Giustizia: “domiciliari” per 3.500 detenuti, chiusi gli Opg, celle temporanee nelle Questure La Stampa, 10 febbraio 2012 Circa 3.500 detenuti che potranno tornare a casa, domiciliari per gli arrestati in flagranza di reato, chiusura degli ospedali giudiziari sono alcune delle misure previste per contrastare il sovraffollamento delle carceri italiane. In particolare, il provvedimento, prevede innanzitutto la possibilità di scontare ai domiciliari gli ultimi diciotto mesi di pena per i condannati, se il magistrato lo riterrà: una misura che dovrebbe permettere progressivamente a circa 3.500 detenuti di tornare a casa. Viene poi resa cogente la possibilità di utilizzare le celle di sicurezza di questure e caserme per evitare il cosiddetto “effetto tornello” nelle carceri, cioè le porte degli istituti di pena che si aprono e si chiudono nel giro di tre giorni per circa 23 mila arrestati all’anno. Il provvedimento aveva già superato l’esame del Senato, rispetto al testo uscito da Palazzo Madama è stato modificato su due questioni importanti: è stato introdotto l’uso in prima battuta dei domiciliari per gli arresati in attesa di convalida o di giudizio per direttissima, se sono accusati di reati di competenza del giudice monocratico. Dalla misura sono esclusi i soggetti accusati di furto in appartamento, furto con strappo, rapina e estorsione semplici. La convalida avviene entro 48 ore, non più entro le 96 come in precedenza. Si svolge, salvo che in caso di domiciliari, nel luogo in cui l’arrestato è custodito. A volte anche 1 domiciliari non possono essere applicati. In caso di “mancanza, indisponibilità o inidoneità” del domicilio, “o quando essi siano ubicati fuori dal circondario in cui si è eseguito l’arresto, o in caso di pericolosità dell’arrestato - si legge nel testo - il pm dispone che sia custodito presso idonee strutture nella disponibilità degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che abbiano eseguito l’arresto o che hanno avuto in consegna l’arrestato”. Nel caso in cui manchino, siano inidonee o indisponibili anche queste strutture, o se ricorrono altre specifiche ragioni di necessità e urgenza, “il pm dispone con decreto motivato che l’arrestato sia condotto nella casa circondariale del luogo dove è stato eseguito l’arresto ovvero, se ne possa derivare grave pregiudizio per le indagini, presso altra casa circondariale”. I parlamentari europei possono accedere in visita alle camere di sicurezza e gli istituti di pena. Il testo prevede anche la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, che viene fissata al 31 marzo 2013 e si definisce dove saranno collocati i loro detenuti. In ciascuna Regione dovrà essere concluso uno specifico accordo con l’amministrazione penitenziaria per individuare una o più strutture sanitarie, fra quelle in possesso dei requisiti minimi per le strutture residenziali psichiatriche, da destinare alla sostituzione dell’Ospedale psichiatrico di riferimento. Inoltre, si stabilisce che devono essere definite le rispettive competenze nella gestione delle strutture sostitutive individuando le funzioni del servizio sanitario nazionale e quelle di competenza dell’amministrazione penitenziaria. Vengono anche istituiti presidi di sicurezza e vigilanza situati lungo il perimetro delle strutture, dunque all’esterno dei reparti in cui le strutture si articolano. Secondo la commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, a novembre questa era la situazione che si registrava: nell’Opg di Aversa 221 internati di cui 66 dimissibili; a Barcellona Pozzo di Gotto: 367 internati e 106 dimissibili, a Castiglione delle Stiviere: su 289 internati 78 dimissibili, a Montelupo Fiorentino e Secondigliano, rispettivamente 141 internati per ogni Opg e 45 dimissibili in ogni istituto. Nell’Opg di Reggio Emilia 245 gli internati di cui 106 i dimissibili. Resta la cosiddetta “norma Lusi”: introdotta al Senato con un emendamento a prima firma Luigi Lusi (Pd), retrodata al primo luglio 1988 la possibilità di chiedere risarcimento per ingiusta detenzione. Il decreto, approvato dal Senato il 25 gennaio scorso, deve essere convertito, pena la decadenza, entro il 20 febbraio. Infine, il decreto destina 57 milioni all’edilizia carceraria. Giustizia: addio manicomi giudiziari, mille internati in cerca di una seconda vita di Alberto Custodero La Repubblica, 10 febbraio 2012 Se il decreto Severino martedì alla Camera diventerà legge, il primo febbraio del 2013 avverrà la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari che ospitano i detenuti che, con sentenza passata in giudicato, vengono prosciolti per infermità mentale. Resta non risolto il nodo dei detenuti appartenenti a questa categoria in attesa di giudizio, che restano durante i tre gradi di giudizio ristretti nelle normali carceri, strutture non idonee alle loro condizioni. Il decreto svuota carceri ha sollevato numerose polemiche alle quali il ministro della Giustizia ha replicato. “Nessuno - ha detto Paola Severino - ha mai pensato di rilasciare in libertà persone pericolose: lo stato di detenzione rimarrà per i malati con disturbi mentali che hanno compiuto delitti, ma, con questa riforma sarà incentivata la loro cura e saranno restituiti alla vita civile quelli che sono guariti anche dal male mentale, perché guarire si può. Basta con gli “ergastoli bianchi”. L’associazione “Stop Opg” approva la decisione politica di superamento degli Opg. Ma - memore delle criticità emerse con la normativa Basaglia - ammonisce a non ripetere gli errori avvenuti con la legge 180, nel 1978, con il superamento degli ex ospedali psichiatrici. Allora i malati “ex op” furono per anni abbandonati a se stessi. Oggi, dice “Stop opg”, c’è il rischio che “le venti strutture regionali si trasformino in nuovi Opg sotto mentite spoglie. E c’è il rischio che i detenuti dimessi perché non più pericolosi (ma pur sempre malati) non trovino, una volta “liberi”, strutture idonee ad accoglierli”. Giustizia: sistema carceri, la riforma fragile di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2012 Sulla “questione carceri” il nuovo governo ha proposto e sta facendo approvare misure che a mio avviso hanno sicuramente un senso e possono persino ritenersi necessitate dall’emergenza sovraffollamento. Ma rischiano di essere di corto respiro a fronte della vastità e drammaticità di una situazione che si trascina ormai da decenni. Estendere la possibilità di uscire dal carcere a chi ha un residuo pena di 18 mesi su una pena di quattro anni è sicuramente una misura deflattiva ma, giocoforza, riguarda poche migliaia di persone, se solo si considera che la grande massa dei detenuti - seppur in quelle condizioni - non ha le caratteristiche “sociali” per poterne usufruire. Occorre una politica che eviti in radice la periodica riproposizione dell’emergenza carceri e sappia alzare lo sguardo oltre la contingenza. In altre parole, occorre mettere seriamente mano alle questioni che ora vengono risolte sbrigativamente con il carcere (anzi meglio: relegate nel carcere per nasconderle e dimenticarle) e che determinano infine la questione carceraria: l’immigrazione, il consumo di stupefacenti, la malattia mentale e la marginalità senza più alcuna protezione. Un dato certo (non confutato neppure dai più agguerriti “conservatori”) è che la diminuzione della spesa sociale corrisponde all’aumento della spesa sanitaria e penale. In tempi di ristrettezze economiche potrebbe essere utile invertire la tendenza e limitare queste due ultime voci di spesa attraverso l’incremento della prima. Ne discende che deflazionare il contingente penitenziario non è sufficiente se non si mette mano a una riforma sociale e penale radicale che tenga conto di che cos’è il tessuto sociale ed economico italiano. Il carcere, in questo senso, è un notevole laboratorio perché concentra tutti i problemi irrisolti esterni. Oggi la pena detentiva, in larga parte, non è minimamente in grado di rispondere all’ideale rieducativo, risocializzante, riconciliante previsto dalla Carta costituzionale. Laddove le caratteristiche personali dei detenuti impediscono tali obiettivi (vuoi giuridicamente - come nel caso degli stranieri irregolari - vuoi di fatto - vedi la recidiva dei tossicodipendenti) ecco una situazione che si presta addirittura a essere definita come anticostituzionale. Una risposta non emergenziale si avrebbe rimodulando l’impianto delle misure alternative e creandone di nuove, più utili e coerenti perché la detenzione possa essere un momento di emancipazione anche per chi ora è escluso da questi processi. Vale per gli stranieri, perché se il carcere non fornisce loro strumenti utili a salvaguardare l’esigenza che li ha spinti a migrare (migliorare la propria vita), al termine della pena essi o vengono espulsi o tornano nel limbo della clandestinità. Se invece potessero disporre di simili strumenti è possibile che possano