Giustizia: il decreto-carceri non è indulto mascherato, né resa dello Stato alla delinquenza www.giustizia.it, 15 febbraio 2012 Intervento alla Camera dei Deputati del Ministro della Giustizia Paola Severino. “Ho ascoltato con molta attenzione gli interventi di tutti coloro che hanno preso la parola sia per aderire ai contenuti del d.l., sia per criticarli, sia per esprimere riserve su alcuni aspetti. Non mi sarà possibile dare una risposta analitica su tutto, ma vorrei svolgere alcune premesse di carattere generale e poi raggruppare alcune osservazioni. Vorrei in primo luogo precisare che il decreto non è né un indulto mascherato, né una resa dello Stato alla delinquenza. È sufficiente leggere il decreto per rendersi conto che nessuno dei provvedimenti in esso indicati deriva da automatismi o presunzioni: in ogni caso vi sarà un magistrato a valutare se la persona sia o meno meritevole di una modifica migliorativa del suo stato di limitazione della libertà; la prima parte del decreto incide sul fenomeno delle porte girevoli che comporta l’entrata-uscita di detenuti in carcere nell’arco di 3-5 giorni. Si tratta di ipotesi di arresto in flagranza per i soli reati di competenza del giudice monocratico con rito direttissimo e con esclusione dei reati di furto in appartamento, di furto con strappo, di rapina e sequestro di persona. Una casistica, dunque, molto accuratamente selezionata, che ha fotografato i casi in cui più frequentemente il giudice, in sede di convalida, rimette in libertà la persona arrestata, dopo che questa ha trascorso in carcere solo i giorni necessari per la comparizione in tribunale. Una casistica che coinvolge circa 21.000 persone l’anno. Con il nuovo regime il tempo per la comparizione si riduce da 96 a 48 ore e, subito dopo l’arresto in flagranza, il magistrato potrà decidere se risparmiare il transito in carcere, ricorrendo ai domiciliari o alle camere di sicurezza, ovvero se la personalità del soggetto suggerisce comunque la carcerazione preventiva in attesa del giudizio direttissimo. Sottolineo carcerazione preventiva, perché solo a quella si fa riferimento in questa prima parte del decreto. La seconda parte del decreto si occupa invece della carcerazione post sentenza, prevedendo la possibilità di concedere gli arresti domiciliari quando vi sia un residuo pena fino a 18 mesi. Anche qui sottolineo il termine possibilità, perché non vi è alcun automatismo nell’applicazione, in quanto vi sarà sempre un giudice a valutare se la persona sia meritevole di questa forma di alleggerimento degli effetti della condanna. Proprio l’esistenza di queste limitazioni rispetto ad automatiche forme di beneficio, ha indotto altri a dire, in totale contraddizione con chi ha paventato effetti di incondizionata liberazione di miriadi di pericolosi delinquenti, che il decreto sarebbe inutile, a fronte della ampiezza e della profondità dei problemi carcerari. Anche questa affermazione richiede alcune precisazioni: il fenomeno delle porte girevoli ha coinvolto circa 21.000 persone nel 2010 e più di 17.000 nel 2011. Evitare questo rilevante numero di entrate ed uscite da un lato allevia il lavoro del personale nelle impegnative fasi dell’accoglienza, dall’altro alleggerisce il totale delle presenza in carcere, portandolo a numeri quasi fisiologici, da un altro lato ancora evita il trauma delle pratiche di identificazione e perquisizione e inserimento carcerario per persone destinate, nella grandissima parte dei casi, ad essere rilasciate nel giro di pochissimi giorni; nessuno si illude che questo strumento possa da solo risolvere il problema del sovraffollamento carcerario; ma è noto che il governo ha varato un disegno di legge in materia di depenalizzazione, di messa alla prova, di reclusione domiciliare che, insieme alle iniziative parlamentari in materia di irrilevanza del fatto, dovrebbero produrre un significativo effetto di deflazione. Inoltre il governo intende attivare convenzioni bilaterali per il rientro di detenuti stranieri nei paesi di origine e intese con le comunità di recupero per tossicodipendenti idonee ad incidere sulla componente maggioritaria della popolazione carceraria. È dall’insieme di tali misure che potrà derivare un effetto stabile di alleggerimento del sovraffollamento carcerario; c’è da dire che, da quando è entrato in vigore il d.l., che io voglio chiamare “salva-carceri”, adesso in conversione, si è registrata una flessione del fenomeno delle “porte girevoli” pari al 21,57% (a dicembre 2011 il fenomeno ha riguardato, infatti, 1.175 soggetti e a gennaio 804, sempre con un periodo di riferimento dei 3 giorni). Questo decremento potrebbe essere dovuto ad un maggiore uso delle misure diverse dal carcere. Una conferma di tale dato potrà arrivare dall’esame dei flussi nei prossimi mesi oltre che dalla disponibilità delle informazioni relative agli arresti eseguiti dalla polizia giudiziaria; a ciò si aggiunga la perdurante attenzione del Governo al piano di edilizia carceraria che porterà a edificare, nonostante i rilevanti tagli sui finanziamenti pari a 228 milioni di Euro, 11.573 nuovi posti detentivi. Si tratta di 2.423 posti in più rispetto ai 9.150 previsti dal precedente Piano-carceri, per il quale erano stati stanziati 675 milioni di Euro, contro gli attuali 446,8. La completa attuazione del piano, così come ridefinito, comporterà la realizzazione di 17 nuovi padiglioni in carceri esistenti e di 4 nuovi istituti penitenziari, oltre all’istituto di Bolzano, che sarà finanziato con risorse proprie della Provincia di Bolzano; accanto al piano di edilizia, occorrerà prestare la massima attenzione alla manutenzione delle carceri che, come i recenti episodi legati all’emergenza gelo dimostrano, sono assolutamente urgenti. Ad essi si provvederà con lo stanziamento di 57 milioni di euro destinati dal CdM proprio a tale scopo Si tratta dunque di un mosaico di interventi in cui ogni tassello è fondamentale per la tenuta dell’intero disegno. Qualche osservazione sugli Opg.. Al 31 gennaio scorso risultano 1.264 internati in sei strutture adibite ad ospedali psichiatrici giudiziari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Napoli Sant’Eframo, Reggio Emilia). La loro chiusura non comporterà affatto il rilascio degli internati socialmente pericolosi. Nessuno vuole correre il rischio che potenziali serial killer percorrano liberamente il nostro Paese. Essi saranno ricoverati in strutture idonee alla terapia delle loro malattie mentali, ma anche adeguatamente sorvegliate per non mettere a repentaglio la tranquillità dei cittadini. D’altra parte, chiunque si sia affacciato sull’orrore di questi luoghi di immane sofferenza non può non convenire sul fatto che l’espiazione della pena non può divenire occasione per aggiungere pena alla pena. Occorre poi meditare anche sul fenomeno dei cosiddetti ergastoli bianchi, situazioni in cui persone guarite dalla loro malattia mentale e non più socialmente pericolose rimangono in ospedale psichiatrico perché rifiutate dalla famiglia e dalla società non trovano altri luoghi di accoglienza. Si tratta di situazioni che un paese civile come l’Italia non può permettersi. In conclusione, nessuna delle norme del decreto appare idonea ad attentare alle istanze di difesa sociale, così come da alcuni paventato. Ho sentito a tal proposito i toni piuttosto accesi di chi, puntando il dito verso di me ha dichiarato che sarò responsabile di tutte la conseguenze di questo decreto. Ora, se con il termine responsabile si intendeva dire che sarò colpevole, bene devo dire che mi sento molto più colpevole delle morti in carcere per suicidio che delle conseguenze di un decreto che dovrebbe contribuire a salvare il carcere dallo stato di degrado in cui attualmente si trova. Se con il termine responsabile si intendeva dire che sarò chiamata a rispondere di ciò che ho proposto e che spero il Parlamento condivida definitivamente, devo dire che sono abituata a sentirmi responsabile per ogni decisione che prendo. Lo ero quando, nella mia precedente attività, sapevo che da una mia decisione errata poteva dipendere la condanna o la assoluzione di una persona. Lo sono ora che, nella difficile funzione che mi è stata affidata, so che da una mia decisione errata può derivare una lesione dei diritti dei cittadini e degli interessi della collettività. Sono dunque pronta, anche in questo caso, ad assumermi le mie responsabilità ed auspico che il Parlamento le voglia condividere con me. Giustizia: Severino; non mi vergogno del decreto sulle carceri… ma dei suicidi in cella di Nino Bertoloni Meli Il Messaggero, 15 febbraio 2012 Arriva il decreto svuota-carceri. La Camera ha dato il via libera definitivo al provvedimento del governo, dopo che anche il Senato aveva detto di sì. A favore ha votato compatta la triplice che sostiene il governo, Pdl-Pd-Terzo Polo; disco rosso invece dai soliti noti, Lega e Idv, che si sono prodigati in accuse e contumelie su un provvedimento definito da tutti “di civiltà” e tale da cominciare almeno ad affrontare l’emergenza carceraria. I sì sono stati 385; i no si sono attestati a quota 105; gli astenuti sono stati 26, comprendenti i deputati di Popolo e Territorio (gli ex Responsabili) e i radicali. Questi ultimi, da sempre in prima fila nella battaglia sulla dignità del detenuto e contro il sovraffollamento carcerario, avrebbero voluto un provvedimento più incisivo. Quanto ai contrari, Antonio Di Pietro ha additato il governo a “correo dei delinquenti”, mentre il maggiore frastuono è venuto dalla Lega, che ha inscenato una manifestazione in piazza Montecitorio con magliette con su scritto “stiamo con Abele” e coniando per l’occasione lo slogan a effetto “il governo liberalizza i delinquenti”. La replica del ministro Severino. Soddisfatta Paola Severino, ministro Guardasigilli, secondo la quale “non si è trattato affatto di un provvedimento svuota carceri, né di un indulto mascherato, men che meno di una resa dello Stato alla delinquenza”. Spiega la Guardasigilli: “È sufficiente leggere il decreto per rendersi conto che in ogni caso vi sarà un magistrato a valutare se la persona sia o meno meritevole di una modifica migliorativa del suo stato di limitazione della libertà”. Rivolta poi a Lega e Idv che l’avevano indicata a dito come “responsabile”, il ministro Severino ha replicato di “sentirsi caso mai più colpevole delle morti in carcere per suicidio che delle conseguenze di un decreto che dovrebbe contribuire a salvare il carcere dallo stato di degrado in cui attualmente si trova”. Che cosa cambia. Il primo effetto sarà che i detenuti cui restano da scontare gli ultimi 18 mesi di carcere possono andare ai domiciliari. Il provvedimento appena approvato riguarderà, è stato calcolato, circa 3 mila detenuti all’anno. Il testo mette poi uno stop al cosiddetto fenomeno delle porte girevoli, ossia l’entrata e l’uscita dal carcere di chi vi sosta solo per tre giorni. Per ovviare al sovraffollamento si prevede, in prima