Con Alessandro Bergonzoni, l’Arte è entrata in galera Il Mattino di Padova, 13 febbraio 2012 Di Alessandro Bergonzoni i detenuti sapevano che è un comico, scrittore, autore e attore di teatro, poi è arrivato lui, con la sua presenza ingombrante, con la sua abilità di narratore travolgente, ed è stato incontenibile. Per una volta, di carcere si è parlato in modo diverso, per capire che cosa un Artista come lui può fare per “allargare le anime” raccontando loro una realtà complessa come quella delle galere. Partendo magari dai bambini dell’asilo, i soli che ancora non hanno menti già chiuse, ostili a questa realtà. Ecco un po’ di “Bergonzoni in galera”. Bisogna andare negli asili a raccontare altre realtà La gente pensa sempre che le parole siano importanti, bisogna vedere però se sotto ci sono le idee, ci sono i concetti. Io dico che bisogna andare negli asili a raccontare altre realtà, altre idee, non basta nelle scuole, nelle università, bisogna andare negli asili a raccontare che non esiste un tipo di vita sola, un tipo di uomo solo, un tipo di malattia sola, un tipo di ricchezza sola, un tipo di religione sola, un tipo di medicina sola. Portare le scolaresche in carcere è importante, ma bisogna allora vedere come si portano, se si portano per dire “Guardate che cosa vi succede se trasgredite” o invece le si porta aprendogli la testa e dicendogli “Guardate come qui dentro sono stati levati non un diritto, quello della libertà, ma tutti gli altri diritti” e lavorare su questo. Quindi non per impaurire, ma per invitare i ragazzi a venire a vedere che cosa si può fare perché non ci siano più carceri di questo genere, e perché l’idea di “chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro” non esista più. Io questo lo faccio sul tema della malattia, da molto tempo lavoro sul tema del coma e della malattia, e chi si interessa al tema del coma e degli stati vegetativi? Si interessa chi ha avuto un parente in coma, chi è stato in coma lui. Per il carcere è ancora peggio perché ti interessi del tema solo quando sei coinvolto. I genitori di questi ragazzi che sono in coma dicono: a me cosa interessava degli stati vegetativi prima che mio figlio cadesse in motorino e perdesse conoscenza, per me la salute era naturale, il lavoro di mio figlio naturale, la gioia di mio figlio naturale, non ho mai pensato a questo. Tutti però mostriamo affetto nei confronti del malato, il malato ha bisogno di cure, ha bisogno di tenerezza, ha bisogno di dolcezza perché non ha una colpa. Dove invece il tema è quello della colpa, difficilmente qualcuno può dire “facciamo qualche cosa di più per chi è in carcere”. Se già si fa fatica a farlo per il tema della malattia, figuriamoci per il tema di chi è in carcere, e quindi “se l’è voluto”. Bisogna andare negli asili perché nelle università ormai è tardi, sono già delle menti costruite in un certo modo. Bisogna andarci per far si che vengano fuori delle nuove menti, delle nuove anime, per capire che il tema carcerario non è un tema che riguarda i carcerati, che il tema dei diritti fondamentali non è un tema che può essere solo legislativo, giurisprudenziale, ma è un tema che fa parte della cultura, dell’arte, e deve entrare nella testa della gente dal primo giorno in cui si va all’asilo. Io ho pensato di andare a parlare con i bambini dell’asilo perché sono i più pronti, ma secondo me è già tardi anche all’asilo. Bisognerebbe riuscire a parlare alle pance delle madri per raccontare che non è più possibile attendere oltre. Ma io lo sento già che poi mi dicono: tu che in carcere non ci sei mai stato cosa ne sai? Come per la malattia, molti ti dicono: ma tu non hai mai avuto un tumore? Allora perché parli di questo? ma tu sai cosa significhi stare per morire? Il grande tema è questo: chi non conosce, come fa a imparare da voi che siete in carcere che cosa è importante, che cosa è doveroso, che cosa è necessario per cambiare, e come è possibile che un artista riesca a narrare questo, a poterlo raccontare agli altri? Cosa può fare un artista oltre a sensibilizzare attraverso la radio, la televisione, come è possibile far diventare ognuno di noi “carcerato di se stesso”? perché tendenzialmente carcerati non si è, ma lo si può diventare. Come è possibile dire ai ragazzi che presto si può essere carcerati, come si può raccontare allora che sono importanti i diritti e i doveri del futuro carcerato che sono io, come quelli del futuro malato che posso essere io? Imparare a immedesimarsi Io parlo di immedesimazione. Ma può una persona comunque immedesimarsi, anche se non è materialmente dentro quella situazione lì? Di solito, così come i malati dicono no, probabilmente anche voi che siete in carcere dite no. Allora che cosa possiamo dire per creare questo ponte con il carcere, senza che anche voi che provate queste cose ci accusiate di “esternità”, di essere esterni, fuori? Io voglio rendere al minimo se possibile questo tipo di diaframma e credo che l’immedesimazione sia una delle forme di conoscenza. La poesia fa immedesimare, l’Arte fa immedesimare, perché non lo può fare anche con una realtà come questa? Quando un giornalista mi chiede “Com’è il tuo lavoro? Ti svegli la mattina e crei?”, io dico a lui “Io mi sveglio alla mattina e comincio ad immedesimarmi”. Io non sono quello che sono qui e basta! Io sono pezzi di persone che adesso hanno dei problemi ovunque, io sono quei pezzi lì. Io sono una persona che sta per essere operata per un tumore al cervello. Qualcuno di voi prima diceva “Il popolo non decide mai”, però secondo me dentro noi stessi noi abbiamo un grande governo interiore, che vota tutti i giorni! A seconda delle cose che noi vediamo noi possiamo “votare”. Quando io vedo una persona diversamente abile e dico “poveretto”, ecco io in quel momento sto “votando”. Sto dicendo “Sei perduto!”. Quando un padre mi dice “Mio figlio ha un tumore”, ed io lo guardo come a dire “a me non è toccata!”, sto votando ed ho votato contro quell’uomo li! Quando leggo una notizia “Ucciso in una cella, suicidato” e dico “E però se la sarà voluta!”, io in quel momento sto votando. Allora io credo che il Popolo sia anche quello che noi abbiamo dentro, che sembra poco, che sembra piccolo, ma lavora moltissimo come esplosione di energia e collegamento di energie. Io sento che si spostano delle energie quando più persone muovono i temi che muovete voi dal carcere, anche se non sono “elettorali”, anche se non sono materiali, c’è un’energia, c’è un’elettricità che circola ed è una potenza uguale a quella di un Governo secondo me, e c’è solo da metterla in moto. Come considero il carcere Io il carcere lo considero come un aereo enorme, come un Jumbo con dentro tutti i suoi problemi e una gravità, una potenza di cose che richiede un Jumbo. Il Jumbo è un aereo che richiede chilometri e chilometri di pista per poter atterrare. Per far scendere questi concetti, per farli atterrare noi cittadini abbiamo delle piste corte, abbiamo delle piste da Piper, da elicottero, da decollo verticale. Questi concetti quando arrivano, perché non si fermano nel cittadino? Perché un concetto come: carcere, pena, dolore viene giù, arriva, ma abbiamo delle piste così corte che l’aereo tocca un attimo, poi torna su. Infatti la gente non si interessa. Allora il lavoro che deve fare l’arte, che deve fare gente come me nel mio piccolo è cercare di allargare l’anima. E con l’anima si intende la propria idea interiore, la propria idea di coscienza, l’Arte anche, non il prete, la religione, la suora. Noi dobbiamo raggiungere una naturalezza nei confronti della malattia, della condanna, del dolore e portarcela dietro nella nostra felicità e nella nostra quotidianità. Certe trasmissioni Uno dice “Io faccio teatro, che me ne frega a me! Io faccio letteratura, che me ne frega a me?!”. Ma intanto mentre noi stiamo parlando ci sono delle trasmissioni in TV dove prendi un caso e vivisezioni questa povera persona morta, già morta da molti anni, e 20 volte morta ancora perché la rievochi e poi parli dello zio, parli del padre, e questo sciacallaggio, questo modo di scarnificare intanto produce nella gente una pruroginosità, un senso di “Chi è il colpevole”, tutti interessati su chi è il colpevole. Non è importante quale è la pena, la condanna, dove va, ma conta solo un concetto, l’intrattenimento. Allora certi presentatori sono conniventi, hanno delle responsabilità enormi in questo. Un Artista non può non rendersi conto di tutto ciò e continuare a fare il suo lavorino e “lasciare che sia così”. Non bisogna accettare più “che sia così”, e nel proprio piccolo, mattone per mattone, testa per testa, telefonata per telefonata, amico per amico, fare un lavoro continuo, capillare, ai fianchi su questi temi. Questo richiede anche energia, fisicamente tu non hai più identità, perché vivi veramente una giornata immedesimandoti nel male, immedesimandoti nel dolore, nella coercizione, vivi una giornata pesante. Ma l’Artista dovrebbe essere questo, lavorare su questo. Il Poeta, l’Artista cosa fa? Entra in prigione, entra nella malattia, va vicino alla morte, torna indietro. Noi abbiamo questo compito, di parlare delle cose difficili, complesse, pesanti. Non posso io venire qui e farvi ridere. Oppure posso e ci tornerò, farò uno spettacolo e quello è il mio mezzo. Ma il mio fine è anche uscire di qui ed andare a raccontare delle storie diverse e a parlare di carcere. Giustizia: carceri, la sveglia dei morti di Liana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2012 Le cause sono ancora da accertare, ma le cronache del weekend riferiscono che ci sono altri tre morti nelle carceri. Forse anche per colpa del freddo. Di questo dovrebbe discutere il Parlamento. Interrogarsi sulle cause. Apprestare delle soluzioni per evitare che accada di nuovo. Invece capita tutt’altro. Per due giorni la Camera ha trattato il decreto sulle carceri. Il governo è stato perfino costretto a mettere la fiducia contro l’ostruzionismo della Lega che l’ha fatta da padrona in aula. Cosa c’era in discussione? Una norma ragionevole - può andare agli arresti domiciliari chi deve scontare ancora 18 mesi e ottiene il lasciapassare del giudice - e una compatibile con l’attuale sovraffollamento - per reati non gravi, e solo per 48 ore, chi è arrestato in flagranza può restare ai domiciliari o nelle camere di sicurezza delle polizie. Si badi che la Lega, nel dicembre 2010, allora al governo con Berlusconi, ha votato la stessa norma sul passaggio dalla cella ai domiciliari, se il detenuto deve scontare ancora un anno di pena. Per sei mesi in più, stavolta, ha scatenato il finimondo, e si appresta a fare altrettanto martedì, quando ci sarà il voto finale e la discussione degli ordini del giorno. Ne ha pure presentati di assurdi, come quello che propone di far lavorare i detenuti ma senza dargli una lira. Ipotesi incostituzionale. Non basta. Nel Pdl ha fatto breccia la propaganda del Carroccio, si è svegliata l’anima manettara degli ex di An. Perfino sulla chiusura degli ospedali giudiziari s’è avuto da ridire, non fossero essi quei luoghi di incontrollato tormento che invece è documentato dalle stesse indagini parlamentari che sono. Adesso che lo spettacolo si sta per ripetere arrivano quei tre morti in galera per ricordare a tutti che c’è un limite nel poter vivere in cinque, sei persone in una celletta di pochi metri, chiusi lì per venti ore al giorno. E per giunta senza potersi riparare dal freddo. La Lega, protagonista della campagna e dell’emendamento sulla responsabilità civile dei giudici, alla ricerca di un protagonismo populista che faccia scordare ai suoi elettori gli anni di regno con il Cavaliere, adesso si vuole appuntare un’altra medaglia, quella di aver bloccato, o quanto meno