Giustizia: viaggio nelle carceri-killer d’Italia, dove mancano anche i termosifoni di Massimo Martinelli Il Messaggero, 12 febbraio 2012 Sono già 18 i morti dall’inizio dell’anno nelle prigioni del nostro paese. Sono stati 186 nel 2011, 184 nel 2010. Sono diciotto, adesso, le croci piantate nei penitenziari italiani nei primi quaranta giorni del 2012. Significa che abbiamo un sistema carcerario che chiude una tomba ogni due giorni: quindici morti al mese. E troppo spesso mantiene al di sotto della soglia di dignità umana le condizioni di vita degli altri. La spiegazione è logora: non ci sono soldi. Ma è vero anche che i pochi che ci sono, chissà dove finiscono. L’ultimo paradosso è di due giorni fa: il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani, ha dovuto distribuire centocinquanta coperte e centocinquanta cappelli ai detenuti del sesto braccio, che con il termometro a meno dieci e senza riscaldamento rischiavano di restare congelati. Contemporaneamente nei garage del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono custodite fiammanti Maserati da oltre centomila euro. Che però nessuno vede in giro. Perché quando ha saputo che c’erano quelle fuoriserie, con i termosifoni rotti a Regina Coeli, l’ex Guardasigilli Nitto Palma ne ha sconsigliato l’utilizzo ai vertici del Dap, per evitare l’ennesima polemica sugli sprechi di Stato. È la stravagante situazione alla quale si appresta a mettere mano il nuovo ministro della Giustizia, Paola Severino. Che se l’è imposto come primo obiettivo: restituire ad ogni detenuto la dignità che la Costituzione gli garantisce. Perché quello delle coperte e della Maserati non è un caso isolato: a Reggio Calabria, due detenuti nell’ospedale psichiatrico giudiziario li hanno salvati per un pelo dalla morte per congelamento. È successo tre giorni fa; uno di loro sta meglio, l’altro è in rianimazione. E a proposito di dignità minima, è dovuta intervenire persino la Cassazione per affermare che un detenuto cieco con pochi mesi ancora da scontare può ottenere il differimento della pena, per non vivere “al di sotto di una soglia di dignità che deve essere rispettata pure in carcere”. L’approccio del neo Guardasigilli, già una settimana dopo il suo insediamento, era stato pragmatico e incisivo: cinquantasette milioni di euro per rendere vivibili le carceri ed estensione da dodici a diciotto mesi di pena finale da poter scontare ai domiciliari per le condanne non gravi. In questo modo avrebbe garantito un abbattimento secco della popolazione carceraria di tremilatrecento detenuti. Che tradotto in euro avrebbe significato un risparmio di 375mila euro per ogni giorno di detenzione evitata. Ma soprattutto il piano prevedeva una piccola rivoluzione sui criteri per l’arresto, che avrebbe cancellato il singolare primato delle carceri italiane che ospitano 743 detenuti stranieri ogni centomila italiani: più o meno il 36 per cento della popolazione carceraria, che occupa un posto per reati come lo spaccio o l’immigrazione clandestina. Con una serie di norme si limitava l’accesso in carcere, si velocizzava il processi e di rendeva immediata l’espulsione dello straniero. Un piano tecnico, dunque. Che lasciava al potere legislativo, al Parlamento, la scelta sulla scorciatoia più semplice, l’amnistia. Eppure i partiti e le contrapposizioni ideologiche lo hanno bloccato: con cinquecento emendamenti presentati durante il dibattito alla Camera, i parlamentari della Lega hanno annunciato la loro opposizione durissima. Sostenendo che il denaro, piuttosto, andrebbe speso a beneficio della sicurezza, cioè per arrestare altri spacciatori, clandestini e scippatori. Da spedire nelle stesse carceri in cui si muore ogni due giorni. Giustizia: allarme Sindacati di Polizia penitenziaria; nelle carceri condizioni vita impossibili La Stampa, 12 febbraio 2012 Ancora tre morti in carcere. Ancora persone che non riescono a sopportare la detenzione. Tre episodi, avvenuti tutti ieri, in strutture penitenziarie diverse (Roma, Bologna, Campobasso) che non possono non destare l’attenzione dopo che giovedì alla Camera il governo Monti ha incassato la fiducia sul decreto legge “svuota carceri” finalizzato proprio a contrastare il sovraffollamento dei penitenziari. La prima storia è quella di un trentenne italiano, detenuto da novembre, morto nel carcere romano di Regina Coeli in attesa di giudizio per reati connessi alla droga. E il secondo decesso in meno di un mese, a quanto riferito dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, registrato nella struttura penitenziaria. Il corpo privo di vita del detenuto è stato trovato dalla polizia penitenziaria nella sua cella nella IV sezione, quella riservata ai tossicodipendenti. “Ormai è evidente che questa struttura non è più in grado di garantire condizioni di vita accettabili”, ha commentato Marroni. “La morte di un detenuto tossicodipendente a Regina Coeli, struttura sovraffollata da oltre 1.200 detenuti rispetto ai circa 700 previsti e con un reparto di polizia penitenziaria carente di più di 70 unità, deve fare riflettere su) mantenere i tossicodipendenti in carcere”, ha aggiunto Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Un detenuto 39enne, Marco De Rosa (nato a Bologna e arrestato nel marzo 2002), è stato invece trovato morto nel proprio letto nel carcere bolognese della Dozza. È il primo decesso avvenuto nel 2012 nei penitenziari emiliani. Stando ai primi accertamenti il decesso sarebbe avvenuto probabilmente per un infarto. L’uomo stava scontando una pena per rapina, spaccio internazionale, sequestro di persona e sarebbe tornato libero nel 2024. È morto invece in ospedale un 40enne napoletano che si era sentito male nel carcere di Campobasso. Il detenuto, originario di Scampia, era in carcere per associazione per delinquere e rapina. Critica la situazione anche delle carceri molisane: “Campobasso ha una disponibilità di 112 posti ma i presenti al 31 gennaio erano 136, Isernia ha 70 posti letto occupati da 81 e Larino conta 293 detenuti per 219 posti”, afferma Capece. Secondo i dati dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere elaborati dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti, nel 2011 i decessi sono stati 186, di cui: 66 per suicidio, 23 per cause ancora da accertare, 96 per cause naturali, uno per omicidio. Fino a ieri erano 14 i detenuti morti nel 2012. Uil Penitenziari: freddo concausa di 2 dei 3 decessi Il freddo di queste ultime ore potrebbe aver giocato “un ruolo determinante” in due dei tre decessi avvenuti nelle carceri italiane. La denuncia arriva da Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari. “Se per il trentenne deceduto a Regina Coeli - attacca Sarno - la morte pare essere sopraggiunta per assunzione di sostanze stupefacenti, gli altri due decessi sono avvenuti per malori improvvisi”. Abbastanza per parlare di “freddo killer”? “Non sarà un caso se i decessi si sono verificati in zone particolarmente colpite dal maltempo e dalle temperature rigide. Così come riteniamo non sia una semplice coincidenza che i decessi di Bologna e Campobasso siano avvenuti in strutture penitenziarie con evidenti problemi di climatizzazione. A Campobasso l’impianto garantisce temperature esotiche solo negli uffici della direzione (tant’è che si è costretti ad aprire le finestre) mentre negli ambienti detentivi agenti e detenuti sono costretti a sopportare temperature polari. A Bologna gli impianti funzionano con una certa regolarità, ma sono inadeguati alla bisogna e non riescono a garantire una soddisfacente climatizzazione, con il risultato che chi lavora e vive in quegli ambienti ha l’impressione di essere in frigorifero”. Per Sarno, “la stessa casa circondariale di Regina Coeli non sfugge alla morsa del freddo. Mentre in queste ore associazioni di volontariato stanno provvedendo alla distribuzione di coperte, è in atto lo sfollamento della sesta