Murati vivi, ma con la voglia di parlare con il mondo Il Mattino di Padova, 3 dicembre 2012 Nonostante nel nostro Paese siano tutti convinti che l’ergastolo non venga dato ormai più a nessuno, e che i pochi ergastolani presenti nelle nostre carceri comunque siano destinati a uscire abbastanza in fretta, le cose non stanno esattamente così. Ci sono centinaia di ergastolani destinati a morire in galera, nel convincimento generale che in Italia siamo molto civili perché non abbiamo più la pena di morte. L’ergastolo ostativo significa stare in carcere per tutta la vita, è una pena che viene data a chi ha fatto parte di un’associazione a delinquere e ha partecipato a vario titolo a un omicidio. “Ostativo” vuol dire che viene negato ogni beneficio penitenziario, permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone. Ma non collaborare non significa automaticamente essere ancora mafiosi, avere ancora contatti con la criminalità organizzata: spesso, significa semplicemente non voler mettere a rischio i propri cari per guadagnarsi un po’ di libertà. Per tutti quelli che comunque vogliono aprire un dialogo con chi vive praticamente murato vivo, c’è uno spazio nuovo nel sito www.ristretti.org, curato da Carmelo Musumeci, ergastolano e scrittore, ora detenuto nella Casa di reclusione di Padova, a cui ci si può rivolgere con domande, anche le più “cattive”, alle quali risponderanno di volta in volta ergastolani da diverse carceri. Per inaugurare questa rubrica Suor Marta, 71 anni, suora di clausura con una gran voglia di capire di più di come vive un essere umano condannato alla galera a vita, dal Monastero di Clausura di Santa Chiara Lagrimone sull'Appennino tosco-emiliano ha mandato le prime domande. La prima domanda di Suor Marta: Come vivono i vostri parenti il fatto che siete delinquenti? Risponde Giuseppe, ergastolano: Non ho molti parenti e comunque non so se alcuni di loro mi hanno considerato delinquente (so che di fatto lo sono stato!), ma visto che il contesto familiare in cui sono nato e cresciuto è sempre stato “infettato” dall’illegalità (anche se non tutti i miei parenti hanno avuto a che fare con l’illecito, in quanto molti sono onesti lavoratori) è probabile che alcuni di loro non vivano bene il fatto di essere parenti di un delinquente, tanto è vero che non ho contatto con tutti. Ma i restanti miei parenti oggi mi considerano una persona diversa, migliore rispetto a quella che ero perché vedono, sentono, mi leggono e hanno la consapevolezza del mio cambiamento e orgogliosi me lo fanno notare. Sono stato in parte una “vittima” dell’origine ambientale del male e a loro volta, prima di me, lo sono stati alcuni miei parenti “vittime” della subcultura, della fame, dei disvalori e del contesto sociale che li ha circondati. La seconda domanda di Suor Marta: Ho conosciuto un ex carcerato, che ha trovato rifugio per alcuni mesi a casa nostra, perché i suoi non lo volevano neppure in zona (a quei tempi non c'erano le strutture che soccorrono in tali emergenze). Situazioni simili si verificano ancora. Cosa scatta nell'animo umano? Se i parenti sono i primi a rifiutare un inserimento famigliare e sociale, quale meraviglia possiamo provare se la società, in genere, si irrigidisce su ciò? Risponde Biagio, ergastolano: Per il ragazzo che non era stato accettato in casa dai suoi genitori ribadisco che bisogna sempre vedere come si è stati educati e come ci si comporta con i propri famigliari. E poi vedere dove sta il torto o la ragione. A volte siamo noi a essere delinquenti, ma a volte è colpa anche della famiglia che non è mai stata sufficientemente presente. Inoltre si può commettere reati anche per bisogno. Ti posso dire che nessuno è nato per essere cattivo, però se vivi al sud, c’è più probabilità che lo diventi. Il meridione è una specie di giungla dove ti devi difendere dalle iene che ti stanno attorno. Poi