complicato, la vita del decreto Severino sulle carceri. Immemore del fatto che, fino a pochi mesi fa, votava in silenzio le leggi ad personam di Berlusconi che, pur di salvarlo dai processi, assicuravano pure l’impunità anche a molti altri potenziali condannati. Questo avrebbe fatto il processo breve se fosse stato approvato. A questo mirava la prescrizione breve. Questo ha fatto la legge Cirielli. Se non fosse stata votata nel 2005 non staremmo ancora a discutere della prescrizione per il processo Mills. Ci sarebbe la sentenza, e basta. Ma adesso è su quei tre detenuti morti che si deve riflettere, senza spacciare per un indulto mascherato il passaggio dalla cella ai domiciliari di chi ha scontato correttamente la sua pena. Giustizia: intervista al ministro Severino “Morire di gelo in carcere? È una tragedia vera” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 febbraio 2012 Ministra Paola Severino, dalle carceri giungono notizie raccapriccianti. Si muore (letteralmente) per il freddo nelle celle italiane? “È una vera tragedia. La manutenzione delle vecchie carceri è un problema quanto la costruzione di quelle nuove. Un mese fa ho ricevuto 57 milioni che verranno spesi in caldaie, acqua calda, coperte, riscaldamento. È ovvio che non si può morire in carcere per il freddo, anche se mi lasci dire che dopo i nostri accertamenti sulle ultime morti di due giorni fa sappiamo che in un caso si è trattato di tossicodipendenza e negli altri due casi sono intervenute cause naturali. Ma anche se non vi fosse collegamento tra queste morti e il gelo, in ogni caso la situazione è tragica e l’emergenza del freddo rende esplosiva la realtà carceraria”. Ecco, appunto, una realtà tragica. Su “La Stampa” di ieri, Vladimiro Zagrebelsky ha esposto tanti motivi di pessimismo sulle misure in discussione in Parlamento e ha chiesto senza giri di parole un nuovo indulto. Lei che ne pensa? “Dico che non esiste una misura che da sola possa risolvere questo problema. Occorre un insieme di interventi: deflazione, depenalizzazione, nuovi istituti, messa in prova, domiciliari. E comunque l’indulto è una misura squisitamente parlamentare e non d’iniziativa governativa”. Il decreto che martedì diventerà legge dello Stato è già operante da qualche settimana. Risulta in fortissimo calo il fenomeno delle “porte girevoli”, con detenuti che restano in carcere i primi tre giorni dopo l’arresto e subito scarcerati. Come spiega questa incongruenza italiana per cui chi è colto a commettere un reato in flagrante finisce a spasso? Se si tratta di un eccesso del codice penale, non è il caso di andare avanti con la depenalizzazione dei reati minori? “Credo sia opportuno distinguere due diversi fenomeni: quello dell’arresto in flagranza per reati di competenza del giudice monocratico con rito direttissimo e quello dei reati cosiddetti “bagattellari”. Il primo può riguardare anche reati destinati a suscitare allarme sociale e perciò va escluso ogni automatismo; la garanzia per la collettività va comunque assicurata attraverso la valutazione di un magistrato che deve misurare la pericolosità della persona. I secondi vanno invece accuratamente individuati, così come è stato fatto da una commissione insediata dal mio predecessore, per poi procedere ad una loro trasformazione in illeciti amministrativi. Di questa materia si occupa un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri nel mese di dicembre. Il Parlamento dovrebbe iniziarne a breve l’esame insieme ad altre misure deflattive del carcere, come la messa alla prova, la reclusione domiciliare e la non procedibilità per irrilevanza del fatto”. Già, i domiciliari. Con il decreto che porta il suo nome vi si ricorre molto più di prima. È una resa dello Stato come lamentano Idv, Lega e un pezzo di Pdl? “Sinceramente e fuori da ogni polemica, a me sembra proprio di no. Anzi, si tratta del riconoscimento di un principio fondamentale del nostro ordinamento, per cui occorre ricorrere alla carcerazione solo quando le altre misure di limitazione della libertà non siano idonee a garantire la difesa della società”. Nel marzo del 2012 chiuderete gli Ospedali psichiatrici giudiziari. In mancanza di strutture alternative, e conoscendo quanto l’Italia sia un Paese dove gli enti locali funzionano a macchia di leopardo, la riforma non è una fuga in avanti? “Le strutture che sostituiranno gli ospedali psichiatrici giudiziari avranno una forte caratterizzazione terapeutica ma assicureranno comunque la custodia delle persone socialmente pericolose che hanno commesso delitti. In altri termini, nessuno intende rilasciare potenziali serial killer, ma si vuole curarli e custodirli. Chiunque si sia affacciato sul baratro dell’orrore di quelli che un tempo si chiamavano manicomi giudiziari non potrà che valutare come una misura di civiltà il ricorso ai nuovi modelli tracciati dal decreto legge. Per non parlare, poi, di quel terribile fenomeno dei cosiddetti ergastoli bianchi: persone non più malate e non più pericolose che rimangono negli ospedali psichiatrici perché rifiutati dalla famiglia e abbandonati dalla società”. Questione politica di fondo: sul ricorso alle camere di sicurezza e sulla chiusura dei manicomi giudiziari è venuta allo scoperto un’area di opposizione anche dentro il Pdl. Meravigliata? “A me sembra fisiologico che in un partito nel quale sono confluite componenti non del tutto omogenee si possano ritrovare varie anime. Voglio però sottolineare che attraverso il dialogo ed il confronto corretto con il Parlamento si è finora riusciti a trovare una soluzione soddisfacente”. Giustizia: due detenuti ricoverati in ospedale per ipotermia, si salveranno La Stampa, 13 febbraio 2012 Non solo di sovraffollamento, si soffre nelle carceri italiane. Ora è arrivato il freddo intenso a rendere intollerabile la detenzione. Tre detenuti sono morti tra venerdì e sabato. E s’è pensato subito al gelo. Dagli accertamenti di medicina legale s’è scoperto che non è così: a Roma il trentenne detenuto trovato morto nella sua cella di Regina Coeli ha avuto una overdose; a Bologna e Campobasso sono deceduti per cause naturali. Ma nessuno potrà mai quantificare l’effetto del freddo intenso su organismi già debilitati. La morte dì freddo, insomma, non era affatto un’ipotesi peregrina. È quanto hanno pensato anche il ministero della Giustizia e il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Già, perché i rapporti che giungono in questi giorni sui tavoli ministeriali parlano di celle mal riscaldate o non riscaldate affatto, di penitenziari dove ci si lava con l’acqua gelida, di freddo intenso che attraversa finestre sconnesse e muri scrostati. * A Reggio Emilia due internati del locale ospedale psichiatrico giudiziario sono stati ricoverati d’urgenza. Diagnosi da far arrossire l’Italia: ipotermia. Uno di questi internati ricoverati è al suo secondo passaggio in ospedale. Alle 13.30 di ieri, secondo quanto riferisce Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato autonomo Sappe, sarebbe stato trovato a terra con la finestra aperta. “Ovviamente - spiega - bisogna evidenziare che si tratta di soggetti con patologie psichiatriche (incapaci di intendere e di volere) e che, spesso, non si rendono conto di ciò che fanno”. L’altro internato era stato anch’esso ricoverato per ipotermia ed è sempre in rianimazione in condizioni molto gravi. In generale in tutti gli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna il freddo sta creando gravi problemi a causa dei riscaldamenti che, nella maggior parte dei casi, non restano accesi 24 ore ma solo 14 ore al giorno. “Per il resto del tempo - dice Durante - sia il personale, sia i detenuti rimangono al freddo. Molte lamentele ci giungono dal personale di polizia, soprattutto dell’Emilia-Romagna, dove in questi giorni c’è un metro di neve e la temperatura è regolarmente sotto lo zero. Sarebbe opportuno che almeno in questi giorni i riscaldamenti restassero accesi tutto il giorno”. In carcere insomma non solo si patisce la carenza di spazio, in nove per cella, accatastati in letti a castello o dormendo per terra. Ora ci si mette anche il freddo siberiano. Irene Testa, segretaria dell’Associazione Radicale “Il Detenuto Ignoto”, ha annunciato un esposto urgente al ministro della Salute: “Le notizie allarmanti secondo cui molti detenuti rinchiusi nelle carceri italiane sono costretti a patire il freddo, e rischiano in questi giorni di temperature glaciali di incorrere in casi di ipotermia con conseguenze assolutamente gravi e potenzialmente letali, come appunto pare sia accaduto, ci ha spinto come Associazione a rivolgere un esposto urgente al ministro della Salute e per conoscenza al ministro della Giustizia, Paola Severino, e al capo del Dipartimento penitenziario, Tamburino, affinché provvedano con la massima urgenza ad assicurare l’adeguato riscaldamento degli ambienti detentivi come misura di prevenzione ineludibile e indifferibile”. Alcuni dati parlano di una emergenza serissima: 68mila detenuti in celle che ne potrebbero accogliere 48 mila; 186 decessi in cella nel corso del 2011 (di questi, 66 prigionieri si sono suicidati); 18 i morti dall’inizio di questo anno. Domani, intanto, il Parlamento trasformerà definitivamente in legge il decreto della ministra Severino per alleggerire il sovraffollamento. Sta funzionando il sistema di accelerare i processi per direttissima, aspettando dopo l’arresto per flagranza in cella di sicurezza o ai domiciliari: erano 21mila i detenuti che ogni anno scontavano in media tre giorni di carcere in attesa di un processo che li mandava subito liberi. Giustizia: con il decreto Severino “celle vuote”… solo a parole di Mario Consani Il Giorno, 13 febbraio 2012 Lo chiamano “svuota carceri”, ma l’effetto è tutt’altro che assicurato. Le nuove norme consentono di scontare ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di pena, ma alle stesse condizioni già oggi applicabili per chi ha ancora un anno da espiare. E fra tutte, com’è ovvio, la garanzia di un domicilio sicuro dove rimanere agli arresti. Così a non poter usufruire del beneficio sarà la maggior parte dei detenuti che potrebbe averne diritto, per lo più stranieri irregolari o senza un’abitazione fissa. Così, tanto per restare in Lombardia, secondo le previsioni saranno al massimo 400 o 500 i detenuti a poter ambire ad una possibile scarcerazione anticipata. Peccato che a tutt’oggi nelle carceri lombarde siano rinchiuse più di 7.000 persone, mentre i posti regolamentari sono 2.500 in meno. “Svuota carceri” tanto per dire, insomma. Pochi giorni fa, del resto, il presidente della Corte d’appello di Milano Giovanni Canzio ha riconosciuto “la permanente grave situazione di sovraffollamento degli istituti di pena di competenza, che caratterizza la quasi totalità delle 13 case circondariali” della regione. Il problema vero, a volerlo vedere, è che in carcere finisce spesso gente che non ci sarebbe dovuta entrare. Quattro detenuti su dieci non hanno ancora sulle spalle una sentenza definitiva, pur trovandosi dietro le sbarre. E quasi la metà di loro se la caverà, alla fine, con l’assoluzione o con condanne che non prevedono la galera. La sensazione, considerati i tempi biblici della giustizia che troppo spesso arriva tardi e male, è che l’opinione pubblica si sia abituata a considerare la custodia cautelare (cioè le manette prima di una sentenza di condanna) non come un mezzo estremo da riservare ai casi più gravi, ma come una sorta di pena “anticipata” quando non l’unica pena possibile. E questo, probabilmente, finisce per condizionare anche solo a livello psicologico gli stessi giudici, talvolta più propensi a mandare gli indagati in carcere che non ai domiciliari. È un circolo vizioso