sezione per l’impossibilità di erogare acqua e quindi di provvedere al riscaldamento degli ambienti. Ma problemi analoghi si segnalano in molte strutture penitenziarie, anche in quelle insulari come Agrigento”. “Certamente - sottolinea il segretario generale della Uil Penitenziari - quello di garantire un idoneo riscaldamento alle carceri è una delle priorità che va risolta anche per via normativa. Per quanto strano possa apparire, gli istituti penitenziari non sono compresi nelle deroghe degli orari di accensione previsti per altri servizi pubblici come gli ospedali. Ne consegue che soprattutto di notte le temperature si abbassino a livelli di guardia e comportino rischi, con evidenti oneri per lo Stato, per la salute dei detenuti e del personale. Purtroppo quella della salubrità e della sicurezza dei luoghi di lavoro è una materia sulla quale il Dap elude il confronto. Capita, quindi, che a Bolzano i colleghi sono costretti a montare di sentinella in un box di plexiglass a temperature molto al di sotto dello zero e in molte altre strutture lo zelo dei dirigenti vieta al personale che monta di servizio in luoghi scoperti di avvalersi dell’ausilio di stufette, senza però aver fatto installare idonei impianti di climatizzazione”. Sappe: morte tossicodipendente a Regina Coeli faccia riflettere “La morte di un detenuto tossicodipendente nel carcere romano di Regina Coeli, struttura sovraffollata da oltre 1.200 detenuti rispetto ai circa 700 posti letto e con un Reparto di Polizia Penitenziaria carente di più di 70 unita, deve fare riflettere sulla validità di mantenere i tossicodipendenti in carcere”. A dirlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Sappe. “Oggi - ragiona - un detenuto su tre è tossicodipendente. E i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, scontano una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. Forse è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per queste tipologie di detenuti”. Il Sappe sottolinea ancora come nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno del carcere, oggi quelli detenuti con problemi di tossicodipendenza sono circa il 35 per cento dei presentì. “Noi riteniamo sia preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che essendo malate hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”, conclude Capece. Giustizia: altro che legge “svuota carceri”… di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) MicroMega, 12 febbraio 2012 Sbaglia chi ritiene che la legge svuota-carceri svuoterà le carceri. Si tratta di un tentativo, necessario ma non risolutivo, che va nella più modesta direzione di fermare la crescita di detenuti. Non produrrà una riduzione significativa della popolazione reclusa. Oggi abbiamo 22 mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il piano di edilizia è fallito (fortunatamente). Incombe però la privatizzazione che se mai dovesse passare determinerebbe come negli Usa una esplosione dei numeri. Il decreto-legge Severino si compone di tre pilastri: 1) estensione della possibilità di ottenere la detenzione domiciliare a chi ha da scontare meno di diciotto mesi di pena. Molte, troppe, però le fattispecie di reato escluse. Si tenga conto, inoltre, che la detenzione domiciliare è una opportunità di uscita dal carcere in più rispetto alle altre misure alternative già esistenti. Quindi la concessione della prima da parte della magistratura di sorveglianza andrà sicuramente a detrimento delle seconde; 2) trasformazione della custodia pre-cautelare in arresti domiciliari laddove vi è un fermo di polizia. È questa una misura che nella quasi totalità dei casi riguarda i reati di strada, ed in particolare quelli commessi in violazione della legge sulle droghe, della legge sull’immigrazione o contro il patrimonio. Nei tempi lunghi avrebbe potuto avere una buona efficacia se non fosse che in sede di discussione parlamentare si sono moltiplicate le eccezioni. La custodia nelle camere di sicurezza delle forze dell’ordine non è invece una alternativa migliore rispetto alla galera; 3) chiusura degli attuali sei ospedali psichiatrici giudiziari e contestuale apertura di venti piccole comunità psichiatriche regionali. L’intenzione è quella buona, gli esiti vedremo. Bisognerà monitorare il sistema e impedire che nascano venti piccoli ospedali psichiatrici giudiziari privati. Come si vede si tratta solo di misure tampone, segno di una nuova coscienza meno securitaria. Altro che legge svuota carceri. Nei giorni scorsi l’Swg ha sondato l’opinione pubblica circa la questione delle carceri e ha rilevato che i due terzi circa della popolazione italiana ritiene che la soluzione del sovraffollamento sia una priorità. Sempre nei giorni scorsi ad Asti un giudice ha assolto quattro poliziotti penitenziari accusati di violenze brutali grazie alla prescrizione e ad altra questione procedurale. È giunto il tempo quindi di invocare le riforme di sistema: introduzione del crimine di tortura nel codice penale, istituzione di una figura indipendente di controllo di tutti i luoghi di detenzione, nuovo codice penale con un nuovo impianto sanzionatorio, abrogazione della legge classista sulla recidiva, abrogazione della legge xenofoba sull’immigrazione, abrogazione della legge ideologica e bacchettona sulle droghe. Infine, ben ci starebbe un cambio al vertice del Dipartimento anti-droghe che è rimasto lo stesso dal tempo di Giovanardi ministro, ossia di colui che definì Stefano Cucchi malato e per questo inevitabilmente destinato alla morte. Giustizia: il dramma delle carceri nella paralisi “tecnica” e politica di Vladimiro Zagrebelsky (Magistrato) La Stampa, 12 febbraio 2012 L’attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch’essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l’occasionale attenzione dell’opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni. Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia. Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all’istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l’assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva. Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c’è un’evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto “svuota carceri” (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3.000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata “sfolla carceri”. Né uno slogan, né l’altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l’eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile. Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri - con tutto ciò che esso comporta - è già stato riconosciuto come causa di trattamento “crudele e inusuale” e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento. In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi. In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all’opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale. Fermo quindi il “governo tecnico” e ferma la “politica”, che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società. Giustizia: intervista a Marco Bertoli; se un malato di mente compie un reato, finisca in carcere di Chiara Sirianni Tempi, 12 febbraio 2012 Intervista a Marco Bertoli, responsabile del Centro di Salute Mentale di Palmanova, dopo la decisione del governo di affidare i detenuti non sani di mente ad apposite strutture organizzate direttamente dalle Regioni: “Giusto chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma davvero crediamo che la cura possa essere fatta attraverso una struttura? Non è così”. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari chiuderanno entro marzo dell’anno prossimo. Lo stabilisce un emendamento al decreto Severino sul sovraffollamento delle carceri: i detenuti dovranno essere affidati ad apposite strutture organizzate direttamente dalle Regioni. Si tratta di una svolta epocale, oltre che di un gesto di civiltà: dovrebbero essere strutture di cura e recupero, ma sono di fatto carceri in cui i malati sono costretti a situazioni assolutamente degradanti, come ha dimostrato la Commissione parlamentare d’inchiesta del Servizio Sanitario Nazionale, che è entrata telecamera alla mano e senza preavviso in tutte le sei strutture attualmente in uso: ad Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Grotto, in Sicilia. Dopo trent’anni dalla legge Basaglia (che ha chiuso i manicomi) gli internati negli Opg restano 1.400. Già nel 2008 è arrivato il primo decreto legge che prevedeva un primo superamento degli Opg: da allora le Regioni, assieme al Ministero, si sono organizzate per creare percorsi di recupero. Da oggi nel decreto (che deve ancora passare all’esame della Camera per la conversione in legge) si stabilisce che in ciascuna Regione si concludano accordi con l’amministrazione penitenziaria di turno per individuare strutture sanitarie da usare in sostituzione. Attorno al perimetro delle strutture saranno posti presidi di sicurezza. Da un lato, si cerca di recuperare i malati che si trovano ancora in Opg, dall’altro, si sollecita la creazione di comunità in tutte le regioni. C’è qualche perplessità sul metodo: basterà un anno per individuare o creare strutture alternative? Non si rischia di creare disparità tra regione e regione? Marco Bertoli, responsabile del Centro di Salute Mentale di Palmanova, nella bassa friuliana (dove l’insegnamento di Basaglia ha lasciato il segno) è piuttosto drastico con tempi.it: “Sono assolutamente favorevole alla chiusura dei manicomi giudiziari. Quest’emendamento, però, mi pare generi una proliferazione dei manicomi”. A non convincere è l’idea delle guardie sul perimetro esterno: “Mi sembra un pasticcio tremendo”. Ogni situazione è diversa: “Qui in Friuli abbiamo attualmente 9 persone, ed è molto probabile che entro un anno riusciremo a farli uscire tutti: abbiamo impostato, da anni, tutta una serie di percorsi riabilitativi anche per chi ha commesso reato. Non ci servono strutture particolari”. Certo, il problema andava affrontato, e la situazione è drammatica. Ma “è l’ottica ad essere sbagliata. Davvero crediamo che la cura possa essere fatta attraverso una struttura? Non è così”. Cosa fare quindi, per migliorare il sistema? “Affrontando una questione che è puramente giuridica, quella legata all’incapacità di intendere e di volere. Basta con queste discriminazioni. Se un malato di mente commette un reato, finisca in carcere. Sconti la sua pena. Verrà anche curato. Compiono reati esattamente come il resto della popolazione: per il 70 per cento si tratta di reati minori, come il furto di una bicicletta. E ovviamente si devono avviare progetti di recupero e di reinserimento, che consenta a chi ha commesso piccoli reati di ricominciare, in condizioni eventualmente edulcorate”. Il punto, secondo Bertoli, è proprio questo: la non imputabilità di chi viene considerato incapace di intendere e di volere ha creato un vulnus nel sistema. Ed è qui che bisogna andare a mettere mano: “Non serve costruire altre strutture, ma cambiare mentalità”. Giustizia: i magistrati commettono sempre più reati, aumentano violazioni di norme processuali di Chiara Rizzo Tempi, 12 febbraio 2012 “I magistrati commettono sempre più reati e aumentano le violazioni delle norme processuali”. Lo ha detto il Pg di Cassazione, che svolge le indagini preliminari entro un anno dall’acquisizione della notizia di illecito. Come funzionano i procedimenti disciplinari alle toghe: il Csm è titolare dell’azione disciplinare che avvia su impulso del Ministero della Giustizia (che però ha la discrezione dell’azione penale) e della procura generale della corte di Cassazione (che invece ha l’obbligo dell’azione penale). Quest’ultimo organo svolge la funzione di pm nei procedimenti a carico dei magistrati, un po’ come avviene anche nei tribunali penali: il pg di Cassazione svolge le indagini preliminari entro un anno dall’acquisizione della notizia di illecito. Entro due anni il pg presenta un decreto di archiviazione, o la richiesta di procedere a dibattimento presso il Csm, che a sua volta è tenuto a pronunciarsi entro altri due anni. Le sanzioni previste vanno dall’ammonimento (un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato) alla censura (il richiamo per i casi più gravi), alla perdita dell’anzianità professionale per un massimo di due anni, fino alla sospensione dall’attività di magistrato e dallo stipendio, e alla rimozione. Non sono ancora disponibili però i dati dei procedimenti conclusi negli ultimi due anni. I procedimenti avviati nel 2011 Vitaliano Esposito, attuale procuratore generale della Cassazione nella relazione d’apertura dell’anno giudiziario 2012 ha illustrato i dati relativi ai procedimenti avviati nel 2011. Nel 2011 alla procura generale sono arrivate 1.780 notizie di possibile rilevanza disciplinare (+28,8 per cento rispetto al 2010). Il settore pre-disciplinare della Corte di Cassazione, che valuta sui singoli casi, ne ha definiti 1.441: nel 93 per cento si sono chiusi con un’ archiviazione; nel 7 per cento con l’avvio di azione disciplinare. Sono ancora pendenti 861 casi. Il settore disciplinare, che avvia l’azione dopo le valutazioni del pre-disciplinare, ha chiuso le indagini in 134 casi: il 51 per cento chiusi con la richiesta di discussione orale (al Csm), il 43 per cento con la “richiesta di non farsi luogo”, e il 6 per cento con “riunione ad altro procedimento”. La pendenza media dei procedimenti è passata dai 348 giorni nel 2010 ai 405 giorni nel 2011: a fine anno erano pendenti 157 procedimenti, di cui 37 per “pregiudiziabilità penale”. I magistrati oggetto di procedimenti disciplinari nel 2011 sono stati nel 72 per cento dei casi giudicanti, nel 28 per cento requirenti. I capi d’accusa Su un totale di 169 incolpazioni presentate dalla Procura generale nel 2011 (e comprendenti anche casi del 2010): al primo posto, con 45 casi (27 per cento del totale), i ritardi nel deposito di provvedimenti (-27 per cento rispetto al 2010, con 62 casi); al secondo posto, 26 casi, la violazione di norme processuali penali o civili da parte del magistrato (15 per cento del totale; invariato rispetto all’anno precedente); al terzo posto, 23 casi, la commissione di reati (ingiuria, diffamazione, altro) da parte dei magistrati (14 per cento del totale); 16 i casi di ritardi e negligenze nell’attività d’ufficio (il 9 per cento del totale; nel 2010 erano il 4 per cento); 9 i casi di provvedimenti abnormi presi dal magistrato (il 5 per cento, nel 2010 erano il 2 per cento); 9 i casi di abuso della qualità o funzione di magistrato (il 5 per cento, nel 2010 erano il 2 per cento). Misure cautelari Nel 2011 la Pg di cassazione ha chiesto l’applicazione di misure cautelari per 9 magistrati. Il ministero della Giustizia ne ha fatto richiesta per altri 3 magistrati. La sezione disciplinare del Csm in questi casi ha adottato l’ordinanza di trasferimento provvisorio per 5 magistrati, e il trasferimento d’ufficio per gli altri 7. Giustizia: ex dirigente Digos ammette l’utilizzo di torture per estorcere confessioni ai brigatisti di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 12 febbraio 2012 Per chi lavorava in polizia non c’era niente da scherzare negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando le Brigate Rosse sparavano e lo Stato combatteva contro i gruppi della lotta armata la sua battaglia più difficile. E non scherzava certo l’allora vicequestore Umberto Improta - che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo - quando affibbiò a un suo collega specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Sapeva quello che diceva, Improta, e stando alle denunce (tutte archiviate) presentate in quegli anni da alcuni brigatisti interrogati dal professore, il soprannome sintetizzava bene i suoi metodi di lavoro. Metodi che, per come li raccontarono i brigatisti che li subirono, e per come li conferma oggi l’ex dirigente della Digos Rino Genova nelle testimonianze rilasciate prima a Nicola Rao, autore del libro “Colpo al cuore” (Sperling & Kupfer), e poi alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, che l’altro ieri si è occupata del professor De Tormentis, hanno un solo nome: torture. Con la tecnica del waterboarding, per la precisione, e cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell’annegamento e in qualche caso anche gli effetti. Il programma condotto da Federica Sciarelli ha raccolto anche la testimonianza di Enrico Triaca - Br che nel 1978 subì il trattamento della squadra guidata dal professore. Inoltre ha preferito per ora non diffondere il nome di De Tormentis. Il Corriere sceglie invece di farlo dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato. Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l’avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: “Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità”. Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere. Se - come dicono - era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette. Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse? “Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da una azione decisa dello stato”. Una azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori? “Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome”. Ciocia sostiene che “non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi”. Arriva a dire che “Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia”, e su Triaca si lascia scappare un ambiguo “lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano”. E insiste pure: “La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci”. “Quei metodi”, “quei sistemi”, “quelle pratiche”: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia: “Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi”. Lettere: a Regina Coeli viviamo nel gelo più assoluto, i termosifoni non funzionano www.radiocarcere.com, 12 febbraio 2012 Pubblichiamo la lettera, inviata a Radio Carcere e letta durante la puntata di giovedì 9 febbraio in onda su Radio Radicale, scritta da una persona detenuta nella VI sezione del carcere Regina Coeli di Roma. Sezione dove 150 detenuti vivono al freddo, perché non ci sono termosifoni funzionanti. Nella lettera si dà notizia anche di un decesso di un detenuto. “Carissima Radio Carcere, ti scrivo per informarti che nella VI sezione del carcere di Regina Coeli è emergenza freddo. Infatti in questa sezione i riscaldamenti sono completamente spenti e tutti noi, 150 detenuti ospitati in questa sezione del carcere di Regina Coeli, viviamo nel gelo più assoluto. Inoltre, da giorni e giorni non possiamo neanche lavarci in quanto nelle docce non c’è acqua calda ma c’è solo acqua gelida, e noi non possiamo rischiare di ammalarci perché altrimenti rischiamo di non essere curati. Dovresti vedere cosa ci inventiamo per resistere al freddo incredibile che fa qui dentro. Infatti le coperte scarseggiano e i nostri vestiti non sono adatti ad affrontare temperature tanto basse. Pensa che per resistere al freddo che c’è nelle celle siamo costretti a lasciare accesi i fornelletti da campeggio che usiamo per cucinare, ma abbiamo paura perché, soprattutto di notte, richiamo di addormentarci con i fornelletti accesi. Purtroppo ti informo anche che qui a Regina Coeli il freddo ha già fatto la prima vittima. Infatti, qualche giorno fa è morto un nostro compagno detenuto e noi siamo convinti che sia morto anche per il gelo che c’è nelle nostre celle. L’ennesima morte in carcere che si poteva evitare e per cui noi abbiamo anche protestano pacificamente con la battitura delle sbarre. Chiediamo che qualcuno intervenga per aiutarci perché qui la situazione si sta facendo davvero pericolosa e perché non riteniamo giusto abbandonarci a noi stessi e farci fare la galera al freddo e al gelo. Ti segnaliamo infine che qui, oltre la freddo, viviamo in condizioni igieniche a dir poco spaventose e siamo ammassati in 6 persone dentro celle di appena 15 mq. Possibile che, oltre al direttore del carcere, nessuno intervenga? Possibile che la Polverini sia così insensibile e che le Asl siano così indifferenti alla nostra degradata realtà? Tramite Radio Carcere abbiamo saputo che è venuto qui in visita il Presidente del Senato, che però non è stato portato né nella nostra sezione, né nella VII sezione, forse avevano paure che vedesse troppo degrado! Cara Radio Carcere, tremanti dal freddo, ma sicuri che ci darei voce ti saluto insieme ai mie compagni detenuti e dì ai Radicali che fanno bene ad astenersi sul voto per la legge svuota carceri perché è una presa in giro”. Fabio e i suoi compagni detenuti nella VI sezione del carcere Regina Coeli di Roma Roma: Garante Marroni; tossicodipendente muore a Regina Coeli; carcere ingestibile, va chiuso Il Messaggero, 12 febbraio 2012 Il Garante Angiolo Marroni accusa: “È un carcere ingestibile. La Costituzione parla di pena e reinserimento, qui c’è solo pena. Mancano guardie, educatori, psicologi. Il direttore è d’accordo”. “Sveglia!”. All’appello delle guardie - erano le 6.30 di ieri mattina e oltre le sbarre di Regina Coeli baluginava un cielo biancastro - non ha risposto. Nessun movimento sotto la coperta logora. Non si è serrato la testa sotto il cuscino, come reagiscono istintivamente molti detenuti. Non si è stiracchiato sulla branda. Neanche il suo compagno di cella - IV sezione del penitenziario più famigerato d’Italia - si era accorto di nulla. Tiziano De Paola, 30 anni, di Tor Bella Monaca, arrestato a novembre per spaccio di stupefacenti, era già morto da 6-7 ore. Lo hanno certificato le macchie ipostatiche sulla schiena. Il giovane, tossicodipendente finito nel giro dei pusher, venerdì aveva ricevuto la visita della convivente e non aveva manifestato problemi particolari. Eppure, di lì a poco, il suo cuore ha ceduto. Resta dunque il mistero. E un dubbio: un’ultima dose fatale? n magistrato ha disposto l’autopsia, la direzione un’inchiesta interna, vicino al corpo non sono stati trovati oggetti legati al consumo di stupefacenti. In ogni caso ieri mattina, appena la notizia è filtrata, il problema dell’inadeguatezza del carcere trasteverino (dal quale tre settimane fa sono evasi un albanese e un romeno calando le lenzuola annodate come in un film) si è riproposto con forza. “Sarà la magistratura - dice Angiolo Marroni, il Garante dei detenuti nel Lazio - ad accertare le cause di questo decesso, il secondo in un mese. Ormai è evidente: Regina Coeli è ingestibile, ingovernabile. Non può garantire condizioni di vita accettabili. Secondo la Costituzione, il carcere dovrebbe essere pena e reinserimento. Qui è solo pena”. Ma può essere stata un’overdose? “Non lo escludo. Il ragazzo è morto dopo aver visto i familiari, e ai colloqui succede di tutto. La vigilanza non è adeguata, possono aver trovato il modo di passargli la droga”. Accusa grave... “lo so - sbotta Marroni - ma ormai è tempo che il Dap, l’amministrazione penitenziaria, e il ministro della Giustizia intervengano: a Regina Coeli mancano guardie, educatori, psicologi. Basta, va chiuso”. Il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani, la pensa come lei? “Il direttore, bravissima persona, lo sa, è d’accordo. Solo che non può dirlo”. Eugenio Sarno, segretario della Uil penitenziari, accredita anche lui l’ipotesi-overdose: “Se per il trentenne di Regina Coeli il decesso pare essere sopraggiunto per assunzione di stupefacenti, gli altri due sono avvenuti per malori improvvisi”, ha detto ieri riferendosi ai detenuti morti a Bologna e Campobasso. E alla stessa conclusione di Marroni arriva il consigliere regionale Fabio Nobile: “Ancora una volta, purtroppo, la drammaticità dei fatti vale più delle tante denunce... Regina Coeli va chiuso!”