ci sono i leoni che stanno in alto a vedersi la guerra che ci facciamo fra di noi, così dopo gli viene molto più facile venirci a “mangiare”. Ecco perché capita che certi famigliari ti abbandonino e ti tengano lontano, perché sono ricattati dai leoni seduti in poltrona. Spero che conosci bene che cosa è la vita nel sud. Ti dico che riguardo alla famiglia ho 42 anni, sono padre di quattro figli di cui tre sposati e sono nonno di cinque nipotini, immaginati un po’ avevo quattordici anni quando mi sono sposato e a quindici ero già papà. Risponde Giuseppe, ergastolano: Quando i parenti rifiutano un loro congiunto che ha avuto problemi con la legge, a mio avviso questi parenti, che dovrebbero essere i primi ad accoglierlo con amore in un inserimento famigliare e sociale, sono condizionati dal pregiudizio altrui, per cui scatta in loro un meccanismo di difesa verso la loro immagine, perché tengono più all’apparire che all’essere, e in questi casi l’essere è: essere genitore di, essere parente di, dunque portare un’onta a danno del loro apparire, sconveniente! La persona rifiutata viene distrutta psicologicamente, per cui sarebbe davvero molto importante liberarsi dai condizionamenti esterni ed accoglierla a braccia aperte con amore per amore! La terza domanda di Suor Marta: Io sono convinta (e forse il Vangelo è dalla mia parte) che come il perdono si deve dare (e dopo si sta bene) così si deve ricevere. È parte dell'essere profondo dell'uomo il perdono ricevuto, non deve umiliarci perché "riaggiusta" qualcosa che si era rotto. Faccio un esempio! Quanto voi eravate uomini liberi e vi capitava di avere uno screzio con vostra moglie, se non vi sentivate perdonati stavate male, se lei vi veniva incontro col perdono voi vi sentivate felici. Non è vero anche su larga scala? Risponde Giuseppe, ergastolano: Avevo appena 16 anni quando ho sparato ad un giovane uomo uccidendolo. Non avevo la benché minima consapevolezza della gravità del mio gesto. Ho puntato la pistola e ho premuto il grilletto più volte. Tutto semplice. Più semplice e facile di quanto si credesse. Soltanto col passare degli anni tutto è diventato più difficile e complicato: ho dovuto fare i conti con la mia coscienza! Vivere con il senso di colpa, non poter più tornare indietro, non poter più rimediare. Arbitrariamente mi sono preso il diritto di togliere la vita ad un uomo, il diritto di togliergli il diritto di vivere la vita che Dio gli ha donato. Ho creduto che nessun perdono mi avrebbe salvato, ma oggi la mia fede in Dio, l’ammissione del mio peccato ad un sacerdote mi ha ridato la pace interiore. Non lo so cosa proverei ricevendo il perdono dai suoi famigliari, so che con Dio cercavo di giustificarmi, con i famigliari mi troverei dinnanzi al dolore che gli ho causato e non avrei giustificazione alcuna e probabilmente il loro perdono paradossalmente forse mi farebbe stare male seppur avessi la piena consapevolezza che mi hanno perdonato. Giustizia: celle piene, riforme vuote di Giuliano Ferrara Il Foglio, 3 dicembre 2012 Il Consiglio dei ministri ha nominato ieri, su proposta di Mario Monti, il prefetto Angelo Sinesio come commissario straordinario del governo per le Infrastrutture carcerarie, a decorrere dal gennaio 2013, Bene, e buon lavoro, perché ce n’è fin troppo da fare. Basti dire che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha reso noto che nelle carceri italiane ci sono al momento 66.732 detenuti, con un sovraffollamento insostenibile: 140 detenuti per ogni 100 posti. Eppure un prefetto ad hoc non basta. Perché, come dimostra per esempio il numero di detenuti ancora in attesa di giudizio (oltre 25 mila su 66 mila), e come non si stancano di ripetere i Radicali, le carceri non diventeranno più “umane” finché la giustizia non diventerà più ragionevole e funzionale. Da un governo tecnico forse non ci si potevano attendere riforme