istanza, la destinazione agli arresti domiciliari degli arrestati in flagranza per reati minori di competenza del giudice monocratico (sono esclusi i soggetti accusati di furto in appartamento, furto con strappo, rapina e estorsione semplici). In seconda istanza i detenuti andranno nelle camere di sicurezza di commissariati di polizia e nelle caserme dei carabinieri. Solo se le prime due soluzioni non saranno percorribili, o se chi viene fermato è ritenuto di particolare pericolosità sociale, finirà in un penitenziario. La convalida degli arresti avverrà entro 48 ore e non più entro le 96. Sono poi stanziati 57 milioni per l’edilizia carceraria, visto che la situazione era e rimane esplosiva: se i posti disponibili nei penitenziari sono poco sopra i 45 mila, i detenuti effettivi sommano al momento a oltre 68 mila. Le reazioni politiche.Per Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd, “siamo davanti finalmente a un’inversione di tendenza, nel senso che se finora le carceri venivano riempite, adesso si comincia il processo opposto, graduale per carità, ma si comincia”. Soddisfatto anche Roberto Rao dell’Udc, che in aula ha annunciato “il voto convintamente a favore del Terzo Polo (Udc, Fli e Api)”, avvertendo contemporaneamente che “adesso bisogna lavorare per misure organiche, che aspettiamo, per modificare strutturalmente il sistema giudiziario italiano”. A favore anche l’ex maggioranza del Pdl, con Enrico Testa responsabile giustizia in commissione che rivolto agli ex alleati leghisti ha ricordato: “Cari amici della Lega, nel 2010 foste proprio voi a votare lo svuotacarceri presentato da Alfano, solo che allora prevedeva 12 mesi mentre questo 18”. Gli ordini del giorno. Con appositi odg approvati, si è stabilito che gli ospedali psichiatrici giudiziari devono chiudere entro il 31 marzo 2013, con un’avvertenza: verificare nei prossimi sei mesi se sono state approntate le strutture alternative. Con un altro Odg è stata introdotta la cosiddetta norma Lusi che retrodata al primo luglio 1988 (e non più a partire dal 24 ottobre 1989) la possibilità di chiedere risarcimento per ingiusta detenzione. Il governo ha però accolto un testo di Pdl-Pd- Terzo Polo per rivedere la norma. Giustizia: suicidi in carcere; Linee Guida per prevenirli approvate in Conferenza Unificata Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2012 Il sistema penitenziario dovrà sviluppare capacità di intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico e di disturbo psichico o altri tipi di fragilità, attivando un coordinamento funzionale delle diverse figure professionali presenti, a prescindere dal loro rapporto di dipendenza istituzionale, capacità quindi di migliorare le interazioni e le sinergie funzionali tra le stesse figure con l’obiettivo, pur nei rispetto delle rispettive competenze previste dalle norme vigenti, di mettere in atto misure di contenimento del rischio suicidario e di arrivare ad una reale diminuzione dei comportamenti autolesivi e dei suicidi da parte delle persone detenute ed internate e dei minori privati della libertà. Sono queste alcune delle azioni indicate nell’accordo in conferenza Unificata del 19 gennaio 2012 sulla prevenzione dei suicidi in carcere, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 34 del 10 febbraio 2012. Le azioni descritte nell’accordo prevedono poi che l’Amministrazione penitenziaria e la Giustizia minorile, tramite le proprie articolazioni territoriali, e le Regioni si impegnano, entro tre mesi dalla data dell’accordo - metà maggio quindi - a costituire in ogni Regione, all’interno di ciascun Osservatorio permanente sulla Sanità penitenziaria, un gruppo di lavoro tecnico-scientifico, composto, senza oneri aggiuntivi, anche da operatori sanitari e da operatori penitenziari e minorili. Il gruppo di lavoro avrà il compito di elaborare, sulla base delle linee guida esistenti e tenendo conto delle indicazioni degli organismi europei e dell’Oms, un programma operativo di prevenzione del rischio auto-lesivo e suicidario in carcere e nei servizi minorili. Il programma dovrà prevedere: - una ricognizione dell’esistente in ciascuna Regione e Istituto/servizio penitenziario e/o minorile, in termini di disposizioni normative e pratiche già in atto; - specifiche modalità operative e organizzative di intervento nei confronti del disagio che, sulla base delle competenze e delle responsabilità attribuite dalla normativa vigente alle Amministrazioni coinvolte, individuino sia le aree di coordinamento sia le specifiche attività che ciascuna di esse dovrà mettere in atto; - l’adozione, in tempo utile, di tutte le iniziative per l’avvio, entro un anno dalla data della stipula dell’Accordo, di una sperimentazione in almeno una struttura carceraria per adulti e una per minori presente sul territorio della Regione, fermo restando che ii successo e l’efficacia dell’intervento sono legati all’effettiva messa in atto delle azioni specifiche individuate per ciascuna Amministrazione coinvolta; - il monitoraggio e la valutazione, anche attraverso l’utilizzo di strumenti per la verifica dell’applicazione delle procedure stesse (es: audit, monitoraggio della diffusione e della conoscenza delle procedure ecc.). Giustizia: il decreto-carceri è un segnale positivo, tra tanti luoghi comuni di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2012 Basterebbe far parlare i numeri per fermare la coazione a ripetere dei luoghi comuni e degli slogan demagogici sul carcere e sulla sicurezza. Ma anche per ridimensionare dichiarazioni enfatiche o inutilmente scettiche. La legge Severino non è né una “svuota-carceri” né un “indulto mascherato” né un provvedimento “criminogeno”. Non è neanche una legge “salva-carceri”, ma non per questo è “inutile”. Il 31 gennaio 2012, nelle patrie galere dormivano 66.973 detenuti, sebbene i posti letto siano fermi a 45.688. La cosiddetta “svuota-carceri”, approvata dal governo Berlusconi e ora ampliata dal governo Monti, ha fatto uscire in un anno 4.665 persone (fino al 31 gennaio 2012), poco più del 6% dei detenuti. Purtroppo o per fortuna (a seconda dei punti di vista) non ha svuotato e neppure alleggerito in modo consistente le patrie galere. Parlare di “svuota-carceri” è risibile. Ancora più risibile parlare di “indulto mascherato”, come si ostina a fare la Lega, giocando sull’equivoco (grave) che essere detenuti “in casa” equivalga ad essere liberi. L’indulto è uno sconto della pena per cui i beneficiari tornano in libertà; la detenzione domiciliare è soltanto un modo diverso di scontare la pena, ma resta una privazione della libertà, anche se meno afflittiva di quella che il carcere riserva ai suoi ospiti. I quali, insieme alla libertà, perdono diritti fondamentali come la salute, il lavoro, la libertà di movimento (sia pure entro il muro di cinta) e di manifestare il proprio pensiero. Perdono la dignità di persone, sebbene la Costituzione e le leggi non lo prevedano, anzi lo vietino. E ancora: la legge Severino non è, come dice l’Idv, un “provvedimento criminogeno”, e non solo perché finora nessuno di coloro che ha usufruito dei domiciliari è evaso e ha commesso altri reati, ma anche perché le statistiche dimostrano che, semmai, ad essere criminogeno è il carcere “chiuso” (che costringe i detenuti a vivere 22 ore su 24 in cella) poiché produce il 70% di recidiva, mentre le misure alternative alla detenzione o comunque un carcere “aperto” fanno scendere la recidiva al 19%. È un luogo comune anche sostenere che l’unica risposta strutturale all’emergenza carcere sia l’edilizia, senza rendersi conto che per dare piena attuazione al dettato costituzionale non servono “contenitori di corpi” ma strutture funzionali al reinserimento sociale dei detenuti. E poi, anche qui i numeri: il piano di edilizia straordinaria del governo Berlusconi non ha prodotto nulla, e i padiglioni o gli istituti già in costruzione e portati a compimento sono rimasti vuoti per mancanza di personale e tali rimarranno finché rimarrà la logica del marcamento a uomo poliziotto-detenuto. La legge Severino, però, non è neanche una “salva-carceri”, perché i problemi strutturali vogliono risposte strutturali - legislative e amministrative - che purtroppo non si vedono. E le difficoltà incontrate in Parlamento non sono di buon auspicio. Il che non significa che il lavoro fatto sia “inutile”, e prenderne le distanze è insensato. Certo, il rischio è che sul carcere - come sulla giustizia - il governo Monti, pur animato dalle migliori intenzioni, partorisca topolini. Il rischio è che leggi come queste, al di là dei loro effetti immediati, finiscano per perdere il significato di una svolta politico-culturale. Giustizia: la legge sugli Opg? solo una riduzione del danno di Sergio Moccia Il Manifesto, 15 febbraio 2012 La proposta di riforma degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari del senatore Marino, che prevede la polverizzazione territoriale dei “manicomi”, potrà migliorare la condizione degli internati ma è insufficiente e deludente rispetto alle aspettative suscitate dalla meritoria indagine della sua Commissione. Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel nostro ordinamento è una sanzione penale, in particolare una misura di sicurezza. Nel codice Rocco le sanzioni penali si distinguono in pene, fondate sulla colpevolezza ed applicabili ai soli soggetti capaci d’intendere e volere, ossia “imputabili”, e misure di sicurezza, fondate sulla pericolosità sociale, per i soggetti cosiddetti non imputabili. Questa distinzione ha un senso teoretico solo riconoscendo, senza tentennamenti, la presenza nell’uomo della libertà del volere, su cui si fonda la colpevolezza. Ma questo assunto presenta due insormontabili inconvenienti che ne evidenziano l’inaccoglibilità nel nostro contesto socio-ordinamentale: da un lato, il contrasto strutturale con i principi fondamentali dello Stato di diritto e, dall’altro, il vizio d’irrazionalismo sul piano ontologico. In sintesi, dal punto di vista della tutela dei diritti dell’individuo, non si riesce a giustificare come, sulla base di una supposizione incerta sotto il profilo della razionalità - la presenza del libero arbitrio - e dunque attingibile soltanto fideisticamente, si possa in democrazia fondare l’inflizione della pena criminale, che rappresenta, indubbiamente, uno degli interventi statuali più duri in ordine a libertà e responsabilità individuale. Ma un destino analogo tocca anche alla pericolosità sociale, cioè al presupposto dell’altra specie di sanzione, la misura di sicurezza, e tra esse il tremendo ricovero in Opg. Infatti, com’è noto, non vi è alcuna certezza quanto alla definizione di affidabili parametri valutativi su cui poggiare il giudizio di pericolosità, né dal punto di vista delle scienze mediche né da quello delle scienze sociali. Per quel che concerne, invece, i riferimenti normativi alla pericolosità sociale, il codice penale rinvia letteralmente agli stessi parametri a cui va