sfuggire al crimine e dal crimine: per contribuire, in patria o in Italia, allo sviluppo sociale ed economico. Allora, non chiusura e deportazione, ma disponibilità a progettare una nuova vita. Quanto ai tossicodipendenti, se la pena - invece che un carcere a “porte girevoli” - diventasse una via alla riabilitazione che tenesse conto delle loro fragilità, potrebbero diminuire i costi umani. Viceversa la “cecità” tariffaria reitera a nastro sempre le stesse situazioni. E la presunzione che questo sia sufficiente ad affermare un principio di giustizia si infrange -non appena il soggetto esce dal carcere - contro la necessità di “farsi”. Giustizia: la soluzione sbagliata; macché svuotarle… le prigioni bisogna costruirle di Maurizio Belpietro Libero, 10 febbraio 2012 La Camera ha approvato il decreto svuota carceri. In totale i deputati che lo hanno vo -tato sono stati 420, molti meno di quelli che ci si sarebbe potuti attendere, dato che a novembre il governo fu battezzato con una fiducia di 556 voti. Tuttavia il problema non è la libera uscita dei parlamentari che sostengono Monti, i quali si assottigliano votazione dopo votazione, bensì la libera uscita di diverse migliaia di detenuti. Tremila secondo alcuni, seimila secondo altri. Tutta gente non pericolosa, assicura il ministro della Giustizia Paola Severino, la quale pare che appena nominata sia stata colpita dalle condizioni di alcune carceri. Certo, le celle delle nostre prigioni non sono confortevoli come quelle norvegesi. A Oslo i criminali li trattano in guanti bianchi e perfino lo squilibrato che ha ucciso 70 ragazzi disarmati gode di un servizio extra lusso, con tv a schermo piatto e palestra per rilassarsi. Da noi, al contrario, le carceri mediamente fanno schifo e sono sovraffollate di detenuti in attesa di giudizio. Alcune patrie galere risalgono al regno papalino, come ad esempio Regina Coeli, mentre altre, tipo San Vittore, sono state edificate subito dopo l’Unità d’Italia e una delle più recenti, Poggioreale, nel 2014 avrà cent’anni. Difficile dunque dare torto al Guardasigilli quando si lamenta della situazione in cui vivono i condannati, e anche chi una condanna non l’ha subita e dunque è da considerarsi innocente. Ciò detto, il problema non si risolve mettendo tutti fuori, ma costruendo nuove prigioni. Quando nel 2006 il Parlamento aprì le celle a 26 mila detenuti, i penitenziari scoppiavano al pari di oggi. In totale dietro le sbarre c’erano 66 mila persone e, secondo le denunce dei volontari che prestavano servi -zio nelle case di pena, per coricarsi ai prigionieri toccava fare i turni. La massiccia scarcerazione per un po’ risolse il problema, evitando suicidi e le rivolte che si annunciavano, ma passati un paio d’anni la questione si è riproposta identica, se non peggio. Un po’ perché molti di quelli messi fuori sono tornati a delinquere come prima e più di prima e, una volta pizzicati, hanno fatto ritorno a casa, quella circondariale ovviamente. Un po’ perché, una volta liberate le celle, nessuno si è posto il problema di costruirne di nuove. Ho fatto una ricerca. Sono almeno 25 anni che si parla dell’emergenza carceri. All’epoca era ancora vivo il pentapartito. Craxi era presidente del Consiglio, Scalfaro ministro dell’Interno, Virginio Rognoni della Giustizia e Franco Nicolazzi responsabile dei Lavori pubblici. Toccò a quest’ultimo, un socialdemocratico di Gattico, provincia di Novara, farsi carico del problema. Come è abbastanza noto, invece di preoccuparsi di costruire in fretta i nuovi reclusori, Nicolazzi si preoccupò di mettersi in tasca una tangente di 2 miliardi di vecchie lire. Da allora sono passati diversi governi. De Mita, Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, di nuovo Amato, di nuovo Berlusconi e di nuovo pure Prodi, ma di fatto è cambiato poco e nulla. I vari ministri che si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni hanno promesso super penitenziari, in grado di contenere l’intera popolazione carceraria, presentando piani e progetti, ma di celle in più non se ne sono viste molte. Eppure non ci vorrebbe tanto: basterebbe vendere ai privati San Vittore o Regina Coeli, che stanno rispettivamente nel centro di Milano e Roma, per costruire con il ricavato quattro o cinque prigioni in periferia. Con la stessa cifra si potrebbero fare capienti e moderne, così da migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Evitando però allo stesso tempo di fare a ogni legislatura un’amnistia o un indulto, che in realtà si risolve in una specie di ora d’aria per i delinquenti abituali. L’operazione potrebbe essere fatta a costo zero, in quanto non peserebbe sulle casse dello Stato. Tanto si guadagna mettendo all’asta le vecchie case circondariali, tanto si spende. Ma forse è proprio questo il problema. Senza maneggi c’è il rischio che qualcuno non ci mangi come è abituato a fare. Oh, certo, conosco l’obiezione degli esperti. Per vendere due edifici storici come San Vittore e Regina Coeli (ma si potrebbero aggiungere anche l’Ucciardone a Palermo e Poggioreale a Napoli) ci vuole tempo, servono le autorizzazioni e poi bisognerebbe cambiare i piani regolatori... Si tratta di critiche che servono a fare ciò in cui l’Italia eccelle, cioè nulla. Infatti ogni contestazione è facilmente superabile, basta volerlo. Per cui mi appello al Guardasigilli. Signora Severino, lei mi pare una persona seria, e facendo l’avvocato ha una conoscenza pratica del problema. Non faccia dunque ciò che hanno fatto i suoi predecessori: amnistie e indulti. Se vuole risolvere la questione delle celle troppo piene, cominci a far smaltire il numero di detenuti in attesa di giudizio. Prima di mandare uno in carcere gli si faccia un regolare processo, evitando in tal modo che i penitenziari diventino una specie di sala d’aspetto in cui le procure parcheggiano gli arrestati. E per quelli che una condanna ce l’hanno, faccia costruire nuove prigioni. Così si avrà la certezza della pena e ai tanti sconti sulla carcerazione di cui i detenuti già godono non si aggiungerà anche quello per sovraffollamento. Giustizia: nel carcere di Asti è stata tortura, ma la tortura non esiste; una sentenza epocale di Susanna Marietti www.linkontro.info, 10 febbraio 2012 Cosa sarà accaduto nel frattempo, ci chiedevamo qualche giorno fa su queste stesse colonne? I due poli della distanza temporale erano quello in cui un giudice di Asti fissava udienze una dopo l’altra con l’evidente scopo di evitare una prescrizione e quello in cui lo stesso giudice mandava assolti tutti gli imputati. Il processo vedeva sotto accusa cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze nei confronti di due detenuti avvenute nel carcere astigiano. Le assoluzioni hanno fatto seguito alla derubricazione del reato: non maltrattamenti aggravati bensì abuso di autorità per due degli imputati. E qui si superavano i tempi della prescrizione. Non maltrattamenti aggravati bensì lesioni lievi per altri due (il quinto è stato assolto per non aver commesso il fatto). E qui il processo andava interamente all’aria perché il reato è perseguibile solo su querela di parte, nel caso in questione mai avvenuta. Cosa sarà accaduto dunque nel frattempo? A pensare male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre, diceva uno che di queste faccende se ne intendeva. Questa volta tuttavia, ora che le motivazioni della sentenza sono state rese note, si apre la possibilità di un dubbio. Forse la scelta del giudice Riccardo Crucioli - che ovviamente non gradiamo nel fatto di mandare assolte persone che hanno usato violenze feroci e sistematiche su chi era sottoposto alla loro cura e custodia - si può intendere altrimenti che come la semplice copertura di malefatte. Le motivazioni della sentenza evidenziano un approccio formalistico che si poteva facilmente evitare interpretando le norme in maniera coerente con la gravità degli accadimenti nel carcere astigiano. Ma forse il giudice ha ritenuto più utile alla causa dei diritti umani un verdetto di assoluzione costruito rigidamente in punta di diritto piuttosto che una condanna a qualche anno di carcere altrimenti raggiunta. Questa sentenza ha qualcosa di epocale. Nelle sue ottanta pagine racconta un sistema di brutalità - detenuti appesi a cardini per i lacci delle scarpe, detenuti cui viene fatto lo scalpo, detenuti privati del sonno e del cibo, detenuti picchiati ripetutamente nel sonno - che è emerso dal dibattimento “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E poi manda tutti assolti. Incredibile. Tre cose eccezionali fa il giudice estensore: 1. Cita per esteso la definizione di tortura scelta dalle Nazioni Unite, per ricordare come l’Italia sia inadempiente di fronte al mondo nel non aver ancora introdotto questo specifico reato nel proprio codice penale; 2. Racconta in maniera puntuale un sistema di violenze e intimidazioni che era, appunto, sistematico, strutturato, organizzato, tollerato. Non