complessive del sistema giudiziario, ma mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema è un dovere di tutte le istituzioni. E se il 60 per cento dei giovani italiani ignora la situazione drammatica in cui versano le carceri - come da ricerca pubblicata ieri dal Forum nazionale giovani -, vuol dire che sia il governo, sia il Parlamento, sia il servizio d’informazione pubblico non stanno facendo abbastanza nemmeno rispetto a questo obiettivo “minimo”. Giustizia: intervista a Rita Bernardini; inutile il ddl sulle misure alternative di Sonia Ricci Public Policy, 3 dicembre 2012 È in discussione in Aula alla Camera il disegno di legge “Delega al Governo in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili”. Il ddl è stato presentato il 29 febbraio 2012 dalla Guardasigilli Paola Severino, e ha iniziato il suo iter in commissione Giustizia alla Camera il 29 marzo. Dopo il parere positivo della commissione, il ddl è poi approdato in Aula il 23 ottobre scorso. Il provvedimento prevede l’introduzione di pene alternative al carcere, la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato e la sospensione del procedimento per gli irreperibili. In merito al provvedimento abbiamo intervistato la deputata Radicale, Rita Bernardini (eletta nelle fila del Pd), da sempre impegnata sul fronte del sovraffollamento carcerario e contraria al testo presentato in Aula. Cosa contesta del ddl? Per quanto riguarda la messa alla prova è stata prevista una pena edittale massima di quattro anni, in realtà nelle nostre carceri sono pochissimi i detenuti in questa situazione. Con la pena edittale s’intende il massimo previsto dal quel tipo di pena, non quello che ti hanno dato. Queste misure non incidono minimamente sul sovraffollamento carcerario. Sembra che l’unica pena vera sia il carcere, ma non è così perché anche le pene alternative comportano una certa sofferenza, una disciplina e danno un maggiore risultato ai fini della recidiva. Da parte della Lega e dell’Idv alzare tutto questo polverone per un provvedimento che sarà inutile, mi sembra esagerato. Qual è il suo giudizio sul provvedimento Negativo. Sembra che stiamo discutendo di chissà che cosa, in realtà per l’obiettivo che si propone, cioè diminuire la popolazione penitenziaria, facendola accedere alle pene alternative, è del tutto inadeguata. Questo tipo di misure, non hanno nessun tipo di automaticità e urgenza. Il sovraffollamento è un reato dello Stato italiano, la nostra proposta è l’amnistia per uscire subito dall’illegalità. Quali sono state le vostre proposte in Commissione e che fine hanno fatto? Ne abbiamo presentate diverse. Uno è l’emendamento per la depenalizzazione della coltivazione della cannabis per uso personale. Emendamento ammesso e votato in commissione, poi inspiegabilmente dichiarato inammissibile in Aula dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Sono stati annullati anche tutti i nostri emendamenti successivi, tra cui quello che prevedeva un’altra pena alternativa al carcere: l’affidamento in prova ai servizi sociali. Anche l’emendamento per l’innalzamento della pena edittale a più di quattro anni è stato respinto. Sull’esperienza del modello tedesco avevamo proposto anche un nuovo istituto, quello dell’astensione dalla pena da parte del giudice. Provvedimento che prevede l’astensione dall’infliggere la pena, nel caso in cui chi ha commesso il reato abbia già subito una “pena naturale”, tale da rendere ingiustificata la sanzione. Si tratta di reati di tipo colposo. Durante un suo intervento ha detto che l’articolo 1 del Ddl è stato “svuotato” in Commissione, perché? L’articolo 1 ora prevede che il giudice nell’infliggere la pena possa scegliere, per i reati con pene massime di quattro anni, la carcerazione domiciliare o la carcerazione vera e propria. Quindi, ora il giudice avrà questa possibilità, ma precedentemente il testo