conformato il giudizio di colpevolezza - quello fondato sulla libertà del volere ed incarnato nell’imputabilità - diametralmente opposto, dal punto di vista ontologico, al giudizio di pericolosità che è previsto per i non imputabili: un vero e proprio guazzabuglio sul piano teoretico, di cui tutto sommato potremmo infischiarci, se da esso, dal punto di vista politico-criminale, non derivassero quelle conseguenze insopportabili per il destino di tanti disgraziati, indegne per uno Stato civile e, tra esse, proprio il mantenimento dell’Opg. La verità è che solo attraverso una chiara, decisa riforma, sia pur, per ora, solo parziale del sistema delle sanzioni si potrà porre rimedio alla vergogna degli Opg. Attualmente è consentito il ricovero in Opg indipendentemente dalla gravità del reato commesso, essendo sufficiente la realizzazione di un fatto di reato sanzionato còri la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni, per una durata potenzialmente illimitata e, dunque, anche per un tempo di gran lunga superiore al massimo edittale previsto per il reato commesso. Sarebbe ora di abolire le misure di sicurezza e dunque di eliminare la possibilità della loro durata a tempo determinato nonché la loro applicabilità provvisoria - sempre procrastinatale a tempo indeterminato - in favore dell’adozione di una sanzione unificata, che abbia come presupposto un concetto deeticizzato di responsabilità derivante dalla mera commissione del reato: esso troverebbe fondamento normativo nell’art. 54 Cost. che sancisce l’obbligo di obbedire alle leggi, rinunciando ad infide mediazioni di ordine pseudo-metafisico - come il libero arbitrio - e si caratterizzerebbe per dar vita ad un giudizio fondato sulla proporzione tra fatto di reato e sanzione, con la conseguenza, nel caso di condanna, dell’inflizione di una sanzione a tempo determinato. All’interno di questa nuova categoria del reato rientrerebbero sia il fatto dell’imputabile che quello del non imputabile, giudicati in maniera uniforme. È evidente come, in un tale contesto, l’imputabilità perderebbe quella centralità che attualmente riveste, per divenire uno degli oggetti del giudizio di responsabilità (accanto, ad esempio, a dolo o colpa, grado della dannosità sociale, tipo di offesa al bene tutelato, circostanze concomitanti), integrando altresì un indice di predisposizione di un’offerta d’integrazione sociale con caratteristiche contenutistiche magari differenziali rispetto a quella predisposta per l’autore di reati che sia portatore di problematiche di disagio psichico, ma da porre in atto, per entrambe le tipologie di autori di reato, sempre entro il tempo determinato dalla sentenza passata in giudicato. A me sembra che questa via avrebbe dovuto essere imboccata già immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia: essa, capovolgendo l’orientamento precedente, poneva solide premesse per un deciso superamento anche in ambito penalistico del binomio disagio psichico-pericolosità sociale, tagliando alla radice il fondamento per qualunque forma, più o meno mascherata, di automatismi sanzionatori. Ed infatti, dopo la Legge 180/1978 in materia vi sono stati interventi, in qualche modo, migliorativi della normativa, sia da parte della Corte costituzionale che del legislatore; ma, come appare evidente, tali interventi hanno avuto ad oggetto aspetti limitati della disciplina, che non hanno inciso sull’impostazione di fondo del sistema. Alla stessa stregua, la proposta di riforma del senatore Marino, pur essendo sicura espressione di “buona volontà”, si limita in sostanza a prevedere lo spostamento degli internati dagli Opg in altre strutture di dimensioni notevolmente ridotte e, quindi, molto meglio gestibili, ma non affronta nessuno degli altri punti nodali della questione, mantenendo la durata a tempo indeterminato della sanzione, l’insussistente prognosi di pericolosità e l’applicazione provvisoria del “ricovero” (quella senza giudizio): le cose restano inalterate. Forse la prevista polverizzazione territoriale dei “manicomi” potrà migliorare la condizione degli internati - e non è poco - ma si tratterà soltanto di una mera “riduzione del danno”, francamente insufficiente e, diciamolo pure, deludente rispetto alle aspettative suscitate dalla meritoria indagine della Commissione Marino. Giustizia: Coscioni (Radicali); internati Opg senza futuro, ecco motivi di nostra astensione di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 febbraio 2012 Il decreto Severino, provvedimento tampone sull’emergenza carceraria, da ieri è legge. L’Aula della Camera l’ha licenziato con 305 voti favorevoli (lontani dai 420 sì incassati una settimana fa sulla legge dal governo), ii 105 no di Lega e Idv, e le 26 astensioni tra le quali si contano quelle della pattuglia Radicale. Mentre su piazza Montecitorio i deputati leghisti, dimentichi di aver votato a favore nel 2010 dell’ultimo “svuota carceri” di Alfano, innalzavano cartelli e urlavano slogan contro i “criminali in libertà”, dentro, sugli spalti, Di Pietro e i suoi inveivano contro il governo che “in nome della solidarietà, diventa correo dei delinquenti”. Da ieri è legge dunque la norma che agevola la reclusione alternativa per gli ultimi 18 mesi di pena residua (anziché i 12 del precedente decreto), il ricorso alle celle di sicurezza o ai domiciliari per chi è in attesa di processo per direttissima, e stabilisce la data di scadenza degli Ospedali psichiatrici giudiziari, fissata al marzo 2013. Ed è proprio su quest’ultimo articolo (il 3 ter), considerato dal senatore Pd Ignazio Marino, estensore dell’emendamento che l’ha introdotto, una “svolta epocale di civiltà”, che assume interesse il punto di vista Radicale e in particolare della deputata Maria Antonietta Farina Coscioni, autrice del libro “Matti in libertà” per i tipi di Editori Riuniti. Voi Radicali vi siete astenuti sulla legge. Perché? Perché siamo davanti a un compromesso al ribasso, non adeguato alla nostra proposta di riforma dell’istituzione carcere. È una misura tampone ma non all’altezza dei provvedimenti che noi auspicavamo, ossia l’amnistia e l’indulto, con i quali avremmo riportato il sistema giudiziario in condizioni di poter operare e avremmo evitato quell’amnistia illegale costituita dall’enorme mole di reati che oggi finisce in prescrizione. Ma il ministro ha ritenuto di attribuire alla sola iniziativa parlamentare e non governativa la questione. Nulla poi è stato detto o fatto riguardo là carcerazione preventiva che è uno dei nodi cruciali, visto che il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio. Con l’astensione però riconoscete almeno la buona volontà del governo, come fu anche con Alfano per il primo svuota carceri. Abbiamo voluto distinguerci dalla Lega e dall’Italia dei valori che hanno votato contro con motivazioni per noi incondivisibili e inconciliabili. Per loro il detenuto è in qualche modo meritevole dei “trattamenti degradanti”, una conseguenza semmai dei suoi reati. Noi invece vogliamo tutelare i detenuti che sono prima di tutto persone e anche le vite di chi è costretto in carcere per lavoro. L’anno scorso Alfano aveva tentato una riforma più ampia poi è stato costretto al compromesso. Da questo governo, svincolato da logiche politiche e partitiche, ci aspettavamo qualcosa di più. La Guardasigilli Severino sul sito del ministero ha difeso il decreto assicurando che da quando è in vigore “c’è stata una flessione del fenomeno delle “porte girevoli” pari al 21%”. Cosa pensano i Radicali della norma sulle celle di sicurezza? La nostra astensione riguarda l’intero provvedimento. Ma certo anche questo punto non ci convince, soprattutto perché le celle di sicurezza dei corpi di polizia o delle questure non garantiscono sufficiente trasparenza e dunque la certezza dell’incolumità dei reclusi. Arriviamo al punto degli Ospedali psichiatrici giudiziari, di cui lei si è molto occupata. Perché questo articolo di legge non vi convince? Se diamo per assodato che il disagio mentale non si cancella per decreto, vediamo anche che l’articolo 3 ter - che non è stato scritto dal Partito democratico - non garantisce alcuna protezione a queste persone che più del detenuto normale hanno bisogno di cure. Non è certa inoltre la relazione che deve esistere tra magistratura e ì servizi psichiatrici. Perché siamo convinti che la psichiatria debba occuparsi della violenza e di queste persone che, in alcuni casi sono oggettivamente pericolose per sé e per gli altri e in altri casi invece in queste strutture non devono arrivarci o rimanerci oltre la fine della pena. L’articolo non mette mano ai Codici penali e di procedura penale e quindi non muta il concetto di “pericolosità sociale” previsto per le persone “non imputabili” per incapacità di intendere e volere. L’articolo impone ai magistrati la fine dell’internamento negli Opg a partire dal marzo 2013. Le misure di custodia saranno da allora eseguite all’interno di strutture sanitarie; chi invece è dimissibile sarà affidato ai servizi territoriali. Cosa non vi convince? Non è affatto chiaro che tipo di residenze si apriranno per garantire la custodia e la cura dei malati che hanno commesso reati gravi, e come verranno gestite. Saranno residenze aperte o chiuse? La prima paura è che questi luoghi non siano più soggetti a un certo tipo di controllo che invece oggi è possibile negli Opg. Da giorni un folto gruppo di “basagliani”, psichiatri che contribuirono alia “rivoluzione” della legge 180 e personalità di vario tipo, hanno sollevato molte critiche su questo articolo sostenendo ragioni simili alle vostre. Altri sostengono perfino che il malato psichico debba scontare la pena ln carcere come gli altri e lì ottenere le cure necessarie. Siete d’accordo? No, mi sembra troppo semplicistico. Noi vogliamo rivedere i casi di imputabilità e non imputabilità. Vorremmo distinguere, dalle doppie diagnosi all’alcolista al tossicodipendente: le norme del codice penale sono complesse su questo punto e vanno riviste, distinguendo soprattutto i soggetti. Dovrebbero poi essere potenziati e rivisti anche i servizi territoriali che dovranno occuparsi degli ex internati. Infine va sottolineato che il superamento degli Opg non è stato deciso con questa legge ma con il Dpcm del 2008 emanato dal governo Prodi. Da allora ad oggi, però, dòpo quattro conferenze unificate Stato-Regioni, nulla è cambiato a livello dei servizi d’accoglienza territoriali. Quindi oggi non possiamo dirci tutti felici solo perché è apparsa una data certa. Quello che ci preoccupa invece è come verrà gestita questa fase e quale futuro prevediamo per queste 1.500 persone oggi costrette negli Opg. Giustizia: quello strano raptus che colpisce i giudici quando si giudica la follia di Umberto Silva Il Foglio, 15 febbraio 2012 Siamo alle solite: condannare o assolvere i raptus omicidi? In questi giorni un giudice ha assolto un giovane ucraino che, in preda a un attacco di schizofrenia paranoide - recitano la perizia