singole mele marce, bensì “era possibile per gli agenti porre in essere tali comportamenti poiché si era creato un sistema di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria ed anche con molti dirigenti”. La direzione, varie volte citata, non è estranea a questa “prassi generalizzata di maltrattamenti”. Mai era stato detto così chiaramente: se in una istituzione chiusa quale è un carcere si usa sistematicamente la violenza - e in varie carceri la si usa - le responsabilità non possono essere individuali, poiché il sistema non reggerebbe senza l’omertà anche di chi non vi partecipa direttamente; 3. E qui arriva la conclusione di una sentenza che ci può apparire non da leguleio ma da colui che intende lanciare un messaggio attraverso l’utilizzo anche cavilloso delle norme: il giudice, dopo aver fatto notare come gli episodi ricostruiti fin lì si attaglino perfettamente alla definizione Onu della tortura, dimostra puntualmente come invece il maltrattamento aggravato di cui al capo di imputazione non possa rispondere di quei fatti. Non avendo a disposizione il reato di tortura, il giudice deve cercare altrove. E le uniche possibilità offerte dal nostro codice sono quelle che comportano le due modalità di assoluzione sopra menzionate. L’Italia, richiamata in sede internazionale sulla mancata applicazione della Convenzione Contro la Tortura, si è spesso difesa affermando che l’insieme delle fattispecie di reato previste nel nostro ordinamento sono di per sé sufficienti a coprire ogni ipotesi di tortura, senza necessità di introdurre un reato specifico al proposito. Quel giudice oggi non suggerisce, bensì dimostra, che le cose non stanno così. Essendo la realtà un sottoinsieme della possibilità, quel giudice ci indica degli accadimenti possibili in maniera incontrovertibile (in quanto accadimenti avvenuti nella realtà) per descrivere i quali la definizione di tortura si dimostra perfettamente adatta, ma che tuttavia sono rappresentati nel codice penale italiano da fattispecie di reato tanto lievi da prevedere, una di esse, addirittura la querela di parte. Le ottanta pagine firmate dal dottor Riccardo Crucioli possono, così lette, costituire una pietra miliare della giurisprudenza. Purtroppo - e qui a pensar male ci azzeccheremo sicuramente - quasi nessuno le considererà. Giustizia: Pd; convegno sul sovraffollamento, bene decreto ma serve intervento sistematico Tm News, 10 febbraio 2012 Il decreto Severino, sul quale il Governo ha incassato ieri la fiducia alla Camera, è “un passo” nella giusta direzione, ma per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario serve un “intervento sistematico”. Lo ha spiegato Andrea Orlando, responsabile del Forum Giustizia del Pd, parlando a margine del seminario sul sovraffollamento del sistema carcerario organizzato a Montecitorio da gruppo democratico. Contro il decreto carceri “si è scatenata una propaganda inaccettabile”, ha osservato Orlando, in particolare “da parte della Lega che dimentica di aver fatto fino a ieri battaglie col Pdl per cancellare i processi”. Il “ragionamento complessivo” che propone il Pd si basa sulla necessità di superare “il panpenalismo” e la “legislazione sensazionalistica” che di fatto garantisce una sostanziale “impunità per i colletti bianchi mentre le carceri si riempiono di persone detenute per reati legati alla droga e alla microcriminalità, in buona parte stranieri”. Insomma, “è stato ripristinato il carattere di classe” della detenzione. Per questo servono interventi di depenalizzazione ma anche la riforma della prescrizione “troppo breve per la corruzione”. Il Governo non sembra interessato? “Noi - ha ribadito Orlando - la battaglia la faremo fino in fondo, poi ognuno si prenderà le sue responsabilità”. Tra gli interventi al seminario del Pd sul sovraffollamento carcerario, il giurista Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Csm, si è mostrato scettico sull’efficacia del decreto Severino: per superare l’emergenza, ha spiegato, “l’unico modo è varare l’amnistia o l’indulto, anche se io sono contrario a questi strumenti. Che in ogni caso andrebbero affiancati da riforme strutturali per garantirsi che non ci sia un’altra volta”. Carmelo Cantore, direttore del carcere di Rebibbia, ha dato atto “ai ministri Cancellieri e Severino di aver fatto per la prima volta un discorso di sistema”. Ed ha auspicato un utilizzo del carcere riservato “soprattutto ai condannati per delitti gravi” e alle “detenzioni medie e lunghe”. Mentre Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti dedicata al mondo della detenzione, ha lamentato la scarsa attenzione e la confusione con le quali il mondo dell’informazione tratta questi temi: “Il Tg3 ha detto che 21mila detenuti sarebbero usciti grazie al decreto (riferimento al cosiddetto fenomeno delle porte girevoli, cioè degli arrestati per reati minori che entrano in carcere per uscirne dopo 3 giorni, che il decreto destina invece prioritariamente ai domiciliari o alle camere di sicurezza, ndr). E io so che cosa significa per la gente sentir parlare di 21mila detenuti che escono...”. Giustizia: il ministro Severino; nessun delinquente pericoloso fuori con il decreto-carceri Agi, 10 febbraio 2012 “Nessun delinquente pericoloso potrà uscire dal carcere con questo provvedimento”. È tassativa il ministro della Giustizia, Paola Severino, nel difendere il decreto sulle carceri approvato ieri e che ha innescato forti polemiche in più ambiti politici. “Gli italiani devono stare tranquilli - ha detto il ministro intervenendo telefonicamente alla trasmissione Baobab su Radio1 Rai. Ho letto cose non vere, e cioè che centinaia, migliaia di detenuti uscirebbero dal carcere e poiché in molti, specie gli stranieri, non hanno una casa e quindi non potrebbero essere agli arresti domiciliari, si ritroverebbero liberi. Questa cosa mi indigna perché non è vera: o non si è letto il decreto o si fa della strumentalizzazione di tipo politico, forse approfittando del fatto che gli italiani non possono leggere il contenuto del decreto. Ma, lo ribadisco, nessun delinquente pericoloso, potrà uscire dal carcere con questo decreto”. Il ministro della Giustizia ha, inoltre, spiegato che il decreto salva-carceri “non è l’unico intervento realizzato, c’è sempre il piano carceri. Penso che nel giro di tre mesi avremo qualche centinaio di posti per carcerati in più”. La Severino ha chiarito che la logica del decreto si muove lungo due direttrici. La prima è quella di “alleggerire” la situazione “perché il carcere incide sulla realtà di quelle che si chiamano porte girevoli, e cioè si viene arrestati, il giudice convalida l’arresto e però ti mette fuori. Ora facciamo in modo di evitare che migliaia di persone ogni anno passino attraverso le porte girevoli”. La seconda è quella di “agevolare il reinserimento delle persone ritenute non più pericolose, facendo scontare agli arresti domiciliari i residui 18 mesi di pena. Nulla quindi che possa escludere un giudizio di non pericolosità di una persona, e che deve dare sempre un giudice”. Il titolare del dicastero di via Arenula ha parlato anche dei 57 milioni per le carceri: “Servono per opere di riparazione. Non è possibile che le persone debbano essere detenute senza dare loro un minimo di sopravvivenza civile”. Giustizia: agenti penitenziari, l’altra emergenza di Marco Togna www.rassegna.it, 10 febbraio 2012 Il tasso di suicidi nella polizia penitenziaria è il doppio della media italiana. Gabriele Prati e Sara Boldrin (Università di Bologna) analizzano in una ricerca le ragioni del disagio, commentate da Francesco Quinti della Fp Cgil. Le carceri italiane scoppiano, questo è noto. Il sovraffollamento è una delle vergogne nazionali: 68 mila detenuti, oltre ventimila in più di quelli che dovrebbero esserci. Ma scoppiano anche di malessere: quello dei detenuti, reso evidente dall’impressionante numero di suicidi (nel 2011 sono stati 66), ma anche quello degli agenti penitenziari. Un malessere che, anche in questo caso, diventa cronaca quando si fa tragedia: nel 2011 cinque poliziotti (80 nell’ultimo decennio) si sono tolti la vita, l’ultimo il 20 dicembre scorso. E un tasso di suicidi tra gli agenti che è il doppio di quello della popolazione italiana: 1,3 (su 10 mila persone), contro lo 0,6 della media italiana. Eventi da trattare con cautela, senza proporre nessi facili o strumentali, ma che sembrano comunque il segnale di un disagio ormai non più così silenzioso. La sofferenza dei 38 mila agenti penitenziari italiani (di cui 3.600 donne), anche sulla spinta di una più complessiva emergenza-carceri, è sempre più oggetto di indagini. L’ultima (in senso cronologico) è quella di Gabriele Prati e Sara Boldrin (della facoltà di Scienze politiche “Roberto Ruffilli” dell’università di Bologna), pubblicata di recente nel “Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia”. Lo