. Donato Capece, del sindacato Sappe, la vede invece dal punto di vista delle guardie carcerarie: “Regina Coeli è sovraffollata da oltre 1.200 detenuti per circa 700 posti letto e ha un reparto di polizia penitenziaria carente di 70 unità. Ciò deve far riflettere sulla validità di mantenere i tossicodipendenti, che sono un terzo del totale, in carcere. Va attivato un circuito differenziato”. Il dibattito, insomma, è partito. L’ultima denuncia sul degrado dell’ex convento secentesco trasformato in prigione a fine 800 risale allo scorso Natale, dopo un sopralluogo dei Radicali. “Abbiamo visto celle sporche di 7 metri quadrati con 3 detenuti - raccontò Rita Bernardini - e celle doppie, di 14 metri, con stipati 6 detenuti”. Ancora: “I lavandini perdono, due docce su tre non funzionano, mancano acqua calda, riscaldamento. E in alcune celle addirittura i vetri alle finestre”. Enna: detenuto straniero tenta suicidio; dal carcere lettera per chiedere condizioni più dignitose La Sicilia, 12 febbraio 2012 Un detenuto del carcere di Enna, di origini straniere, ha tentato poco dopo la mezzanotte di ieri, di togliersi la vita impiccandosi con le lenzuola alle sbarre della finestra del bagno della cella. A salvare l’uomo che respirava già a fatica, gli agenti della polizia penitenziaria che stavano effettuando i controlli notturni. Gli agenti hanno immediatamente praticato le procedure di pronto soccorso, trasferito l’uomo in infermeria e da là, dove era già arrivato il personale del 118 si è provveduto al trasferimento in ospedale. Nei giorni scorsi, lo stesso detenuto si era causato delle ferite con una lametta da barba, ferite che hanno richiesto circa trenta punti di sutura. Anche in quel caso il tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria ha evitato che il proposito del detenuto diventasse realtà. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il più rappresentativo della categoria, ha voluto esprimere il proprio compiacimento nei confronti di quanto fatto dagli agenti in servizio presso il reparto di Enna; nel contempo i rappresentanti locali del sindacato, Filippo Bellavia e Giuseppe Balsamo, hanno lanciato un nuovo allarme sulle condizioni di vita nel penitenziario ennese dicendo: “Attualmente sono circa 190 i detenuti ristretti nel penitenziario ennese ma giornalmente, giungono altri detenuti. L’evento di ieri potrebbe passare inosservato, ma il Sappe ritiene fondamentale, ribadire che della Polizia Penitenziaria non si deve parlare solo per ragioni negative. Ci si ricorda della “città sommersa”, quella del Carcere di Enna, solo una volta all’anno e gli altri 364 giorni? Nessuno ha interesse verso i Baschi azzurri della Polizia Penitenziaria, nessuno viene a verificare se i posti di servizio rispettano le normative sulla sicurezza e sull’igiene. Vi è una forte carenza di Agenti, a queste carenze di aggiungono anche quelle strutturali e i carichi di lavoro che incidono pesantemente sulla serenità dei poliziotti, che effettuano oltre 36 ore settimanali”. I detenuti scrivono: “vogliamo pagare le nostre colpe in modo dignitoso” La visita del Cardinale Ivan Dias al carcere di Enna è certamente stata molto toccante perché ha permesso al cardinale di conoscere ed ascoltare i reclusi i quali, tramite il discorso di un loro compagno - E. F. - hanno espresso tutta la loro gratitudine per questa visita che giunge nel giorno della Madonna di Lourdes. Già in mattinata i detenuti avevano partecipato alla messa celebrata dal cappellano Don Giacomo Zangara, alla presenza della sezione dell’Unitalsi di Enna, la confraternita della Visitazione e i volontari del carcere. Il cappellano ha presentato l’attività pastorale che si svolge dietro le sbarre e sottolineato la diversità culturale del carcere ennese che non divide, ma unisce. Poi il cardinale, che ha donato ai detenuti una corona del Rosario, ha seguito attentamente la testimonianza dei reclusi raccontata dal detenuto E.F.: “Non ho mai incontrato un Cardinale anche se la Chiesa, con le visite continue del Vescovo Pennisi, di suor Alberta, di tanti volontari e soprattutto con la presenza preziosa e indispensabile del nostro Cappellano Padre Giacomo, la incontriamo quotidianamente attraverso tante iniziative”; spazio poi ai disagi della vita carceraria a causa del sovraffollamento, ma apprezzamento per “il gesto di Sua Santità, il nostro Papa Benedetto XVI che ha visitato il carcere di Rebibbia a Roma. Noi tutti abbiamo ricevuto grande speranza dalla Sue parole affinché la pena non si trasformi in tortura”. “Eminenza - ha detto il detenuto - la Sua visita per noi è la stessa cosa! Dimostra un’attenzione verso di noi che ci conforta e ci commuove. Lei non ha dimenticato i detenuti in occasione della giornata del malato facendo vivere il messaggio del Vangelo che mette insieme i malati ed i detenuti, la visita agli ammalati e la visita ai carcerati”. Toccante il finale della lettera: “Eminenza Reverendissima, noi vogliamo scontare la pena ma in un modo umano e dignitoso, Lei ha trascorso una vita di religiosità in tante parti del mondo, è a capo di tutti i Vescovi dell’India e di importanti missioni della Chiesa, è stato nominato Cardinale da quel grande Papa Santo che è stato Giovanni Paolo II, grazie per averci onorato della Sua illustre presenza, per noi è un grande giorno”. Queste parole hanno commosso il cardinale Ivan Dias e ciò ha lasciato un segno tangibile nel cuore dei detenuti. Sulmona (Aq): convenzione tra Comune e Casa Reclusione; detenuti utilizzati per spalare la neve Adnkronos, 12 febbraio 2012 Il sindaco di Sulmona, Fabio Federico, il Direttore della Casa Reclusione di Sulmona, Sergio Romice in collaborazione con il Corpo di Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Sulmona hanno sottoscritto una intesa finalizzata allo sviluppo di iniziative locali per l’inserimento lavorativo dei detenuti e degli internati. L’intesa è aperta all’adesione di eventuali altri Comuni del comprensorio della Valle Peligna. La convenzione prevede tra l’altro la sperimentazione di programmi e percorsi di giustizia riparativa che prevedono l’impiego a titolo gratuito e volontario di detenuti e internati in attività di manutenzione, pulizia e recupero del patrimonio artistico, ambientale e di interesse pubblico del comprensorio di Sulmona e della Valle Peligna. L’iniziativa è svolta sotto il patrocinio del Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nell’ambito del progetto nazionale per il recupero del patrimonio ambientale e di interesse pubblico, storico ed artistico. La prima iniziativa di attuazione dei contenuti della convenzione prevede l’impiego n. 8 detenuti e n. 7 internati in attività di rimozione della neve da siti di interesse pubblico nel comune di Sulmona nei giorni 13, 14 e 15 Febbraio 2012.Nei giorni scorsi proprio per le abbondanti nevicate il Comune aveva fatto ricorso all’ausilio di 60 militari dell’esercito. Bari: nove detenuti in 25 mq, umidità e buio in celle al confine della dignità Corriere del Mezzogiorno, 12 febbraio 2012 I volti dei detenuti. I loro sguardi. Stupiti. Increduli. A tratti indecifrabili. Sperano forse che in questa grigia e fredda giornata di febbraio i due visitatori che camminano per i corridoi siano forieri di novità. Non è così. Ma sono quegli occhi rassegnati a segnare il confine. Tra il cuore della città e il carcere di Bari. Perché dopo aver varcato quella soglia i detenuti metteranno da parte dignità e intimità. Al di là dei reati di cui sono responsabili, saranno costretti a dormire quasi uno sull’altro su letti a castello che sfiorano il soffitto, impareranno a condividere per quasi 20 ore al giorno, in 9 persone, uno spazio non più grande di 25 metri quadri. Dove pacchi di pasta, confezioni di carne, insalate, tegami, cestini ricolmi di rifiuti, borsoni, scarpe, panni di ogni tipo e figurine di santi, sono sparpagliati ovunque in quella minuscola cella. E i benefici non arriveranno neppure