosiddette porte girevoli uniformandolo alle garanzie costituzionali relative allo status di imputato nonché al rispetto della dignità umana che vieta in assoluto ogni trattamento crudele, inumano o degradante. Un segnale più che positivo, specie se si riflette sugli effetti che ritoccano un impianto a lungo suppurato da procedure inutili ma gravose sulla polizia e gli operatori penitenziari. Difatti, in caso di arresto, il solo ingresso in istituto di pena prevede una serie di adempimenti burocratici tassativi quali: perquisizione, immatricolazione, colloquio di primo ingresso, visita medica, distribuzione al fermato o all’arrestato di beni di prima necessità, consegna dei contanti in suo possesso all’ufficio matricola, allocazione in camera detentiva, in genere di “prima accoglienza”, distaccata da quelle dei condannati, secondo un principio di differenziazione dei circuiti penitenziari - anch’esso, nella prassi, vanificato in casi particolari - al fine di evitare un impatto traumatico dell’imputato al momento del suo varco in prigione. Il decreto in esame incorpora, quindi, una duplice garanzia nel circoscritto versante penitenziario: agli imputati, nei casi di reati non particolarmente gravi e quando non socialmente pericolosi, si evitano superflui impatti con la realtà carceraria, dall’altra si snelliscono attività relative al neo-ingresso in prigione che spesso distolgono gli operatori dall’opportuna attenzione ai soggetti in esecuzione penale, la cui amministrazione ordinaria è di per sé onerosa per entità numerica e differenti casi di specie dei reclusi. Un decreto che parte da una questione risaputa e, per la prima volta, valutata con scrupolosità. L’ambito della giustizia, purtuttavia, deve proseguire nella sua opera di innovazione, riadattando il peso della bilancia sanzionatoria rispetto a reati oramai invasivi, come quelli da colletto bianco, che la società civile considera eticamente riprovevoli quanto quelli più efferati. Condannare tendenzialmente e promiscuamente alla carcerazione preventiva risulta una deformità inaccettabile in uno Stato di diritto, ma una sentenza definitiva, specie se pronunciata nei confronti di pubbliche personalità colpevoli di gravi reati economici, deve essere scontata, nel rispetto del diritto, della dignità umana, del recupero sociale del condannato e delle vittime del crimine. D’altronde, l’intento del legislatore è sempre stato teso alla contestuale tutela dei beni giuridici del singolo e di un più complessivo interesse pubblico. Se la percezione collettiva tra agire lecito ed illecito risulta sfumata, salvaguardare il bene collettivo si presenta come urgenza improrogabile. La politica, sulla scia tracciata dal decreto salva-carceri, rimuova quei paletti prescrittivi in ambito processuale e garantisca tempi adeguati per un’esecuzione “concludente” del suo iter. Gli argomenti della prescrizione, durata equa del processo, sanzione dei reati economici, depenalizzazione degli illeciti bagatellari e concreta incisività di una pena riabilitativa devono trovare spazio per una formulazione funzionale allo status quo della giustizia affinché non resti claudicante nell’equilibrata suddivisione dei poteri dello Stato. Giustizia: Napolitano; è stato opportuno partire carceri, emergenza sociale e umanitaria Tm News, 16 febbraio 2012 Il governo ha fatto bene a partire dalle carceri, nell’ambito dei propositi di riforma della giustizia. Lo ha sottolineato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo al plenum del Consiglio superiore della magistratura. “Opportuno e realistico - sono le parole del presidente - è stato partire, innanzitutto in sede di governo, da provvedimenti funzionali a un rapido miglioramento delle condizioni del servizio giustizia, con riferimento, tra l’altro all’autentica emergenza sociale e umanitaria insorta nelle carceri, e da scelte che possano collocarsi in una prospettiva di più lungo termine di vera e propria riforma, comprensiva anche di delicati aspetti costituzionali”. Granata (Fli): Napolitano ha ragione, governo intervenga “Il Capo dello Stato ha ribadito anche oggi la necessità di affrontare una questione emergenziale di primo piano. Ha ragione, quella delle carceri è una autentica emergenza legata alla qualità della vita di tanti uomini e donne, una questione di civiltà. Un primo passo è stato fatto, e apprezziamo l’impegno che il Ministro Severino ha messo, sin dall’inizio, per cercare una soluzione a questa drammatica situazione”. Lo dichiara il vice coordinatore di Futuro e Libertà, Fabio Granata, che aggiunge: “Per questo ho chiesto in Aula, a nome del Gruppo di Futuro e Libertà, che il Governo impieghi il trenta per cento delle risorse previste dal piano carceri in immediati interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione degli istituti esistenti, per garantire vivibilità, igiene, acqua corrente e servizi essenziali ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria”. Giustizia: Francesco Maisto; il decreto svuota-carceri? è un segno positivo, ma timido Redattore Sociale, 16 febbraio 2012 Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna pensa a interventi legislativi e organizzativi. “Bisogna mettere i tribunali di sorveglianza in condizione di lavorare”. Si ridurrà invece il fenomeno delle “porte girevoli”. L’approvazione del decreto cosiddetto “svuota-carceri” da parte della Camera dei deputati (avvenuta ieri con 385 voti favorevoli, 105 contrari e 26 astenuti) rappresenta un cambio di passo. Ne è convinto Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, che dice, “finalmente non abbiamo avuto un altro pacchetto sicurezza”. Ma forse si poteva osare un po’ di più. “Il segno è positivo ma è timido e non troppo consistente - precisa Maisto - perché è vero che porterà fuori dal carcere un certo numero di persone, a dire il vero non troppo alto, ma non risolve il problema dei 22 mila detenuti in più rispetto alla capienza”. Attualmente, infatti, nelle carceri italiane si trovano circa 67 mila detenuti per una capienza regolamentare di circa 45 mila posti e si calcola che, per effetto della norma contenuta nel decreto svuota-carceri in base al quale gli ultimi 18 mesi di pena possono essere scontati in detenzione domiciliare (prima erano 12), potrebbero uscire circa 3.000 persone (a livello nazionale). “Va tenuto conto poi del fatto che non si tratta di un automatismo ma ogni caso andrà valutato da parte dei tribunali di sorveglianza - dice Maisto - i quali però, devono essere messi in condizione di poter lavorare”. Qualche effetto in più, invece, si avrà dalla modifica dell’articolo 558 del Codice di procedura penale (divieto di condurre in carcere persone arrestate per reati non particolarmente gravi ma custodia ai domiciliari o nelle camere di sicurezza e giudizio direttissimo entro 48 ore anziché 96). “Queste modifiche potrebbero attenuare il fenomeno delle porte girevoli - afferma Maisto - e ridurre il numero delle persone che vengono condotte in carcere”. Intervenire a livello legislativo e organizzativo. Ecco cosa si dovrebbe fare secondo Francesco Maisto. “C’è una considerazione di fondo che va fatta ed è che i Tribunali di sorveglianza non vanno a pieno regime - chiarisce - Intervenire a livello organizzativo significa metterli in condizione, ad esempio, di riconoscere la buona condotta a un detenuto che fa domanda di liberazione anticipata, cosa che oggi non è sempre possibile per mancanza di personale”. Un intervento, quello a carattere organizzativo necessario anche per “ridurre la sperequazione delle risorse a livello nazionale”. Ci sono, infatti, regioni in cui il personale del Tribunale di sorveglianza è in eccesso e viene distaccato in altri uffici - come quello del giudice di pace, ad esempio - e regioni in cui anche la cancelleria è in affanno. A livello legislativo, invece, sarebbe necessario intervenire per modificare le normative che hanno previsto ipotesi di reato che prima non esistevano o inasprito le pene per reati già esistenti. “Penso ad esempio alla Cirielli e alla Fini-Giovanardi - conclude Maisto. Ad esempio trovo irrazionale negare l’accesso ai percorsi di recupero in comunità ai tossicodipendenti recidivi nel caso in cui la richiesta sia già stata fatta due volte”. Giustizia: Uil Penitenziari; decreto-carceri è solo palliativo, non incide su criticità Agi, 16 febbraio 2012 Le norme contenute nel decreto svuota carceri “costituiscono solo un palliativo e non incideranno significativamente sulle criticità che affliggono il sistema carcere”. Lo sottolinea in una nota Eugenio