studio, intitolato “Fattori di stress e benessere organizzativo negli operatori di polizia penitenziaria”, analizza il malessere degli agenti evidenziandone cause e possibili soluzioni. “La ricerca - commenta Francesco Quinti, coordinatore nazionale Fp Cgil Polizia penitenziaria - centra perfettamente tutti i temi che agitano il nostro comparto. Le aggressioni, i difficili rapporti gerarchici, la cattiva organizzazione del lavoro, la carenza di personale, tutto è indicato con precisione. Uno studio molto utile, che intendiamo utilizzare come supporto scientifico della nostra posizione nella stagione di contrattazione di secondo livello che si aprirà a breve”. Scopo dell’indagine è indagare i fattori di rischio per la salute psicologica e per il burnout (ossia quell’esito patologico che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, quando queste non riescono a rispondere in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro comporta) degli agenti. Le prime cinque cause di stress indicate dagli operatori sono la difficoltà del rapporto con i detenuti stranieri, il sovraffollamento delle carceri, il rischio di essere aggrediti fisicamente, l’inadeguatezza degli organici e la mancanza di aiuti psicologici da parte dell’amministrazione penitenziaria. Questioni che attengono sia a elementi organizzativi sia a eventi critici di servizio, che vanno analizzate punto per punto. Iniziamo con i detenuti stranieri: sono oltre 25 mila (il 37 per cento del totale, con punte addirittura dell’80 in alcune carceri del Nord Italia), in larga maggioranza extracomunitari. “Le difficoltà di comunicazione sono enormi” spiega Quinti: “Non parlare la stessa lingua significa non capire la richiesta, quindi aumenta la probabilità di sbagliare l’intervento. Questo acuisce la tensione, sfociando magari in gesti di autolesionismo o violenza. È da tempo, infatti, che affermiamo la necessità che il personale conosca almeno l’inglese, visto che è una lingua conosciuta, magari male o con un vocabolario ridotto, un po’ da tutti gli extracomunitari”. L’alta presenza di detenuti stranieri è determinante anche per la seconda e per la quarta problematica indicata dagli agenti: il sovraffollamento e l’inadeguatezza degli organici. A fronte di 20 mila detenuti in più di quelli che dovrebbero esserci, ci sono 6.500 poliziotti in meno di quelli previsti. “E c’è anche un altro problema” aggiunge Quinti: “Su 38 mila agenti penitenziari, solo la metà lavora effettivamente nelle carceri, mentre l’altra è addetta a servizi istituzionali, come i piantonamenti, oppure ricopre ruoli amministrativi. Assieme alla carenza di personale, dunque, c’è anche una questione legata all’impiego dell’organico, che andrebbe risolto con nuove e mirate assunzioni”. Qui si entra direttamente nel tema dell’organizzazione del lavoro: la mancanza di agenti aumenta il carico di lavoro di quelli in servizio, con un ricorso massiccio agli straordinari: “Oggi il poliziotto è costretto a turni di lavoro di dieci o undici ore continuative, svolgendo inoltre compiti differenti simultaneamente, come la sorveglianza di più sezioni detentive, oppure passando da un incarico a un altro, comportando un notevole aggravio di stress”. Se le cause finora riportate afferiscono ad aspetti organizzativi, nel lavoro della polizia penitenziaria vi è anche una notevole esposizione a eventi critici. Quelli maggiormente diffusi all’interno dei quattro istituti piemontesi presi in considerazione dall’indagine sono le offese e i gesti di autolesionismo da parte dei detenuti: più di un terzo degli agenti (35-40 per cento) ha assistito a tali episodi almeno una volta al mese (e il 12,5 è vittima o spettatore di insulti ogni giorno). Più della metà degli operatori, inoltre, ha subìto minacce negli ultimi sei mesi (il 21 per cento nell’ultimo mese) e ha assistito a tentativi di suicidio almeno una volta. Gli eventi critici che si realizzano con meno frequenza, precisa la ricerca, sono l’aggressione fisica e il suicidio di un detenuto: va tuttavia sottolineato che un operatore su quattro negli ultimi sei mesi ha, almeno una volta, subìto un’aggressione fisica o assistito a un suicidio. “Queste cifre - commenta il coordinatore nazionale Fp Cgil Polizia penitenziaria - dicono chiaramente il clima di esasperazione, che talvolta sfocia in atti di violenza, che si respira nelle carceri italiane. Nel 2011 si sono registrati 800 episodi di aggressione ai danni di agenti, di cui una parte molto grave, con lesioni permanenti. È del tutto evidente che vivere costantemente con la paura di essere aggrediti è un elemento stressogeno insopportabile”. Tra gli altri fattori critici denunciati degli operatori troviamo anche la mancanza del riconoscimento personale e pubblico del proprio lavoro, la pesantezza emotiva delle situazioni che si incontrano all’interno delle carceri, lo scarso sostegno e i richiami considerati ingiusti da parte dei superiori. Quest’ultimo tema, sottolinea Quinti, è molto sentito: “C’è una consolidata modalità di governo del personale che avviene attraverso gli strumenti disciplinari. La catena di comando dimostra poca disponibilità, e si arriva al paradosso che gli agenti devono preoccuparsi di difendersi anche dalla mancanza di comprensione dei livelli gerarchici”. La ricerca di Gabriele Prati e Sara Boldrin, infine, si interroga anche sulle possibili strategie di prevenzione più adatte ad aiutare gli appartenenti alla polizia penitenziaria a svolgere il proprio compito in modo efficiente e sicuro. La soluzione individuata, riportata dagli stessi agenti, è quella di poter contare su servizi di tipo psicologico. Una misura disposta già nel 2008 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con una specifica circolare, finalizzata proprio all’attuazione di linee di intervento fra cui la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. “Quella circolare - conclude Quinti - fu emanata sulla scorta delle nostre pressioni, ma non ebbe alcun seguito. L’attuale responsabile del Dipartimento, Franco Ionta, ha ripreso in mano la questione, anche se per ora non c’è ancora nulla di concreto. La soluzione che prospettiamo è di un presidio psicologico esterno all’istituto, residente in una struttura pubblica, dove l’agente può sentirsi pienamente libero di confidarsi e affrontare i propri problemi. Da parte nostra, proporremo con forza la questione dei centri di ascolto nella nostra piattaforma per la contrattazione di secondo livello che sta per avere inizio”. Giustizia: nessuno vuole i detenuti “No Tav”, lite tra le carceri di mezza Italia La Repubblica, 10 febbraio 2012 Da una parte c’è l’intenzione, un po’dalle carceri di tutta Italia, di concentrare tutti i detenuti No Tav a Torino, dall’altra, anche per ragioni processuali, quella del capoluogo piemontese di non avere sotto lo stesso “tetto” degli attivisti capaci di fare gruppo. Come avvenuto martedì sera, intorno alle 18: quattro No Tav, arrestati lo scorso 26 gennaio si sono rifiutati di tornare in cella, creando qualche momento di tensione con la polizia penitenziaria. A capeggiare il gruppo, il leader di Askatasuna Giorgio Rossetto e l’anarchico Tobia Imperato. Il confronto non è mai stato violento e grazie a una trattativa durata circa un’ora i detenuti si sono rassegnati a tornare in cella. L’episodio, come è prassi, è stato comunque segnalato sia alla procura che alla prefettura. E proprio questo precedente potrebbe far decidere per il trasferimento dei No Tav. L’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) definisce quella attuale “una situazione intollerabile”. “Per la propaganda - spiegano il segretario nazionale Osapp, Leo Beneduci e il leader regionale Gerardo Romano - che questi detenuti portano avanti all’interno del carcere, nella decima sezione del padiglione C. Ci sono già troppi problemi - sottolinea l’Osapp nel gestire una situazione ordinaria e non possiamo disperdere altre energie. Il trasferimento di questi detenuti dell’area antagonista andrebbe deciso già nelle prossime ore, proprio per evitare altri prevedibili incidenti”. E se Torino vorrebbe da un lato scongiurare questo rischio, alla procura del capoluogo piemontese sono però già arrivate anche richieste di trasferimenti che vanno nel senso opposto: le altre carceri d’Italia, dove sono ospitati gli altri No Tav, vorrebbero infatti concentrare i detenuti legati al movimento che sono tenuti in isolamento. Un esempio è Padova, dov’è tutt’ora recluso uno degli attivisti No Tav. Dopo la protesta-concerto inscenata martedì scorso davanti al carcere, il movimento No Tav ha intanto già in programma altre iniziative in solidarietà degli arrestati: domani e venerdì una delegazione di europarlamentari si è data appuntamento in Val di Susa per contestare la “militarizzazione del cantiere della Tav”. Un appuntamento a cui si vanno ad aggiungere le diverse manifestazioni, programmate un po’in