che solo una riforma seria dei tempi del processo potrebbe, in qualche modo, contrastare. Giustizia: più lavoro (e di qualità) per chi sta in carcere di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 13 febbraio 2012 Sgravi Inps sulle retribuzioni corrisposte dalle coop. Agevolazioni estese alle misure alternative. Procede speditamente la discussione sulla proposta di legge tesa ad allargare le opportunità di lavoro per i detenuti attraverso la previsione di maggiori sgravi alle imprese. La Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha adottato un testo unificato che ora è al vaglio delle Commissioni Affari Costituzionali, Giustizia e Bilancio per un parere. Poi approderà in Aula per il voto definitivo. Il testo unificato è l’esito dell’incrocio di quattro proposte di legge le cui prime firme sono degli onorevoli Angeli, Pisicchio, D’Ippolito Vitale e Renato Farina. Il testo parte dalla consapevolezza che il lavoro dentro e fuori dalle carceri per chi è in esecuzione penale è poco e dequalificato. Oggi le persone occupate dentro gli istituti di pena, nonostante il lavoro sia anche un obbligo oltre che un diritto per i condannati, sono il 20,4%. Molti di essi lavorano un’ora al giorno, un giorno a settimana, una settimana al mese o un mese all’anno. Si tratta nella maggior parte dei casi di lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria con titoli non proprio prestigiosi: scopino, porta vitto, spesino, scrivano, addetto Mof (acronimo di manutenzione ordinaria del fabbricato). Mestieri per i quali la retribuzione media mensile è inferiore ai 200 euro. Sono solo 2.257 i detenuti che lavorano alle dipendenze di aziende private, di cui oltre la metà in lavoro all’esterno o in semilibertà. I fondi, come rileva Ristretti, sono diminuiti del 30% negli ultimi cinque anni. Le mercedi (così l’ordinamento penitenziario definisce le retribuzioni) sono ferme al 1994. Su questo presupposto nasce la decisione di modificare la legge 193 del 2000 - cosiddetta legge Smuraglia - al fine di allargare le possibilità di lavoro per i detenuti alle dipendenze di soggetti privati non profit. L’articolo 1 della proposta di legge dispone che gli sgravi contributivi sulle retribuzioni corrisposte dalle cooperative sociali siano applicati per un periodo di 12 o 24 mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione, a seconda che il detenuto abbia beneficiato o meno delle misure alternative alla detenzione o del lavoro all’esterno. L’articolo 2, ampliando le disposizioni della legge Smuraglia, dispone l’estensione delle agevolazioni anche alle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione o al lavoro all’esterno. La vera novità sta all’articolo 3 con l’incremento da 516 a 1.000 euro mensili della misura del credito d’imposta spettante per ogni lavoratore detenuto assunto, in misura proporzionale al numero delle giornate lavorate. Nasce inoltre presso il Ministero della Giustizia un registro dove dovranno iscriversi le cooperative sociali che assumono lavoratori detenuti e che svolgono attività di formazione, supporto, assistenza e monitoraggio degli inserimenti lavorativi effettuati. Si prevede inoltre che gli enti pubblici, compresi quelli economici, e le società di capitali a partecipazione pubblica, possano stipulare convenzioni con le cooperative sociali accreditate e iscritte nel registro sopra esaminato, per importi anche superiori alle soglie stabilite dall’Unione europea. Tali convenzioni devono essere finalizzate a creare opportunità di lavoro per detenuti. Le cooperative sociali accreditate e iscritte nel registro vengono privilegiate nell’assegnazione dei fondi della Cassa delle ammende. Ovviamente bisognerà recuperare i fondi inopinatamente destinati al piano di edilizia carceraria. L’articolo 6 mira a favorire esperienze di auto imprenditorialità dei detenuti. La copertura finanziaria, grazie agli emendamenti degli onorevoli Bobba e Versace, è aumentata sino a superare i 6 milioni di euro. Giustizia: psichiatri in Rete contro la legge che chiude i manicomi di Toni Jop L’Unità, 13 febbraio 2012 Chi delinque in galera. Il delitto sia competenza del giudice. La malattia del medico. L’appello corre on line. Ed è sostenuto soprattutto dagli ex colleghi di Basaglia. Motivo? Ce lo spiega Franco Rotelli, braccio destro del padre della 180: “Li vogliono sostituire con piccoli centri di detenzione. Non era questo lo spirito della riforma”. Va bene, si chiudono - ma chissà se e quando - dei luoghi ignobili gestiti in modo infame, gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma se ne apriranno tanti altri, “piccoli e carini” e sarà un passo indietro che non vogliamo, così come non lo abbiamo voluto alla chiusura dei manicomi. Una tragedia”. Chi non si unisce alle trombe, peraltro in parte umanamente comprensibili, suonate con l’approvazione del decreto che prevede la chiusura dei manicomi criminali è Franco Rotelli, psichiatra, a lungo direttore dei servizi psichiatrici triestini. Soprattutto “compagno di banco” di Franco Basaglia, braccio destro, cioè, dello scienziato che diede nome e sostanza alla legge 180, quella che decretò la fine dell’istituzione manicomiale nel nostro paese. Con Rotelli sono scesi in campo tanti altri psichiatri che con Basaglia hanno condiviso quella lunga marcia di liberazione. Medici, specialisti, infermieri, psicologi, intellettuali stanno in queste ore sottoscrivendo on line la petizione che toglie il decreto dall’altare sul quale è stato collocato anche da una popolarissima condivisione di un intento nobile: cancellare un orrore intollerabile durato troppo a lungo, dichiarato dalle istituzioni europee “luogo di tortura”, una macchia nera sull’immagine dell’Italia. “Il fatto è che sull’onda dell’emozione viene spacciata una realtà diversa da quella che si verrà facilmente a creare se le disposizioni del decreto verranno attuate - lamenta Rotelli - in netto contrasto con lo spirito e la cultura che hanno pilotato la 180”. Basaglia, Rotelli, Dell’Acqua non si batterono per chiudere il manicomio smaltendo il disagio mentale in tanti altri piccoli lager più puliti e più “umani”; mai più manicomi, si disse, né grandi né piccoli, ma assistenza sul territorio, abolendo il pregiudizio della pericolosità sociale della sofferenza mentale. “E invece - prosegue Rotelli - questo decreto si incarica di cementare quel pregiudizio: tuttavia, non si è pericolosi socialmente perché si è “disturbati” ma perché si delinque. In Italia ci sono circa 600mila persone che soffrono di disturbi mentali gravi, ma solo uno su mille commette reati. Dove sta la pericolosità sociale?”. Il decreto prevede che ogni regione si attrezzi in vista della chiusura dei vecchi manicomi criminali; strutture con una quarantina di posti letto (moltiplicate per venti-trenta?), affidate alla cura del personale medico e infermieristico mentre le forze di polizia dovrebbero realizzare, ma all’esterno, una cintura di sicurezza. “Ed ecco - annota lo psichiatra - che di nuovo al medico viene imposto il ruolo di carceriere. Basta pensare che moltissimi centri di diagnosi e cura sono già luoghi di contenzione: chiavistelli chiusi, elettrochoc. Non è abbastanza per pensarci su come l’argomento merita”? Tutti fuori, allora? Compresi i pluriomicidi, compresi quelli che hanno ammazzato moglie e figli? Tutti nelle strutture territoriali di assistenza? “Un momento, non è ciò che vogliamo - spiega Rotelli -. Chi ha commesso un reato punibile col carcere deve scontare la sua pena, matto o non matto. La legge punisce il reato non la persona. Chi ha ucciso stia in carcere per il tempo deciso dal tribunale e qui sia seguito, curato, aiutato a capire, a cambiare. Ma se il crimine non meritava la detenzione, allora che il cittadino sia semplicemente affidato alla rete di assistenza territoriale”. Quindi, il delitto torni nella piena competenza della magistratura e delle istituzioni carcerarie, il disagio mentale, invece, stia a pieno titolo nelle mani della psichiatria e dell’assistenza. Ma questo percorso ha un costo, ovviamente. “Ottima osservazione: tuttavia, questo decreto prevede che siano spesi 120 milioni di euro per allestire i nuovi piccoli manicomi, mentre altri cinquanta milioni vadano impiegati per la parte corrente, per la gestione delle strutture. Calcolando - riflette Rotelli che sono 1.400 circa i detenuti degli attuali manicomi criminali, si può osservare che vengono spesi circa 50mila euro per ciascuno di loro. E qual è la struttura sanitaria che non si farebbe carico di seguire un paziente per quella cifra?”. Ma se il giudice ha rilevato che le condizioni mentali di un cittadino sono incompatibili col carcere? “Bene, allora che si armino situazioni alternative anche per i cardiopatici, i diabetici gravi etc. etc. Come vedi, nemmeno la destra deve preoccuparsi della nostra posizione: sosteniamo che il delitto deve pagare dove decide il giudice, spesso in carcere, quindi, non in un manicomio piccolo e carino come prevede il decreto”. Giustizia: intervista a Ignazio Marino “Chiudere gli Opg è sacrosanto” di Toni Jop L’Unità, 13 febbraio 2012 Il senatore Pd risponde alle critiche dei basagliani alla legge che abolisce gli ospedali psichiatrici: “È un primo passo. Il prossimo è il codice Rocco”. Interrogativo “Che devo fare con i pluriomicidi affetti da gravi sofferenze. psichiche? Non posso destinarli a una cella”. Quel che so per certo è questo: grazie al decreto, cancelleremo la tortura degli ospedali psichiatrici giudiziari, nessun internato sarà più legato al letto e costretto a defecare attraverso un buco nella rete, intanto...”. Ecco Ignazio Marino, senatore Pd e chirurgo, rispondere alle critiche lanciate da Franco Rotelli e dai “basagliani” alla legge che abolisce i cosiddetti Opg e propone l’apertura di un certo numero di strutture alternative regionali. Marino è anche il presidente della commissione parlamentare che ha mostrato al Paese la disumanità dei vecchi lager istituiti dal codice Rocco, nonché primo firmatario della legge di riforma. Su questo giornale, Rotelli aveva ieri denunciato quello che secondo gli obiettori è un “fatto”: e cioè che con la nuova legislazione in materia si creeranno nuovi manicomi, piccoli e carini ma in aperta contraddizione con lo spirito e la cultura su cui si fondava la legge 180 che ha abolito gli ospedali psichiatrici. Non solo: gli psichiatri “triestini” lamentano che da qui in poi ai medici verrà imposto un ruolo di custodia, quello stesso che sempre la legge180 aveva fatto correttamente saltare. Allora, dottor Marino: si è trovato di fronte a delle osservazioni che vanno respinte al mittente, oppure c’è da discutere? “Io dico che abbiamo fatto un passo avanti e che nessuno può metterlo in dubbio. Quando sono entrato per la prima volta in un Opg, ho trovato un uomo legato da cinque giorni al suo lettino. Pensare che non sarà più sottoposto a una simile tortura per me è motivo di moderata soddisfazione, non un motore di insoddisfazione. Avere la certezza che finirà prestissimo il calvario di un altro internato che un quarto di secolo fa aveva rubato seimila lire fingendo, con altri complici, di essere armato e non era mai più uscito da quelle mura atroci è, ancora, motivo di moderata soddisfazione. In questo non sono d’accordo con Rotelli, Dell’Acqua e gli altri che parlano di un passo indietro. Proprio non ci riesco a vederla così. Per il resto., sempre e comunque confronto e discussione, soprattutto con loro che sono gli autori della demolizione del manicomio; che sanno quel che dicono e soprattutto quel che fanno”. Quindi, per lei non si affida alle regioni il compito di costruire dei piccoli manicomi, puliti e garbati ma dove la contenzione è comunque