Sarno, segretario Uil Penitenziari. “Facciamo salvo l’impegno, l’entusiasmo, la determinazione e il coraggio del ministro Paola Severino - dice - ma si abbia coscienza che per restituire civiltà e dignità al panorama carcerario c’è ancora molto, ma proprio molto da fare. Mi pare di cogliere nelle dichiarazioni dei politici quel sollievo che promana dall’aver messo a posto la propria coscienza, che non sempre significa aver risolto i problemi. Occorrerebbe non dimenticare che di fatto il lavoro intramurario non esiste più e la maggior parte dei detenuti è costretta all’ozio; che è praticamente impossibile organizzare percorsi rieducativi e riabilitativi considerata la mancanza di operatori e di fondi; che non è possibile garantire la sicurezza sociale, come dimostrano le recenti evasioni, considerata l’endemica carenza di organici dei poliziotti penitenziari; che la maggior parte degli istituti penitenziari si connota per decadenza strutturale al punto da non poter garantire nemmeno la salvaguardia della salute di chi vive e lavora in carcere. Pertanto bearsi della possibilità che attraverso tali norme possano, forse, accedere alla detenzione domiciliare circa tremila detenuti, rispetto a un sovraccarico di presenze di circa 23mila, vuol dire accontentarsi del nulla”. Giustizia: Psicologi Penitenziari; possiamo “dedicare” soltanto 6 minuti l’anno a detenuto Ansa, 16 febbraio 2012 “Il Capo dello Stato ha ribadito anche oggi la necessità di affrontare una questione emergenziale di primo piano. Ha ragione, quella delle carceri è una autentica emergenza legata alla qualità della vita di tanti uomini e donne, una questione di civiltà. Un primo passo è stato fatto, e apprezziamo l’impegno che il Ministro Severino ha messo, sin dall’inizio, per cercare una soluzione a questa drammatica situazione”. Lo dichiara il vice coordinatore di Futuro e Libertà, Fabio Granata, che aggiunge: “Per questo ho chiesto in Aula, a nome del Gruppo di Futuro e Libertà, che il Governo impieghi il trenta per cento delle risorse previste dal piano carceri in immediati interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione degli istituti esistenti, per garantire vivibilità, igiene, acqua corrente e servizi essenziali ai detenuti e agli agenti di polizia penitenziaria”. Giustizia: rivista “Civiltà cattolica”; contro sovraffollamento via libera a project financing Tm News, 16 febbraio 2012 “Certo, il Governo, anche tenendo conto dei limiti temporali che lo caratterizzano, sta operando bene, ma si tratta di interventi non risolutivi”: lo scrive la “Civiltà cattolica”, quindicinale dei gesuiti che va in stampa con l’imprimatur della Segreteria di Stato vaticana. “Nel breve periodo - scrive il notista politico Michele Simone - sostanzialmente il problema rimarrà insoluto. Forse sarebbe opportuno cambiare prospettiva, mettendosi in un diverso approccio culturale. Secondo alcuni operatori infatti - per ora una minoranza - bisognerebbe affrontare il problema carcerario ipotizzando l’affidamento di nuove carceri ai privati, ad esempio ricorrendo a strumenti come la “finanza di progetto” (project financing), adattato alla situazione carceraria, in modo da rispettare anche l’indicazione costituzionale sul fine rieducativo della pena. Si tratta di una rivoluzione culturale, che ha bisogno di studio e di sperimentazioni ripetute. D’altro canto, se non ci si avvia verso una novità significativa di approccio - conclude “Civiltà cattolica” - il sovraffollamento delle carceri ci accompagnerà in eterno, a discapito soprattutto dei detenuti, in specie di quelli in attesa di giudizio”. Giustizia: proposta di legge “svuota-tribunali”, prevista l’assoluzione se il reato è tenue di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2012 Dopo la “svuota-carceri” ora tocca alla “svuota-tribunali”: il primo tassello sta arrivando dalla Camera dove la commissione Giustizia ha trovato un faticoso accordo sulla proposta di legge diretta a introdurre la “particolare tenuità del fatto” fra le cause che fanno scattare il proscioglimento dell’imputato. Il furto di un paio di calze, una piccola truffa, un oltraggio a pubblico ufficiale, in teoria qualunque reato - se ricorrono determinate circostanze - potrà essere considerato “tenue” dal Pm p dal giudice, e quindi sfociare in un’archiviazione o in una sentenza di proscioglimento. Il fatto in sé, ormai accertato, farebbe comunque “stato” in sede civile, ai fini di un’eventuale risarcimento dei danni, ma il processo penale si “libererà” di un carico di lavoro notevole che contribuisce a ingolfarlo e rallentarlo. Se passerà, sarà una piccola rivoluzione per il nostro sistema penale, abituato a processare qualunque cosa. Il ministro della Giustizia Paola Severino lo aveva inserito nel ddl presentato a dicembre su depenalizzazione dei reati minori, messa alla prova e reclusione domiciliare (proprio allo scopo di deflazionare il processo e il carcere), ma poi lo ha stralciato prendendo atto che in Parlamento, sia pure faticosamente, stava andando avanti l’analoga proposta di legge del Pd (relatore Lanfranco Tenaglia) su cui sembra convergere una maggioranza ampia, con l’eccezione della Lega e di qualche “falco” del Pdl. Tant’è che la proposta di legge è già stata inserita all’ordine del giorno della seduta dell’aula di lunedì. Oggi, una volta acquisito il parere delle Commissioni competenti, verrà dato mandato al relatore di riferire in assemblea. Colpi di scena permettendo. In effetti, martedì sembrava che tutto potesse saltare. Il governo aveva presentato alcuni emendamenti al testo messo a punto dal Comitato ristretto della commissione: una difficile mediazione politica che, per arginare l’opposizione della Lega e della parte del Pdl più sensibile ai richiami “giustizialisti” del Carroccio, era sfociata in un formulazione “articolata” della “particolare tenuità del fatto” per delimitare la discrezionalità del giudice. Secondo il comitato, infatti, nel pronunciare la sentenza di proscioglimento per “particolare tenuità del fatto”, il giudice deve tener conto di alcuni parametri come “le modalità della condotta, la sua occasionalità e l’esiguità delle sue conseguenze dannose o pericolose”. Inoltre, “la condotta può essere ritenuta non occasionale solo quando il suo autore abbia commesso, in precedenza o successivamente, altri reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, per le modalità della condotta e l’esiguità delle sue conseguenze dannose o pericolose, sia di particolare tenuità”. Non una sorta di “recidiva”, che il Pdl avrebbe voluto inserire, ma un paletto di cui il giudice deve tener conto e valutare. In uno degli emendamenti del governo, però, si chiedeva la soppressione di questa definizione della “non occasionalità”, sostenendo che sia “più corretto lasciare detta valutazione all’interpretazione del giudice, senza introdurre ingiustificate limitazioni fondate sull’aprioristica selezione della tipologia e della natura delle precedenti condanne subite dall’imputato”. Insomma, campo libero al giudice, proprio quello che Lega e Pdl non vogliono. Ieri l’emendamento è stato ritirato e si è trovato l’accordo su una riformulazione addirittura più rigida che esclude il proscioglimento per particolare tenuità del fatto ai delinquenti abituali o a chi ha commesso, prima o dopo, altri reati della stessa indole. Giustizia: l’uso della tortura negli anni di piombo di Adriano Sofri La Repubblica, 16 febbraio 2012 A prima vista, la notizia è che negli anni 70 e 80 ci fu un ricorso non episodico a torture di polizia nei confronti di militanti della “lotta armata” - e non solo. È quello che riemerge da libri (Nicola Rao, Colpo al cuore), programmi televisivi (“Chi l’ha visto”), articoli (come l’intervista del Corriere a Nicola Ciocia, già “professor De Tormentis”, questore in pensione). Non è una notizia se non per chi sia stato del tutto distratto da simili inquietanti argomenti. Nei primi anni ‘80 le denunce per torture raccolte da avvocati, da Amnesty e riferite in Parlamento furono dozzine. A volte la cosa “scappava di mano”, come nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi Scalfaro, che era allora ministro dell’Interno, dichiarò: “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia e ne è uscito morto”. Era un giovane mafioso, fu picchiato e torturato col metodo della “cassetta”: un tubo spinto in gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la trachea, il cadavere fu portato su una spiaggia per simularne l’annegamento in mare. Alla notte di tortura parteciparono o assistettero decine di agenti e funzionari. Avevano molte attenuanti: era stato appena assassinato un valoroso funzionario di polizia, Beppe Montana, “Serpico”. All’indomani della denuncia di Scalfaro, e delle destituzioni da lui decise, la mafia assassinò il commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Una sequenza terribile, ma le attenuanti si addicono poco al ricorso alla tortura, il cui ripudio è per definizione incondizionato. Repubblica sta ricostruendo la tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, “reo confesso” nel 1976 dell’assassinio ad Alcamo di due carabinieri, condannato all’ergastolo e detenuto per 22 anni: finché uno dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità. L’elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, ai cinque autori del sequestro Dozier, Padova 1982… In tutte queste circostanze operavano (è il verbo giusto: noi siamo come i chirurghi, dirà Ciocia, “una volta cominciato dobbiamo andare fino in fondo”) due squadre chiamate grottescamente “I cinque dell’Ave Maria” e “I vendicatori della notte”. Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padovane al tempo di Dozier e stralciato grazie all’immunità parlamentare, infine pensionato: “Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale”. Quel modo di tortura - accompagnato da sevizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni simulate; ed efferatezze sessuali nei confronti di militanti donne - non si chiamava ancora water-boarding, e non era un genere di importazione. Lo si usava già coi briganti ottocenteschi. Fu una specialità algerina negli anni ‘50. Addirittura, quando Rao chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della Cia che assistettero agli interrogatori per Dozier fossero rimasti stupefatti per quello che vedevano, lui risponde: “Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori. Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori!”. Costui accetta di parlare con Rao, che non ne rivela ancora il nome. Solo quel soprannome, “professor De Tormentis”. Il 23 marzo 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. “Ieri sera ho ascoltato con molta attenzione il discorso del ministro e ne ho tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!”. Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull’Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l’avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant’anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però “da sempre fascista mussoliniano”. Ecco qual è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l’esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori. Giustizia: processo Cucchi; infermiere; Stefano sembrava dormire invece era morto Ansa, 16 febbraio 2012 Verso le 6 di mattina del 22 ottobre 2009 “andai nella cella di Cucchi, lo trovai disteso su un fianco con la mano sotto la testa. Sembrava dormire; lo chiamai più volte per fargli il prelievo, ma non rispose”. Stefano Cucchi era morto in quella cella del reparto detenuti dell’ ospedale Pertini di Roma dove si trovava da qualche giorno. A raccontare quei momenti è stato l’infermiere Giuseppe Flauto, uno di dodici imputati (sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari) del processo per la morte del giovane romano, fermato il 15 ottobre 2009 per droga e trovato senza vita una settimana dopo in ospedale. Flauto ha ricostruito cronologicamente i suoi contatti con Cucchi. Il 20 ottobre il suo primo vero dialogo con quel paziente-detenuto non molto collaborativo. “Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima - ha detto - l’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi. Si lamentava di un dolore alla schiena, gliela guardai, ma sinceramente non vidi alcun segno di lesioni. Mi disse che era caduto qualche giorno prima”. Poi l’ultimo giorno. “Non aveva mangiato - ha aggiunto Flauto - era magro e tentavo di stimolarlo a mangiare. Con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò e non so perché”. La notte con un collega gli somministrammo la terapia. Notai una cosa strana: era tranquillo, disse che non aveva dolori né fastidi. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora. Disse che voleva cioccolata; poi non chiamò più”. Verso le 6 di mattina l’infermiere trovò Stefano morto. “Tentammo di rianimarlo ma non ci fu nulla da fare. Le guardie dissero di lasciare il corpo così com’era, senza toccarlo, perché doveva prima visionarlo il magistrato. Andai in infermeria, arrivò il cambio turno, lasciai le consegne, smontai”. Psicologicamente sentita la sua difesa: “Faccio l’infermiere da 22 anni; non un lavoro come un altro, una missione, ci vuole passione e dedizione. Non ho nulla da rimproverarmi. Sarei andato contro la mia storia, il mio pensiero se avessi abbandonato quel paziente per come mi si contesta”. Piemonte: Garante dei diritti dei detenuti; il progetto di legge regionale 188 è una regressione di Igor Boni, Salvatore Grizzanti, Giulio Manfredi Notizie Radicali, 16 febbraio 2012 Fra il 2000 e il 2005, i consiglieri regionali radicali Carmelo Palma e Bruno Mellano effettuarono circa 100 visite ispettive nelle carceri piemontesi. Tali visite servirono a comprendere che i 13 istituti penitenziari della regione hanno caratteristiche e problemi uno diversi dall’altro; e che tali problemi non potevano essere sicuramente risolti con visite ispettive sporadiche e frammentarie (seppur sempre auspicabili, anche da parte dei consiglieri regionali attuali!). Occorreva istituire una figura nuova, in grado di interagire con i vari soggetti (direttori carceri, agenti polizia penitenziaria, detenuti, educatori…), in grado di ridurre il danno derivante sia dal sovraffollamento sia dal fatto incontestabile che il carcere svolge ormai le funzioni di discarica sociale, con tutte le violenze, frustrazioni, dolore che questo comporta. Tali riflessioni portarono alla presentazione, il 7 febbraio 2005, della prima proposta di legge per l’istituzione del garante regionale delle carceri. Da allora sono state ben 12 le regioni italiane (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta) ad aver approvato leggi istitutive del garante; nove regioni hanno nominato poi effettivamente un garante delle carceri; esistono poi anche sette garanti provinciali e 18 garanti comunali, fra cui quello del comune di Torino (per l’elenco completo vedi link in calce al presente testo). In Piemonte, la proposta radicale fu ripresa dai consiglieri Rocchino Muliere (Pd) e Mariangela Cotto (Forza Italia) e divenne legge regionale sul finire della passata legislatura (L.R. 28 del 2 dicembre 2009). Le motivazioni che sorreggono la legge non sono state intaccate dal tempo; anzi, risultano ancora più forti, vista la situazione esistente nelle carceri italiane e, in particolare, piemontesi: 5.200 detenuti stipati in 3.634 posti regolamentari; esistenza di strutture vetuste, con infiltrazioni d’acqua, docce non regolamentari, mancanza di possibilità di lavoro sia dentro il carcere sia per chi esce, inadeguata attuazione della normativa (Dpcm 1° aprile 2008) per il trasferimento alle ASL delle competenze in materia di sanità penitenziaria, scarsità di educatori (e quindi insufficiente istruzione delle pratiche per le misure alternative da sottoporre ai magistrati di sorveglianza). A proposito della magistratura di sorveglianza, è estremamente preziosa la testimonianza del Dr. Giovanni Tamburino, audito recentemente dalla Commissione Straordinaria Diritti Umani del Senato della Repubblica nella sua veste di Coordinatore nazionale dei Magistrati di Sorveglianza: i 168 magistrati di sorveglianza esistenti in Italia devono smaltire circa 300.000 pratiche di detenuti. E sono proprio i magistrati di “sorveglianza” che dovrebbero “sorvegliare” quello che accade nelle carceri, reprimendo abusi e violenze. Il Dr. Tamburino (che è stato poi nominato Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) sottolineava in audizione che proprio il sovraccarico di lavoro sulle spalle dei magistrati di sorveglianza era stata una delle cause della comparsa sulla scena dei garanti delle carceri. In Piemonte non è stato così; ad oltre due anni dall’approvazione della legge, né il Consiglio Regionale precedente né quello attuale hanno provveduto alla nomina del garante, come imponevano loro rispettivamente gli artt. 7 e 2 della L.R. 28/2009. Preso atto dell’inerzia del Consiglio Regionale, l’Associazione Radicale Adelaide Aglietta ha promosso un’iniziativa nonviolenta a partire dal 15 gennaio scorso: Salvatore Grizzanti e Igor Boni (segretario e