tutta Italia, e sponsorizzate in questi giorni dai social network. Lombardia: l’Assessore Boscagli; un tutor per gli ex detenuti nei primi mesi di libertà Asca, 10 febbraio 2012 Questa la proposta lanciata dell’assessore alla Famiglia della Regione Lombardia, Giulio Boscagli, all’indomani dell’approvazione del cosiddetto decreto “svuota carceri” da parte dell’aula di Montecitorio. “La questione carceri - osserva l’assessore lombardo - è un problema serio e urgente, per questo sono lieto che il ministro Severino abbia deciso di intervenire con questo provvedimento. Restano però numerose le preoccupazioni e, tra queste, credo che la principale sia realizzare concreti percorsi di accompagnamento per quei detenuti che usciranno, così da scongiurare il rischio di un ritorno alla vita criminale”. Da non dimenticare, spiega ancora Boscagli, che “i detenuti a fine pena svolgono spesso già un lavoro all’interno del carcere e con questo provvedimento si troveranno improvvisamente senza un minimo di stipendio in una società troppo prevenuta nei loro riguardi. Per questo - conclude - chiediamo al Governo di potenziare e aumentare il numero degli educatori all’interno delle strutture e valutare l’istituzione di un servizio di tutoraggio che accompagni l’ex detenuto durante i primi mesi di libertà, nella ricerca del lavoro e di un alloggio, impresa resa ancor più ardua dalla crisi economica attuale”. Viterbo: a Pitigliano un ex carcere mandamentale che nessuno vuole di Antonio Valentini Il Tirreno, 10 febbraio 2012 Ferisce gli occhi ancora abbagliati dalle case saldate al tufo come fossero una cosa sola, cartolina memorabile di una Toscana capace di resistere al tempo e alle offese portate dagli uomini. Se ne sta brutto e dimenticato lungo la strada che da Pitigliano porta a Viterbo, attorniato da un recinto metallico pieno di ruggine conficcato su una base di calcestruzzo di qualità scadente. L’edificio, un parallelepipedo di ottanta metri per ottanta, nella forma segue il perimetro esterno, dal quale è separato da un cortile che nelle intenzioni dei progettisti doveva servire al camminamento della vigilanza. L’ex carcere mandamentale di Pitigliano, costruito nel 1980 con una spesa di sei miliardi di lire, è diventato un monumento allo spreco, alla superficialità con cui si sperpera il denaro pubblico, alle idee che corrono in direzione opposta ai fatti quando si tratta dei soldi di tutti. Il bello è che 32 anni dopo nessuno sa cosa fare di quella costruzione triste più di una bestemmia a partire dal grigio cementizio delle pareti esterne. Anche perché nemmeno una persona sa spiegare con esattezza chi ne sia proprietario: il ministero della Giustizia? L’amministrazione comunale? Lo Stato in senso lato? Il sindaco di Pitigliano spera che non venga aggregato ai beni della sua amministrazione: “Se ci venisse ceduto così com’è, per noi sarebbe un bel problema - argomenta Dino Seccarecci. Non sapremmo cosa farci, visto che i soldi sono pochi e quelli di cui disponiamo sono destinati ad altre priorità. I bambini delle scuole proposero di metterci il canile, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Forse potremmo trasferirci l’archivio”. Storia singolare, quella del carcere della città del tufo. Non solo perché non si sa a chi effettivamente appartenga, con il Comune potenziale proprietario benché sprovvisto di qualsivoglia attestazione di possesso. Quanto perché un periodo di sovraffollamento di carceri sta lì, inutilizzato, pronto a cadere in rovina. A fine 2011 in Toscana le case di reclusione avevano un indice di affollamento del 142%, con 4525 detenuti distribuiti in venti istituti di pena, 1385 più del preventivato: è concepibile che a Pitigliano vi sia un piccolo penitenziario inservibile? “Potrebbe essere usato di nuovo solo a prezzo di un investimento oneroso - spiega Maria Cristina Morrone, direttrice del carcere di Grosseto -. Ogni cosa, a partire dagli impianti, va rifatta di sana pianta. E ad opera conclusa resterebbe una struttura scomoda e inutilizzabile”. Anche perché potrebbe ospitare al massimo 15 reclusi, per i quali servirebbe un nucleo di guardie paragonabile a quello di una casa di pena dieci volte più grande: una trentina in tutto. Senza dimenticare l’organizzazione dei servizi e i disagi per gli spostamenti, in particolare quelli con Grosseto, dove hanno sede la procura e il tribunale, distante 84 chilometri. Pasquale Salemme, responsabile toscano del Sappe, sindacato degli agenti penitenziari, un’idea ce l’avrebbe: “Io credo che potrebbe essere restaurato. È una casa mandamentale, diversa dalle case di reclusione. In teoria potrebbe fare a meno del muro di recinzione. Farebbe al caso della custodia attenuata - aggiunge -, la fase-filtro dal carcere alla libertà. Però mi chiedo: sarebbe più utile ristrutturarlo o costruirlo ex novo?” Ma il carcere di Pitigliano non sarà né ristrutturato né costruito ex-novo. È nato col destino segnato, dopo che i lavori erano andati avanti al passo di lumaca, per restare aperto solo 17 anni, dal 1987 al 2004. Giusto in tempo per rientrare a pieno titolo nello scandalo delle carceri d’oro, la prima tangentopoli italiana che vide implicati ex ministri come Clelio Darida, Franco Nicolazzi e Vittorino Colombo. Ed è sempre stato sottoutilizzato: pochi detenuti a occupare nemmeno tutti i 15 posti disponibili (più uno per l’isolamento). Nacque che già era uno spreco, non desiderato né voluto, per di più sorvegliato anche dopo la dismissione. Un oggetto estraneo al territorio, una riedizione in stile Lilliput del carcere di San Gimignano, col quale condivide il disonore di ferire lo sguardo con pari intensità benché in proporzione diversa. Un monumento capace d’intralciare i sogni degli imprenditori turistici della zona, al punto che non pochi cullano un’idea straordinaria: raderlo al suolo. Ma i lavori di abbattimento, se anche il nodo della proprietà fosse sciolto, costano. E per evitare che al danno (la spesa iniziale) si aggiunga la beffa (il costo dell’abbattimento), il carcere resterà a fare brutta mostra di sé, esempio documentato di come in Italia finiscano sperperati i soldi pubblici. Salerno: struttura psichiatrica di Mariconda per detenuti, le precisazioni dell’Asl www.salernonotizie.it, 10 febbraio 2012 In riferimento agli articoli apparsi nei giorni scorsi sulla stampa relativi alla Struttura Psichiatrica di Mariconda, a Salerno, l’Azienda Sanitaria Locale precisa che: entro il primo febbraio 2013 bisognerà completare il processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, così come previsto dall’allegato C del Dpcm datato 1 aprile 2008; entro il 31 marzo 2012, con Decreto del Ministro della Salute, e di concerto con il Ministro della Giustizia e di intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dovranno essere definiti i “requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, anche rispetto al profilo di sicurezza, relativi alle strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in Opg e dell’assegnazione a Casa di cura e custodia”; è bene chiarire che a partire dal 1 marzo 2013 sarà solo ed unicamente in queste strutture che le misure di sicurezza potranno essere eseguite: “fermo restando che le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose dovranno essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio, dai Dipartimenti di Salute Mentale”; quanto è stato riportato dalla stampa in maniera enfatizzata ed erronea non ha nulla a che vedere con la struttura in via di realizzazione presso i locali sanitari di via Asiago a Mariconda - Salerno; non si tratta di nessun criminale, né detenuto, ma solo di persone che hanno bisogno di cure ed assistenza. Reggio Emilia: Sappe; due internati ricoverati per ipotermia e un detenuto per tubercolosi Ansa, 10 febbraio 2012 Due uomini sui 50 anni internati nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia sono stati ricoverati, nei giorni scorsi, in ipotermia nell’ospedale di S. Maria Nuova. Uno è stato dimesso, l’altro è in rianimazione anche se non pare in pericolo di vita. Lo denuncia il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria, aggiungendo che a volte gli internati hanno l’abitudine di tenere le finestre aperte o dormire sul pavimento. Ciò, col gelo del periodo, potrebbe aver contribuito all’ipotermia. “Inoltre gli impianti di riscaldamento non sono proprio efficienti anche per via dei tagli finanziari - denuncia Michele Malorni, segretario del Sappe di Reggio Emilia e ispettore di polizia penitenziaria - anche perché sono accesi a temperature pre-impostate e in genere il calore è limitato”. Secondo Malorni, qualche anno fa ci furono altri casi di ipotermia nella struttura di via Settembrini. “Quest’anno è la prima volta e mi auguro sia anche l’ultima, ma due casi in una settimana fanno pensare - continua l’ispettore. Soprattutto sarebbe opportuno che su questo rifletta chi gestisce