prevedeva come scelta principale, per questi tipi di reati, quella della carcerazione domiciliare. Oggi è al suo 40° giorno di sciopero della fame, per l’amnistia. Quando lo interromperà? Abbiamo presentato una risoluzione sul diritto di voto dei detenuti. Tra i detenuti, infatti, vota un’estrema minoranza, inferiore al 10%, pur essendocene decine di migliaia che ne hanno diritto. C’è una procedura molto complessa che i detenuti non conoscono. Si devono snellire le procedure. La calendarizzazione della risoluzione sarebbe l’occasione per interrompere lo sciopero della fame. Giustizia: Li Gotti (Idv); messa alla prova è amnistia permanente per corrotti e corruttori Adnkronos, 3 dicembre 2012 “Il governo, con la proposta di previsione dell’affidamento con messa alla prova degli imputati per i reati con una pena massima di 4 anni, introduce di fatto un’amnistia permanente”. A scriverlo sul suo blog il responsabile Giustizia dell’Italia dei valori, Luigi Li Gotti. “Il processo verrebbe sospeso - continua il senatore - l’imputato potrà ottenere un periodo di prova di due anni, svolgendo un lavoro socialmente utile non inferiore a 30 giorni, anche non continuativi. Trascorsi i due anni, non si fa il processo e il reato è dichiarato estinto”. Il ministro Severino per Li Gotti avrebbe dato a tale provvedimento una lettura del tutto inesatta. “Poiché escludo l’ignoranza del ministro - aggiunge Li Gotti - la spiegazione (omessa dalla Severino) è legata all’entrata in vigore della legge anticorruzione che ha introdotto i nuovi reati di traffico di interferenze illecite (anti cricca) e corruzione privata”. “Ebbene - spiega - per questi reati si applicherebbe il nuovo istituto dell’affidamento, della sospensione del processo, il lavoro socialmente utile non inferiore a 30 giorni e, quindi, l’estinzione del reato. La stessa cosa accadrebbe per l’abuso in atti d’ufficio, per il peculato con profitto dell’errore altrui e per altri reati contro la pubblica amministrazione. Insomma - conclude Li Gotti - fatta la faccia feroce (si fa per dire) e venduta in Europa e nel mondo come esempio di lotta senza tregua alla corruzione e annessi, ecco il rimedio per i colletti bianchi”. Giustizia: Comunità Papa Giovanni XXIII risponde a Travaglio e a Saviano sull’ergastolo Comunicato stampa, 3 dicembre 2012 Abbiamo letto con interesse il confronto sul tema dell’ergastolo tra Roberto Saviano, di cui condividiamo la presa di posizione, perché lo Stato “non può non tentare il tutto per tutto per recuperare chiunque” e Marco Travaglio, a cui invece vogliamo parlare della nostra esperienza diretta con gli ergastolani. Noi incontriamo ogni settimana decine e decine di persone condannate all’ergastolo, senza speranza, ostative ai benefici penitenziari, persone che sono in carcere anche dal 1979, ragazzi di 40 anni che sono stati condannati all’ergastolo a 18 anni e che non sono mai usciti, neanche per il funerale del padre. Ragazzi che hanno vissuto più tempo della loro vita in carcere che fuori, persone che l’ergastolo se lo vivono sulla propria pelle, giorno dopo giorno, anno dopo anno, da decenni. Noi li incontriamo: sono sempre lì, estate, inverno, Natale e Pasqua, hanno la cella del carcere come tomba. Noi vediamo il tempo scorrere sui loro volti, settimana dopo settimana, e lasciare solchi profondi. Chi non collabora, per paura di vendette omicide sulla propria famiglia, per non mettere un’altra persona in carcere al proprio posto o perché non è in grado di dimostrare che non può aggiungere altro a quanto già emerso sull’associazione di cui ha fatto parte, queste persone sono condannate a restare per tutti i giorni della propria vita in carcere. Molti di loro nella riflessione e nella sofferenza, sono arrivati ad una revisione interiore sugli errori del passato, hanno studiato, tutto questo nonostante un sistema carcerario che non favorisce