presidente Ass. Aglietta) hanno digiunato per dieci giorni, ottenendo di essere ricevuti dal Presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo (che aveva comunque provveduto all’indizione del bando per il garante e all’acquisizione delle domande dei candidati), che ha calendarizzato nell’ordine del giorno del Consiglio la nomina del garante. Dal 15 gennaio è in corso un digiuno a staffetta e la raccolta di adesioni su un Appello per il garante, a prima firma Emma Bonino; lo hanno sottoscritto, fra gli altri: Luigi Manconi (Presidente di “A Buon Diritto”); Vladimiro Zagrebelsky (Direttore LDF/Laboratorio Diritti Fondamentali); Marco Bonfiglioli (Dirigente Provveditorato Amministrazione Penitenziaria); Leopoldo Grosso (vice-presidente Gruppo Abele); Donata Canta (segretaria generale Camera del Lavoro di Torino); Valentino Castellani (già sindaco di Torino); Maria Pia Brunato (garante dei diritti dei detenuti comuni di Torino). Il Consiglio comunale di Torino ha approvato una mozione che chiede alla Regione la nomina del Garante. In tale contesto, riteniamo che l’approvazione della Pdl 188 costituirebbe una marcia indietro, una regressione politica ma anche culturale grave e inspiegabile. Riteniamo del tutto improprio il richiamo che i proponenti fanno ai “costi della politica”. Come radicali, siamo da sempre favorevoli a un oculato utilizzo del denaro pubblico; pertanto, siamo assolutamente favorevoli ad economie di scala (per esempio, l’utilizzo di strutture regionali già esistenti per le funzioni di segreteria e di archivio). Non si può e non si deve, invece, fare l’economia di un istituto, di una persona, che deve essere messa in grado di affrontare la mole di lavoro prima accennata con la dovuta tranquillità economica (stiamo parlando di uno stipendio di 3.000 euro mensili; nulla se confrontato alle mille nomine regionali). E a proposito di costi, quanto è il costo economico per i contribuenti piemontesi della situazione esistente nelle carceri della regione (tenendo presente che il costo di un detenuto è pari a 160 euro al giorno; il costo di un detenuto tossicodipendente in una comunità terapeutica non va oltre i 50 euro al giorno)? Troviamo, poi, francamente inspiegabile la proposta di assegnare le funzioni del garante all’Osservatorio regionale sull’usura. Le funzioni e la stessa mission dell’Osservatorio sono del tutto altre rispetto alle funzioni e alla mission del garante. L’unico risultato che si otterrebbe sarebbe di snaturare l’Osservatorio, senza ottenere un garante all’altezza dei compiti affidatigli. Le stesse valutazioni possono essere fatte rispetto alla proposta di “aggregare” il garante agli uffici del Difensore Civico regionale. Ben venga, lo ripetiamo, l’utilizzo di strutture comuni, ma è sotto gli occhi di tutti come il Difensore Civico regionale è oberato di una mole di ricorsi (basti pensare a quelli in materia sanitaria) tale da impedirgli di dedicarsi seriamente alle problematiche carcerarie. Occorre, invece, una figura nuova, munita di adeguata professionalità ed esperienza, che si ponga al servizio dell’intera comunità penitenziaria (non solo dei detenuti, ma anche di tutto il personale che vive nel carcere), che sappia valorizzare le sinergie possibili, i finanziamenti possibili (vedi “Cassa delle Ammende”), le risorse celate e misconosciute dietro le sbarre. Tutto ciò premesso, invitiamo i proponenti a ritirare il Pdl 188. Invitiamo, altresì, il Consiglio Regionale del Piemonte a nominare al più presto il garante regionale delle carceri, adempiendo finalmente ai dettami della L.R. 28/2009, e dando, così, un segnale importante di attenzione reale al pianeta carcere. C’è n’è un disperato bisogno! *Igor Boni (presidente Associazione Radicale Adelaide Aglietta) - Salvatore Grizzanti (segretario Associazione Radicale Adelaide Aglietta) - Giulio Manfredi (Direzione Radicali Italiani) Lazio: il Garante; due nuove classi di scuola superiore nelle carceri di Viterbo e di Velletri Dire, 16 febbraio 2012 La Regione Lazio ha previsto l’istituzione di due nuove classi di scuola superiore con indirizzo tecnico all’interno delle carceri di Viterbo e di Velletri. Lo rende noto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. La decisione è stata ufficialmente formalizzata con il “Piano regionale di dimensionamento delle istituzioni scolastiche della Regione Lazio”, approvato dalla giunta. Nel dettaglio, sarà istituito un corso scolastico di ragioneria all’interno del carcere “Mammagialla” di Viterbo, ed una sezione dell’istituto agrario, con specializzazione in agroalimentare e agroindustria, all’interno del carcere di Velletri. Entrambi le proposte erano state da tempo caldeggiate dall’Ufficio del garante dei diritti dei detenuti allo scopo di garantire, all’interno dei due istituiti una completezza del percorso di istruzione che potesse andare oltre la scuola dell’obbligo. La proposta di istituire un corso formativo superiore a Viterbo risale ad oltre un anno fa. Fino a questo momento, infatti, i detenuti che avevano intenzione di proseguire la scuola venivano seguiti dagli insegnanti in pensione del Gvac e, quindi, sostenevano gli esami da privatisti. Ora gli studenti potranno frequentare la sezione distaccata dell’istituto tecnico commerciale “Paolo Savi”. A Velletri, invece, il garante ha proposto l’istituzione di una sezione distaccata dell’istituto tecnico agrario, in contiguità con la consolidata attività agricola, per certi versi all’avanguardia, portata avanti da anni all’interno del carcere anche con la produzione di prodotti vinicoli approdati sul mercato. “Sono fermamente convinto- ha detto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni- che l’istruzione sia un elemento fondamentale per far crescere, in questi ragazzi, una vera cultura della legalità che, poi, dovrebbe essere lo scopo principale del periodo di carcerazione. Frequentare le scuole in carcere non significa, infatti, solo conseguire un titolo, ma soprattutto contribuire alla crescita e alla futura reintegrazione sociale dei detenuti”. Reggio Emilia: Sappe; internato di 43 anni muore all’Opg, forse per “cause naturali” Dire, 16 febbraio 2012 Ancora una morte in carcere: questa mattina, spiega una nota del Sappe, un recluso è stato trovato morto nel suo letto all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Ne dà notizia il sindacato del Sappe, spiegando che se ne sono accorti gli agenti della Polizia penitenziaria mentre facevano il controllo numerico delle presenze. Ai primi riscontri, sembrerebbe trattarsi di una morte naturale. Questo decesso arriva a pochi giorni da un altro grave fatto avvenuto all’ospedale psichiatrico giudiziario: due reclusi avevano infatti rischiato l’assideramento e sono stati portati all’ospedale in ipotermia. Sembra che almeno in un caso sia stato lo stesso recluso ad aprire le finestre della sua cella durante la notte gelida. L’uomo recluso all’Opg, un 43enne italiano, si trovava in uno dei cinque reparti “sanitarizzati”, ovvero quelli “gestiti esclusivamente da personale medico e paramedico”, spiega il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. Quanto accaduto per Sappe è indice del fatto che “anche la totale gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari, affidata a personale medico e paramedico, non sia destinata a far cambiare le cose”. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, ricorda il Sappe, ci sono 222 internati, mentre altri 30 sono fuori dalla struttura, in licenza. “Continua il dramma delle carceri e degli Opg” conclude Durante, augurandosi però che “la chiusura di queste strutture, che in Italia sono sei, non determini un altro effetto Basaglia”. Bologna: esito dell’autopsia sul detenuto morto alla Dozza, è stato ucciso da un infarto Ansa, 16 febbraio 2012 È stato un infarto a uccidere il detenuto di 39 anni trovato morto nel proprio letto, dal compagno di cella, verso le 7 di sabato nel carcere bolognese della Dozza. Lo ha accertato l’autopsia disposta dal pm Alessandra Serra. Si tratta però di un responso parziale, perché a completamento dei riscontri medico-legali mancano i risultati delle analisi tossicologiche, che arriveranno nelle prossime settimane. D.R.M. era nel Reparto Penale della Dozza e scontava una pena per rapina, spaccio internazionale, sequestro di persona ed altro. Avrebbe terminato la detenzione nel 2024. Il pm ha dato il nulla osta alla sepoltura. Roma: Uil-Pa; agente penitenziario muore suicida nella sua auto, era in servizio a Rebibbia Adnkronos, 16 febbraio 2012 “La notizia del suicidio di un collega, in servizio al carcere di Roma Rebbibia - che si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola nella sua auto a Formia - ci annichilisce e ci pietrifica dal dolore”. Ad esprimere “cordoglio ai familiari, amici e colleghi di Achille” è Eugenio Sarno, segretario generale Uil Penitenziari, che in una nota aggiunge: “ancora una volta, nell’auspicio che non si strumentalizzino le nostre parole, non possiamo non chiedere ed offrire attenzione ad un fenomeno, quello dei suicidi di agenti penitenziari, che assume aspetti davvero preoccupanti. Perché gli 85 suicidi di baschi blu nell’ultimo decennio sono un dato preoccupante, che dovrebbe imporre per prima alla stessa amministrazione Penitenziaria il dovere di investigare e approfondire”. “Abbiamo avuto notizie di gruppi di lavoro costituiti al Dap per esaminare la questione - aggiunge - ma pare mai convocati. Noi continuiamo a pensare che oltre a definire ipotetici centri di ascolto occorra definire un vero piano di sostegno psicologico. Le infamanti e indecorose condizioni di lavoro, coniugate al rapporto quotidiano con il dolore, la sofferenza e l’inciviltà non possono non influire negativamente sul personale di polizia penitenziaria, ampliando i rischi di chi è quotidianamente sulla border line della tensione e dell’ansia”. “È dunque necessario - conclude Sarno - che l’amministrazione penitenziaria mostri interesse e vicinanza al personale preminentemente impiegato nelle frontiere penitenziaria, giacché è un dato di fatto che i suicidi in polizia penitenziaria riguardano prevalentemente, se non esclusivamente, personale che lavora all’interno degli istituti penitenziari. Questo può essere un punto di partenza per una approfondita investigazione. È inutile dire - conclude - che questo ennesimo lutto ci addolora, ci rattrista e ci colpisce. Tutto questo ci obbliga ancor più a stimolare e sollecitare chi ha le competenze politiche ed amministrative a fare qualcosa”. Sappe: suicidio agente deve fare seriamente riflettere “Non posso che esprime grande doloro e cordoglio alla notizia di un nuovo suicidio nelle fila del Corpo di polizia penitenziaria. Non è il momento delle polemiche ma quello di stringersi ai familiari, agli amici ed ai colleghi. Certo deve fare seriamente riflettere questo dramma”. Lo ha dichiarato Donato Capece, segretario generale Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, in riferimento al suicidio di un agente in forza al carcere romano di Rebibbia. L’uomo, sposato con figli, aveva alle spalle molti anni di servizio. Roma: aperta inchiesta su detenuto morto suicida nel 2010; era depresso, ma stava in isolamento Corriere della Sera, 16 febbraio 2012 Il 24enne rom era in cella per una patente falsa. Fu lasciato solo. La Procura indaga per abbandono di incapace e falso. La sorella della vittima: capisco Ilaria Cucchi e voglio giustizia. A Rambo Djurdjevic, 24enne slavo di etnia rom nato e cresciuto in Italia, era bastata la maglietta che indossava e le sbarre della cella per impiccarsi. Era il 28 dicembre 2010. Accadde a Rebibbia. E il caso era stato rubricato come il quarto suicidio dell’anno in un carcere nel Lazio, la decima morte. Ora la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta: quella morte, è l’ipotesi - come quella di Stefano Cucchi - poteva essere evitata. Due, per ora, le ipotesi di reato: abbandono di incapace e falso. Rambo era depresso, non riusciva più a trattenere le lacrime, aveva compiuto gesti autolesionistici, non si rassegnava alla morte della madre, e lo psicologo del carcere aveva disposto per lui il regime di alta sorveglianza. E invece è morto in isolamento. Il diario clinico manomesso. Il pm Barbara Sargenti aveva affidato i primi accertamenti al professor Luigi Cipolloni, uno dei medici legali de La Sapienza che si sono occupati del caso Cucchi; è emerso così un dettaglio inquietante: sul diario clinico, che inquadrava la depressione del ragazzo, è stata trovata la sigla “N.O.”, il nulla osta per l’isolamento. Lo psicologo che avrebbe apposto il nulla osta è stato convocato in procura, ma ha disconosciuto quella disposizione. Non era la sua. “Non è la mia grafia”. Qualcuno insomma, secondo il medico, dopo la morte di Rambo, aveva manomesso il diario clinico, aveva buttato lì quell’aggiunta: “N.O.”. A casa Djurdjevic il dolore è ancora vivo: “Sarebbe bastato seguire il ragazzo ancora per poche settimane”, dice il padre, Janco. Gli assistenti sociali si erano già mossi e a breve Rambo sarebbe tornato a casa, a un passo dalla borgata Finocchio, in detenzione domiciliare. Doveva finire di scontare la condanna per una patente falsificata e dentro c’era pure il fratello. Il ragazzo stava vivendo un periodo difficile per l’ansia e gli attacchi di panico e lo psicologo del braccio, il G12, lo stava seguendo passo passo. Rambo ne parla in una lettera indirizzata al padre. “Papà lo sai mi hanno tenuto sotto osservazione 24 ore su 24. Se non ci credete domandate a Toni. Come sto male… ma boia chi molla, io sono forte - scrive Rambo -. Sono dimagrito otto chili, ma non mi dispiace. Faccio palestra. A fumare sto cercando di smettere perché non ho i soldi e chiedere una sigaretta non mi piace. Me sto a morì de freddo. Le scarpe non le ho. Cioè le ho, però, ho paura di romperle del tutto. Ma presto nella vita passa tutto. Ho perso mia madre che è la cosa più bella del mondo e il quarantesimo giorno ho cantato la sua canzone Ruzomoja. Sono scoppiato a piangere e mi è venuta l’ansia, sono stato un’ora in infermeria e poi mi hanno chiuso in isolamento. Quello stronzo del dottore mi aveva messo in osservazione speciale, avevo la guardia davanti 24 su 24. Ti giuro il tempo non passava più”. “Io quando ho parlato con lo strizzacervelli - continua la lettera di Rambo - gli ho detto “Ma mi avete preso per Toto Riina?” perché non capivo di cosa si trattasse e lui mi ha risposto lo abbiamo fatto per il bene tuo. Allora io gli ho detto “Il bene mio è stare con i compagni di stanza non da solo. Oh no. Che dici?”. Ecco perché poi il medico aveva previsto l’alta sorveglianza, la massima attenzione, e non l’isolamento. Ma Rambo viene lasciato solo, messo in una stanza lontano anche dagli sguardi degli agenti. E poi visto l’ “errore”, scoperto il cadavere, qualcuno ha ritoccato la cartella clinica. La sorella: “Non era un giocattolo”. La famiglia ha dato subito mandato allo studio legale Bason di Roma per farsi tutelare: “Chiediamo giustizia. Non era un giocattolo, era mio fratello. Capisco la battaglia di Ilaria Cucchi” spiega Livia Djurdjevic. “Gli era stato negato pure di venire al funerale di mamma. Doveva solo superare questo momento difficile. Era detenuto, non doveva essere abbandonato”. Vuole costituirsi parte civile. Il padre invece intende citare direttamente il ministero. L’avvocato Luciano Bason ha nominato un consulente di parte: “Da quanto emerso finora riteniamo che sia ravvisabile colpa del personale penitenziario sia nella mancata osservazione delle prescrizioni del medico, sia - e cosa molto più grave - nel cercare di coprire tale negligenza alterando i dati riportati dal medico sulla cartella clinica”. Il pm Sargenti ha chiesto una proroga delle indagini. Sassari: San Sebastiano, il carcere-vergogna La Nuova Sardegna, 16 febbraio 2012 Sessanta agenti in meno per un carcere dove i detenuti, invece, si moltiplicano, e dai regolamentari 150 arrivano a 195. Poliziotti che si destreggiano tra sofferenza psicologica dei reclusi, spesso tossicodipendenti. In una struttura che è da sempre un colabrodo. Sarà ancora il “caso San Sebastiano” quello il segretario nazionale del Sappe, prima rappresentanza di Polizia penitenziaria, porterà al Guardasigilli Paola Severino nell’incontro del 22 febbraio. Ieri mattina Donato Capece, col segretario sassarese Antonio Cannas e quello algherese Mauro Chessa, ha girato per le celle dell’istituto di via Roma, per valutare lo stato dell’arte. Farà lo stesso a Oristano, Nuoro, Cagliari. Di penitenziari ne ha girati tanti, per la verità, e non nasconde che “questo è tra i peggiori che abbia mai visto, forse solo dopo Savona e l’Ucciardone”, spiega al termine dell’”ispezione”, durata circa tre ore. Il responso è senza scampo, come del resto era facile prevedere rispetto ad una struttura inaugurata nel 1871, dove la gran parte delle celle arriva a contenere 6-8 detenuti che si contendono un gabinetto a vista, senza alcuna privacy se non un basso muretto. “È una situazione insostenibile, vergognosa, l’apertura del nuovo carcere di Bancali deve essere accelerata”. Capece ha lodato