l’Opg”. Nell’ospedale ci sono attualmente 222 uomini, divisi in cinque reparti (uno solo è gestito dalla polizia penitenziaria, il resto da personale medico e paramedico, aggiunge Malorni) e spesso le finestre restano aperte anche per consentire il riciclo d’aria: “gli internati possono fumare ma, mancando un impianto di aerazione che abbiamo chiesto più volte, c’è bisogno di cambiare l’aria spesso”. Ai due ricoverati, il 25 gennaio scorso se n’è aggiunto un terzo per tubercolosi: si tratta di un uomo di origine asiatica detenuto nel carcere di Reggio. L’uomo, appena entrato nell’istituto di pena dallo stato di libertà, è stato sottoposto a esami, come è prassi, ed è risultato positivo alla tubercolosi. “Ci riferiscono che tra circa un mese l’uomo finirà di scontare la pena e, quindi, potrebbe lasciare l’ospedale, senza aver terminato le cure previste”, ha sottolineato in una nota il Sappe. Genova: Sappe; salvato detenuto colpito da malore, trovato telefonino in una cella Comunicato stampa, 10 febbraio 2012 “Continua a restare alta la tensione nelle carceri genovesi. Nel penitenziario di Pontedecimo si continuano a registrate situazioni di tensione che vanno ad acuire lo stress e le già gravose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari e che condizionano inevitabilmente la serenità all’interno delle sezioni detentive. Nel recentissimo passato abbiamo parlato di detenuti che hanno inveito e lanciato oggetti contro il Personale di Polizia: qualche giorno fa, alle 3.30 di notte, un detenuto italiano ristretto per rapina, con fine pena 14/12/2012, è stato trovato a terra nella propria cella dai colleghi della Polizia penitenziaria che hanno provveduto a rianimarlo mediante massaggio cardiaco e respirazione artificiale: un intervento tempestivo che ha salvato la vita al detenuto, particolarmente importante se si considera che a tale ora non vi sono in carcere ne medici ne infermieri. Il ristretto è ora ricoverato presso la Sala rianimazione dell’ospedale di Genova. Una cosa è certa: se non fosse per la professionalità, l’attenzione, il senso del dovere dei poliziotti penitenziari le morti in carcere sarebbero purtroppo molte di più di quelle attuali”. A dichiararlo in una nota Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. Il Sappe segnala altre criticità verificate a Pontedecimo: “Solo grazie all’attenzione, allo scrupolo ed alla professionalità di Personale di Polizia Penitenziaria in servizio, è stato rinvenuto all’interno di una cella del carcere di Genova Pontedecimo un telefonino cellulare. Questo ci impone di tornare a chiedere al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria interventi concreti. A nostro avviso è ormai indifferibile adottare tutti quegli interventi che mettano in grado la Polizia Penitenziaria di contrastare la rapida innovazione tecnologica e la continua miniaturizzazione degli apparecchi che risultano sempre meno rilevabili con i normali strumenti di controllo. Appaiono pertanto indispensabili interventi immediati compresa la possibilità di “schermare” gli istituti penitenziari al fine di neutralizzare la possibilità di utilizzo di qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e quella di dotare tutti i reparti di Polizia Penitenziaria di appositi rilevatori di telefoni cellulari per ristabilire serenità lavorativa ed efficienza istituzionale, anche attraverso adeguati ed urgenti stanziamenti finanziari.” Martinelli sottolinea ancora una volta le criticità del carcere genovese: “Pontedecimo è un carcere nel quale i posti letto regolamentari sono 96 ma i detenuti (uomini e donne) effettivamente presenti sono ben 184 (90 uomini e 94 donne), più del 50% dei quali stranieri, mentre al Reparto di Polizia Penitenziaria mancano in organico circa 50 poliziotti (ce n’è in forza 118 e dovrebbero essere 167). Ed a breve cambierà anche il direttore del carcere, che tra le mille criticità concrete ricordiamo solo per avere autorizzato un colloquio tra un cane e la padrona detenuta”. Il Sappe mette infine in luce una ulteriore triste realtà: “Pochi lo sanno ma in Italia, dietro le sbarre, ci possono finire anche gli innocenti per definizione, i bambini. Al momento a Pontedecimo c’è un bambino in cella con la mamma detenuta. Ma il carcere, anche nelle situazioni in cui sono realizzate specifiche sezioni come a Pontedecimo, rimane un luogo incompatibile con le esigenze di relazione tra madre e figlio e di un corretto sviluppo psicofisico dei bambini. Si dovrebbe realizzare anche a Genova, come in altre città italiane, una struttura esterna al carcere a custodia attenuta, ma mi sembrano tutti disinteressati a questa triste realtà. In questo contesto un convinto plauso va alle nostre Agenti di Pontedecimo (spesso mamme loro stesse), che hanno espresso nel tempo ed esprimono quotidianamente una professionalità ed una umanità davvero particolari, riuscendo a conciliare perfettamente il binomio di tutori dell’ordine e della sicurezza e di operatrici del trattamento rieducativo con una particolare ed apprezzata sensibilità umana.” Asti: Manfredi (Radicali); 92 detenuti sono in sciopero della fame a rotazione Ansa, 10 febbraio 2012 I detenuti del carcere di Asti, in una lettera inviata a Salvatore Grizzanti, esponente radicale astigiano e segretario Associazione Radicale Adelaide Aglietta), hanno reso noto che 92 reclusi delle sezioni A3 e B3 sono in sciopero della fame a rotazione dal 1 al 10 febbraio. “L’iniziativa nonviolenta - spiegano i Radicali - è a sostegno del reclamo che i detenuti di Asti hanno inoltrato al Tribunale di sorveglianza di Torino che sarà discusso il prossimo 16 febbraio e che denuncia la violazione della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo in materia di spazio a disposizione dei detenuti”. “Nel carcere di Asti - dice Giulio Manfredi, della direzione dei radicali, da tempo in prima linea per chiedere che venga nominato, in regione, il Garante dei detenuti - ogni cella ha una superficie di circa 10 mq e ospita due se non tre detenuti quando le direttive del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (Cpt) prescrivono che ciascun detenuto dovrebbe poter disporre di almeno 7 mq”. Porto Azzurro (Li): detenuto di 55 anni sciopero delle fame e della sete da 23 giorni Il Tirreno, 10 febbraio 2012 Sono stazionarie le condizioni di Antonio Casu, il detenuto di 55 anni che sta portando avanti uno sciopero delle fame e della sete. Una forma di protesta che è durata 23 giorni e attualmente è ricoverato all’ospedale di Portoferraio. La protesta di Casu non è rivolta contro l’istituto carcerario elbano, non è uno sfogo per lamentarsi delle condizioni di vita all’interno della struttura di Forte San Giacomo. L’uomo, secondo quanto si apprende, ha chiesto il trasferimento in Sardegna perché stanco dei continui spostamenti sull’isola - che è anche il suo luogo di nascita - dove è implicato in una serie di procedimenti penali e deve spesso essere presente in tribunale. Le condizioni di Casu sono pressoché le stesse di quando, alcuni giorni, fa è stato ricoverato in via precauzionale in ospedale. Il detenuto è sotto il monitoraggio dello staff medico di Portoferraio. Secondo quanto si apprende avrebbe perso circa il 15% del suo peso abituale ma, al momento, non pare intenzionato a interrompere la sua personale forma di protesta. Roma: a Rebibbia colloqui in videoconferenza tra detenuti e magistrati di sorveglianza Ansa, 10 febbraio 2012 Colloqui in videoconferenza tra detenuti e magistrati di sorveglianza: è partita oggi la sperimentazione nella della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma. Lo comunica, in una nota, il direttore del carcere Carmelo Cantone spiegando che “tale tipo di collegamento - che non sostituisce in nessun modo il colloquio diretto e personale tra Magistrato e detenuto, ma si aggiunge come ulteriore strumento di contatto - viene attuato tra una sala dell’Istituto penitenziario e gli uffici dei magistrati di Sorveglianza di Roma”. In questo modo, spiega, “sarà possibile con periodicità garantire i colloqui con i Magistrati di riferimento che, date le dimensioni dell’Istituto (oggi sono 1.778 detenuti) molto difficilmente possono essere sentiti a richiesta con la desiderabile tempestività. L’azione innovativa ideata e sostenuta dal Presidente uscente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Giovanni Tamburino e pienamente condivisa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sarà inizialmente sperimentata dai magistrati di Sorveglianza di Roma Paola Cappelli e Antonio Minchella”. Secondo il direttore l’intervento “permetterà di accelerare le procedure di contatto dei detenuti con i Magistrati di Sorveglianza, migliorare la qualità della vita nell’istituto penitenziario, integrare la conoscenza del detenuto da parte dei Magistrati di Sorveglianza, accelerare l’analisi e la soluzione di casi critici”. Roma: detenuti risorsa per collettività, spargeranno sale sulle strade contro la neve Dire, 10 febbraio 2012 Alcuni detenuti di Rebibbia, in attesa dell’ondata di maltempo che dovrebbe abbattersi su Roma, da questa mattina sono in azione sulla scalinata del Campidoglio ed in piazza, sotto il Marco Aurelio, per spargere sale ed evitare che la neve possa attecchire nelle prossime ore. A spiegare l’iniziativa è stato Stefano Ricca, direttore della casa di reclusione di Rebibbia. “Anche i detenuti, che di solito sono considerati un peso- ha spiegato- oggi possono dare una mano. Si tratta di sei persone che stamani hanno sparso sale sulla scalinata del Campidoglio, pronti anche ad intervenire in altre parti di Roma”. “Questi detenuti- ha aggiunto il sindaco, Gianni Alemanno- rappresentano uno dei tanti segnali della città che si Mobilità”. Sappe: positivo impiego detenuti È certamente positivo l’impiego a Roma e Sulmona di detenuti per prevenire l’emergenza neve e pulizia delle strade. Peccato solo che la percentuale di ristretti coinvolti - 6 a Roma e 10 a Sulmona - è assolutamente minimale rispetto ai detenuti presenti in carcere. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, ritiene si debba investire di più per impiegare i detenuti più in generale in iniziative di recupero del patrimonio ambientale e in attività lavorative durante la detenzione, specie potenziando i Reparti di Polizia Penitenziaria che sono carenti di Agenti. Il lavoro rappresenta certamente il primo e più importante elemento del trattamento ed incide anche sulla sicurezza. In Germania, ad esempio, tutte le strutture penitenziarie tedesche hanno un bilancio in attivo proprio grazie al fatto che la maggioranza dei detenuti lavorano e che, quindi, non starebbero in cella ad oziare tutto il giorno, facendo anche venir meno le situazioni critiche che si registrano ogni giorno nei penitenziari. Lo dichiara il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per il tramite del segretario generale Donato Capece, commentando l’impiego di detenuti che a Roma, in affiancamento a personale dell’Ama, stanno pulendo le strade della Capitale adiacenti il Campidoglio ed a Sulmona le vie cittadine. Capece torna a sottolineare un concetto già espresso da tempo dal primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe: “Bisognerebbe impiegare in tutte le Regioni e provincie d’Italia i detenuti in progetti per il recupero del nostro patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei fiumi e dei torrenti e delle molte spiagge del nostro meraviglioso Paese. Non a caso l’attivazione sul territorio nazionale di iniziative inerenti la promozione del lavoro è diventato obiettivo primario che l’Amministrazione Penitenziaria persegue al fine del coinvolgimento consapevole e responsabile dei soggetti in espiazione di pena in attività lavorative volte all’integrazione e al reinserimento nella comunità sociale. Tutto questo nella convinzione che il lavoro è uno degli elementi determinanti su cui fondare percorsi di inclusione sociale non aleatori. Quindi, ben vengano le iniziative di Roma e Sulmona. Impiegare in detenuti in progetti di recupero del patrimonio ambientale e in lavori di pubblica utilità è peraltro una delle richieste storiche del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, motivata dalla necessità concreta di dare davvero un senso alla pena detentiva. I detenuti hanno prodotto danni alla società con i loro crimini e reati? Bene, la ripaghino concretamente, imparando anche un mestiere che potrebbe essere loro utile una volta tornati in libertà.” Capece ribadisce che “per il Sappe è ora di rivedere organicamente il sistema dell’esecuzione della pena attraverso un nuovo modulo a tre livelli: il primo, per i reati meno gravi e di minor allarme sociale, sarà caratterizzato da pene alternative al carcere. La più recente proposta è l’istituto della “messa alla prova”, finora sperimentato nel processo minorile, quale strumento di deflazione del processo: su richiesta dell’imputato questi sarebbe ammesso alla prova, prima dell’accertamento del fatto. Il secondo livello è quello che riguarda le pene medio - lunghe, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma immaginiamo istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. L’emenda è garantita dalla privazione della libertà personale, ma l’obiettivo sociale prevalente dovrà essere quello del trattamento, finalizzato al reinserimento a fine pena e quindi alla prevenzione della recidiva. Il terzo livello, è quello della massima sicurezza, del 41 bis c. 2° O.P.. In questo settore il contenimento è l’obiettivo prioritario”. Aosta: ottanta studenti valdostani hanno incontrato i detenuti del carcere di Brissogne di Sandra Lucchini www.aostaoggi.it, 10 febbraio 2012 Avvicinare la società civile al carcere, rivolgendosi, in particolare, ai giovani. Obiettivo prioritario delle visite degli studenti nella Casa circondariale di Brissogne organizzate, nell’ambito del “Percorso della Legalità”, dal Sap, il sindacato della Polizia di Stato, dall’assessorato regionale all’Istruzione e Cultura, dalla Presidenza della Regione e del Consiglio e dal Comune di Aosta. Oggi, nel quarto dei cinque appuntamenti previsti in un anno, tre classi dell’Istituto Tecnico Professionale Regionale e due del Liceo Scientifico Bérard, per un totale di 80 studenti, hanno incontrato cinque detenuti (due italiani e tre stranieri, di nazionalità senegalese e albanese) con cui si sono confrontati sulle problematiche carcerarie, ma non solo. I ragazzi hanno chiesto. I detenuti si sono raccontati. Ed è stato un momento in cui sono emersi gli aspetti più umani e significativi di chi, in un attimo, ha cancellato anni di vita integerrima. “Quando commetti un reato - ha detto uno degli ospiti della Casa circondariale - credi sempre di essere il più furbo. In carcere, ti rendi conto che è il contrario e, qui dentro, il tempo per pensare non manca”. Dichiarazioni che hanno rapito l’attenzione degli studenti, suscitando nuovi interrogativi a cui i ragazzi “dentro” hanno risposto, esaltando l’importanza di una vista onesta e il bene prezioso della libertà. “Le domande sono sempre estemporanee - dice Domenico Minervini, direttore del penitenziario valdostano. Sono formulate nel corso del dialogo, in base alle dichiarazioni degli interlocutori”. Sottolinea l’interesse manifestato dagli studenti per questi incontri. “Colloqui in cui i giovani sono interessati a conoscere il vissuto, dentro le mura e precedente, dei nostri ospiti. I quesiti riguardano i dettagli della vita carceraria, ma scivolano anche sul personale. È un faccia a faccia molto costruttivo”. L’iniziativa sottintende una finalità più lungimirante. Ne parla ancora il direttore Minervini: “È importante che la gente interiorizzi come l’espiazione della pena abbia risvolti utili con l’offerta di varie opportunità trattamentali mirate ad indurre nei detenuti una rivisitazione della loro esperienza”. Presente all’incontro, organizzato nel salone polivalente del penitenziario, Massimo Denarier, segretario regionale Sap e segretario regionale aggiunto del Consiglio Europeo dei Sindacati di Polizia. Eloquente la sua testimonianza. “Mi hanno impressionato, in maniera incredibile, i suggerimenti dei detenuti agli studenti sull’assunzione delle proprie responsabilità. Mi auguro che queste parole rimangano impresse. Spero, soprattutto, in una loro rielaborazione”. Denarier sottolinea il disagio di chi è costretto a vivere in spazi ridotti, coabitando con altri compagni. Rivaluta, quindi, l’impegno del direttore nel rendere la Casa Circondariale un istituto di pena il più accogliente possibile. “L’apertura delle celle, per molte ore al giorno, voluta da Minervini, ha contribuito ad allentare la tensione non solo fra i detenuti, ma anche fra gli agenti di polizia penitenziaria”. Tiene a riportare altri stralci del confronto di questa mattina. “La vera sofferenza è dei famigliari dei ragazzi accolti a Brissogne. Ma sono loro stessi che, durante i colloqui, rassicurano i parenti”. Non è sempre facile, né immediato capire le motivazioni per cui una persona arriva a delinquere. “Con questi incontri - dichiara Massimo Denarier - abbattiamo il muro dei pregiudizi, trasformando il colloquio in un momento di coinvolgente umanità”, conclude il segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia. Firenze: mostra “Femina Rea”, reportage fotografico nelle carceri femminili Corriere Fiorentino, 10 febbraio 2012 Il carcere un posto da uomini duri? Niente affatto. O almeno, non solo. Enrico Genovesi, giovane fotoreporter livornese, ha alzato il coperchio di una pentola che a volte ci si dimentica di possedere, quella contenente le moltissime donne che stanno scontando le pene a cui sono state condannate per aver commesso i reati più disparati, detenute nelle carceri di Sollicciano, Pisa e Empoli. Una realtà locale che rispecchia