legge? “Vede, io e la commissione che per mesi e con grande coralità ha lavorato a questo tema, siamo entrati in una cucina e abbiamo cercato di confezionare un piatto decoroso con i mezzi che avevamo a disposizione. Capisco il punto messo a fuoco da Rotelli, sta tutto dentro la definizione di “pericolosità sociale”, dentro il codice di procedura penale che consente al tribunale di dirottare un reo dalla cella all’Opg in virtù di una sentenza che accerta l’incapacità di intendere e di volere del giudicato. Rotelli dice: che il colpevole sconti la sua pena in cella, si giudica il reato non la persona, quindi conta relativamente il suo disagio mentale nel comminare la pena. Il matto che ha commesso un delitto, stia, conclude, in cella e lì sia curato”. È così, se non si vuole, di nuovo, blindare la psichiatria nel ruolo di secondino... “E posso comprendere. Ma io ho a che fare con gente che è già stata giudicata. Che devo fare con i pluriomicidi affetti da gravi sofferenze psichiche? Non posso destinarli ad una cella a dispetto delle disposizioni di un tribunale. Quindi, qualcuno mi aiuta ad uscire da questo vicolo cieco? Sicuro: sono abbastanza d’accordo con Rotelli, bisognerebbe riformare il Codice Rocco, ma lei crede che sia iniziativa da poco e di poco tempo? Quello schifo doveva cessare, intanto. E mi pare che ce l’abbiamo fatta in un lasso di tempo sorprendentemente breve, inseguiti da un giudizio del Consiglio d’Europa che ci accusava di esercitare la tortura. Comunque, massima apertura”. Ma se è vero che niente, in Italia, è più tenace del provvisorio, non crede che comunque si istituiscano, grazie a questa legge, dei luoghi non diversi dai manicomi? In altre parole se un matto non commette reato non va in manicomio, ma se invece viene condannato allora in manicomio ci può andare. Ma non avevamo detto basta ai manicomi? “Non saranno manicomi: all’interno della struttura alternativa ci sarà solo personale sanitario. Per nessun motivo gli agenti di sicurezza entreranno in contatto con gli internati”. Perché staranno fuori, a far cordone. Ma nemmeno nei manicomi la “legge” interna era garantita dagli agenti, ci pensavano i medici e gli infermieri. Ammetterà che esiste un “vallo” almeno nebbioso in questa logica dei due tempi. Prima chiudere i vecchi Opg e poi pensiamo al codice Rocco? “Senta, concorda con me e sulla base di considerazioni lucidissime anche Cesare Bondioli, responsabile per Psichiatria Democratica degli Opg. Trovo conforto nella legislazione di alcuni paesi del Nord Europa e ancora sono convinto che siamo solo all’inizio di un percorso che senza dubbio dovrà essere progettato con la massima partecipazione dei tecnici della materia, quindi a partire da chi ha lavorato con Basaglia all’abolizione dei manicomi. Ma di lasciare al loro destino quelle persone trattate peggio delle bestie non se ne parla nemmeno”. Proprio perché sanno il fatto loro, magari hanno ragioni da accampare quando criticano la nuova legge... “Certo, ma quando Rotelli dice: i matti colpevoli di delitti vadano in cella, non in strutture alternative, e lì si facciano curare, altrimenti ricreiamo i vecchi manicomi, resto, mi creda, perplesso. Ha idea di che cosa voglia dire oggi in Italia pretendere una qualsivoglia cura in un carcere? Rotelli e Dell’Acqua dovrebbero con umiltà visitare qualche penitenziario per rendersi conto di questa inattualità: in cella non si cura nemmeno un raffreddore, altro che sofferenze psichiche gravi”. Giustizia: le famiglie dei detenuti di Agnese Moro La Stampa, 13 febbraio 2012 In questi giorni Governo e Parlamento ricominciano, timidamente, a parlare di prigioni. Era ora. Mandiamo in prigione troppe persone, i cui comportamenti sbagliati, nella stragrande maggioranza dei casi, potrebbero essere sanzionati e corretti in altro modo. A coloro che vivono nelle nostre carceri mancano tante cose, oltre alla libertà: lo spazio in cella e anche quello per poter lavorare, il sostegno di un numero sufficiente di educatori, la possibilità di accedere a cure mediche tempestive ed adeguate. Ma la privazione più inumana è quella del contatto con le persone che amano e che li amano. Cito da un numero di Ristretti Orizzonti: “Dieci minuti di telefonata una volta alla settimana solo su telefono fisso, sei colloqui al mese della durata di un’ora, in una sala gremita di persone, di bambini vocianti, con agenti penitenziari che controllano e proibiscono qualsiasi atteggiamento affettuoso, dal bacio all’abbraccio troppo lungo, rappresentano l’unica possibilità che in Italia viene concessa al detenuto per dire alla moglie, ai propri figli: vi voglio bene, io esisto ancora, perdonatemi. In altri Paesi, europei e non, esiste la possibilità per i detenuti di coltivare i propri-rapporti affettivi anche all’interno del carcere, perché si consente loro di incontrare le persone autorizzate ai colloqui in locali realizzati a tale scopo, senza controlli visivi o auditivi. Questo in Italia è proibito” (vedi Franco Garaffoni, in www.ristretti.it). Cosa significa una simile privazione lo si capisce leggendo il libro di Carmelo Musumeci “Undici ore d’amore di un uomo ombra” (Gabrielli Editori), la cronaca delle undici ore passate da Carmelo fuori dal carcere dopo venti anni, in occasione della discussione della sua tesi di laurea in Giurisprudenza. Protagonista assoluta è la tenerezza immensa che lo travolge nell’incontrare i suoi figli, la sua compagna, i suoi nipoti. Abbracciarli, guardarli negli occhi, e ancora abbracciarli, parlare con loro in intimità. Mangiare insieme, essere una famiglia. Leggi e capisci la fame assoluta di queste cose semplici e fondamentali. Carmelo è cambiato, ma rimane un tipo di ergastolano che non può accedere a sconti di pena o benefici. Forse quelle undici ore resteranno le uniche. Una pena inflitta non solo a lui, ma ad ogni membro della sua famiglia. Davvero una strana giustizia. Giustizia: le “insonnie” di Roberto Saviano e i placidi sonni dei magistrati di Valter Vecellio Notizie Radicali, 13 febbraio 2012 Dice Roberto Saviano su Twitter che se fosse un giudice “non dormirei la notte a dover comminare pene che diventano torture e in alcuni casi condanne a morte”. Ed è probabile che, per questa sua “insonnia”, Saviano sarebbe un buon giudice. Dormono invece placidi i giudici, e siamo noi, i cittadini, ad averli agitati. Dorme, si direbbe, sonni tranquilli quel Giudice per l’Udienza Preliminare di Milano che ha tardato un anno con le motivazioni, cosicché una trentina di trafficanti di droga tornano in libertà. Erano stati condannati, un anno fa, a pene fino a 14 anni per aver importato in Italia centinaia di chili di cocaina dall’Ecuador e dal Perù. Per una quindicina di loro, è arrivato un regalo inatteso: la decorrenza dei termini di carcerazione, e sono tornati in libertà. Leggiamo la “notizia”: “A un anno esatto dalla condanna, lo scorso 10 febbraio 2010, non è arrivata, come prevede il codice di procedura penale, la sentenza d’Appello. Il gup Franco Cantù Rajnoldi, che aveva accolto le richieste del pm Giuseppe D’amico della Direzione distrettuale antimafia ed era stato severo nelle condanne a 31 membri dell’organizzazione accusati di traffico internazionale di droga, non ha ancora depositato la motivazione della sentenza e il processo di secondo grado non è partito. Così, una quindicina di reclusi con pene inferiori a dieci anni è tornata in libertà…”. Hanno dormito sonni tranquilli anche quanti si sono occupati della vicenda che vede protagonista suo malgrado il signor Angelo Cirri. Cirri ha trascorso tre anni e otto mesi in carcere, accusato di quattro rapine, mai commesse. Anni che Angelo Cirri, ora assolto da ogni accusa in un processo di revisione, avrebbe potuto vivere da uomo libero, anche perché la prova della sua estraneità era saltata fuori già due mesi dopo l’arresto. Vediamo al dettaglio. Il 9 aprile 2004 le forze dell’ordine irrompono a casa di Cirri convinti di aver inchiodato l’autore di 13 rapine nella zona di Grottaferrata. L’uomo, come è tradizione, viene ammanettato davanti ai figli e portato in caserma in pigiama. A “incastrare” Cirri c’è il racconto di una delle presunte vittime. Un dettaglio però non torna: il rapinatore, stando alla testimone, parlava campano, Cirri è romano. Particolare insignificante, per gli investigatori: l’accento si poteva mascherare. A mettere nei guai Cirri una coincidenza. Il testimone ricorda che il rapinatore aveva spento una sigaretta della stessa marca che fumava Cirri. Così scatta il fermo. Due mesi dopo i risultati del Dna sul mozzicone accertano però che il codice genetico sulla sigaretta non è compatibile con quello di Cirri, la sigaretta l’aveva fumata qualcun altro. Finisce qui? No, Cirri viene comunque rinviato a giudizio con l’accusa di aver compiuto quattro delle tredici rapine della serie. Processo con una sola, sbrigativa udienza, verdetto: 13 anni di reclusione. È la fine del 2005. Cirri si continua a proclamarsi innocente. Il 6 novembre del 2006 la Corte d’Appello riduce la pena a otto anni e dispone la scarcerazione di Cirri. Per un vizio di forma. Nel novembre del 2007 la sentenza diventa definitiva, Cirri si costituisce, torna dentro, “perché sono uno che rispetta la legge”. L’uomo resta in cella. Il 3 ottobre del 2008 viene arrestato Antonio Di Pasquale, accusato (ma poi prosciolto) di aver ucciso una guardia giurata per rapina. Gli viene fatto il test del Dna e si arriva alla verità: Di Pasquale è il vero colpevole delle rapine attribuite a Cirri, che il 3 novembre del 2008, dopo essere stato in cella tre anni e otto mesi, torna libero. Se Di Pasquale non fosse stato arrestato, Cirri sarebbe ancora in carcere, per una sigaretta mai fumata, per rapine mai commesse. Dormono sonni tranquilli i magistrati di cui parla Chiara Rizzo (“Giustizia: i magistrati commettono sempre più reati, aumentano violazioni di norme processuali”), in un servizio per il settimanale “Tempi” che si preferisce ignorare (e si capisce). “I magistrati commettono sempre più reati e aumentano le violazioni delle norme processuali”. Lo ha detto il Pg di Cassazione, che svolge le indagini preliminari entro un anno dall’acquisizione della notizia di illecito. Come funzionano i procedimenti disciplinari alle toghe: il Csm è titolare dell’azione disciplinare che avvia su impulso del Ministero della Giustizia (che però ha la discrezione dell’azione penale) e della procura generale della corte di Cassazione (che invece ha l’obbligo dell’azione penale). Quest’ultimo organo svolge la funzione di pm nei procedimenti a carico dei magistrati, un pò come avviene anche nei tribunali penali: il pg di Cassazione svolge le indagini preliminari entro un anno dall’acquisizione della notizia di illecito. Entro due anni il pg presenta un decreto di archiviazione, o la richiesta di procedere a dibattimento presso il Csm, che a sua volta è tenuto a pronunciarsi entro altri due anni. Le sanzioni previste vanno dall’ammonimento (un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato) alla censura (il richiamo per i casi più gravi), alla perdita dell’anzianità professionale per un massimo di due anni, fino alla sospensione dall’attività di magistrato e dallo stipendio, e alla rimozione. Non sono ancora disponibili però i dati dei procedimenti conclusi negli ultimi due anni. Nessun commento da parte del presidente e del segretario dell’Associazione Nazionale dei Magistrati. E poi dici che uno s’incazza. Giustizia: Clemenza e Dignità; nelle carceri italiane c’è di fatto una “pena di morte” Adnkronos, 13 febbraio 2012 Tre detenuti morti in poche ore nelle carceri di Bologna, Roma e Campobasso. “È veramente troppo poco vergognarsi di questa notizia”, commenta