l’operato degli agenti, “che sempre con grande dignità e orgoglio cercano di fare al meglio il proprio lavoro, anche se in condizioni difficilissime”. Anche loro, in qualche modo, subiscono il peso delle carenze strutturali. “Fa molto freddo. Nelle celle non c’è acqua calda, e a queste temperature ai detenuti non resta che riscaldarsi con stufette elettriche”. Inutile parlare di norme sulla sicurezza nei luoghi pubblici, il riferimento al testo unico del 2008 suona quasi come una beffa. “Sotto quel profilo, il carcere dovrebbe essere chiuso all’istante”. A poco sono serviti gli esposti che negli anni sono stati inoltrati alla vicina procura della Repubblica: a chi si potrebbe mai imputare lo stato di un edificio risalente alla fine dell’Ottocento? Non certo ai direttori che di volta in volta si alternano nel tentativo di arginare i danni causati semplicemente dal decorso del tempo. Sotto il profilo sindacale, Capece ha portato sulla scrivania del direttore Francesco D’Anselmo la vertenza che riguarda le poliziotte - 7 su un totale di 10 - del braccio femminile, diviso su tre piani (le recluse sono 13): gli agenti vanno su e giù per le scale con buona pace della vigilanza. Ma il direttore avrebbe già provveduto - lo scorso dicembre - a chiedere all’amministrazione penitenziaria una sistemazione diversa, più razionale, su un solo piano. Tra le altre sollecitazioni del Sappe c’è la formazione di unità operative all’interno delle singole sezioni, con figure intermedie come i sovrintendenti e gli ispettori a coordinare gruppi di agenti da 20 o 30, “come avviene nel resto d’Italia, tranne che qui a Sassari”. Anche su questo D’Anselmo ha promesso di recuperare il gap che precede la sua direzione, assunta lo scorso ottobre. Al segretario generale Capece il rappresentante Sappe di Alghero ha ricordato gli annosi e mai risolti problemi d’organico, che erano stati solo parzialmente risolti con la chiusura temporanea durante i mesi di dicembre e gennaio di una sezione, lasciando un po’ di tregua al personale: “Siamo in 60 - è la denuncia di Chessa - quando all’apertura del penitenziario eravamo anche 130 agenti”. I detenuti invece non diminuiscono granché: oscillano tra 180 e 200. Foggia: la Camera Penale; dieci detenuti per cella, il carcere rischia il collasso www.quotidianoitaliano.it, 16 febbraio 2012 Situazione critica per le carceri di Foggia e di Lucera che ospitano rispettivamente 744 e 245 detenuti. Ieri mattina Gianluca Ursitti, presidente della camera penale di Foggia, ha visitato il carcere del capoluogo dauno insieme al segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati di Foggia Antonio Laronga, al presidente dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, Tonio Ciarambino, e altri operatori del mondo della giustizia. Riscontrati “problemi seri che andrebbero affrontati rapidamente per evitare un collasso”, dichiara il presidente. L’emergenza carceri in Puglia non è un fatto nuovo, in Capitanata il sovraffollamento delle carceri è caratterizzato anche da mandamentali incompiuti o inutilizzati. Un fenomeno che oggi potrebbe essere ripristinato dal decreto svuota carceri appena approvato. Il Presidente della camera penale di Foggia, Gianluca Ursitti, esprime particolare preoccupazione dopo la visita fatta ieri al carcere del capoluogo dauno. Con lui c’erano anche il segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati di Foggia, Antonio Laronga, il presidente dell’ordine degli Avvocati di Foggia Tonio Ciarambino e altri rappresentanti del mondo della giustizia. Il punto della situazione è stato fatto ieri pomeriggio alla presidente dell’Ordine degli Avvocati. Carcere di Foggia: una capienza massima di 400 detenuti che invece supera abbondantemente salendo a quota circa 720. Ursitti spiega che in una cella hanno riscontrato la presenza anche di 8 o 10 persone, quando la capienza effettiva è della metà. Ulteriore problema sono i servizi sanitari, si registrano ritardi eccessivi: “un detenuto per effettuare un esame a volte deve attendere mesi e questo può rappresentare una condanna a morte”. Una situazione paradossale se si pensa che agli Ospedali Riuniti di Foggia è stato aperto un nuovo reparto che dovrebbe accogliere i detenuti, ma che non si può utilizzare perché sono in attesa del collaudo. A questi disagi Ursitti aggiunge la completa assenza di attività ricreative e di opportunità di lavoro per gli ospiti. Antonio Ciarambino, presidente dell’ordine degli Avvocati di Foggia, è intervenuto per ringraziare e dare merito alla Camera Penale e all’Associazione dei Magistrati per aver organizzato questa visita in carcere. Attraverso i loro occhi hanno constatato la reale situazione delle strutture detentive, motivo per il quale intendono intraprendere un percorso che dia delle risposte ai detenuti e non solo. Gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori e tutti coloro che operano all’interno del carcere meritano di lavorare in condizioni idonee. Il presidente ha sottolineato che i detenuti chiedono solo di poter scontare dignitosamente la loro pena. “Siamo stati attenti a recepire tutti i problemi perché vogliamo essere la cassa di risonanza di queste criticità in modo che arrivino agli organi e alle istituzioni preposte per la loro risoluzione”, sono queste le parole conclusive del presidente dell’ordine degli avvocati. Quanto ai numeri a Bari i detenuti al 31 gennaio scorso erano 513 (la capienza regolamentare è di 292), a Brindisi 214 (147), a Lecce 1.399 (680). Taranto 678 (315), Altamura 90 (52). A Trani 381 (274), Turi 181 (112) e come abbiamo detto a Foggia 744 (371) a Lucera 245 (156) e a San Severo 88 (64). Benevento: protocollo d’intesa su reinserimento dei detenuti in progetti per la “differenziata” www.ntr24.tv, 16 febbraio 2012 Politiche sociali e politiche per l’ambiente; iniziative di solidarietà e corretta gestione del ciclo dei rifiuti; reinserimento nella vita sociale dei detenuti e sensibilizzazione collettiva al riciclo: questi temi e queste materie si sono fusi quest’oggi in un protocollo d’intesa siglato nella sala Consiliare alla Rocca dei Rettori. L’intesa è finalizzata ad offrire ai detenuti della Casa Circondariale di Benevento, una volta scontata la pena, l’opportunità di poter esercitare un lavoro consistente nel recupero delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), avendo acquisito all’interno del luogo di pena le relative conoscenze tecniche ed esperienza. Il Protocollo, curato dagli assessori della Provincia di Benevento Gianluca Aceto con delega all’ambiente, e Annachiara Palmieri con delega alle politiche sociali, è stato siglato dalla direttrice della Casa Circondariale del capoluogo sannita, Maria Luisa Palma, che ha subito accolto con entusiasmo la proposta a favore dei ristretti; da Giovanni Zarro, amministratore unico della Samte, la Società interamente partecipata dalla Provincia che interviene nella gestione del ciclo dei rifiuti e dal rappresentante del Consorzio nazionale Raee, che si occupa per l’appunto del riciclaggio di questi apparecchi, Dario Pasquariello, e dal rappresentante dell’Ucid (Unione Cristiani Imprenditori Dirigenti), Stefano Pighini, che partecipa con spirito solidaristico e forte afflato sociale. Per effetto di tale intesa, le Parti condividono l’impegno per un intervento finalizzato alla rieducazione al lavoro e al reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti, in ambiti aziendali aperti anche a liberi cittadini. Particolare riguardo verrà riservato a Corsi di formazione per i detenuti della Casa Circondariale di Benevento che, frequentando un corso di formazione, potranno procedere a smontare le apparecchiature esauste mentre ancora sono ristretti a Capodimonte e, una volta liberi, potranno mettere in pratica le conoscenze e le esperienze acquisite grazie a Cooperative di lavoro, rientrando così nella società civile a pieno titolo per ricostruirsi un futuro. Il protocollo impegna i firmatari, nel contesto delle sinergie sociali e economiche, finalizzate alla gestione della filiera dei Raee a realizzare appositi laboratori presso la Casa Circondariale di Benevento dove i detenuti potranno imparare le tecniche di smontaggio e recupero materiali in sicurezza e correttamente. L’iniziativa è a costo zero perché si autofinanzia, ha detto Pasquariello. L’assessore Palmieri ha evidenziato come il progetto non voglia esaurirsi come un semplice Corso di formazione, ma voglia costituire invece, nell’ambito di una cultura della solidarietà, una vera e propria opportunità di lavoro nel rispetto dello