una situazione più ampia, comune a molti altri istituti penitenziari della penisola. Storie di vita, di solitudine, di disagio, raccontate attraverso le sbarre, dall’obiettivo del fotografo che vede il frutto del suo lavoro esposto nella mostra “Femina Rea”, in corso alle scuderie granducali di Seravezza, in Alta Versilia, fino al 19 febbraio. “Ho voluto raccontare questo spaccato di vita - spiega il fotografo - che benché molto vicina a noi, raramente ci impone momenti di riflessione. Le immagini, più delle parole, possono raggiungere la profondità necessaria per comprendere meglio gli stati d’animo di queste persone, specialmente quando sono sommerse dalla propria vita. E l’obiettivo della mostra - chiosa -, punta proprio a diffondere questa conoscenza”. “Femina rea” è uno dei nove eventi di Seravezza fotografia, manifestazione dedicata alle immagini e organizzata dall’Associazione Terre Medicee insieme all’assessorato alla cultura del Comune della cittadina in provincia di Lucca, con la collaborazione della Federazione italiana associazioni fotografiche e la direzione artistica di Ivo Balderi. Tra gli altri eventi in programma, anche la mostra dedicata agli scatti del celebre fotografo toscano Romano Cagnoni “Upside down memories - memorie sovvertite”, in corso nelle sale del Palazzo Mediceo. Il giovane Enrico Livornesi, sabato 11 alle 17 sarà inoltre protagonista di un incontro di cultura fotografica intitolato “Il carcere di Eva: quando detenzione femminile e fotografia si incontrano”. Stati Uniti: italiano detenuto torna a casa dopo 8 anni, era accusato violenza ex compagna Ansa, 10 febbraio 2012 Verso la libertà dopo quasi otto anni scontati in California. Sta per finire il lungo calvario di Carlo Parlanti, quarantasettenne manager informatico di Montecatini (Pistoia) detenuto dal luglio 2004. Parlanti era stato arrestato all’aeroporto di Dusseldorf, in Germania, con l’accusa di aver picchiato e violentato l’ex compagna Rebecca McKay White negli Stati Uniti. Dopo 11 mesi era stato estradato in California dove era stato condannato a 9 anni di reclusione, scontati quasi interamente nel carcere di massima sicurezza di Avenal, insieme a migliaia di altri detenuti. La contraddittoria vicenda giudiziaria di Parlanti, che ha sempre negato tutte le contestazioni e al quale è stata sempre negata la revisione del processo, è stata raccontata in libri e blog. Ora sta tutto per finire. “Carlo - dice la mamma, Nada Pacini - rientrerà in Italia il 20 febbraio. Prima di tornare a casa deve passare alcuni giorni negli uffici di immigrazione americani per le pratiche di espulsione. Dopodiché, accompagnato da funzionari di questo servizio, prenderà l’aereo a Los Angeles, farà scalo ad Atlanta e atterrerà finalmente a Roma. Non lo vedo da quasi tre anni, ma in questi giorni penso di andare a trovarlo negli Stati Uniti per seguire che tutto vada bene negli ultimi istanti di questa terribile vicenda. Ieri Carlo ha parlato con suo fratello: è sempre forte, tenace, ma anche scosso e debilitato da problemi di salute. Ma non ha alcuna intenzione di dimenticare ciò che gli è successo”. Irak: pena di morte come ai tempi di Saddam di Sergio D’Elia (Nessuno tocchi Caino) Europa, 10 febbraio 2012 La pena di morte non fa notizia nel nostro Paese, suscita qualche interesse solo se il morto ammazzato è di passaporto americano, non interessa per niente se si tratta di fucilati cinesi, decapitati sauditi, impiccati iraniani o iracheni. Eppure dovrebbe essere degno di nota, ad esempio, il fatto che in Irak, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e la breve moratoria stabilita dagli “invasori” americani, le esecuzioni sono riprese con lo stesso macabro rituale e la furia omicida in voga ai tempi del Rais. Nella sola giornata di ieri sono stati impiccati quattordici iracheni, la maggior parte membri del sedicente Stato Islamico dell’Irak, gruppo legato ad Al-Qaeda. Queste impiccagioni portano il numero delle persone giustiziate nelle prime sei settimane di questo anno vicino al totale di 68 di tutto il 2011. L’Irak aveva giustiziato altre 17 persone il 31 gennaio e altre 34 il 18 gennaio, sempre per reati connessi al terrorismo. Era dai tempi di Saddam che non si vedeva una tale orgia di esecuzioni. Le impiccagioni avvengono attraverso una forca di legno in una angusta cella del carcere di al-Kadhimiya, lo stesso complesso dove Saddam Hussein eliminava le sue vittime sciite e dove Nouri al-Maliki, in una pedissequa imitazione di terrore saddamita, ora impicca i suoi nemici sunniti. L’ex dittatore è stato impiccato nel carcere di al Kadhimiya alla fine del 2006. Subito dopo è toccato a Barzan al-Tikriti e ad altri esponenti del deposto regime. Video non autorizzati delle esecuzioni, in seguito resi pubblici, mostrano il corpo di Saddam su una barella con la testa girata di 90 gradi, mentre quella di Barzan si è staccata completamente dal corpo nel corso dell’impiccagione. Da quando l’Irak è stato “liberato” dal crudele dittatore, sono stati almeno 390 i condannati a morte giustiziati, in prevalenza insorti, ai quali il “democratico” al-Maliki ha riservato la stessa giustizia sommaria che di solito loro praticano sui loro sequestrati. Nessuna pietà: in questi anni non abbiamo avuto una sola notizia di persone condannate a morte che siano state graziate. L’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay, si è detta scioccata dopo aver appreso delle 34 persone giustiziate a gennaio in un solo giorno. “Anche se fossero stati osservati i più scrupolosi standard sul processo equo, si tratterebbe comunque di un numero terrificante”, ha dichiarato. Anche l’Alto Rappresentante dell’Ue Catherine Ashton ha espresso preoccupazione per il crescente uso della pena di morte in Iraq, che “non dovrebbe mai essere usata nei casi in cui le condanne siano basate su confessioni che possono essere state estorte”. Già, perché nell’Irak “liberato”, con la pena capitale è tornata in voga anche la tortura. Human Rights Watch ha scoperto, all’interno della base militare di Camp Justice a Baghdad, un centro di detenzione segreto controllato dalle forze di sicurezza d’élite che rispondono all’ufficio militare del primo ministro Nuri al-Maliki. Le stesse divisioni d’élite controllano Camp Honor, una struttura separata a Baghdad, dove i detenuti che per fortuna ne sono usciti hanno raccontato che coloro che li interrogavano li hanno picchiati, li hanno appesi a testa in giù per ore, gli hanno somministrato scariche elettriche in varie parti del corpo compresi i genitali e gli hanno ripetutamente messo la testa in sacchetti di plastica fino a quando non svenivano per asfissia. L’Irak del dittatore Saddam, insieme alla Cina e all’Iran, è sempre salito sull’orribile podio dei primi tre paesi-boia del mondo. L’Irak del “democratico” al-Maliki sta facendo di tutto per confermare questo triste primato, senza soluzione di continuità rispetto a tutto l’inventario di sistemi e pratiche del passato. È il frutto avvelenato della guerra in Irak, guerra che - ormai è chiaro e da più parti documentato - è stata fatta improvvisamente scoppiare da Bush e Blair proprio per impedire che scoppiasse la pace e si realizzasse, attraverso l’esilio di Saddam e una amministrazione fiduciaria dell’Onu, l’obiettivo di Marco Pannella e del Partito Radicale di un “Iraq libero”… anche dalla pena di morte. Afghanistan: nuovo ultimatum a chiusura prigione americana di Bagram Ansa, 10 febbraio 2012 Il presidente Hamid Karzai ha posto un nuovo ultimatum di un mese per il trasferimento definitivo alle autorità afghane del controllo sulla prigione americana di Bagram, che sarebbe dovuto avvenire entro il 5 febbraio. Lo ha reso noto l’ufficio stampa presidenziale a Kabul. In una riunione presieduta da Karzai, il ministro della Difesa Abdul Rahim Wardak ha illustrato ai presenti, esponenti della giustizia e responsabili governativi, la situazione sottolineando che prima della scadenza del precedente ultimatum sono stati trasferiti alle autorità afghane circa 600 detenuti, ma non il controllo del carcere nel suo insieme. Per questo, al termine dell’incontro si è stabilito un nuovo ultimatum in base a cui l’abbandono del controllo del carcere di Bagram da parte dei militari americani dovrà avvenire entro l’8 marzo prossimo. Bahrein: i detenuti sospendono lo sciopero della fame Ansa, 10 febbraio 2012 È tregua per la protesta a favore della democrazia, in Bahrein. Da due giorni le manifestazioni sono state interrotte e anche nelle carceri gli attivisti arrestati durante la repressione hanno sospeso lo sciopero della fame, che portavano avanti da otto giorni. Il primo febbraio un responsabile del ministero dell’Interno aveva affermato che erano circa un centinaio i prigionieri in sciopero della fame, rispetto ai 180 del giorno precedente. I rivoltosi devono scontare pene dai 2 anni all’ergastolo, con l’accusa di complotto