con il decreto “svuota carceri” della ministra Severino che in questi giorni ha ottenuto la fiducia alla Camera. Perché il carcere di Bari è una casa circondariale e non di reclusione: cioè, che il 70% dei detenuti presenti sono in attesa di giudizio (quindi non possono essere scarcerati) e quei pochi definitivi hanno più di 18 mesi da scontare (il decreto prevede di estinguere l’ultimo anno e mezzo di detenzione agli arresti domiciliari) e molti di loro non sono nelle condizioni di poter lasciare l’istituto penitenziario perché hanno legami con la criminalità organizzata. Diverso è invece per le carceri di reclusione (come Turi, Lecce e Foggia) dove sono ristretti i condannati in via definitiva: qui i problemi di sovraffollamento saranno più gestibili. Esaminati i punti principali del decreto, a conti fatti dall’istituto penitenziario di Bari, usciranno a malapena una trentina di detenuti. Nulla rispetto ai numeri del sovraffollamento: 508 detenuti rispetto alla capienza di 292 dettata dai parametri dell’Unione Europea. La direttrice: l’ultimo decreto non svuoterà le nostre celle, usciranno in 30 “Non sortiremo alcun beneficio dal decreto “svuota carceri”, nell’istituto di Bari il problema del sovraffollamento resterà”. La giovane direttrice del carcere, Lidia de Leonardis, è chiara su questo punto e spiega anche le ragioni. “In una casa circondariale, di regola, i detenuti sono in attesa di giudizio e dunque non possono lasciare la struttura. I definitivi - spiega - sono una piccolissima minoranza e la pena che devono scontare è superiore ai 18 mesi (il decreto prevede i domiciliari per terminare la pena, ndr) e dunque anche in questo caso non potranno essere scarcerati. C’è da aggiungere che molti di loro non hanno un domicilio certo e dunque dove andrebbero? Oltre al fatto che la valutazione finale prima della scarcerazione spetta al giudice di sorveglianza. Quello che davvero ci aiuterebbe - continua - è la norma che prevede che gli arrestati in attesa di convalida non vengano trasferiti subito in carcere, ma restino nelle stanze di sicurezza della polizia giudiziaria. Ma non c’è ancora una vera organizzazione, soprattutto da un punto di vista logistico”. A questo proposito c’è da aggiungere che per questa tipologia di arrestati “c’è un lunghissimo iter immatricolazione e di allocamento - spiega ancora la direttrice - insomma una pratica lunga che dopo 2 giorni potrebbe essere già chiusa se il fermo non viene convalidato o se all’arrestato vengono concessi gli arresti domiciliari”. Sull’aumento dei detenuti stranieri De Leonardis conclude che “sono proprio loro quelli con maggiore problematicità e sui quali si concentra molto il lavoro degli operatori sociali”. Pordenone: proposta Consigliere Giannelli “una sezione 41-bis nel carcere, per avere più soldi” Messaggero Veneto, 12 febbraio 2012 Prevedere all’interno del nuovo carcere di Pordenone una sezione 41-bis (destinata ai detenuti per reati più gravi come la mafia) in maniera tale da costituire un “valore aggiunto” per ottenere i finanziamenti destinati a costruire la struttura in Comina. È la richiesta che il consigliere del gruppo Misto, Francesco Giannelli, rivolge all’amministrazione comunale. L’esponente politico chiede conto al primo cittadino anche sui fondi comunitari Pisus a fronte della denuncia del consigliere regionale Brandolin secondo il quale c’è il rischio che i Comuni, non riuscendo a rispettare i termini per rendicontare le iniziative, perdano la possibilità di accadere alle risorse. In tal senso si chiede quante e quali iniziative siano state richieste nell’ambito del programma comunitario; per quali importi; se sia stata fatta un’azione di monitoraggio presso la Regione per conoscere le relative tempistiche; se vi siano rischi di perdere i fondi Pisus. Il Comune ha “scommesso” sui fondi Pisus per una serie di progetti volti a riqualificare il centro urbano anche in chiave commerciale. Bolzano: detenuto denuncia di essere stato picchiato, il magistrato “foto-segnala” tutti gli agenti Alto Adige, 12 febbraio 2012 La Procura vuole fare chiarezza: tutti i 70 agenti della polizia penitenziaria in servizio a Bolzano saranno “foto-segnalati” e poi ogni singola foto verrà mostrata al detenuto, che ha denunciato di essere stato picchiato dalle guardie, il giorno della rivolta. La rivolta in carcere di qualche settimana fa, dunque, sarebbe scoppiata dopo che alcuni agenti della polizia penitenziaria avrebbero picchiato un giovane marocchino. Gli agenti negano, ma il sostituto procuratore Axel Bisignano vuole vederci chiaro e ha aperto due indagini parallele sulla vicenda: la prima inchiesta ha il compito di stabilire quanti detenuti hanno effettivamente preso parte alla rivolta, danneggiando in modo serio tutto il primo piano del carcere. Una settimana fa sono stati denunciati sei detenuti. La seconda inchiesta, invece, dovrà stabilire se le dichiarazioni del leader della rivolta sono vere. Per questo motivo tutti e settanta agenti della polizia penitenziaria del carcere di Bolzano dovranno essere “foto-segnalati”. In parole povere: in questi giorni gli inquirenti stanno fotografando tutti gli agenti. Ogni singola immagine verrà poi mostrata al detenuto che dichiara di avere subìto violenza. Tra i “foto-segnalati” c’è anche la campionessa di pattinaggio Carolina Kostner, che a tutti gli effetti è un agente dell’istituto penitenziario del capoluogo altoatesino. Gli inquirenti vogliono capire se il marocchino dice la verità o meno. Se riconoscerà i suoi presunti aggressori - e risulterà che il giorno della rivolta erano realmente di turno in carcere -, allora il sostituto procuratore deciderà di sentire gli agenti. Per il momento, in mano agli investigatori, c’è solo un certificato medico, che riporta la data della rivolta. Ma secondo la documentazione, il giovane detenuto sarebbe caduto dalle scale procurandosi ferite alla schiena e al volto. I danni al primo piano del carcere - quello che ospitava la seconda sezione - si aggirano attorno ai 20 mila euro. Il giorno della rivolta, in mattinata, il marocchino afferma di essere stato convocato presso l’ufficio matricola. Gli agenti gli avrebbero notificato un’ulteriore sentenza, confermandogli di fatto che la sua permanenza si sarebbe prolungata. Ma il detenuto avrebbe iniziato ad agitarsi, spiegando agli agenti che ci doveva essere un errore. Da qua in poi le dichiarazioni cambiano: il marocchino dice di avere subìto violenza fisica, perché cercava di spiegare la propria posizione. Secondo gli agenti, invece, il detenuto sarebbe stato riportato in cella al primo piano e poi sarebbe caduto dalle scale, riportando ferite al volto e alla schiena. Il leader della rivolta ora si trova in un altro carcere e attende di vedere tutte le settanta foto degli agenti di Bolzano. È scontro aperto tra il sindacato Uil penitenziari e il carcere Il sindacato accusa la direzione di non aver gestito in modo adeguato l’inchiesta aperta per scoprire eventuali pestaggi. Da una parte il sindacato Uil penitenziari conferma che tutte le guardie carcerarie dell’istituto penitenziario di Bolzano (70 in tutto) sono state “foto-segnalate” - tra cui anche la pattinatrice gardenese Carolina Kostner - nell’ambito di un’inchiesta aperta, per scoprire presunti pestaggi avvenuti ai danni di un detenuto. Dall’altra, il procuratore capo Guido Rispoli spiega che l’iniziativa riguarda solo gli agenti effettivamente in servizio e non gli sportivi. La delicata inchiesta parte dalla denuncia di un detenuto marocchino, che lamenta di essere stato picchiato da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Dopodiché scoppiò la rivolta. “Abbiamo aperto un fascicolo per verificare la fondatezza delle accuse”, conferma il procuratore capo Guido Rispoli. I carabinieri hanno così provveduto all’acquisizione di foto degli agenti da presentare poi alla presunta vittima del pestaggio