spirito e della lettera delle leggi vigenti. Aceto ha aggiunto che oltre a questa iniziativa si intende sviluppare una campagna di educazione per la raccolta differenziata all’interno della Casa Circondariale. Questi progetti possono anche essere definiti come un contributo alla crescita della “cultura della legalità”, ha commentato Aceto. Chieti: Associazione “Voci di dentro”; detenuti fuori dal carcere, per seguire corsi… e non solo www.chietitoday.it, 16 febbraio 2012 L’associazione “Voci di dentro” presenta il corso pilota “Informatica e non solo - fuori dal carcere” realizzato grazie all’aiuto congiunto di pubblico e privato: un’occasione di studio e una prospettiva di reinserimento per chi non vuole sbagliare più. Cultura e formazione per i detenuti. Su questi pilastri poggia il progetto pilota “Informatica e non solo - fuori dal carcere”. Grazie alla onlus Voci di dentro, alle istituzioni e ai privati infatti, da novembre cinque detenuti delle case circondariali di Chieti e Pescara, più uno ai domiciliari, partecipano ai corsi presso la sede dell’associazione: 5 ore di lezione al giorno, due ore e mezza al mattino e altrettante al pomeriggio, per apprendere l’uso del computer, le tecniche di scrittura, la cultura generale. Un lavoro di sinergia, perché senza l’aiuto del Comune di Chieti, che oltre a contribuire economicamente ha concesso i suoi locali in via De Horatiis, della Fondazione Carichieti, della Camera di Commercio, della Panoramica e del Gran Caffè Vittoria, non sarebbe stato possibile attivare questa “scuola speciale”. “Il gravissimo problema del sovraffollamento - ha detto il presidente di Voci di dentro, Francesco Lo Piccolo, - non diventa una tragedia immane solo grazie al lavoro e alla dedizione della polizia penitenziaria, degli educatori, delle direzioni delle carceri e delle associazioni di volontariato come Voci di Dentro. Chi ha contribuito a finanziare questo progetto sta dando ai detenuti un’occasione di studio e una prospettiva di inserimento, praticando il principio costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione di persone che hanno sbagliato una volta ma che non vogliono sbagliare ancora. Alla base di tutto c’è la cultura - continua Lo Piccolo - non a caso all’interno delle nostre carceri gran parte dei detenuti ha una bassa scolarizzazione. La formazione, e a questo tendono i laboratori che Voci di Dentro tiene anche nelle carceri di Chieti, Pescara, Vasto e Lanciano, vuole dunque fare da argine alla devianza e alla sottocultura”. A coloro che accedono ai corsi Voci di dentro insegna anche a realizzare al computer la rivista omonima diffusa ormai da 5 anni e interamente scritta dai detenuti delle carceri di Chieti, Pescara, Vasto e Lanciano. Una scuola-laboratorio che ha ancora tanto da dire e da dare. L’auspicio è dunque che la buona pratica del gruppo diventi qualcosa di definitivo, anche grazie a nuovi finanziamenti che permettano di allargare questa sinergia tra pubblico e privato che c’è stata a Chieti. Cagliari: aziende non pagano stipendi, lavoratori auto-reclusi nel nuovo carcere in costruzione Adnkronos, 16 febbraio 2012 “I lavoratori sono esasperati dalle continue prese in giro delle aziende, che devono ancora pagare le tredicesime, e le mensilità di dicembre e gennaio. E così hanno deciso di auto-recludersi nel carcere di Uta, che loro stessi stanno realizzando”. Così Enrico Cordeddu, segretario regionale della Fillea Cgil sarda e segretario provinciale del sindacato degli edili a Cagliari, spiega a Labitalia le motivazioni che hanno spinto questa mattina oltre una cinquantina di lavoratori impegnati nella costruzione del carcere di Uta, in provincia di Cagliari, ad occupare l’istituto penitenziario. L’occupazione del carcere, in costruzione da tre anni e con consegna prevista a giugno, “è arrivata perché le imprese inadempienti con i lavoratori, e cioè “Opere Pubbliche”, “Opere stradali” e “Opere idriche” hanno disatteso anche l’accordo firmato in provincia 15 giorni fa e che prevedeva il pagamento delle spettanze arretrate”. Ma il paradosso, secondo Cordeddu, “è che in questo caso, quasi unico in Sardegna in questo periodo in cui la pubblica amministrazione non paga e le imprese falliscono, è l’azienda a non pagare, nonostante il ministero, come ci ha confermato, ha saldato tutti i pagamenti”. I lavoratori si sentono presi in giro “perché ieri l’azienda ci ha comunicato che non avrebbe pagato le spettanze rifacendosi alla comunicazione inviata cinque giorni fa dal ministero delle Infrastrutture secondo cui, in base alla normativa, se entro 15 giorni dalla comunicazione le spettanze non saranno pagate, sarà lo stesso ministero a intervenire con la rescissione del contratto e il pagamento degli stipendi ai lavoratori”. Ma il sindacato e i lavoratori non ci stanno, avverte, “perché per noi vale l’accordo firmato in provincia 15 giorni fa, non può essere disatteso, non ci stiamo, dobbiamo essere pagati”. Sdr: basta fare finta di nulla… intervenga il Governo “Basta tenere gli occhi chiusi su una vicenda che sta mettendo in croce gli operai e rischia di trasformare un progetto, peraltro nato male, nell’ennesimo spreco di denaro pubblico. Se il Ministero delle Infrastrutture non interviene lo faccia il Governo. Il silenzio sul nuovo carcere di Cagliari si sta configurando come un’omissione di responsabilità”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme con specifico riferimento alla nuova clamorosa protesta dei 55 lavoratori di “Opere Pubbliche” che non ricevono lo stipendio dallo scorso mese di novembre. “Non è la prima volta e temiamo che non sarà l’ultima se - sottolinea Caligaris - non ci sarà un serio imperativo intervento per il ripristino della normale gestione dei rapporti tra lavoratori e impresa. Il fatto che “Opere Pubbliche” continui a non rispettare gli impegni sottoscritti significa che non è affidabile e non può garantire la realizzazione dell’opera in tempi certi. Sono ormai diversi mesi che, dopo l’iniziale “secretazione” degli atti, si sono resi necessari urgenti chiarimenti sull’atteggiamento della società “Opere Pubbliche” in ciclico conflitto con gli operai che chiedono di essere pagati regolarmente. “La nuova struttura penitenziaria di Uta, che è un’imponente opera pubblica, non può andare avanti senza una regolarizzazione del pagamento dei salari arretrati e senza che si concretizzi un percorso di trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica e di collaborazione con gli Enti Locali interessati. Sono richieste che non possono essere ignorate con la giustificazione della “secretazione” degli atti imposta dall’urgenza per l’”emergenza carceri” che peraltro continuerà a lungo. Pistoia: servizi ai detenuti da Centro per l’impiego; percorsi orientamento e formazione al lavoro Il Tirreno, 16 febbraio 2012 Iscrizione al centro per l’impiego, percorsi di orientamento e formazione al lavoro. Da oggi, di questi servizi pubblici potrà beneficiarne anche una delle fasce sociali più deboli, ovvero quella dei detenuti. La provincia di Pistoia e la casa circondariale di Santa Caterina in Brana hanno firmato ieri mattina, nei locali di Via Tripoli, un accordo tecnico per i servizi rivolti alla popolazione carceraria. Un documento che punta ad agevolare il troppo spesso difficile, reinserimento di tutti i detenuti ed ex detenuti nel mondo del lavoro. “L’inserimento nelle liste di collocamento, la possibilità di inserimento nel lavoro una volta usciti, ma anche corsi di formazione dall’interno del carcere - spiega l’assessore provinciale Roberto Fabio Cappellini - Con questo accordo si interviene su una fascia di persone che, una volta conclusa la pena, si troverebbe ad essere una fascia fragilissima del mercato”. Tre le associazioni di volontariato che operano nel carcere di Pistoia, e oltre venti le cooperative sociali di tipo B presenti sul territorio, e che da anni operano sul reinserimento nel tessuto sociale: “Quello di oggi è un primo passo che gli enti dovevano ai detenuti, ma anche al tessuto associativo che in questi anni ha lavorato in condizioni spesso difficili”, afferma Chiara Innocenti, assessore provinciale alla cultura. “Una delle difficoltà - spiega Giuseppe Raci, della coop sociale Incontro - è che gli enti pubblici dovrebbero utilizzare di più gli affidamenti diretti dei lavori alle cooperative sociali, e quindi anche Asl e Società della salute, perché lo prevede la legge e faciliterebbe l’ingresso nel lavoro”. “È importante l’inserimento all’ufficio di collocamento - spiega Antonio Sammartino, della cooperativa