in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che prosegue: “è necessario aprire un grande dibattito parlamentare per approfondire ed interrogarsi sulla eventuale differenza che corre, in presenza di un reato, tra la pena di morte e far morire innumerevoli persone in occasione di un’altra pena, avendo ben chiara sin dall’inizio e accettando la concreta possibilità che tale evento della morte si verifichi”. Meloni sottolinea che, data la gravità della situazione nelle nostre carceri, rimarcata da questi ultimi eventi, e “guardando a quanto recita la nostra Costituzione, alla nostra tradizione giuridica e al sempre più diffuso atteggiarsi dei politici a credenti e cattolici”, la reazione dovrebbe essere di sdegno ed attivare, conseguentemente, il dibattito tra le forze politiche. Considerato anche che “nonostante la tragedia, ancora si continua a discutere di sicurezza e a considerare, tutto sommato, la comunicazione degli operatori e delle associazioni di settore come allarmistica, scalmanata e priva di una consistente utilità sociale”, conclude. Giustizia: processo Eternit; condannanti a 16 anni gli ex dirigenti della multinazionale La Stampa, 13 febbraio 2012 Il Tribunale di Torino ha condannato a 16 anni di carcere ciascuno il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, 65 anni, e il barone belga Louis De Cartier, 91 anni. La procura chiedeva 20 anni per ognuno dei due imputati che furono a capo della multinazionale Eternit. I due rispondevano di disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche. Il giudice Casalbore, che ha pronunciato la sentenza, ha disposto diversi risarcimenti provvisionali. In particolare, un risarcimento di 70mila euro per l’associazione Medicina democratica e per il Wwf, di 100mila euro per l’Associazione nazionale esposti amianto, di 4 milioni per il comune di Cavagnolo e di 15 milioni per l’Inail. Risarcimenti mediamente di 100mila euro ciascuna per le sigle sindacali, parti civili nel processo. Inoltre 25 milioni per il comune di Casale Monferrato, 30mila euro per ogni congiunto di ciascuna vittima e 35mila euro per ogni ammalato. In aula, piena fino all’inverosimile, alla lettura della sentenza grida, lacrime e applausi da parte dei familiari delle vittime. Il dispositivo fa però una distinzione tra gli stabilimenti italiani, dichiarandoli colpevoli per quanto riguarda Casale Monferrato e Cavagnolo (Torino), mentre il reato sarebbe estinto per prescrizione per gli stabilimenti di Rubiera, in Emilia Romagna, e Bagnoli, in Campania. Stephan Schmidheiny e Louis De Cartier erano entrambi ex manager ai vertici della multinazionale dell’amianto. Il Presidente del Tribunale Giuseppe Casalbore è passato poi ad elencare gli indennizzi a favore delle parti civili, che sono alcune migliaia. Lunedì mattina l’aula era pienissima di giornalisti, di fotografi, video operatori. Al palazzo di giustizia di Torino sono arrivati 26 pullman, non solo da Casale Monferrato, dove si è registrato il maggior numero di vittime, colpite dal mesotelioma pleurico o dall’asbestosi, ma dal resto del paese e dalla Francia, dove si sono verificate tragedie analoghe. Tre maxi aule sono state aperte per ospitare le oltre mille persone arrivate per ascoltare il verdetto del più grande processo mai celebrato in Italia, e non solo - 160 le delegazioni da tutto il mondo - per l’amianto. Le parti civili erano 6.392, quasi tremila i morti e i malati per la fibra killer, almeno 2.300 le vittime negli stabilimenti italiani, a partire dal 1952, di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Millecinquecento sono i morti a Casale, lo stabilimento più grande in Italia, chiuso nell’86. Il pool dell’accusa, composto da Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli, in 62 udienze, dal 2009, ha dimostrato, secondo i giudici di primo grado, come i capi della Eternit, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, avessero continuato - pur sapendo che l’amianto uccide - a mantenere operative le fabbriche per fare profitto. E che avrebbero omesso di far usare tutte quelle precauzioni - come l’uso delle mascherine o dei guanti - per evitare che migliaia di persone si ammalassero di tumore al polmone o di asbestosi. Durante l’arringa finale Guariniello ha chiesto 20 anni per ognuno dei due imputati, che non si sono mai presentati al processo. La loro difesa, rappresentata dagli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva per Stephan Schmidheiny, e da Cesare Zaccone per Louis De Cartier, sosteneva che entrambi sono innocenti, che all’epoca dei fatti non si sapeva quanto fosse nocivo l’eternit e che, infine, troppi anni sono passati da allora affinché oggi si possa preparare una difesa equa: mancherebbero i documenti e le testimonianze. Secondo l’accusa il gruppo svizzero della famiglia Schmidheiny fu ai vertici della Eternit dal 1972 al giugno dell’86, dal 1952 al 1972 invece l’azienda faceva capo - secondo i pm - alla famiglia Emsens e al barone Louis de Cartier, formalmente presente nel consiglio di amministrazione dal 1966 al 1972. “Comunque vada è un processo storico” aveva detto il pm Raffaele Guariniello, appena arrivato nella maxi aula uno. “È il più grande processo - ha aggiunto - nel mondo e nella storia in materia di sicurezza sul lavoro. C’è stato un grande interesse da parte di tutti i paesi in cui si è lavorato l’amianto. Questa è la dimostrazione che si può fare un processo. Bisogna lavorare per fare giustizia, noi abbiamo avuto aiuto da tutte le istituzioni”. Giustizia: strage di Alcamo Marina; ergastolano assolto dopo 21 anni di carcere Ansa, 13 febbraio 2012 Dopo 21 anni di carcere, Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo per la strage di Alcamo Marina del 26 gennaio 1977, potrà tornare in libertà. Lo ha deciso la Corte di Appello di Reggio Calabria, che lo ha assolto nel processo di revisione. Nella strage furono uccisi, in caserma, l’appuntato Salvatore Falcetta ed il carabiniere Carmine Apuzzo. Anche il procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato. Gulotta, presente in aula, è scoppiato a piangere. Esulta l’avvocato Baldassare Lauria, che lo ha assistito assieme a Pardo Cellini: “Gulotta è stato vittima di un gioco di potere. Anche se nessuno potrà mai cancellare lo stravolgimento della sua vita, oggi, questa, è una sentenza che fa giustizia”. Ed è intanto in corso il processo di revisione a carico di altri due soggetti condannati per lo stesso eccidio: Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, da anni rifugiatisi in Brasile. Morti invece Giuseppe Vesco (suicidatosi in circostanze misteriose sei mesi dopo l’arresto) e il bottaio di Partinico Giovanni Mandalà. Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di “San Giuliano” a Trapani, nell’ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell’Arma dopo la presunta confessione di Vesco. La procura di Trapani ha nel 2008 iscritto nel registro degli indagati, con l’accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate, alcuni carabinieri (oggi in pensione), che presero parte, nel febbraio 1976, agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina. L’indagine è stata avviata dopo le dichiarazioni di un brigadiere che all’epoca partecipò agli interrogatori. Capo della banda, che avrebbe commesso il massacro, era Vesco, un giovane di Alcamo che, anni prima dell’eccidio, perse una mano mentre pare stesse preparando un rudimentale ordigno esplosivo. Vesco, nonostante la menomazione, fu trovato, nell’ottobre 1976, impiccato in una cella del carcere “San Giuliano” di Trapani. Vesco, all’epoca, fu il primo ad essere indiziato dell’eccidio. Secondo l’ex sottufficiale il giovane avrebbe fatto il nome dei complici per liberarsi dalla morsa delle sevizie. Giustizia: caso Parmalat; Calisto Tanzi ricoverato in ospedale in gravi condizioni Agi, 13 febbraio 2012 L’ex patron della Parmalat Calisto Tanzi attualmente detenuto nel carcere di via Burla a Parma, è stato ricoverato in ospedale, a causa delle sue precarie condizioni di salute. Il ricovero, a quanto spiegato da Gianpiero Biancolella, uno dei legali dell’ex re del latte, è avvenuto nella notte di venerdì. L’avvocato ha definito “gravissime” le condizioni di salute del suo assistito che in attesa del verdetto di appello dei giudici bolognesi, sta lottando da mesi per ottenere gli arresti domiciliari. Domiciliari su cui si pronuncerà il Tribunale di sorveglianza di Bologna il prossimo 6 marzo dopo che la Cassazione aveva rinviato proprio ai giudici felsinei la decisione sul caso. Tanzi è detenuto da circa 10 mesi, ossia dai primi di maggio dell’anno passato, in virtù della condanna definitiva emessa dal tribunale di Milano che lo ha condannato nel processo per aggiotaggio. L’ex patron della Parmalat era apparso molto provato e aveva avuto bisogno di cure mediche già di recente, durante il processo di appello di Bologna dove è imputato per bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere. Liguria: Sappe; legge detenute madri inapplicata, individuare Istituto a custodia attenuta Comunicato stampa, 13 febbraio 2012 “Da quasi un anno tutte le forze politiche, ad eccezione del Pd, hanno approvato una legge per effetto della quale le mamme detenute non dovranno più stare chiuse in cella, a meno di particolari esigenze cautelari di “eccezionale rilevanzà’ come può avvenire, ad esempio, per i delitti di mafia o per terrorismo. Oggi a Genova Pontedecimo, unico istituto di pena della Liguria con sezioni detentive femminili e con un asilo nido proprio per i bimbi delle detenute, c’è un bambino in carcere. Una legge di civiltà, dunque, è stata varata per alleviare la triste realtà dei bimbi in carcere. Chi li ha visti, sa a cosa mi riferisco e sa quali sensazioni di profondo disagio lasciano nell’animo di ognuno di noi. Va però messo in luce, su questa particolare situazione penitenziaria, l’encomiabile impegno delle donne con il Basco Azzurro del Corpo che, a Pontedecimo e negli altri 16 asili nido delle carceri italiane, hanno espresso nel tempo ed esprimono quotidianamente una professionalità ed una umanità davvero particolari. Ed è grave che la Liguria, e la città di Genova in particolare, siano inadempienti rispetto alla individuazione di un Istituto a custodia attenuata per madri detenute con bimbi fino a sei anni di età”, Lo scrive in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo Sindacato del Corpo. “La legge approvata dal Parlamento prevede che in alternativa alla cella si disponga la custodia cautelare negli “Istituti a custodia attenuata per madri detenute”. Per ora ce n’è uno solo, a Milano ed è una casa famiglia concepita per i piccoli senza sbarre interne. Possono andarci anche donne incinta o padri, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. Il carcere di Pontedecimo, che oggi ha un bimbo in carcere con la mamma detenuta, ha ospitato nel tempo molti bimbi: spesso sono figli di immigrate, in particolare di nazionalità rom, e questo è anche il risultato dell’incidenza sempre maggiore del fenomeno immigratorio e dei cambiamenti da esso prodotti nella società italiana, diventata sempre più multietnica. Mi sembra grave che la Liguria e Genova non abbiano ancora trovato il tempo per individuare una struttura dove realizzare questa nuova tipologia di Istituto. Quello che però mi preme rilevare è il fondamentale e prezioso ruolo delle Agenti di Polizia Penitenziaria, in servizio a Pontedecimo e negli altri Istituti di pena del Paese che, spesso mamme loro stesse, sanno conciliare perfettamente il binomio di tutori dell’ordine e della sicurezza e di operatrici del trattamento rieducativo con una particolare ed apprezzata sensibilità umana. Ed è davvero un peccato ed una ingiustificata