per un’eventuale identificazione. Il sindacato accusa la direzione del carcere di Bolzano di essersi “preoccupata soltanto di invitare verbalmente il personale a recarsi nella caserma dei carabinieri per effettuare le foto, semmai anche in attività di servizio, senza alcuna disposizione formale”. Secondo la Uil, tra gli agenti “schedati” ci sarebbe anche Carolina Kostner, che fa parte del gruppo sportivo delle Fiamme Azzurre e da anni non opera nel carcere. Secondo il sindacato “questa generalizzazione, che ha portato anche alla fotosegnalazione della Kostner, che notoriamente non è impegnata in compiti operativi e non è presente a Bolzano, nuoce gravemente all’immagine del Corpo ma anche alla professionalità di chi è deputato ad accertare i fatti per cui si procede”. Il procuratore Rispoli ha poi spiegato che l’iniziativa ha riguardato “solo gli agenti effettivamente in servizio e non è stata limitata a un numero ristretto di agenti per non danneggiare l’inchiesta”. Porto Azzurro (Li): i Sindacati di Polpen; in carcere troppa violenza, rischiamo la pelle Il Tirreno, 12 febbraio 2012 Un’escalation di violenza. I primi campanelli d’allarme a gennaio, quando un detenuto ha aggredito e mandato al pronto soccorso tre agenti. Poche ore più tardi un altro recluso fu salvato dagli agenti mentre tentava di suicidarsi. La tensione è salita fino a pochi giorni fa, quando un altro carcerato, non nuovo a episodi del genere, ha finto il suicidio e, una volta fatto entrare l’agente in cella, lo ha malmenato. Sempre di questi giorni è la protesta di Antonio Casu che, per ottenere il trasferimento in Sardegna, è in sciopero della fame e della sete da quasi un mese. “Ormai quel carcere è solo un deposito di carne, la situazione non è più sostenibile”. Lo sfogo è di un agente della polizia penitenziaria che non riesce a trattenere la rabbia dopo l’ennesimo - o meglio gli ennesimi - episodi di violenza che si sono verificati nel carcere di Porto Azzurro. Tensione. “Un’altra volta ancora sono accaduti fatti gravissimi che hanno messo a rischio la sicurezza dell’intero istituto”. A sostenerlo sono, in una nota congiunta, i sindacati degli agenti di polizia penitenziaria Fsa-Cnpp, Sappe, Sinappe e Uilpa, dopo un nuovo spavento. “Nell’arco di due giorni - dicono i sindacati - si sono verificati prima un pestaggio collettivo da parte di numerosi detenuti, uniti contro un altro recluso con totale indifferenza della presenza degli agenti di custodia - accusano i sindacati - poche ore dopo si sono presi a botte, procurandosi ferite e ossa rotte, altri due detenuti. La rissa è avvenuta di notte quando, orma si sa bene, il numero degli agenti è fin troppo risicato”. I detenuti sono troppi, a fronte di un numero di agenti esiguo. L’accusa è diventata una richiesta di aiuto, messa nero su bianco dai rappresentanti degli agenti che hanno inviato una lettera al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maria Pia Giuffrida, per denunciare la situazione in cui versa il penitenziario elbano. “Ricordiamo, giusto per la cronaca - dicono con amarezza i sindacati - che attendiamo da quasi un mese che il detenuto che ha aggredito quattro agenti in due diverse occasioni venga allontanato - fanno presente al provveditore - lei stessa promise di allontanare immediatamente chi si fosse reso protagonista di aggressioni. Ma quelle parole erano vuote di significato”. La protesta degli agenti si può riassumere in numeri. Con l’arrivo recente di 40 reclusi dalle Sughere, in seguito alla chiusura di un padiglione del carcere livornese, gli ospiti di Porto Azzurro hanno superato le 400 unità, mentre gli agenti sono 120. “L’organico ideale sarebbe il doppio - fanno sapere i sindacati - con questi numeri non siamo in grado di garantire la sicurezza nell’istituto”. Alle condizioni già complicate si aggiungono alcune emergenze che tolgono energia e numeri al corpo di custodia. Servono uomini per garantire il piantonamento in ospedale di Antonio Casu, il detenuto in sciopero della fame da diversi giorni, così come servono uomini (11 unità giornaliere totali per due detenuti) per allestire l’unità fissa nell’infermeria del carcere. “Finisce che spesso ci si ritrova, con questa coperta corta, a gestire di notte i 270 detenuti del primo e secondo reparto con solo tre agenti - dicono dai sindacati - il provveditore ci dica dove é la sicurezza”. Qualità della detenzione. Il sovraffollamento non è l’unico fattore a generare tensione in cella. Non è da meno il mix esplosivo tra i detenuti con pene lunghe e i nuovi innesti con pene più brevi, ben più turbolenti. A questo si aggiunge la riduzione progressiva delle celle singole - divenute ormai rarità - e il taglio alle attività lavorative (non c’è più la tipografia e da salterà anche l’officina e la falegnameria) che incidevano - e non poco - sulla qualità della detenzione nell’istituto. Torino: attacco hacker di Anonymous al sito del carcere, contro arresti degli attivisti No Tav Adnkronos, 12 febbraio 2012 Attacco degli hacker Anonymous al sito del carcere di Torino dove sono detenuti alcuni attivisti del movimento No Tav, arrestati nelle scorse settimane per gli incidenti intorno al cantiere della Torino-Lione avvenuti la scorsa estate. Sull’home page del sito della casa circondariale delle Vallette gli hacker hanno inserito il link a un comunicato rivolto “all’attenzione dei cittadini italiani” con cui si deplora il “trattamento riservato ai No Tav arrestati” e si avverte “per l’ennesima volta volete provare a dividere un movimento che si è dimostrato tanto unito quanto determinato, ma com’è già stato dimostrato non ci riuscirete”. “Anonymous si unisce ancora una volta nella lotta contro un’opera inutile e costosa. Ancora una volta - conclude il comunicato - dalla parte dei No Tav e del popolo”. Cinema: il film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, girato a Rebibbia e dedicato ai detenuti La Stampa, 12 febbraio 2012 Davanti alla cascata di applausi e commozione che ha accolto ieri il loro film, unico italiano in gara alla Berlinale, subito entrato nella rosa dei possibili premiati, i fratelli Taviani spiegano che “Cesare deve morire” è dedicato ai detenuti. Non solo quelli che l’hanno interpretato, mettendo le loro facce rocciose, intense, vissute, al servizio del testo shakespeariano, ma anche a tutti gli altri: “Speriamo che il nostro film serva a guardare con più attenzione la situazione nelle carceri italiane, vogliamo che chi andrà a vederlo ripensi alle tragedie dei reclusi che si impiccano, alla realtà delle celle sovraffollate. Ci auguriamo che, nella nostra società, in fondo non troppo diversa da quella in cui è ambientato la vicenda, non ci siano Cesari da uccidere e si riesca fare qualcosa per mutare una situazione drammatica”. Prodotto da Kaos Cinematografica in collaborazione con Rai Cinema, distribuito dalla Sacher, il film (dal 2 marzo sui nostri schermi), è stato girato nel braccio di Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia: “L’idea di partenza ce l’ha data una nostra amica, quando un giorno ci ha raccontato di essere andata a teatro e di aver pianto per la commozione”. Il palcoscenico era tra le sbarre, lo stesso dove, da 10 anni, sotto la guida di Fabio Cavalli, i prigionieri mettono in scena le opere più varie. Davanti a uno spettacolo così speciale, mafiosi, camorristi, seguaci della ‘ndrangheta alle prese con i versi dell’Inferno di Dante, i Taviani hanno sentito chiara l’ispirazione alla base dell’impresa: “Il teatro può essere una cura. Abbiamo pensato a Shakespeare e ci siamo presi la libertà di smembrarlo”. Per i ruoli dei protagonisti del Giulio Cesare sono stati selezionati detenuti condannati per reati minori, altri che hanno beneficiato del condono, altri “fine pena mai”, quelli che prima si chiamavano ergastolani: “Una materia dolorosa. Abbiamo provato a far incontrare la drammaticità del loro