e la sentenza -, ha accoppato con una gragnola di pugni la prima persona che ha incontrato uscendo in strada. Per guarirlo il giudice l’ha spedito per cinque anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Occorre una decina di anni per moderare un’isteria e in cinque si pensa di poter guarire una schizofrenia paranoide, per di più con passaggi all’atto di quella portata? La sentenza sembrerebbe palesemente assurda, ma si può ipotizzare che il giudice non abbia voluto scoraggiare il giovane, evitando d’infliggergli fin da subito una reclusione eterna; lo considera probabilmente una vittima di stenti e disagi e i cinque anni in manicomio, eventualmente rinnovabili, potrebbero essere una mossa terapeutica. E va bene, va bene, tutti hanno diritto a una seconda chance e i malati di mente più di ogni altro. Ma la questione è complessa, molti sono i motivi per cui si uccide. Proviamo a raggrupparli in tre categorie. Quando si ha a che fare con un delitto orchestrato a un preciso fine di lucro si suole parlare di “lucidi” assassini da punire severamente; un marito che uccide la moglie per mettersi con l’amante, un rapinatore a mano armata, un figlio smanioso di ereditare... delitti ben studiati, che perseguono un solido godimento immediato o futuro. Poi ci sono i delitti gratuiti perpetrati da gente annoiata, sadica, trasgressiva, superomistica, delitti che non hanno altra finalità se non quella di esibire un disprezzo per il mondo, una propria superiorità sulla morale e il senso comune. È il caso del Lafcadio di André Gide, che nei “Sotterranei del Vaticano” butta giù dal treno un innocuo pellegrino; è il caso di André Breton quando incita a uscire in strada e sparare a caso tra la folla. Da tipi così i giudici non si lasciano commuovere, anzi. Differente è l’accoglienza riservata alle pazzie dei poveri di spirito e spesso di sostanze e di affetti: come nel caso dell’ucraino le loro violenze non sono considerate delitti perché non hanno padrone, non c’è un responsabile, non sono partorite da una mente maliziosa. Lo schizoparanoide non è un predatore ma una preda, vive nella sofferenza e non nel piacere, sensazione che non conosce. Sarà vero? Ho più di un dubbio. Penso che il raptusaro abbia anch’egli il suo tornaconto, non un fine ma un inizio, una compulsione che lo spintona, una bolla psichica da sfogare in un modo o nell’altro. Se taglia una gola è perché quella ha a disposizione, e quella taglia, non per il solo piacere di tagliare in una perversione sapientemente coltivata, ma perché non trova altro, altro di meglio da fare, altro da pensare, altro che lo ascolti e gli parli. E quindi il caso è chiuso. No, sorge un interrogativo: quel tipo manesco non trova altro o altro non cerca? Questo il decisivo discrimine, difficile da mappare. Molti umani sperimentano una situazione di estrema solitudine che li spinge a trovare sollievo scaricando la pulsione addosso al primo che capita a tiro, possibilmente debole e indifeso. Nell’infanzia tagliavo la coda alle lucertole, la gola alle ochette e trafiggevo i passerotti; poi mi sono frenato, non senza un certo sforzo; l’aggressività a lungo è rimasta, e se i modi non erano penalizzagli certo nemmeno erano gloriosi. A volte si destava un oscuro rimpianto del crimine. In ciascuno si annida una voglia omicida che col tempo s’impara a volgere in gioco, in riso, in impresa, anche se - annota Freud nel “Disagio della civiltà” - frenarsi risulta doloroso. L’immediato soddisfacimento del bisogno certo è più comodo; diventare umani e parlanti, frapporre un pensiero tra l’urgenza pulsionale e la sua estinzione, comporta un lavoro cui non tutti sono disposti o attrezzati; e c’è chi non ce la fa; nell’infanzia è stato troppo segnato, si è rassegnato, non si è impegnato, si è stordito/L’ucraino ha scaricato addosso all’altro - un altro che più altro non poteva essere, una mamma filippina che passava di lì - la propria angoscia, traendone un osceno sollievo grondante di sangue. Per questo piacere rubato alla donna insieme alla vita, il giovane va penalmente condannato; per il suo disastro psichico va curato. Giustizia: carceri sempre sovraffollate, ma in tutto il Paese sono 38 i penitenziari vuoti di Ilaria Sesana Avvenire, 15 febbraio 2012 Reggio Calabria. Nel quartiere Arghillà prende il via nel 1989 la costruzione di un carcere di massima sicurezza per ospitare 300 detenuti. Tutti i lavori vengono fatti a regola d’arte: le mura perimetrali, i passeggi per le guardie, i reparti di custodia, i cortili. All’interno, “accorgimenti tecnici d’avanguardia”. Tutto è stato ultimato. Tranne la strada d’accesso, le fogne e l’allacciamento idrico: il carcere non ha mai aperto i battenti. Uno spreco milionario che si accompagna a quelli di Mileto, Squillace, Cropani, Arena, Cropalti, Perilia Policastro e Soriano Calabro. Otto istituti vuoti, solo in Calabria, sebbene nella regione ci sia un gran bisogno di nuove strutture per far fronte al sovraffollamento: oltre 3mila detenuti stipati in spazi pensati per ospitarne 1.875. Il più recente Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, censisce in Italia 3 8 istituti penitenziari vuoti. Alcuni sono stati chiusi per ristrutturazione e mai riaperti, altri che sono stati abbandonati perché troppo piccoli. Ci sono poi le carceri completate e mai aperte, come il nuovissimo penitenziario di Gela (Caltanissetta) o quelle che non vengono utilizzate al pieno della capienza. Il caso più eclatante, il penitenziario di Rieti: potrebbe contenere 250 detenuti ma viene utilizzato solo per un terzo della sua capacità perché scarseggiano gli agenti di custodia. Sprechi di denaro pubblico e paesaggi deturpati da nord a sud. A Revere (Mantova) il penitenziario che avrebbe dovuto ospitare 90 detenuti è incompleto dopo 20 anni di lavori. Costo: 2,5 milioni e i locali sono già stati saccheggiati. Mentre il penitenziario di San Valentino (Pescara), costruito da quasi 20 anni, non ha ospitato mai alcun detenuto e ora è in totale stato di abbandono. Riattivarle avrebbe un costo. “Questo dimostra quanto sia demagogico invocare la costruzione di nuovi istituti penitenziari come rapida soluzione al problema del sovraffollamento - spiega Patrizio Gonnella, di Antigone. L’esperienza dei tanti edifici mai terminati dimostra che servono anni per completarne i lavori”. A fronte di questi sprechi ci sono istituti penitenziari fatiscenti: in diversi casi le celle sono state ricavate negli spazi di antichi conventi, ville medicee, fortezze medioevali. Ma non va meglio nelle carceri costruite negli anni Settanta-Ottanta (molte coinvolte nello scandalo delle “ carceri d’oro”): piove dai soffitti e l’intonaco cade a pezzi. Donato Capece, segretario del Sappe (uno dei sindacati della polizia penitenziaria), non usa mezze parole e parla di discariche: “Penso al carcere di Forlì, a Pordenone, a Gorizia. O al carcere di Savona: una vergogna nazionale. Ci sono delle celle al di sotto del livello della strada senza finestre. E i detenuti sono costretti a tenere le lampadine accese 24 ore su 24”. A Poggioreale (Napoli) ci sono 2.800 detenuti: 12 persone sono costrette a dividersi spazi pensati per quattro. Senza contare che ci sono interi reparti e sezioni chiusi per ristrutturazione o sono i-nagibili. Ma questi tagli non rientrano nei conteggi dell’amministrazione. “Sui 45mila posti letto calcolati sulla carta - evidenzia Patrizio Gonnella, quelli effettivamente fruibili sono 35mila 40mila”. Lettere: il “caso Gullotta” e le confessioni estorte con la tortura di Adriano Sofri Il Foglio, 15 febbraio 2012 Invito tutti quelli che non l’avessero fatto a guardare sul sito di Repubblica gli undici minuti di colloquio fra il giornalista Francesco Viviano e Giuseppe Gulotta. Gulotta, 54 anni, muratore, fu arrestato, diciottenne, nel 1976, e accusato dell’omicidio di due carabinieri ad Alcamo (Trapani). Dichiarato reo confesso, ritrattò subito la presunta confessione e disse di essere stato torturato in caserma da una decina di carabinieri. Stette in carcere fino alla scadenza dei termini, poi, dopo una sequela di processi contraddittori, definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990, e da allora ha trascorso in galera altri ventun anni. Nel 2007 un ex maresciallo dei carabinieri andò in tribunale e raccontò che Gulotta e altri giovani arrestati con lui erano stati torturati e le loro confessioni erano state estorte. La storia arriva alla fine ora. Uno dei tre, militante di sinistra, morì in carcere, in un inverosimile suicidio. Guardate quel video, che non ha bisogno di commenti. Al margine, vorrei smentire un paio di luoghi comuni sul carcere. Per esempio, che tutti i detenuti si dichiarino innocenti. In genere, i detenuti, passato un primo periodo - quello in cui ci si ammazza - non si dichiarano né innocenti né colpevoli. La vergogna di non essere creduti pesa più della speranza di essere creduti. E il carcere è così orribile ed esagerato da attutire se non cancellare perfino le differenti circostanze che hanno portato a finirci. Chissà se nella sua vita rubata Giuseppe Gulotta avesse ancora voglia di dire ad altri, che non fossero la sua donna e suo figlio, che lui era innocente, e che altri erano colpevoli di avergli rubato la vita. Forse no. Lettera aperta al ministro della giustizia Paola Severino di Eugenio Sarno (segretario generale Uil Penitenziari La Discussione, 15 febbraio 2012 Egregio ministro, in queste giornate connotate dall’eccezionale ondata di freddo, pare ravvivarsi una ulteriore riflessione sulle condizioni strutturali degli istituti penitenziari ed in particolare in merito alle difficoltà a garantirne una climatizzazione idonea. Quella del riscaldamento degli ambienti di detenzione e dei posti di lavoro in ambito penitenziario è un’annosa questione rimasta, purtroppo, irrisolta. Tra l’altro i recenti casi di ipotermia diagnosticata a taluni detenuti delineano, molto più delle parole, quanto sia necessario, anche in punto di salvaguardia della salute e non solo della dignità, intervenire presto e con razionale efficienza. È del tutto evidente che tale situazione incide sulla salute di coloro che, a vario titolo, sono costretti a permanere negli istituti penitenziari. Una visione ragionieristica della situazione ci porterebbe ad affermare, senza tema di smentita, con conseguenti oneri a carico dello Stato. Più volte abbiamo condiviso ed apprezzato il suo dichiarato intento di voler contribuire a restituire la dignità alle persone detenute. Così come abbiamo apprezzato l’appellativo di eroi che ha inteso rivolgere al personale della polizia penitenziaria. Evidentemente in queste poche settimane di permanenza a Via Arenula ha ben compreso quale sia lo stato di degrado della maggior parte degli istituti penitenziari e quanto infamanti ed indecorose siano le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Orbene, la Uil Penitenziari attende che alle parole pronunciate dal ministro della Giustizia seguano