sociale “In cammino” - ma lo è altrettanto la possibilità di ottenere la residenza in un comune per un detenuto. Potrebbe così accedere ai servizi che il comune offre, come l’assegnazione di un’assistenza sociale, la presentazione di domande per l’alloggio. Questo tipo di problema diventa ancora più pressante soprattutto per i detenuti extracomunitari, che oggi rappresentano il 60% della popolazione detenuta a Pistoia”. “Quando è in carcere, un detenuto extracomunitario viene considerato residente sul suolo italiano, mentre appena esce, se non è in possesso di regolare permesso diventa clandestino”, spiega il direttore del carcere di Pistoia, Francesco Ruello. La casa circondariale pistoiese ospita attualmente 132 detenuti (a fronte di una capienza ufficiale di 74 detenuti), di cui ben 70 stranieri, dei quali la maggior parte senza residenza. Le etnie che affollano di più il carcere sono quelle slave, ma recentemente si è verificato un aumento della presenza nord africana. Voghera (Pv): carcere più vicino alla città, tra cultura e musica La Provincia Pavese, 16 febbraio 2012 Mamma e direttore del carcere di Voghera. Maria Gabriella Lusi, campana di origine ma piacentina di residenza, da alcuni mesi ha assunto l’importante carica presso la struttura di via Prati Nuovi. In precedenza aveva lavorato a Milano Bollate, Brescia, Bergamo e Cremona. “Il primissimo bilancio è positivo, i rapporti sono buoni con enti locali, associazioni, forze dell’ordine. Il mio obiettivo, insieme allo staff dei miei collaboratori, è quello di creare un ambiente di lavoro dove tutti, e mi riferisco in modo particolare alla polizia penitenziaria, possano prestare la loro opera in modo soddisfacente e soprattutto sereno”. Ma non solo: “Penso anche che il carcere non debba essere una struttura avulsa dalla realtà del territorio in cui si trova, per cui penso ad iniziative di svago e di cultura per i detenuti, corroborate da gruppi e associazioni locali. Vengono già organizzati corsi in collaborazione con la biblioteca ricottiana e anche con il museo di scienze naturali, pensiamo anche a presentazioni di libri qui in carcere. E poi la musica: il 3 marzo ospiteremo la Rondoband di Voghera per un’esibizione, rigorosamente dal vivo e con musica live, per un centinaio di detenuti: ci sarà anche un concerto della Polifonica Gavina, prima in carcere per i detenuti e poi in un locale all’esterno per il personale”. Un impegno a tutto campo quello per Maria Gabriella Lusi, destinato ad aumentare considerevolmente non appena sarà pronto e collaudato il nuovo padiglione da 200 posti (non ci sono novità in tal senso). E i rapporti con i sindacati? “Direi che il dialogo è aperto, ci siamo già visti in alcune occasioni e qualche risultato è stato anche ottenuto. Posso dire che negli ultimi tempi sono arrivate 18 nuove unità (2 però sono già distaccate), che vanno a dare un buon contributo alla base già operativa”. Quasi 200 gli operatori che lavorano alla struttura di Medassino. Attualmente sono 4 le sezioni al carcere di Voghera: la prima ospita i detenuti a media sicurezza (circa 50), nella seconda ci sono i “collaboratori di giustizia” (circa 20), nella terza i detenuti ad alta sicurezza (100 persone), nella quarta i detenuti cosiddetti “ex 41 bis” (circa 60). “Con il mio staff vogliamo lavorare per valorizzare le persone - conclude Maria Gabriella Lusi - riconoscerne la professionalità e metterle in condizione di operare il più possibile nelle condizioni di distensione, tenendo conto della situazione oggettiva di un carcere”. Torino: musical tratto da I Miserabili” in tournée nelle carceri Ansa, 16 febbraio 2012 Un musical, liberamente tratto da I Miserabili di Victor Hugo, in tournee nelle carceri italiane. A questo scopo è nato “Valjean”, realizzato in collaborazione con i Provveditorati del Dap e il Ministero della Giustizia. Lo spettacolo dell’Associazione 9430 andrà in scena in anteprima nazionale dal 21 al 24 febbraio al Teatro Matteotti di Moncalieri (Torino). La regia è di Fulvio Crivello ed è interpretato tra gli altri da Fabrizio Rizzolo, che ha recitato con la Compagnia della Rancia e, al cinema, è stato diretto da Giuseppe Capotondi e Fausto Brizzi. Sostenuto dalla Città di Moncalieri, il musical è una proposta di teatro sociale, con sei attori e cantanti nei panni di 22 personaggi e con la musica dal vivo del maestro Sandro Cuccuini al pianoforte. L’ingresso sarà libero ma con offerta per sostenere attività culturali dentro i penitenziari. Stati Uniti: Florida; esecuzione di detenuto da 30 nel braccio della morte Adnkronos, 16 febbraio 2012 Esecuzione in Florida di un detenuto di 65 anni che aveva trascorso oltre 30 nel braccio della morte. Robert Waterhouse, condannato a morte per l’omicidio di una donna incontrata in un bar, è stato ucciso con un’iniezione letale nella Florida State Prison a Raiford. Si tratta della quarta esecuzione negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno. Prima dell’esecuzione, il condannato ha potuto trascorrere tre ore con la moglie, sposata mentre si trovava già in carcere. Waterhouse - che al momento dell’omicidio della donna era in libertà vigilita per stupro e tentato omicidio - fu condannato a morte nel settembre del 1980, ma la sentenza fu rovesciata dalla Corte Suprema della Florida per vizi procedurali nel 1988. Una seconda giuria confermò poi la condanna e la pena capitale al termine di un nuovo processo nel 1990. Nigeria: terroristi di Boko Haram assaltano carcere, 20 terroristi tra 119 evasi Agi, 16 febbraio 2012 Evasione di massa dal carcere di Koto Karfe, nella Nigeria centrale, dove 119 detenuti sono riusciti a fuggire dal penitenziario dello stato federato di Kogi dopo un assalto di terroristi di Boko Haram. Lo hanno riferito fonti della polizia penitenziaria. Mercoledì sera il carcere è stato assaltato da un commando armato del gruppo terroristico di matrice islamica, attivo soprattutto nelle aree settentrionali del Paese africano. Durante il blitz, durato poco più di mezz’ora, è stata uccisa una guardia carceraria. Tra gli evasi ci sono anche una ventina di miliziani del movimento integralista. Sempre nella serata di mercoledì ma a Maiduguri, capitale dello stato federato nord-orientale di Borno, in uno scontro a fuoco tra guerriglieri e forze dell’ordine un soldato ha perso la vita e un altro è rimasto gravemente ferito. Secondo un portavoce dei fondamentalisti, in un altro attacco a un posto di blocco dell’Esercito nel nord dello stesso Stato, al confine con il Ciad, nei giorni scorsi Boko Haram avrebbe assassinato dodici soldati. La notizia non è peraltro stata confermata dalle forze di sicurezza nigeriane. Honduras: 355 detenuti morti, bilancio definitivo incendio; Amnesty chiede indagine governativa Asca, 16 febbraio 2012 È di 355 detenuti morti il bilancio definitivo dell’incendio scoppiato ieri in una prigione di Comayagua, in Honduras. Lo ha comunicato un portavoce della procura incaricata dell’indagine. Le cause del rogo, durato circa tre ore prima che i soccorsi riuscissero a spegnerlo, non sono state ancora ufficialmente accertate. L’ipotesi più accreditata è quella del corto circuito, ma la governatrice di Stato, Paola Castro, ha raccontato all’AFP che il suo ufficio ha ricevuto una chiamata di qualcuno che sosteneva di essere uno dei prigionieri del carcere e che le fiamme erano state appiccate da un detenuto che ha tentato il suicidio. Il disastro è costato il posto ai vertici del sistema carcerario, sospesi dal presidente dell’Honduras Porfirio Lobo. Amnesty: Governo avvii indagine Amnesty International ha sollecitato le autorità dell’Honduras ad aprire immediatamente un’indagine approfondita e imparziale sull’incendio scoppiato il 15 febbraio nella prigione di Comayagua, in cui sono morti oltre 350 detenuti. Molti altri prigionieri hanno riportato gravi ustioni. “È fondamentale che i sopravvissuti e i familiari dei detenuti rimasti uccisi sappiano la verità su quanto accaduto”, ha dichiarato Esther Major, ricercatrice di Amnesty International sull’America Centrale. Quello di Comayagua non è il primo caso di una morte di massa all’interno di una prigione. Nel 2004, nel carcere di San Pedro Sula, morirono oltre 100 prigionieri. “Otto anno dopo, decine e decine di prigionieri sono morti ancora una volta nelle circostanze più orribili, intrappolati senza alcuna via di fuga. Il governo dell’Honduras deve apprendere quest’altra lezione e migliorare le condizioni di detenzione per evitare che tragedie del genere si verifichino ancora una volta”, ha concluso Major.