grave dimenticanza che la nobiltà d’animo e la lodevole professionalità delle nostre colleghe in questo particolare aspetto della nostra difficile professione non siano state nel tempo adeguatamente valorizzate ed apprezzate, anche a livello sociale”. Campobasso: inchiesta su detenuto ricoverato in ospedale e morto prima dell’operazione Ansa, 13 febbraio 2012 La procura di Campobasso ha aperto una inchiesta per accertare eventuali responsabilità nella morte del detenuto che è deceduto nei giorni scorsi all’ospedale Cardarelli. L’uomo, poco più di quaranta anni, era stato trasferito dal penitenziario di via Cavour per essere operato, ma è morto mentre stava per entrare in sala operatoria. Già in passato era stato accompagnato al Cardarelli, da tempo infatti aveva problemi di salute. Sarà ora l’autopsia a fare piena luce su quanto accaduto. Il detenuto, Luigi Monaco, 40 anni, stava scontando una condanna definitiva e nel carcere di Campobasso lavorava in lavanderia. Nelle carceri adesso uccide anche il freddo (Il Giornale di Napoli) Adesso nelle carceri italiani si morirebbe anche di freddo e la prima vittima, secondo le associazioni che lavorano per vivibilità dei reclusi potrebbe essere proprio il 40enne napoletano di Scampia, Luigi Monaco, morto la settimana scorsa per un malore nel penitenziario di Campobasso. “In carcere non solo si patisce la fame. Ora si muore anche di freddo”. Per questo Irene Testa, segretaria dell’associazione radicale “Il Detenuto Ignoto” ha annunciato un esposto urgente al ministro della Salute. “Le notizie allarmanti secondo cui molti detenuti rinchiusi nelle carceri italiane sono costretti a patire il freddo, e rischiano in questi giorni di temperature glaciali di incorrere in casi di ipotermia con conseguenze assolutamente gravi potenzialmente letali (come appunto pare sia accaduto), ci ha spinto come associazione a rivolgere un esposto urgente al ministro della Salute e per conoscenza al ministro della Giustizia Severino e al Capo del Dap Tamburino: affinché provvedano con la massima urgenza ad assicurare l’adeguato riscaldamento degli ambienti detentivi come misura di prevenzione ineludibile e indifferibile”, conclude la nota. E secondo l’associazione potrebbe essere proprio il detenuto napoletano, Luigi Monaco, del carcere di Campobasso, morto qualche giorno fa nell’ospedale del capoluogo regionale dove era stato ricoverato per un malore, la prima vittima del gelo nelle celle. Una morte di cui ha reso noto il Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. L’uomo, di circa 40 anni, originario di Scampia, era in carcere per associazione per delinquere e rapina. “Il Personale di Polizia Penitenziaria di Campobasso, già dimezzato dalle conseguenze delle cattive condizioni meteo che hanno colpito la Regione, si è distinto ancora una volta per professionalità, attenzione e senso del dovere con un tempestivo intervento che ne ha consentito il ricovero immediato”, ha detto il segretario generale del sindacato Donato Capece. Capece ha poi sottolineato le criticità delle carceri molisane: “Campobasso ha una disponibilità regolamentare per 112 posti letto ma i presenti al 31 gennaio scorso erano 136, Isernia ha 70 posti letto occupati da 81 e Larino conta 293 detenuti per 219 posti regolamentari. È evidente che questo sovraffollamento contribuisce ad acuire lo stress e le già gravose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari”. Aversa (Ce): tra un anno chiuderà l’Opg di Aversa, senza futuro 188 pazienti di Gigi Di Fiore Il Mattino, 13 febbraio 2012 La loro vita ha fatto crack da anni. Internati, incapaci di intendere e volere, pazzi. Dietro l’antico portone curvo, si mischiano storie di follie omicide, maltrattamenti familiari, percosse e violenze. Vite senza memoria, su cui incombe una nuova incertezza: il decreto svuota carceri, voluto dal ministro Paola Severino, chiuderà tra un anno i sei ospedali psichiatrici giudiziari. Compreso il “Filippo Saporito” di Aversa, che nel 1876 fu il primo manicomio criminale dell’Italia unita. In attesa della chiusura annunciata, qui dentro ci sono ancora 188 “pazienti”, meglio sarebbe definirli detenuti. Cura e detenzione per gli incapaci di intendere e di volere. E alla direttrice penitenziaria Carlotta Giaquin-to si affianca il direttore sanitario Raffaele Liardo. Lo spazio verde con gli animali di 22 specie, i due piani con le stanze da sei letti, le mura scrostate e umide, i letti metallici con la ruggine, le finestre con i vetri segnati, i sette padiglioni: l’Opg a volte sembra avere spazi fermi nel tempo. E ritmi della giornata scanditi da orari senza orologi: alle otto si aprono le stanze, alle nove si fa colazione e si iniziano i trattamenti con i farmaci, alle dodici si pranza, alle cinque si cena, alle otto di sera si è di nuovo rinchiusi nelle stanze. Gli 81 “non pericolosi”, gli “sperimentabili” in uscita, possono giocare a carte, passeggiare un’ora, badare a se stessi e attendere il magistrato di sorveglianza o il familiare. Che fine ha fatto il padiglione “La Staccata”, quello bersagliato a più riprese da Psichiatria democratica e dell’associazione Antigone? E chiuso da mesi, in attesa di lavori di ristrutturazione da 400mila euro. Ci sono otto progetti approvati, ma i finanziamenti sono fermi e chissà se, dopo il decreto del governo, arriveranno mai. Qui c’erano i letti di contenzione retaggio del passato; qui venivano relegati i “cronici” senza speranze, o i violenti. Nell’estate dell’anno scorso, la commissione presieduta dal senatore del Pd Ignazio Marino scrisse su Aversa: “Le carenze e le pessime condizioni strutturali ed igienico sanitarie, unitamente al sovraffollamento, sono fortemente lesive della dignità personale”. Anche la relazione di quella commissione ha influito sulla decisione di chiudere gli Opg. Ma avverte Ignazio Marino: “Non sarà semplice. Se circa il 30 per cento degli internati non sono socialmente pericolosi, c’è per loro difficoltà ad una sistemazione alternativa”. Sul futuro del decreto resta l’incognita del destino degli internati dopo l’abolizione degli Opg. Ad Aversa, ci sono almeno 43 rinchiusi classificati “pericolosi”. Uomini con la macchia dei reati “4-bis”: omicidi, tentati omicidi, stupri. Il più anziano ha 84 anni, ma l’età media di chi è qui dentro è di 35 anni. Varia la provenienza: 15 dall’Abruzzo, 77 dalla Campania, 84 dal Lazio, 3 dal Molise e gli altri da più regioni. Molti condannati, c’è anche chi è qui da 30 anni, si erano rassegnati a restare nell’ex manicomio criminale. Senza famiglia, anzi in molti casi rinnegati dai parenti, con poca cultura, gli internati venivano spesso sistemati in stanze di pochi metri quadri, dove l’odore di piscio ammorbava l’aria. Oggi, le stanze accolgono dalle 3 alle 6 persone. Gli “storici”, con una detenzione ultra ventennale, sono una decina. Quando un anno fa ne uscì dopo tanto tempo, Giuseppe Rosano, ceramista e pittore accusato di aver picchiato moglie e amante, raccontò: “Ci rimpinzavano di psicofarmaci, io ero tra i pochi a resistere sveglio. Il vitto era soprattutto fatto di bastoncini congelati, pasta e minestrone. Alle nove le guardie spegnevano le luci, noi eravamo in 8 in pochi metri quadrati. Niente doccia calda, bagno alla turca da vomito. Della situazione nel padiglione La Staccata non ne parliamo”. Ci sono internati su cui tutti sanno tutto. Alcuni sono tenuti a distanza, per i loro crimini: l’omicida della fidanzata fatta a pezzi e messa in una valigia; il persecutore della propria famiglia che non vuole più uscire. Ogni tanto, gli 80 agenti penitenziari scrivono relazioni di servizio su violenze e soprusi. E intervengono le terapie affidate a 8 medici di guardia, 9 psichiatri, 50 infermieri. Non sempre è facile orientarsi su un mondo dove una sigaretta può diventare il prezzo di un mercimonio. Dopo la chiusura, i più gravi dovrebbero essere presi in carico da strutture private convenzionate con la Asl. Ce la farà il nostro sistema sanitario? È un’incognita. “Se vuoi costruire una nave, insegna la nostalgia del mare aperto” scrisse Melis, internato di Oristano, su una parete. Desideri di spazi infiniti, chissà se la riforma Severino aiuterà a trovarli. La direttrice: la nostra speranza è affidarli a cliniche private e case-famiglia Dopo essere stata vice direttrice delle carceri di Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere, dal settembre del 2008 la dinamica Carlotta Giaquinto è la direttrice penitenziaria dell’ Opg di Aversa. Direttrice, cosa è cambiato dall’ispezione della commissione Marino dello scorso anno? “Direi che i riflettori, prima della commissione tortura dell’Unione europea e poi del Senato, hanno smosso qualcosa. C’è stata più attenzione e la spinta alla chiusura degli Opg, stabilita nel 2008”. Che ne sarà dei lavori programmati all’edificio? “Non sappiamo. Ci sono otto progetti approvali e non finanziali. Dalla loro sorte sapremo se il ministero avrà intenzione di sfruttare l’ex Opg come struttura carceraria. Altre possibili destinazioni non ne conosco, ma la proprietà è demaniale”. Che fine faranno, dopo la chiusura, gli internati? “L’incapacità di intendere e volere è alla base delle detenzioni finalizzate alla cura. Già ora favoriamo l’affidamento a strutture sanitarie private, come cliniche, case famiglia, comunità, convenzionate con la Asl. È lì che dovrebbero andare, dopo la nostra chiusura, i casi più gravi”. Le Asl sono attrezzate per questi compiti? “Le difficoltà sono tante. Di certo, almeno una trentina di casi con reati più gravi non possono tornare liberi. Si potrebbe abolire l’ipotesi di incapacità di intendere e di volere e considerare tutti i rei uguali”. Napoli: visita ispettiva dei Radicali a Poggioreale; nel carcere condizioni di vita disumane Gazzettino Vesuviano, 13 febbraio 2012 Circa tre secoli fa, Voltaire scrisse “Non mostratemi i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da essi che si misura il grado di civiltà di una nazione”. In Italia però, la possibilità di un sistema carcerario “a prova d’uomo” sembra essere ancora un’utopia; nonostante anni di lotte che non hanno mutato a livello sostanziale la situazione attuale dei detenuti italiani, la battaglia a favore di un miglioramento del sistema penitenziario viene portata avanti con grande fervore da parte dei radicali. Ieri, Venerdì 10 Febbraio, l’Associazione Radicale “Per la Grande Napoli” ha infatti tenuto una visita ispettiva presso il carcere di Poggioreale, con la partecipazione del senatore Luigi Compagna. Al termine della visita Luigi Mazzotta, segretario dell’Associazione, ha dichiarato: “I carcerati sono costretti a vivere in condizioni disumane, occupando celle di 10 metri quadrati dove sono rinchiuse anche quindici o venti persone. Il diritto alla salute e alla rieducazione qui è negato per definizione”. Non diversa l’opinione del procuratore generale di Napoli, Vittorio Martusciello, interpellato sul testo ribattezzato svuota carceri che ha dichiarato: “Serve un intervento. Quello appena approvato inciderà molto poco sull’affollamento delle carceri. Era necessario intervenire perché la situazione è veramente esplosiva. Detto questo mi sembra un provvedimento che non crea grandissimi effetti positivi, al di la della ridondanza del nome giornalistico svuota carceri. La legislazione attuale già oggi consente di scontare l’ultima parte della pena, pari a 12 mesi, in regime di domiciliari. La modifica con la nuova legge è un innalzamento del beneficio a 18 mesi e questo in realtà non modifica il sistema carcerario. Insomma, gli effetti sono abbastanza modesti”. È necessaria la creazione di una coscienza sociale radicata del problema: oggi la disparità sociale maggiore avviene infatti nelle