atti conseguenti, propedeutici a restituire dignità, civiltà e diritti. Tra questi ultimi, vorrà convenire, insiste il diritto alla salute. Oggi, però, possiamo affermare con certezza, in molti penitenziari questo diritto è negato ai detenuti, ma allo stesso personale. Noi continuiamo a pensare che i decessi per “cause naturali” di queste ultime ore avvenuti a Campobasso e Bologna possano annoverare tra le concause anche le avverse condizioni meteo e l’impossibilità di garantire idoneo riscaldamento agli ambienti detentivi. È del tutto evidente, però, che Bologna e Campobasso rappresentano solo la punta dell’iceberg. Evitiamo di fare l’elenco ma non possiamo certo non far riferimento alle situazioni di Monza, di Roma Regina Coeli, di Reggio Calabria, di Vasto, di Agrigento e così via. Nel corso delle sue visite negli istituti penitenziari (che Le consigliamo di non annunciare in modo da constatare la realtà vera e non la realtà apparente apparecchiata per l’occasione) chieda degli orari di accensione dei riscaldamenti e si faccia illustrare la mappatura degli erogatori di calore. Parimenti si faccia indicare i posti di servizio degli agenti preposti alla sorveglianza delle sezioni o ai vari cancelli di sbarramento scoprirà che quasi sempre sono un tavolino ed una sedia posti nel bel mezzo dei corridoi, alla mercé delle rose dei venti senza pompe di calore, termosifoni o stufe. Nella migliore delle ipotesi l’agente è collocato in una cella adattata allo scopo. Si faccia guidare attraverso gli accidentati e tortuosi camminamenti delle mura di cinta. Lì in quei budelli stretti, sporchi e pieni di buche la polizia penitenziaria deve garantire il servizio di sorveglianza armata. E preferiamo non parlare delle garitte, quasi mai climatizzate. Quasi sempre ricovero per ratti ed uccelli. In qualche caso anche di serpenti. Immagini la qualità del servizio che può rendere il comandato di sentinella al carcere di Bolzano che deve svolgere tale compito in un box di ple-xiglass e con una pompa di calore che funziona (quando funziona) ad intermittenza, semmai in una notte d’inverno a meno venti gradi! E guai a far ricorso ad effetti personali (guanti, sciarpe) atti a tutelarsi dal freddo. Intrepidi funzionari e zelanti dirigenti sono sempre pronti a perseguire in via disciplinare tale violazione e nulla importa se le dotazioni del vestiario latitano da anni. Siamo certi che Lei è a conoscenza che solo attraverso l’erogazione di fondi dalla Cassa Ammende che il capo del Dap, presidente Ionta, in sinergia con il provveditore della Lombardia, Luigi Pagano, ha potuto garantire la climatizzazione ad otto istituti della Lombardia. Insomma in moltissime delle nostre patrie galere i detenuti e il personale (quello che opera nelle prime linee) hanno sempre più l’impressione di sperimentare gli effetti dell’ibernazione. Ad onor del vero ciò è determinato non solo dall’atavica inefficienza dell’amministrazione penitenziaria, quant’anche da una scellerata norma (Dpr 412 del 26.08.93) che omologa “le case di pena” alla abitazioni private in materia di orari di attivazione degli impianti di riscaldamento. Il 3 gennaio del 2007 lo scrivente inoltrò una nota, all’allora Capo del Dap, cercando di sensibilizzare l’amministrazione sulla materia. Nota restata, come quasi tutte, priva di riscontro. Alleghiamo quella nota alla presente, auspicandone miglior sorte ed attenzione. In attesa dell’incontro del 22 p.v., molti cordiali saluti. Emilia Romagna: Assessore Marzocchi; ok decreto, ora si lavori per qualità vita detenuti Dire, 15 febbraio 2012 È soddisfatta l’assessore regionale alle Politiche sociali, Teresa Marzocchi, dell’approvazione del decreto svuota-carceri da parte della Camera e dell’impegno mostrato dal ministro della Giustizia, Paola Severino che ha dimostrato con i fatti di considerare la situazioni delle carceri un’emergenza di primaria importanza. “Ora però - dice Marzocchi - serve un passo avanti deciso per aprire le nuove opportunità anche a chi non ha una casa e per migliorare la qualità della vita in carcere”. Secondo l’assessore, la risposta del governo segna un’inversione di tendenza. “Si parla non più di un aumento dei posti disponibili- dice- ma della costruzione di percorsi per le pene alternative alla detenzione”. Soddisfazione anche per l’approvazione dell’ordine del giorno relativo alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevista entro il 31 marzo 2013 attraverso il superamento delle strutture attuali sul modello dell’esperienza realizzata in Emilia-Romagna con la residenza socio-riabilitativa di Sadurano. Marzocchi si dichiara favorevole a un provvedimento che punti all’ampliamento della detenzione alternativa, “la cui applicazione- precisa- deve essere portata avanti insieme alle amministrazioni locali affinché possano disporre delle risorse necessarie per far uscire dal carcere anche chi non ha una casa”. Pensando però a chi, comunque, dovrà scontare la sua pena all’interno del carcere, l’assessore chiede al ministro “che vengano potenziati gli strumenti per rendere gli istituti penitenziari un luogo di civiltà, migliorando le strutture, la formazione e il reclutamento del personale e l’aumento dei magistrati di sorveglianza”. Il decreto svuota-carceri è stato approvato oggi dalla Camera dei Deputati con 385 voti favorevoli, 105 contrari e 26 astenuti. A favore hanno votato Pdl, Pd, Terzo polo oltre ad altri deputati dell’area mista. Contrari Lega Nord e Italia dei valori. Il ministro della Giustizia Paola Severino è intervenuta sulle polemiche che hanno seguito la votazione assicurando che “non si tratta di un indulto mascherato” dato che “non ci sarà nessun automatismo nella scarcerazione dei detenuti”. La decisione spetterà sempre a un magistrato. Campania: nelle carceri regionali dramma di detenuti che vivono in condizioni disumane di Claudio Landi L’Occidentale, 15 febbraio 2012 L’Italia può essere considerata, dati alla mano, “maglia nera” nella gestione del sistema carcerario. Dal 1959 al 2010, il nostro Paese è stato condannato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo ben 2.121 volte e, all’interno dei paesi dell’Unione Europea, il nostro Paese detiene il primato per le condanne relative alla condizione dei detenuti mentre è seconda rispetto a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, precedendo perfino la Russia. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo sulla questione, ha dichiarato che le condizioni dei detenuti sono distanti dal dettato costituzionale e che auspica, per loro, una situazione quantomeno rientrante nei limiti dell’accettabilità. Le carceri campane sono uno degli specchi che più riflette la gravità di questa situazione. Tra settembre e ottobre 2010 sono stati registrati ben tre casi di suicidio nel carcere partenopeo di Poggioreale: qui il 9 Settembre 2010 Francesco Consoli, un transessuale pugliese di 34 anni, si è tolto la vita inalando del gas. Poche settimane prima un altro detenuto era morto dopo essersi somministrato un mix di farmaci, illecitamente introdotti all’interno della prigione, mentre il 4 ottobre Antonio Granata, 35enne di origini campane arrestato il 29 settembre, è stato trovato impiccato nella sua cella. Nel 2011 non è andata meglio, anzi. A leggere il rapporto dell’associazione Antigone si resta di sasso. Solo prendendo l’esempio di Poggioreale, la relazione è la seguente: “I reparti più sovraffollati sono il Padiglione Napoli (presenti 450/ capienza 240) e Padiglione Milano (presenti 379/capienza 200). In una cella si arriva sino a 12 -14 detenuti, con i letti a castello impilati per tre e un solo bagno interno alla cella. Ad esclusione del Padiglione Firenze (presenti 354 detenuti) negli altri padiglioni le docce sono solo esterne. C’è l’acqua calda. La luce entra nelle celle e d’estate il sole è così forte che i detenuti coprono le finestre utilizzando un asciugamano bagnato. Il blindato viene chiuso la notte e aperto alle 6.00 del mattino. Le docce esterne sono accessibili due volte a settimana. Causa motivi di sovraffollamento le ore d’aria sono solo 2. D’estate non vi sono attività formative e/o scolastiche. Da marzo 2010 a giugno 2011 - si legge - cinque decessi noti, di cui due suicidi”. Una situazione, quella descritta, che non pare accennare ad alcun miglioramento. Eugenio Sarno, segretario generale Uil Pa Penitenziari, senza usare mezzi termini la definisce “una mattanza” e esprime forti perplessità circa la capacità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia di arginare, nel breve periodo, l’ondata di decessi e suicidi. Continua Sarno: “Tra auto soppressioni, aggressioni, violenze, sovrappopolamento e violazione del diritto le nostre galere hanno perso ogni residuo di civiltà, umanità e legalità. Nonostante gli sforzi del personale, abbandonato a se stesso, nulla si può se non intervengono quelle soluzioni strutturali più volte richieste”. Dunque, per Sarno, servirebbero riforme in grado di incidere sulla situazione critica delle carceri e di riportarla, se non alla piena normalità, almeno a livelli di decenza. Della situazione campana se ne stanno occupando molte personalità politiche - sia a destra che a sinistra - e movimenti sensibili al tema, come i Radicali Italiani tramite l’associazione “Per la Grande Napoli”. Durante un sit-in, organizzato lo scorso 16 luglio di fronte al carcere di Poggioreale, il segretario dell’associazione Luigi Mazzotta ha lanciato una denuncia chiara e precisa: “Il sovraffollamento delle carceri, soprattutto quelle campane, si combina con strutture vecchie e inadeguate che rendono incompatibile la condizione di detenuti con il rispetto dei diritti”, e ha sottolineato dunque l’urgenza di un’amnistia che possa quantomeno arginare il problema nel breve periodo ed evitare che la situazione possa ulteriormente peggiorare. Stando alle dichiarazioni più recenti, durante un sopralluogo svolto il 10 febbraio scorso a Poggioreale, al quale ha partecipato anche il senatore del Popolo della Libertà Luigi Compagna, Mazzotta ha avuto modo di ribadire che “i carcerati sono costretti a vivere in condizioni disumane” e che “il diritto alla salute e alla rieducazione qui è negato per definizione”. “Abbiamo avuto - riprende Mazzotta - un colloquio con il direttore dell’istituto, Cosimo Giordano, che si è espresso favorevolmente rispetto al provvedimento di amnistia che Marco Pannella e noi Radicali continuiamo a chiedere con forza, come unica soluzione possibile per riportare le carceri al rispetto dei diritti umani e della Costituzione italiana”. A fronte della sua esperienza nel carcere di Poggioreale, il parlamentare del Pdl Alfonso Papa, nel corso di un’intervista, alla domanda: “Cosa le resta dentro, come uomo, dopo l’esperienza in cella?”, ha risposto così: “Porterò sempre dentro la sofferenza inumana a cui è sottoposta la popolazione carceraria, detenuti e operatori penitenziari. Manca la dignità e ogni giorno in più in celle