passato con il presente del testo che si accingevano a interpretare”. Ne viene fuori un viaggio affascinante, nessuno stanco lirismo, nessuna idealizzazione dei “peccatori” che cercano riscatto nella recitazione, piuttosto un miscuglio vivo, incandescente, di storie di vita e battute shakespeariane, dialetto quotidiano (romanesco e napoletano in prima linea) e trasfigurazione poetica. Settantasei minuti che scorrono via tutti d’un fiato, dall’inizio bruciante, con i provini in bianco e nero in cui i detenuti declinano le loro generalità, prima fra le lacrime e poi in toni rabbiosi, alla rappresentazione finale dove, insieme al pathos e all’identificazione degli attori con i personaggi, tornano i colori, rossi, dorati, sanguinosi. Perché comunque, nonostante il cinema e la macchina da presa, il carcere resta un inferno: “Il primo impatto è stato impressionante, ci hanno colpito le celle con i letti, almeno cinque insieme, i tavoli con le cose per cucinare. Ma la cosa più scioccante è vedere tanti uomini distesi, in pieno giorno, con gli occhi rivolti al soffitto”. Sullo schermo la battuta chiave arriva nel finale: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata una prigione”. Capire è bello, ma fa anche più male. Lo sanno bene Giovanni Arcuri (Giulio Cesare), Cosimo Rega (Cassio), e soprattutto Salvatore Striano, ovvero Bruto, uno che oggi è attore di mestiere e in carcere ci è rientrato per esigenze di copione. A Berlino ha portato tutto il suo felice stupore, e soprattutto la sua esperienza, che pesa ancora come un macigno: “Per me incontrare l’arte è stato come rinascere, ho capito che un copione e un regista possono fare molto di più di uno psicofarmaco. Leggendo i testi capisci che è già successo tutto, recitando nei panni di Bruto mi sono rivisto nel passato e infatti mi sono molto emozionato”. Striano è entrato in carcere per la prima volta a 14 anni, l’ultima a 25: “Avevo capito che, grazie alla minore età, potevo fare un sacco di reati, poi mi hanno preso in Spagna e mi hanno fatto pagare per tutto quello che avevo fatto prima”. Libero, con l’indulto, nel 2006, Striano ha recitato con Emanuela Giordano e con Umberto Orsini, ha avuto una parte in Gomorra e in altre pellicole di Marco Risi, di Abel Ferrara, di Stefano Incerti. Adesso è in attesa di interpretare, per la Tao2 di Valsecchi, una fiction destinata a Canale 5, titolo Il clan dei camorristi : “In fondo l’attore e il criminale un pò si somigliano”. Droghe: troppi tagli ai fondi per il recupero, così Comunità terapeutiche e Serd muoiono di Pino Ciociola Avvenire, 12 febbraio 2012 Siete tossici? Avete problemi con l’alcol? Vi state rovinando col gioco o con internet o con tutt’e due insieme? Magari siete anche giovani, anzi giovanissimi? Problemi vostri. Anzi, affari vostri, che le dipendenze spesso neppure vengono più raccontate come un disagio e un terribile pericolo. Se poi finirete per morirne o con il cervello bruciato, peccato, dispiace. Purtroppo però c’è la crisi e non è più possibile aiutarvi, né farvi aiutare. Ecco - in sintesi - cosa sta per accadere nel nostro Paese. E se le comunità terapeutiche e i servizi pubblici per le dipendenze hanno salvato centinaia di migliaia di ragazzi negli ultimi decenni, nei prossimi almeno altrettanti giovani (e non) rischiano di andare perduti. Nonostante le dipendenze da stupefacenti siano via via andate moltiplicandosi, diversificandosi e intrecciandosi con certe più recenti, come appunto il gioco d’azzardo o internet. Perché i privati buoni samaritani stanno per essere costretti a smettere di esserlo, affogati nelle spese e nei debiti contratti con le banche. Mentre i budget delle aziende sanitarie locali non hanno più spazio per chi dipende dà qualcosa, sostanza o altro che sia. Meno dello 0,5% della spesa sanitaria. Punto d’inizio della fine: l’abbattimento del fondo generale per le tossicodipendenze. Sarebbe a dire che attualmente, soltanto perché sopravvivano comunità e “Servizi per le dipendenze” pubblici (Serd), servirebbe che ogni Regione destini l’11% della sua spesa sanitaria al contrasto delle dipendenze: la media nazionale è invece attestata allo 0,5%, con Regioni ormai sprofondate allo 0,1/0,2% e altre (poche, le più... virtuose) allo 0,7/0,8%. Il 13% in meno di ingressi. Una prima conseguenza è che i Serd (dai quali bisogna passare obbligatoriamente) mandano assai meno ragazzi nelle comunità, perché i loro bilanci non permettono poi di pagare rette o convenzioni. Così per esempio la “Federazione italiana delle comunità terapeutiche” (Fict) ha avuto complessivamente il 13% in meno di ingressi (non di richieste) nel giro di un anno: il 17% in meno nelle comunità del sud, 15% in quelle del centro e l’8,50% al nord. Non solo, ma gli stessi Serd neppure hanno soldi per fare ricerca e quindi poter intercettare i (vecchi e nuovi) problemi. Sono stati cioè affondati nella più pericolosa delle paralisi, perché gli stili di uso e abuso di sostanze intanto cambiano a velocità impressionante e senza soste. Fine della lotta alle dipendenze? Via via, grazie a questa situazione, ha già da tempo chiuso i battenti il 30% dei servizi che offrivano le comunità. “Soprattutto le residenzialità e quelli per la prevenzione”, spiega Luciano Squillaci, vicepresidente Fict: “I servizi a bassa soglia, quelli drop in e drop out”, come ad esempio le unità di strada. Anche da Squillaci la considerazione finale è identica a quella di qualunque altro operatore: “Se le cose rimangono come stanno, entro tre anni rischiamo di destrutturare completamente il sistema di lotta alle dipendenze. E a dirla tutta è una prospettiva in linea con tutti gli altri servizi legati al disagio e all’emarginazione”. Ire milioni di consumatori. Dunque la seria prevenzione ormai sembra essere una pia illusione. Eppure servirebbe, eccome se servirebbe: basta riguardare i dati che riguardano il nostro Paese, stando all’ultima Relazione governativa sulla droga. Nel 2010 i consumatori di stupefacenti sono risultati 2.924.500 persone, la percentuale d’ingressi in carcere di soggetti che presentavano problemi sociosanitari correlati con la droga è stata il 28%. E infine, l’Italia “continua a collocarsi tra i principali Paesi europei come area di transito e di consumo di sostanze stupefacenti”. Quanto all’azzardo le cose non vanno meglio: oltre un milione e 300mila persone “giocano in modo problematico”, fa sapere il Cnr. Meno operatori, più utenti. Al 31 dicembre 2010 le strutture sociosanitarie dedicate a cura e recupero delle dipendenze erano 1.647, con 554 servizi pubblici (6.793 operatori, cioè meno 9,2% rispetto al 2000 a fronte di un aumento dell’utenza pari al 26,1%). Le strutture del privato sociale erano 1.093 (65,4% residenziali, il 18,5% semiresidenziali e il 16,1% ambulatoriali), con una diminuzione dell’ 1,4% rispetto al 2009. E infine gli utenti assistiti dai Serd nel 2010 erano stati 184.968. Bulgaria: ministro Giustizia chiede assistenza di esperti stranieri per costruzione nuovo carcere Nova, 12 febbraio 2012 La Bulgaria inviterà esperti stranieri a contribuire al progetto per la costruzione di una nuova prigione. Lo ha annunciato oggi il ministro della Giustizia, Diana Kovacheva, citata dall’agenzia “Sofia news agency” nel suo sito online. “Pochi progressi sono stati fatti nel progetto da quando sono iniziate le trattative per trovare un luogo adatto al nuovo penitenziario”, ha detto la Kovacheva. L’assistenza degli esperti stranieri, a giudizio del ministro bulgaro, sarà “vitale”, anche perché l’ultima prigione costruita nel paese balcanico risale agli anni Sessanta del secolo scorso e “nessuno ricorda come stata realizzata”. La Kovacheva non ha escluso la possibilità di una partnership pubblico-privata per la costruzione del carcere. Finché questo non sarà pronto, la Bulgaria userà i fondi offertigli dalla Norvegia per la manutenzione dei penitenziari esistenti.