carceri, luoghi in cui i diritti umani vengono violati regolarmente e che non garantiscono la rieducazione che spetterebbe ai detenuti. Lo scrittore e giornalista Roberto Saviano ha recentemente condiviso, tramite social network, una sua breve riflessione sulla difficile situazione penitenziaria italiana: “In carcere un suicidio ogni cinque giorni. Le condizioni di vita sono spesso disumane. I detenuti in Italia sono cresciuti dell’80% in 10 anni e le strutture rimaste invariate: 80 detenuti per 50mila posti. È dal funzionamento di carceri e sistema giudiziario che si misura la democraticità di un Paese. E l’Italia ha molta strada da fare”. Asti: Grizzanti (Radicali) risponde ai detenuti in sciopero della fame Notizie Radicali, 13 febbraio 2012 Questa mattina Salvatore Grizzanti, segretario dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta, ha inviato una lettera di risposta ai detenuti del Carcere di Quarto d’Asti. I detenuti avevano scritto a Grizzanti per comunicare che 92 di loro delle sezioni A3 e B3 avevano iniziato uno sciopero della fame a rotazione dal 1° al 10 febbraio a sostegno del reclamo che i detenuti di Asti hanno inoltrato al Tribunale di sorveglianza di Torino. Ecco alcuni stralci della lettera di Grizzanti: “Il metodo di lotta che state utilizzando è esemplare e in sé contiene i germi della democrazia e della libertà. La nonviolenza che praticate (e che noi pratichiamo costantemente nelle nostre battaglie) è la risposta più adatta alla cecità del regime italiano e alla violenza più in generale. Come forse sapete io e Igor Boni abbiamo condotto 11 giorni di sciopero della fame ad oltranza per chiedere al Consiglio regionale la nomina del Garante regionale dei detenuti come previsto da una legge di oltre due anni fa e mai applicata. Insieme a noi decine di militanti e cittadini si sono uniti in un digiuno a staffetta che porteremo avanti fino all’ottenimento della nomina e dell’attivazione dell’ufficio. Come immaginate un’azione come quella che avete attuato e attuate riesce ad essere incisiva se si riesce a comunicarla. Purtroppo in questo Paese (e non solo in questo Paese) fa sempre più notizia chi commette un atto violento rispetto a chi usa lo sciopero della fame per spingere ad una decisione le Istituzioni. La nostra lotta per il rispetto dei diritti delle persone recluse proseguirà e la vostra azione non può che essere d’aiuto per riuscire a denunciare lo stato di degrado delle carceri italiane e un sovraffollamento senza precedenti che è denunciato dalla stessa Corte dei diritti europea. A livello nazionale prosegue la lotta per l’amnistia di Marco Pannella e dei Radicali ma, come vedete dai telegiornali, è difficile fare uscire i partiti dalla loro chiusura verso questo argomento. Su questo comunque non ci fermeremo. Milano: detenuto domiciliare colpito da infarto va in ospedale, accusato di evasione Tm News, 13 febbraio 2012 Colpito da infarto miocardico, R.A., detenuto agli arresti domiciliari, avverte telefonicamente i carabinieri della stazione di Milano Barona che sta per essere accompagnato in ospedale, gli viene suggerito di informare del suo stato di detenuto il posto di polizia dell’istituto sanitario e R.A. provvede. Ma alla fine questo non serve a evitare all’uomo una denuncia per evasione e la conseguente indagine. In occasione di un controllo effettuato il 19 gennaio i carabinieri gli contestano che il giorno 14 R.A. non era in casa. L’uomo mostra la documentazione medica spiegando che il 14 era ricoverato in ospedale. Ma il carabiniere risponde di non essere autorizzato a ritirare quei documenti e di portarli in copia in caserma. R.A. segue l’indicazione il giorno seguente nell’orario in cui è autorizzato a uscire di casa. “Le precauzioni adottate e la puntuale osservanza delle istruzioni non hanno risparmiato una inutile denuncia - dice l’avvocato Beatrice Saldarini - con gli inevitabili strascichi processuali ma hanno anche determinato il rigetto della richiesta di revoca o sostituzione della misura in atto”. Il difensore ha presentato una nuova domanda di revoca dei domiciliari. Torino: proteste attivisti “No Tav” davanti carceri dove sono rinchiusi loro compagni Ansa, 13 febbraio 2012 Gruppi di No Tav hanno manifestato ieri davanti ad alcune delle carceri del Piemonte dove sono rinchiusi gli attivisti arrestati dalla polizia nell’inchiesta sugli scontri dell’estate scorsa in Valle di Susa. Con l’iniziativa hanno voluto portare solidarietà ai loro compagni. A Ivrea (Torino) si sono radunati una quarantina di dimostranti appartenenti al movimento No Tav del Canavese e del centro sociale eporediese Il Castellazzo. “Siamo qui e davanti ad altre carceri - ha detto Pamela, del comitato Ivrea e Canavese - per protestare contro i piani scellerati della Tav e del Capitalismo. Per noi l’opera Tav è inutile e di fronte alla crisi economica la borghesia vuol portare avanti un progetto di questo tipo. Ma per fortuna i residenti della Val di Susa tengono duro e molti di noi sono stati ingiustamente incarcerati per la sola colpa di portare avanti il loro ideale”. Un presidio analogo si è svolto davanti al carcere di Alessandria con i militanti provvisti di striscioni e bandiere. Si è conclusa senza nessun altro episodio di violenza il corteo a cui ha dato vita oggi un gruppo di manifestanti No Tav a Genova. Davanti al carcere di Marassi, dove è rinchiuso l’attivista Gabriele Filippi, aveva preso fuoco un’auto a causa di un fumogeno lanciato dai manifestanti. Le fiamme erano state domate dai vigili del fuoco. Mantova: atelier di pittura all’Opg di Castiglione delle Stiviere di Maria Antonietta Filippini Gazzetta di Mantova, 13 febbraio 2012 Arte come terapia? “Piuttosto come maieutica, attraverso la pittura questi miei allievi portano alla luce una parte viva e vitale di se stessi. E se per tutti è bello e importante dipingere, in alcuni emerge vero talento. Ho scoperto artisti le cui opere hanno partecipato a mostre in varie città e alcune si trovano oggi alla Collection de l’Art Brut a Losanna, al Musée de la Création Franche di Bègles in francia e al Mad Musée di Liegi”. Chi parla è Silvana Crescini e i suoi allievi sono uomini e donne dell’Atelier di pittura dell’Opg di Castiglione delle Stiviere. Sì, l’Ospedale psichiatrico giudiziario, brancha dell’azienda Carlo Poma di Mantova, che chiuderà fra un anno in base al decreto Svuotacarceri appena approvato. In realtà, forse il futuro sarà meno drastico. Oggi l’Opg di Castiglione ospita 312 pazienti, 224 maschi di Lombardia, Piemonte e Val d’Aosta, e 88 donne di tutta Italia, essendo Castiglione l’unico Opg con sezione femminile. A tutti questi pazienti un tribunale ha imposto il regime detentivo, ma non il carcere, perché non in grado di “intendere e volere” in quel momento fatale. Può essere stato un delitto in famiglia, meno spesso contro estranei, Ma c’è anche chi si è macchiato di un semplice furto e poi si è infilato in una spirale di reazioni sconsiderate come aggredire un carabiniere. Il futuro. “Difficile che le Regioni siano in grado entro il 31 marzo 2013 di garantire strutture sanitarie piccole per ospitare chi uscirà dall’Opg, ma ancora vincolato al regime detentivo” nota il direttore Antonio Calogero. Gli altri Opg in Italia sono a Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, Aversa in Campania, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia, sono organizzati come carceri (pur avendo direttori medici, psichiatri e psicologi) e i parenti dei malati ne auspicano la chiusura. Non si capisce, però, la ncessità di chiudere l’Opg di Castiglione che è da sempre un ospedale, con un cancello d’ingresso chiuso e controllato, ma nessun agente penitenziario, né sbarre e grate all’interno, dove si può girare tra i padiglioni, gli edifici, i cortili e il giardino. Si trova alla Ghisiola, in collina, all’inizio della strada che da castiglione porta a Desenzano del Garda. La vita all’interno. Lasciamo per ora stare il dibattito sugli Opg. Ed entriamo alla Ghisiola. Tranne i più gravi, circa un dieci per cento - soprattutto alcuni appena arrivati, i pazienti frequentano tutte le attività formative e riabilitative. “Si va dalla palestra - spiega il direttore -, per il recupero motorio soprattutto di chi prende psicofarmaci, a tanti sport: tennis, tennistavolo, pallavolo, bocce, Tai chi. E poi ci sono, dal 1994, i corsi Enaip di cucito, falegnameria, informatica”. Informatica era il corso che seguì Ferdinando Carretta? Il giovane di Parma che aveva soppresso i genitori e il fratello, e che ora abita a Forlì, quando era all’Opg di Castiglione, usciva per andare all’Enaip e poi a lavorare in un Comune dell’Alto Mantovano per digitalizzare l’archivio. “Sì, Carretta frequentò l’Enaip a Mantova. I corsi negli anni cambiano, ma l’informatica tiene. Poi c’è l’Atelier di pittura, ma anche attività di teatro e il giornalino. In genere i corsi durano mattina e pomeriggio, uomini e donne possono stare insieme, cucinano, pranzano e lavano i piatti”. Il recupero. Oltre alla cura psichiatrica, bisogna infatti pensare al recupero individuale e sociale; passare anni inerti non aiuta certo ad affrontare il momento dell’abbandono, quando si è finalmente liberi, ma spesso soli e incapaci di ricominciare come nulla fosse mai successo, passando semplicemente una spugna sul passato. A Castiglione, a questo passaggio verso la libertà piena, ci lavorano già. “C’è la comunità Gonzaga, vicinissimo all’ospedale. Ospita una trentina di pazienti ai quali il giudice di sorveglianza ha tolto il regime detentivo. Per loro è una casa, ci sono psichiatri e psicologi, ma gli ospiti escono quando vogliono, cerchiamo anche di indirizzarli verso lavori utili, borse di lavoro. Se qualcuno stesse male, non tornerebbe in Opg, ma all’ospedale normale”. Queste comunità post-Opg sono previste dal decreto del 2008, ma ce ne sono ben poche, tanto che la Gonzaga ospita solo 4-5 mantovani. “Le Asl di competenza non sanno come accogliere gli ex Opg”. L’Atelier di pittura compie 21 anni. In questa realtà, l’Atelier di Silvana Crescini funziona già da 21 anni. Ci sono passati grandi artisti e donne dall’animo gentile, che disegnano fiori, e ti chiedi cosa si sia agitato nel loro animo quando deragliò nella violenza. Silvana non chiede nulla a nessuno e, se viene a sapere, tace. Però si è innamorata di questo lavoro e ormai la conoscono in giro per il mondo. In dicembre, la mostra sua e di otto outsider dell’Opg, “Paesaggi d’anima” a Pieve di Soligo, la patria del poeta Zanzotto. Qui, in un liceo, si discute di follia e arte, di filosofia e psichiatria. “All’atelier ho 15 allievi, di più non potrei seguirli. Però già dieci anni fa mi venne l’idea di tenere anche un corso di storia dell’arte, proiettando dvd sul grande schermo. Anche in questo caso chiedo l’iscrizione, perché voglio che la cosa sia presa seriamente. È stato un successo, vengono in una trentina, uomini e donne che fanno amicizia fra loro, e stanno attentissimi”. Gli amici di Oltre la siepe. Già da qualche anno, all’Opg si tiene una festicciola di auguri natalizi, tra il gruppo Atelier-storia dell’arte, e l’associazione Oltre la siepe. I ricoverati tengono uno spettacolo, in cui ciascuno - chi lo vuole - legge un pensiero, recita una poesia che ha scritto, canta una canzone, di cui talvolta è anche il paroliere. C’è chi riesce ad evocare la propria individualità ferita che cerca una strada che allontani dal dolore, chi rimpiange la famiglia e vorrebbe un permesso per tornare a casa qualche giorno, chi scherza e basta, chi descrive il sole che torna a sorgere. L’oscurità resta sotto traccia, come il mistero dell’animo umano. Poi una sigaretta fuori, prima della torta. “Mi piacerebbe anche un corso di musica, una volta c’era” confida un uomo, giovane. Un anziano sorride schivo. Quei volti che traccia sulle tele sono la sua ragione di vita. Una ragazza è affascinata da Caravaggio, pittore eccelso e maledetto. “La musica! So che a Mantova c’è un bellissimo Conservatorio - ci dice il direttore Calogero -, sarebbe bello entrare in contatto. Benvenuti anche altri musicisti che volessero fare del volontariato”. Alcune attività sono già previste e finanziate, altre si possono aggiungere, ma sembra di capire, per ora gratis. Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria, la “grande gabbia” romana degli immigrati Dire, 13 febbraio 2012 La reclusione nei Cie va dai sei ai 18 mesi, come in un vero carcere. Ma da sempre i Cie sono molto meno accessibili di un penitenziario. “Questo non è un resort a 5 stelle, è un luogo dove è limitata la libertà personale per detenzione amministrativa”. Con queste parole Maurizio Impronta, dirigente dell’ufficio Immigrazione della Questura di Roma ha aperto le porte del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria ai giornalisti, dopo la rimozione del divieto di accesso alla stampa stabilito dal precedente governo e annullato dal ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. Anche grazie alla campagna “LasciateCIEntrare”, nata nel 2011, con il sostegno dell’Fnsi e dell’Ordine dei giornalisti proprio per rimuovere la circolare n. 1305 del Viminale, stanno aumentano le richieste dei reporter alle Prefetture per raccontare la realtà dei Cie. Si aprono i cancelli dei centri dove sono rinchiusi i migranti che non hanno ottemperato all’ordine di lasciare il territorio nazionale perché non in regola con il permesso di soggiorno. Con l’ultimo pacchetto sicurezza del governo Berlusconi la reclusione nei Cie è stata estesa dai sei ai 18 mesi, come in un vero carcere. Ma da sempre i Cie sono molto meno accessibili di un penitenziario. Spesso la tensione all’interno è alta. Rivolte, incendi e fughe restano confinati alle brevi di cronaca cittadina, mentre sono un elemento da indagare per comprendere le politiche migratorie. “Nel passato abbiamo avuto rivolte finalizzate alla fuga che i trattenuti hanno messo in atto con scontri all’interno del centro”, ha ammesso Improta. Il momento più difficile è stato ad agosto, quando i Cie italiani sono stati riempiti di tunisini arrivati a Lampedusa dopo il 5 aprile. In base a un’ordinanza della Presidenza del Consiglio è stato dato il permesso di soggiorno umanitario a tutti i tunisini arrivati entro quella data, giorno in cui sono stati siglati gli accordi per i rimpatri con il governo di transizione a Tunisi. La possibilità di restare in Europa è stata negata a tutti gli altri. “Ad agosto abbiamo avuto 4 tentativi di fuga, di cui 2 riusciti, ma poi li abbiamo ripresi tutti quanti- ha spiegato il dirigente di Polizia- sono stati tutti denunciati per devastazione e incendio doloso, il 50% erano evasi dalle carceri tunisine”. Il Cie è superblindato. Sorvegliato dalla Polizia, cui sono assegnate le funzioni ispettive, dall’Esercito, che si occupa della vigilanza con delle camionette sparse lungo tutto il perimetro e tiene d’occhio una serie di monitor e telecamere, dai Carabinieri e dalla Finanza, che scortano i detenuti. Questo gruppo interforze fa capo all’ufficio Immigrazione della Questura. Per ogni turno ci sono fra i 20 e i 25 agenti e militari. Gestire un Cie non è semplice, le rivolte come detto sono continue, non solo ad opera dei giovani della Primavera araba che si ribellano al sistema delle frontiere europee. La psicosi da rivolta è tale che gli agenti hanno impedito ai giornalisti presenti (le telecamere Rai di ‘Unomattinà, quelle del Corriere della sera e della Dire-Redattore sociale) di parlare con gli uomini rinchiusi nella sezione maschile. “Tutti vorrebbero rilasciare interviste e se si crea il caos o disordini non avremmo le forze per intervenire”, è stata la motivazione addotta dagli agenti. Al di là delle sbarre si accalcavano uomini di ogni provenienza. Qualcuno mostrava le ciabatte dicendo che gli hanno tolto le scarpe, qualcuno urlava di essere stato picchiato e minacciato dagli agenti. I poliziotti a loro volta sostenevano che a essere stati minacciati dai reclusi sono i giudici di pace nelle udienze di convalida del fermo. Come tanti animali in gabbia, alcuni dei 140 uomini senza permesso di soggiorno del Cie di Ponte Galeria cercavano di fare sentire la propria voce ai giornalisti. Un africano con i capelli bianchi urlava e cantava a squarciagola in inglese, ballando a cielo aperto nella sua cella. Sembrava avesse problemi psichici, ma non è stato possibile verificarlo. “Si cerca di evitare di fornire felpe con il cappuccio per evitare il travisamento durante le rivolte, anche se alcuni trattenuti li hanno comunque”, hanno spiegato i funzionari di polizia. Vietati anche i videofonini. Niente immagini e video dall’interno per i reclusi del Cie. I Cie e la stampa. Sul fronte della stampa, rimane la discrezionalità dei prefetti nel rilasciare le autorizzazioni e nella gestione delle visite. A Roma le troupe hanno potuto trascorrere cinque ore nel Cie sotto la supervisione dei responsabili della Questura e della Prefettura, con la possibilità di intervistare almeno le donne. A Torino lo scorso 26 gennaio due giornaliste, Milena Boccadoro (Rai, Tgr Piemonte) e Ilaria Sesana (Terre di mezzo) hanno potuto solo vedere le gabbie dall’alto di un terrazzo dopo aver passato tutto il tempo della visita chiuse in un ufficio con i responsabili del centro da cui hanno ricevuto dati e versioni ufficiali. Una limitazione all’accesso alle informazioni che ha suscitato la doppia protesta degli organizzatori della campagna “LasciateCIEntrare” e della Federazione nazionale della stampa. “Non è accettabile che gli operatori dell’informazione debbano ancora subire pesanti restrizioni nell’accesso alle informazioni su una realtà così importante e sconosciuta ai cittadini- aveva detto in quell’occasione Roberto Natale, presidente dell’Fnsi- non è tollerabile che l’accesso dei giornalisti si riduca alla sola possibilità di acquisire la versione dei soggetti istituzionali. La nostra campagna continuerà fino a che la censura sui Cie non sarà stata rimossa e sarà possibile garantire accuratezza e trasparenza dell’informazione”. Iran: cambia legge per minori, non più condanne a morte Ansa, 13 febbraio 2012 Si apre uno spiraglio, almeno per i minori, nel codice penale islamico in vigore in Iran. È stata infatti ratificata, dalla commissione per gli affari legali in Parlamento, la legge che impedirà l’esecuzione dei ragazzi che abbiano compiuto prima dei 18 anni un delitto punibile con la morte. Ad annunciarlo, riferisce il quotidiano Sharq, è stato il portavoce della stessa commissione, Amin Hossein Rahimi. La legge finora in vigore prevede che i minorenni condannati a morte siano giustiziati quando hanno compiuto la maggiore età, a meno che la famiglia della parte offesa non conceda il perdono. Questo però non è stato il caso di Behnud Shojai, impiccato nel 2009 per aver ucciso un amico a 17 anni, nonostante la mobilitazione di varie organizzazioni per i diritti umani e gli appelli dell’Unione europea. In base a tale legge, ha spiegato al giornale Rahimi, i minori erano considerati punibili sopra i nove anni nel caso delle bambine (età del matrimonio di una delle mogli di Maometto) e sopra i 15 per i ragazzi. “Ma ora con la nuova legge - ha sottolineato Rahimi, deputato conservatore moderato - sono considerati bambini tutti i minori di 18 anni” e non dovranno subire alcuna punizione neanche quando avranno raggiunto la maggiore età. Se hanno compiuto reati, saranno affidati ai genitori, nel caso di bambine con meno di nove anni e di ragazzi con meno di 15 - ha spiegato ancora il parlamentare - mentre gli altri saranno trasferiti in centri di rieducazione. Il giornale - che titola “Vietata la legge del taglione per i minori di 18 anni” - non precisa se la misura, già passata al vaglio della magistratura, debba avere un altro voto parlamentare prima di entrare in vigore. La questione delle condanne per i minori e l’applicazione anche per loro della legge del taglione (Qesas) è un tema che ha sempre mobilitato i difensori dei diritti umani, non solo all’estero ma anche in Iran. Nel caso di Behnud Shojai, accusato di aver ucciso un coetaneo in una rissa, si erano mobilitati anche personaggi famosi del cinema iraniano, radunatisi con altri manifestanti di fronte al carcere di Evin il giorno dell’esecuzione, per chiedere un’ultima volta alla famiglia della vittima il perdono. Attori e personaggi famosi si sono attivati anche in altre occasioni - anche in accordo con la magistratura, che prevede iniziative per salvare la vita ai condannati - per convincere al perdono che cancella la sentenza. Il tema dei minori è al centro anche di un film del 2004 di Asghar Farhadi, il regista del successivo pluripremiato e candidato all’Oscar “Una separazione”. Intitolato “A Beautiful City”, il film iniziava la narrazione dal giorno del diciottesimo compleanno di un ragazzo in carcere, e raccontava gli sforzi ostinati della sorella e di un amico per fargli ottenere il perdono dal padre della ragazza che questi aveva ucciso. Un’opera che è anche un ritratto sociale e morale dell’Iran contemporaneo, in cui la religiosità dei protagonisti è aliena da ogni fanatismo e in cui prevale soprattutto il dramma di un uomo (il padre della vittima), diviso tra la propria coscienza e il bisogno di un riscatto per il proprio dolore. Ucraina: arrivati medici occidentali che visiteranno ex premier Tymoshenko in carcere Tm News, 13 febbraio 2012 Sono arrivati in Ucraina i medici canadesi e tedeschi che intendono verificare le condizioni di salute di Yulia Tymoshenko, l’ex premier che sta scontando in un carcere di Kharkiv una condanna a sette anni per abuso d’ufficio. La Procura generale ucraina ha confermato l’arrivo degli “specialisti internazionali” e ha smentito che la Croce rossa internazionale abbia rifiutato di prendere parte alla missione medica: non parteciperanno, ma non si sono rifiutati, sostiene una nota. Il quotidiano Kommersant-Ukraina oggi riporta però le dichiarazioni del rappresentante della Croce rossa per Ucraina, Russia, Bielorussia e Moldova, Monique Nanchen, che esprime la decisione di tenersi da parte con un certo scetticismo sull’iniziativa, ritenuta “perdente” in partenza. La Croce rossa era stata invitata direttamente dai collaboratori di Tymoshenko, mentre Germania e Canada si sono offerte di inviare medici. In ogni caso, in base a quanto comunicato dalla Procura, i cinque specialisti tedeschi e canadesi oggi si riuniranno con colleghi ucraini (che parteciperanno alle visite all’ex premier) per valutare come procedere, “dopodiché i membri della commissione medica internazionale si recheranno nel carcere Kachanovksy”, dove si trova l’ex eroina della rivoluzione filo-occidentale del 2004. Il Canada e la Germania hanno proposto l’invio di un team medico sulla scia del duello tra opposizione e autorità ucraine: la prime sostiene che Tymoshenko sta male e non può reggere il carcere, le altre ribattono che l’ex premier soffre di mal di schiena, ma non ha nulla di serio e il suo stato di salute non impedisce la permanenza in prigione. La vicenda giudiziaria di Yulia Tymoshenko, in carcere dallo scorso agosto e condannata ad ottobre per i contratti di fornitura di gas dalla Russia firmati nel 2009 e ora ritenuti svantaggiosi dal nuovo governo, ha scatenato pesanti critiche da Stati Uniti e varie cancellerie occidentali. L’Unione europea ha bloccato la firma di un accordo di associazione, denunciando la natura politica del caso dell’ex premier.