sovraffollate e fatiscenti, è un giorno in più di tortura. In pratica hanno più diritti i maiali. Le carceri italiane - lancia la sua accusa Papa - non rispettano il dettato costituzionale.” Una descrizione più o meno identica della situazione la fa Diego Lombardo, 52 anni, malato di tumore e detenuto nel carcere di S. Maria Capua Vetere. Abbiamo avuto modo di intervistarlo all’indomani della scarcerazione per differimento pena, avvenuta il 1 Febbraio scorso dopo una lunga serie di battaglie e campagne di sensibilizzazione, nonché di un’interrogazione parlamentare a cura della deputata radicale Elisabetta Zamparutti. Lombardo, descrivendoci la sua esperienza, non usa mezzi termini: “Vivevo in una stanza di 20mq abitata da ben sette persone, di cui una malata di tumore. Fortunatamente ho avuto modo di avvalermi della collaborazione e la comprensione degli altri detenuti che mi hanno esentato dagli oneri di pulizia della cella. In quella cella vivevamo in meno di 3mq per detenuto. Per non parlare del vitto. Non esiste una dieta specifica per gli ammalati, né diabetici né malati di tumore.” Sia Papa che Lombardo fanno riferimento alla decisione della Corte Europea che stabilisce uno spazio minimo di 7 mq da riconoscere ad ogni detenuto, spazio vitale, sotto il quale la pena si trasforma in tortura (art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Non mancano anche problemi relativi alle condizioni igienico-sanitarie. È il caso dei servizi igienici per i detenuti della Casa Circondariale di Salerno. In una nota, il segretario nazionale del Lisiapp (Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria, ndr), Daniele Giacomaniello, rileva che”le strutture detentive non sono in linea con le normative vigenti. La C.C. di Salerno, ad esempio, ad oggi non è ancora in grado di assicurare ai ristretti l’utilizzo dei servizi igienici come disciplinato dall’Art 7. del Dpr 30 giugno 2000 N.230 (regolamento di esecuzione della legge 354/75)”. A fronte delle tante testimonianze agghiaccianti relative alla condizione del detenuto nelle strutture carcerarie campane e ai dati allarmanti registrati su tutto il territorio nazionale, serve un marcato intervento del legislatore per far fronte ad un problema che è divenuto, ormai, una vera e propria emergenza. Abbiamo già avuto modo di parlare, in precedenza, del notevole impegno e interesse dei Radicali Italiani e delle associazioni che fanno a loro riferimento sul territorio partenopeo, nonché dell’attenzione riposta al caso dal Senatore Pdl Luigi Compagna. Anche il gruppo consigliare campano del Pd ha avuto modo di interessarsi alla questione, a dimostrazione del carattere bipartisan di questa battaglia. Il Consigliere Regionale Donato Pica ha presentato, nell’agosto scorso, una proposta di legge in Consiglio Regionale. Questa proposta consta di 16 articoli, miranti all’introduzione di misure atte alla realizzazione di politiche tese al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti per ridurre il rischio di recidiva. Insomma, quello che si registra è un clima di forte collaborazione e di attivismo delle forze politiche di ogni schieramento per arginare e risolvere la questione delle carceri: un tema ormai divenuto prioritario all’interno dell’agenda politica nazionale e campana perché ha a che fare con la tutela e il rispetto della persona, valori fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione. Sicilia: la Fondazione Andi Onlus incontra i detenuti per promuovere la salute orale www.ildentale.it, 15 febbraio 2012 Difficoltà di ricevere cure ma soprattutto di attivare programmi si salute pubblica all’interno degli istituti penitenziari italiani sono all’ordine del giorno. Da alcuni anni la Fondazione Andi Onlus con il progetto “Promozione della salute orale negli istituti penitenziari siciliani” ha attivato una concreta iniziativa in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia per la promozione della salute orale negli istituti penitenziari siciliano. La promozione e la sensibilizzazione verso la salute orale è un aspetto importante, e non scontato, in un ambiente protetto come quello carcerario in cui la forzata convivenza rende usuali cattive abitudini e promiscuità nell’uso degli strumenti di igiene. Ciò comporta un altissimo rischio di trasmissione di virus e batteri, quali epatite o Aids. “Per questo Fondazione Andi - dice il suo presidente Giovanni Evangelista Manciniha scelto di intervenire all’interno degli istituti penitenziari italiani con un progetto che, da una parte, attraverso un percorso di formazione sulla cultura della solidarietà e della prevenzione, promuove l’igiene orale presso il personale di custodia e i funzionari dell’Amministrazione penitenziaria e, dall’altra, tramite incontri formativi periodici e grazie alla distribuzione di materiale didattico e di kit spazzolino-dentifricio, sensibilizza i detenuti verso corrette pratiche di igiene orale”. Giovedì 9 febbraio, presso la Casa Circondariale di Caltanissetta, si è tenuto il primo, del 2012, di una serie di appuntamenti su tutto il territorio regionale volti a sensibilizzare la popolazione carceraria sul tema della salute orale e della prevenzione. L’incontro, informano dalla Fondazione Andi Onlus, rivolto a cinquanta detenuti del primo padiglione dell’Istituto Penitenziario, si è svolto grazie alla partecipazione di due dentisti volontari di Fondazione Andi, la dott.ssa Luisa Giannavola e il dott. Luigi Burruano, responsabile del progetto, e grazie alla collaborazione del dott. Carmelo Abate, Responsabile dell’area sanitaria dell’Istituto, e alla presenza del Commissario Michelangelo Aiello. Nel corso dell’incontro sono stati distribuiti materiale informativo e didattico e circa 80 kit composti da dentifricio e spazzolino per l’igiene orale dei detenuti. I prossimi appuntamenti per la provincia di Caltanissetta si svolgeranno negli istituti penitenziari di S. Cataldo e Gela, successivamente nelle altre province siciliane. Roma: il fratello del detenuto morto “ritardi nei soccorsi, noi informati il mattino dopo” di Peronaci Fabrizio Corriere della Sera, 15 febbraio 2012 Regina Coeli nella bufera per i due decessi degli ultimi giorni. Prima del tossicodipendente ucciso da un’ overdose in cella sabato scorso, un altro carcerato era morto il 30 gennaio nella VI sezione. “Il medico non sapendo usare il defibrillatore leggeva il libretto delle istruzioni”, accusa il fratello di Massimo Loggello. La Radicale Bernardini al ministro della Giustizia: “Regina Coeli va chiuso”. “Noi l’abbiamo saputo la mattina dopo, è una vergogna. Ci hanno informati quando mio fratello era già nella camera mortuaria del Gemelli, dopo l’ intera notte abbandonato in cella, con un lenzuolo sopra”. Marco Loggello è il gemello di “Momo”. Una famiglia numerosa e disgraziata, da San Basilio. “Eravamo cinque fratelli e tre sorelle, i miei non ci stanno più... Io ho un lavoro, faccio lo spedizioniere, e c’ ho pure moglie e figli. A me è andata bene, ma agli altri! Sò rimasto l’unico maschio: due sono morti di infarto, un altro di tumore alla prostata, e ora è toccato a Massimo, Momo, lo chiamavo così fin da quando giocavamo a pallone pè strada...”. Cosa è successo nella VI sezione di Regina Coeli il 30 gennaio? Il racconto è su Facebook, alla pagina “Ciao Momo...!!!” aperta dai familiari di alcuni detenuti presenti. “I 5 compagni di cella - racconta Marco Loggello - si sono accorti subito che Momo stava male, si contorceva e chiedeva aiuto... Erano le undici di sera. Hanno gridato per far venire i secondini, ma il primo s’ è fatto vivo dopo 20 minuti. Poi, dopo altri 40, è arrivato il medico del carcere”. E allora? “Non sapeva usà il defibrillatore e s’affannava a leggè il libretto”. Che libretto? “Quello delle istruzioni! Il dottore non era pratico... Tanto che il defibrillatore hanno provato a farlo funzionà gli altri detenuti”. Sforzi vani: “Dopo un’ ora e mezza - prosegue il gemello - è arrivata l’ambulanza, ma non serviva più. Le guardie hanno sbattuto fuori dalla cella gli altri e hanno buttato un lenzuolo sul corpo. Così, da solo, Momo è rimasto fino all’ alba. Intanto era esplosa la protesta, volava il vitto per aria, la gente batteva sulle sbarre... Infine l’ hanno portato al Gemelli”. Al di là dell’ accertamento di eventuali responsabilità, i tempi sono importanti in questa vicenda: sono la spia di “una mancanza di sensibilità”, incalza il gemello. “A casa di mia sorella, che abita in via Tranfo, tre piani sopra Massimo, che viveva da solo e l’ avevano arrestato per colpa di un’intercettazione mentre parlava con uno spacciatore, i carabinieri sono andati alle 10 di mattina”. Signora, ci dispiace... “Sì, hanno detto così: mia sorella, appena li ha visti, ha capito. Ma il fonogramma in caserma era arrivato tre ore prima!”. Giovedì i Loggello andranno a protestare davanti Regina Coeli. “Saremo decine, non deve succedere ad altri”. Sullo striscione apparso quella stessa notte - scritto in preda alla rabbia dai detenuti della “Sesta” e fatto sventolare oltre le grate nella speranza che dalla terrazza del Gianicolo qualcuno lo vedesse - c’era scritto: “Momo vive, la sanità ride”. L’hanno portato anche sotto l’altare, lunedì scorso, ai funerali nella parrocchia di San Basilio. Lecce: “pene contrarie al senso d’umanità”, il Dap condannato a risarcire 4 detenuti di Tiziana Colluto Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2012 Non era mai accaduto prima: nella decisione del tribunale di sorveglianza salentino si parla di “lesioni della dignità umana, intesa anche come adeguatezza del regime penitenziario, soprattutto in ragione dell’insufficiente spazio minimo fruibile nella cella di detenzione”. Per alcuni, la decisione è storica. Di certo c’è che squarcia il velo delle ipocrisie, anche giuridiche, sulle condizioni dei penitenziari italiani e si pone come precedente di assoluta rilevanza. Probabilmente il punto di non ritorno. Il Tribunale di sorveglianza di Lecce, infatti, riconosce il risarcimento del danno a quattro detenuti nel carcere di Borgo San Nicola. La motivazione è inequivocabile: il sovraffollamento della casa circondariale comporta una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, nella parte in cui recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Anzi, il giudice Luigi Tarantino, nell’ordinanza, parla apertamente di “lesioni della dignità umana, intesa anche come adeguatezza del regime penitenziario, soprattutto in ragione dell’insufficiente spazio minimo fruibile nella cella di detenzione”. Il Tribunale accoglie, quindi, parzialmente i ricorsi presentati dai reclusi e condanna lo Stato e l’amministrazione penitenziaria a pagare indennizzi, per danni non patrimoniali, che oscillano tra i mille e i 4mila euro. Molto di più rispetto ai 220 euro riconosciuti ad A.S., trentenne tunisino, dallo stesso Tribunale nel mese di settembre. È la prima volta che accade in Italia e il caso è destinato a fare scuola. Solo di fronte alla magistratura di sorveglianza salentina pendono centocinquanta ricorsi, alcuni già inoltrati alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Altri simili sono in attesa di giudizio a Padova e a Milano. E su questi potrebbe influire, eccome, il peso di queste prime pronunce. Per rendersi conto della loro portata storica basta considerare i numeri: in tutto il Paese, stando ai dati diffusi dalla Comunità di Sant’Egidio, sono oltre 67mila i detenuti in strutture che al massimo potrebbero accoglierne 42mila. La maglia nera del sovraffollamento spetta proprio alla Puglia. Ma per capire veramente l’intensità del terremoto che potrebbe travolgere il sistema carcerario nostrano, bisogna guardare a quello che accade poco più in là, in Gran Bretagna, dove il governo, solo nel 2010, è stato costretto a sborsare risarcimenti che hanno sforato il tetto dei 4milioni di euro, dovuti anche per le condizioni indegne della permanenza dietro le sbarre. Di sicuro, dev’essere questo uno dei motivi per cui l’Avvocatura dello Stato, per conto dell’amministrazione penitenziaria, ha impugnato l’ordinanza del magistrato Tarantino e il giudizio è tuttora pendente. Ma con 112 euro al giorno, spesi in media nel 2011 dallo Stato per ogni detenuto, va detto anche che pure il sovraffollamento è diventato un business. Il sasso nello stagno, ad ogni modo, è stato lanciato. Il Tribunale di Lecce ha, infatti, sottolineato come la centralità della funzione rieducativa della pena “non riguardi com’è ovvio solo gli strumenti alternativi alla detenzione, ma anche la conduzione della detenzione stessa, che non può essere concepita se non in funzione della progressiva rieducazione del detenuto”. Insomma, se mancano le condizioni basilari per questo, la pena diventa un mero decorso del tempo “scandito da un’alba sempre uguale e senza fine”. “Ciò che è di straordinaria rilevanza - sottolinea l’avvocato Alessandro Stomeo, che ha curato i ricorsi - è l’aver riconosciuto che il trattamento penitenziario, così come quello sanitario, è un obbligo che lo Stato ha nei confronti del cittadino. Pertanto, la mancanza di un trattamento che, almeno in astratto, possa essere fruito per risocializzarsi, comporta la lesione di un diritto proprio del detenuto, fonte anche di obbligo risarcitorio da parte dello Stato”. L’indennizzo varia soprattutto in funzione del tempo trascorso in condizioni inadeguate e in proporzione alle condizioni di disagio, intese come ristrettezza degli spazi, mancanza di attività sportive, risocializzanti, ricreative, di studio e lavoro. E che la situazione a Borgo San Nicola sia esplosiva lo dicono i dati. Celle concepite per un solo carcerato ma da dividere in tre, con spazi vitali a testa grandi quanto quelli di una bara. Impossibilità di utilizzare le aree verdi e i campetti, perché mancano i passaggi di accesso protetti. Abuso di ansiolitici e depressivi da parte del 90 per cento della popolazione dietro le sbarre. Sovraffollamento del 120 per cento. È stato il rapporto “Visti da noi” del Centro Servizi Volontariato Salento a capovolgere la visione di quella che, al momento della sua inaugurazione, a metà anni 90, era considerata una casa circondariale modello. Anche l’ordinanza del giudice Tarantino mette nero su bianco il dramma del recluso A.S., che “è stato ristretto in un istituto sovraffollato occupato da 1.377 a fronte di una capienza di 660 detenuti ed una tollerabilità di 1.100, non ha fruito di alcuna attività trattamentale formulata secondo un programma individualizzato, non ha fruito di un vano igienico dotato di acqua calda, non ha fruito di spazi all’aperto dotati di protezione dagli agenti atmosferici, non ha fruito di un programma trattamentale che alternasse attività finalizzate alla rieducazione con attività all’aperto, ha trascorso 19 ore e mezzo in una cella utilizzando uno spazio vitale pari a 3,39 mq al lordo degli arredi, dormendo su di un letto a castello posto a 50 cm dal soffitto della stanza”. “Il ricorso - sottolinea Stomeo - ha preso spunto dalla sentenza Sulejmanovic, con cui nel 2009 la Corte europea ha condannato l’Italia a indennizzare un detenuto bosniaco per il danno morale sofferto durante la sua permanenza, per due mesi e mezzo, in uno spazio minimo vitale di 2,70mq. In quel caso si era configurata una violazione dell’articolo 3 Cedu sul divieto di tortura, tanto che la pena è stata ritenuta umiliante e degradante”. Il Tribunale di Lecce non si è spinto fino a questo punto, ma ha avvisato: “Rispetto a quella situazione, la lesione cagionata all’odierno reclamante è di poco più contenuta sotto il punto di vista temporale e manifesta un’aggressione meno intensa al comune bene giuridico della dignità umana”. Come dire, siamo al limite. Savona: Sappe; detenuto tunisino aggredice e ferisce due poliziotti penitenziari Somunicato stampa, 15 febbraio 2012 “Due colleghi della Polizia Penitenziaria sono stati aggrediti, questo pomeriggio, da un detenuto tunisino nel carcere di Savona. Il detenuto, particolarmente violento e in carcere per i reati di resistenza e danneggiamento, stava tentando di rompere i vetri tra il corridoio e la sua cella, arrivando quasi a distruggerli. I poliziotti penitenziari sono prontamente intervenuti per fermarlo ma sono stati proditoriamente aggrediti, prima verbale e poi fisicamente, tanto da rendersi necessarie le cure all’Ospedale. Nonostante tutto, i colleghi della Polizia Penitenziaria sono riusciti ad evitare più gravi conseguenze. A loro va naturalmente tutta la nostra vicinanza e solidarietà, ma ci domandiamo quante aggressioni ancora dovrà subire il nostro Personale di Polizia Penitenziaria perché si decida di intervenire concretamente sulle criticità di Savona? Questa aggressione ci preoccupa. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria a Savona – oltre 10 Agenti in meno rispetto all’organico previsto, il costante sovraffollamento di una struttura particolarmente vecchia (quasi 70 detenuti presenti al S. Agostino - circa il 60% gli stranieri - rispetto ai 36 posti letto regolamentari, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite – talvolta persino senza finestre! - e soprattutto di chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato come i nostri Agenti) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso, come a Savona, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. E Savona non ha neppure un direttore titolare del carcere: davvero sconcertante. Intanto le tensioni in carcere crescono in maniera rapida e preoccupante: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli Agenti e alle strutture! E bisogna che chi aggredisce gli Agenti sia punito con severità e fermezza!” E’ quanto scrive in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), commentando l’ennesima aggressione di due poliziotti della Penitenziaria nel carcere di Savona. “Sgomenta constatare la frequente periodicità con cui avvengono queste aggressioni: servono provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse, ad esempio un efficace isolamento giudiziario o anche, in analogia a quanto avviene ad esempio in America, che i detenuti più aggressivi possano essere eventualmente contenuti anche nelle sezioni detentive con manette e catene. In una situazione di emergenza, come è quella attuale, servono provvedimenti straordinari. Bisogna dare soluzioni concrete e certe per Savona, dove i poliziotti penitenziari sono sempre più sotto organico e da soli nella prima linea delle sezioni detentive a gestire le continue tensioni e situazioni di pericolo”. Eboli (Sa): rappresentanza detenuti a Roma, partecipano a Udienza generale del Papa La Città di Salerno, 15 febbraio 2012 Una rappresentanza di detenuti della Casa di reclusione Icatt di Eboli si recheranno in permesso premio il 14 marzo prossimo a Roma per partecipare all’Udienza generale del Santo Padre, accompagnati dagli operatori penitenziari. Un’iniziativa fortemente voluta da Rita Romano, il direttore dell’istituto penitenziario, insieme al cappellano del carcere e rappresentante della Caritas in favore dei detenuti, padre Alfonso Raimo. La stessa Caritas ha messo a disposizione dei detenuti e di altre 30 persone, tra agenti penitenziari e personale civile, un autobus che trasporterà la folta comitiva dalla casa circondariale dell’Icatt di Eboli a Roma. I reclusi selezionati sono tutti condannati in via definitiva. Grazie alla regolarità della vita all’interno della casa circondariale manifestata attraverso un costante senso di responsabilità e di correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzative, hanno potuto beneficiare della giornata premio per recarsi a Roma per assistere all’udienza papale. Ogni partecipante offrirà al Santo Padre un regalo. Nella circostanza sarà anche consegnata la copia del libro (a cui i giovani hanno collaborato) “L’Umanitá del Fisco”, d’ Vincenzo Carrella. Torino: una mappa dei detenuti a rischio suicidio, oggi presentazione della ricerca di Massimiliano Peggio La Stampa, 15 febbraio 2012 Lo studio della Compagnia di San Paolo intende offrire materiale di riflessione per sollecitare significativi interventi per fronteggiare il fenomeno di morti in cella e atti di autolesionismo. Il male verso sé stessi. Si tolgono la vita strozzandosi con lenzuola annodate alle inferriate della cella o ai termosifoni. Oppure inseguono il dolore: ingoiano lamette da barba, cucchiai, detersivi. Lo fanno soltanto per uscire dal carcere e finire in ospedale qualche giorno: una fuga della mente, prima ancora che fisica. Autolesionismo in carcere. La Compagnia di San Paolo ha sostenuto una ricerca per comprendere come “si muore in carcere” e fornire materiale di dibattito a operatori e studiosi. Perché, come osserva la ricerca, “alla presenza di un problema reale, non è storicamente corrisposto un significativo intervento, di carattere congiunto, da parte della comunità scientifica e dell’amministrazione penitenziaria volto a fronteggiare il fenomeno”. Il male dietro le sbarre: “Il carcere è un luogo dove l’autolesionismo e il suicidio sono notevolmente superiori rispetto all’esterno”. Fenomeno complesso. Lo studio, ripercorrendo le orme di altre indagini, ha confermato che vi è “una maggiore incidenza dei suicidi fra i detenuti italiani, fra i più giovani e fra le persone sottoposte a misura cautelare”. A volte tra i “nuovi giunti”: quelli che vanno in galera per la prima volta. “Inoltre - continua lo studio - i dati relativi ai periodi di ingresso in carcere e quelli relativi al momento del trasferimento pongono ulteriori seri interrogativi sul devastante impatto delle carcerazioni brevi, oltre che sulla gestione da parte dell’amministrazione dei casi problematici”. La ricerca, dal titolo “Così si muore in galera: comparazione tra gli atti di autolesionismo nelle carceri di Piemonte, Liguria e Campania”, sarà presentata oggi alle 18 al Circolo dei Lettori, in via Bogino 9. Seguirà un dibattito: introduzione di Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto e relazione di Giovanni Torrente del Dipartimento Scienze Giuridiche Università di Torino. Intervengono: Vladimiro Zagreblesky, direttore Laboratorio dei diritti fondamentali; Claudio Sarzotti, Università di Torino; Alberto Marcheselli, ex magistrato di sorveglianza; Marco Bonfiglioli, PRAP di Torino. Moderatore: Maria Pia Brunato, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Torino. Immigrazione: profughi, rabbia dietro le sbarre “fuggiti dalle dittature, ma qui è un lager” La Repubblica, 15 febbraio 2012 Viaggio nel centro devastato da rivolte e proteste. Per la prima volta, dopo lo stop alle visite imposto da Maroni e la campagna della stampa “LasciateCIEntrare”, un giornalista varca la soglia della struttura di identificazione ed espulsione di Bari. Lo sguardo rivolto all’insù. Verso il cielo. Per vedere gli aerei passare sopra la testa e aggrapparsi a quel sogno di libertà. Quando non ci sono nuvole si intravedono le scie e le luci, nelle giornate più tranquille si riesce anche a sentire il rombo dei Boeing. L’aeroporto “Karol Wojtyla” di Bari è a pochissimi chilometri. Ogni tanto passa anche qualche elicottero in perlustrazione. Fuori fa molto freddo. Sono le undici di mattina e ci sono appena quattro gradi, ma non importa. Il cielo è azzurro e bisogna stare all’aperto. “Fuori, out side, dehors” ripetono in più lingue. Solo così nel Cie si riesce ancora a sperare. Quel piccolo cortile all’aperto dietro le sbarre è l’unico posto in cui ci si può sentire liberi. I migranti qui dentro sono rinchiusi. Gli operatori che forniscono loro assistenza preferiscono chiamarli ospiti del centro, ma sanno che in realtà si tratta di detenuti. Dietro la parola Cie, acronimo di centro di identificazione ed espulsione, si nasconde un vero e proprio carcere. Riservato a chi non ha il permesso di soggiorno. Per arrivare all’interno della struttura, a cavallo tra i quartieri San Paolo e Palese, accanto alla cittadella della guardia di finanza, bisogna attraversare una prima recinzione in muratura, una seconda vetrata anti-sfondamento alta oltre sette metri e una terza cancellata in ferro. Solo dopo i tre anelli si può entrare nell’edificio. Circondato da camion dell’esercito, automobili della polizia e presidi dei carabinieri. È la prima volta, dopo lo stop alle visite imposto ad aprile scorso l’ex ministro all’Interno Roberto Maroni e seguito dalla campagna “LasciateCIEntrare” portata avanti da Fnsi e Ordine dei giornalisti, che qualcuno riesce ad entrare nel Cie di viale Europa a Bari. I migranti detenuti sono 108 su 196 posti. La maggior parte è magrebina: 70 tunisini e 11 marocchini. Ma ci sono anche tre albanesi, un egiziano e un bengalese. Qualche georgiano e persino un paio di rumeni. Chi è rinchiuso nel Cie non è detto abbia commesso reati. C’è chi arriva dal carcere, dove peraltro ha già scontato la sua pena, e deve essere espulso e chi invece è stato sorpreso per strada senza documenti e portato nel centro per essere poi rimpatriato. L’unica colpa, in questo caso, è quella di essere irregolare. Di non avere un permesso di soggiorno. “Fanno di tutto pur di uscire da queste mura” raccontano gli operatori dell’Oer, l’ente che ha in gestione il centro. “C’è chi dice di aver ingoiato le pile del telecomando per essere portato in ospedale” spiega il direttore del Cie Umberto Carofiglio. E in effetti è già capitato che qualcuno abbia approfittato del trasporto in ospedale sull’ambulanza per aprire il portellone e fuggire tra le campagne. “La libertà non ha prezzo - continua Carofiglio - ci provano in tutti i modi a fuggire”. All’ingresso tutti i migranti vengono schedati e visitati. Viene loro fornito un vademecum di regole da rispettare tradotto in tutte le lingue e un kit di scarpe, biancheria, spazzolino e sapone. Lasciano le valigie in una cassetta di sicurezza e sono sistemati in una stanza. All’interno di un modulo da 28 posti, rigorosamente chiuso a chiave. A lavoro, nella struttura, ci sono interpreti, mediatori culturali, assistenti sociali, medici e psicologi. Sono loro che aiutano i detenuti a sopportare il trattenimento dietro le sbarre. Il tempo di permanenza all’interno del Cie, secondo la nuova normativa, può arrivare anche a diciotto mesi. Un anno e mezzo chiusi in pochi metri quadri. In attesa di una risposta per poter rimanere in Italia. Dopo aver visitato l’infermeria, la sala udienze con gli avvocati e il giudice di pace, la sala da barba dove gli operatori provvedono a radere barbe e a tagliare i capelli ai migranti a cui è vietata la detenzione di lame e forbici, la cucina e gli uffici, si entra in un lungo corridoio dal pavimento verde dove ci sono i moduli. Sette da ventotto posti. Tre sono chiusi perché distrutti dalle ultime rivolte. “Impossibile accedervi e visitarli” spiegano dalla Prefettura. Solo quattro dovrebbero essere aperti e disponibili. Si tratta di grosse celle. C’è un finestrino da cui si affacciano gli sguardi tristi e silenziosi, quegli occhi però parlano, chiedono aiuto. Una grossa chiave apre il portone in ferro: dentro ci sono le stanze con i letti. L’umidità è forte, si vede e si sente. Fa freddo anche con il cappotto imbottito. I muri sono scrostati, rotti e sporchi; i comodini sono fatti in muratura per evitare che possano essere usati come armi improprie. In un angolino gli islamici hanno messo un asciugamano sul pavimento per inginocchiarsi a pregare. I segni delle rivolte sono nei vetri rotti, nei soffitti anneriti dal fuoco, nelle porte scardinate. Molte stanze infatti hanno porte fatte con buste in plastica nera. I bagni rotti e in pessime condizioni igieniche. “L’acqua è fredda - racconta uno di loro - dobbiamo farci la doccia con l’acqua ghiacciata”. Un altro scuote la testa. “Qui dentro stiamo benissimo - sorride - perché non venite a provare voi italiani?”. Un altro ancora incalza. “E ora chi lavora nei campi se noi siamo qui? Chi raccoglie le olive e taglia l’uva? Questi sono lavori che voi italiani non volete fare, ci pagate 5 euro al giorno poi però, visto che non abbiamo il permesso, ci chiudete in questo posto”. Il Cie di Bari è uno dei 13 esistenti in tutta Italia ed è anche tra i più capienti. I posti però sono diminuiti dopo le violente rivolte dei detenuti che hanno devastato e bruciato interamente tre moduli. “Ma a fine febbraio cominceranno i lavori - tranquillizzano i funzionari della Prefettura di Bari - sono già stati appaltati e riguarderanno l’intera struttura”. Per vivere c’è un’altra grande stanza collettiva con sette tavoli per mangiare e giocare, un tunisino si è inventato una dama artigianale fatta con i tappi delle bottiglie. La vita si svolge tutta in pochi metri quadri. Poi c’è il cortile esterno recintato da una cancellata bianca. L’unico spiraglio di libertà. Non dormono, hanno crisi isteriche e compiono atti di autolesionismo. I migranti rinchiusi nel Cie prima o poi si ammalano. Ma di patologie psicologiche. Sviluppano, spiegano i medici in servizio nella struttura, malattie psicosomatiche che non si possono guarire con i farmaci classici. “Simulano crisi epilettiche, richiamano l’attenzione altrui con patologie che non esistono, vogliono sempre andare in ospedale”. Qualche volta hanno ingoiato lamette o pile. L’assistenza medica è garantita, ventiquattro ore su ventiquattro, ma i problemi dei detenuti sono soprattutto psicologici. “Provengono da percorsi difficili - spiega la psicologa del centro Nicoletta Nacci - non accettano il trattenimento. L’autolesionismo è una modalità molto frequente per attirare l’attenzione: si tratta di un atto di protesta, una richiesta di aiuto”. I colloqui dei migranti con la psicologa sono frequenti. Spesso sono gli stessi detenuti a richiederli. “Chi viene preso per strada e portato nel Cie è più facile da gestire psicologicamente, accetta delle regole ma soffre di più anche se con dignità; chi arriva dal carcere invece ha già sperimentato modalità dure di protesta. I migranti - prosegue la psicologa Nacci - sono terrorizzati dall’idea di tornare nel loro paese, ed è terribile anche per me perché vedo tanti ragazzi che sarebbero capaci di riprogettarsi. Molti vengono da situazioni di sfruttamento anche lavorativo. Non hanno permesso di soggiorno, non possono avere lavoro e così alcuni si buttano nella droga. Spacciano perché, mi dicono durante i colloqui, c’è sempre domanda di pusher. È un settore quello della droga che non va mai in crisi e dove c’è sempre purtroppo un posto di lavoro”. Stati Uniti: rientrato in Italia Carlo Parlanti, rilasciato dopo otto anni di carcere Ansa, 15 febbraio 2012 È atterrato questa mattina all’aeroporto di Fiumicino di Roma, con un volo proveniente dagli Stati Uniti, Carlo Parlanti, quarantottenne manager informatico di Montecatini (Pistoia) detenuto dal luglio 2004. Parlanti era stato arrestato all’aeroporto di Dusseldorf, in Germania, con l’accusa di aver picchiato e violentato l’ex-compagna Rebecca McKay White negli Usa. Dopo 11 mesi era stato estradato in California, dove era stato condannato a 9 anni di reclusione, scontati quasi interamente nel carcere di massima sicurezza di Avenal. Da qui era stato liberato il 9 febbraio e trasferito al centro di detenzione degli uffici immigrazione, in attesa di espletare le pratiche burocratiche di espulsione dal territorio statunitense. A Roma, accompagnato da agenti dell’immigrazione Usa, Parlanti ha trovato ad attenderlo i familiari e tutte quelle persone che si sono a lungo battute contro quello che hanno sempre considerato un “errore giudiziario”. Parlanti ha sempre negato tutte le contestazioni, ma non gli è stata concessa la possibilità di una revisione del processo. La sua vicenda è stata raccontata in libri e blog. Honduras: 350 detenuti muoiono nell’incendio, forse doloso, del carcere di Comayagua Ansa, 15 febbraio 2012 L’incendio in un carcere dell’Honduras, che ha provocato oltre 350 morti, potrebbe essere stato doloso. Lo ha detto il capo della polizia nazionale, Hector Mejia, spiegando che vi è stato un cortocircuito, probabilmente provocato da un detenuto che è poi riuscito ad evadere. L’incendio nel carcere di Comayagua, 100 chilometri a nord da Tegucigalpa, la capitale, è la peggior catastrofe che abbia finora colpito l’Honduras, se si escludono i disastri naturali. Il ministro per la Sicurezza, Pompeyo Bonilla, ha dichiarato che sono stati recuperati 272 corpi ma che il bilancio più probabile “è oltre i 300” morti. Il commissario per i Diritti Umani, Ramon Custodio Lopez, ha intanto parlato di 356 vittime. Le fiamme hanno distrutto la metà della prigione, mentre l’altra metà è rimasta pericolante. Per questo motivo i detenuti sono stati ora confinati in un’area all’aperto. Molti di loro accusano la direzione del carcere di non aver aperto in tempo le celle, malgrado le grida di aiuto dei reclusi. Nel penitenziario erano rinchiusi 820 prigionieri. Oltre ai morti vi sono stati diversi feriti, mentre alcuni detenuti sono evasi.