la rieducazione e riduce a beffa l’articolo 27 della Costituzione che sancisce che le pene devono tendere alla rieducazione. Si continua a parlare di “pentiti”, mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente “collaboratori di giustizia”, perché è evidente che la collaborazione è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il pentimento interiore e rende irrilevante il cammino della persona. Al 30 giugno 2012 gli ergastolani in Italia erano 1.546, più di 100 hanno alle spalle oltre 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà condizionale, la metà di questi 100 ha addirittura superato i 30 anni di detenzione. Paolo Canevelli, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, afferma: (…) Forse una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa, perché non possiamo, in un sistema costituzionale che prevede la rieducazione, che prevede il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, lasciare questa pena perpetua. (Roma 28 maggio 2010, intervento al Convegno “Il limite penale ed il senso di umanità”). Noi sosteniamo che questo sistema di fatto viola il diritto di ogni persona detenuta al reinserimento sociale. Don Oreste Benzi, il nostro fondatore, diceva che ogni detenuto in carcere è un bene che manca a noi come società: fino a quando questo bene non sarà restituito alla società saremo tutti più poveri. La persona che ha commesso reati ha bisogno e deve riparare il mal fatto, con un percorso rieducativo che porti al pentimento interiore e, laddove è possibile, verso la richiesta di perdono e l’incontro con le vittime dei reati, attraverso comunità educative, per il reinserimento sociale che porti al recupero vero, reale e concreto della persona. L’uomo non è il suo errore, ma è molto più grande, diceva Don Oreste Benzi. Siamo convinti che occorra promuovere l’incostituzionalità dell’ergastolo, pena vendicativa e disumana, che in realtà è una pena di morte mascherata, che non dà speranza di vita. Aldo Moro nelle sue lezioni universitarie avvertiva gli studenti, ma forse anche il legislatore e i politici: “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”. Giovanni Ramonda Responsabile Generale Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII Giustizia: Decreto Sviluppo bis; edilizia penitenziaria esentata da tagli di spending review Public Policy, 3 dicembre 2012 “Salvati” dai tagli della spending review gli istituti penitenziari. Lo stabilisce un emendamento del Governo al dl Sviluppo bis in discussione in commissione Industria al Senato. L’emendamento 34.2500 del Governo stabilisce che i tagli coordinati dall’Agenzia del Demanio non tocchino gli istituti penitenziari e le risorse attribuite al ministero della Giustizia per gli interventi manutentivi di edilizia penitenziaria. L’emendamento stabilisce inoltre che il ministero della Giustizia, come quello delle Infrastrutture, possa stipulare nuovi contratti di manutenzione ordinaria o straordinaria, in deroga alla spending review. Giustizia: Siddi (Fnsi); in “ddl diffamazione” ci sono ritorsioni politiche contro i giornalisti Agi, 3 dicembre 2012 “Sulla vicenda Sallusti, il Parlamento non ha offerto una bella prova. Il sindacato, da almeno venti anni, sta sollecitando un cambiamento della legge sulla diffamazione a mezzo stampa e nella maggioranza del Senato, anziché procedere con saggezza e serietà, è prevalsa la volontà ritorsiva verso tutti i giornalisti, cioè da “no carcere” si è passati al carcere per tutti, togliendolo, al limite, solo per i direttori. Un modo illogico e irrazionale di procedere in un clima in cui la politica sceglie prima la propaganda e poi i fatti”. Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, ospite de “La telefonata di Belpietro”, commenta così il caso Sallusti e la situazione di stallo della legge sulla diffamazione. “Nessuno ovviamente - prosegue Siddi - può pretendere la libertà di diffamare, quella di informare sì anche se errori per colpa possono capitare a tutti i giornalisti. Ma dare forza all’istituto della rettifica che deve essere documentata potrebbe essere una prima forma di riparazione a un errore di stampa. Se, invece, un giornalista vuole diffamare a prescindere, dovrà pagare anche delle sanzioni pecuniarie proporzionate al fatto. E un giurì potrebbe garantire l’esecuzione di questo procedimento di tutela per i diffamati ma anche di promozione della responsabilità etica del giornalista. Ma questo non è entrato nella propaganda e non si è fatto, anche se il ministro della Giustizia aveva detto che questa poteva essere la linea giusta. Poi, però, è prevalsa la voglia di regolare dei conti con dei giornalisti che forse avevano scoperchiato pentole che non andavano scoperchiate”. Replicando a Rutelli che aveva parlato di casi di giornalisti all’estero finiti in carcere, Siddi parla “di episodi molto rari, in cui il carcere è stato applicato per casi estremi, quando si ravvisa una violazione di diritti umani o un’induzione a realizzare degli assassinii”. Nella vicenda Sallusti, “noto che è possibile un intervento del Capo dello Stato, e che al momento la procura di Milano ha cercato di rendere esecutiva una sentenza nella maniera più umana possibile. La legge sulla diffamazione va ripresa, il Parlamento ha ancora tempo per farlo, ma il quadro politico è talmente devastato che- conclude Siddi - penso che non si andrà oltre la propaganda”. Giustizia: caso Sallusti… quando mancano politica e buonsenso di Carlo Federico Grosso La Stampa, 3 dicembre 2012 Come era prevedibile, il caso Sallusti è esploso ancora una volta. I fatti pregressi sono noti. Il direttore de “Il Giornale” era stato condannato alla reclusione per un reato di diffamazione commesso dal suo giornale; i giornalisti ed una parte dell’opinione pubblica aveva reagito duramente a tale condanna, giudicando assurdo usare la galera contro giornalisti e direttori ed invocando l’abolizione del carcere per la diffamazione; il Parlamento, al quale la soluzione del problema era stata affidata, non era tuttavia riuscito a trovare una soluzione condivisa, e si era avvitato in una inconcludente, quanto avvilente, sequenza di polemiche e di proposte inaccettabili. Conclusione, il blocco di qualunque decisione. Scaduti i trenta giorni concessi per l’esecuzione della sentenza di condanna, era giocoforza che la Procura della Repubblica di Milano si muovesse. Ed essa, per contenere l’impatto esterno che l’esecuzione carceraria avrebbe provocato, ha cercato di circoscrivere i disagi, chiedendo che la reclusione fosse tramutata in arresti domiciliari (richiesta accolta dal giudice) e concedendo tutte le “libertà” ragionevolmente concedibili dato il contesto (uso del telefono, nessuna preclusione alle visite, due “ore d’aria” giornaliere, e via dicendo). Tutti sapevano, tuttavia, che Sallusti da giorni andava dicendo che mai avrebbe accettato il compromesso dei domiciliari e che, se si doveva eseguire la sentenza, essa doveva essere eseguita in carcere come avevano disposto i giudici di appello e cassazione. Una provocazione, evidentemente. Una provocazione, peraltro, assolutamente legittima da parte di chi giudicava un insulto alia libertà di stampa usare il carcere per reprimere la diffamazione ed un insulto alla intelligenza il modo scomposto con il quale il Parlamento non era riuscito a risolvere il problema di una ragionevole riforma dei delitti di diffamazione e ingiuria. Ulteriore provocazione è stata avere atteso i poliziotti “esecutori” barricandosi nel giornale (nella cui sede aveva addirittura passato l’ultima notte di libertà), ed obbligandoli pertanto ad eseguire l’arresto nel luogo “sacrale” dell’esercizio della funzione giornalistica. Simbolicamente, un ulteriore insulto alla libertà di stampa, un po’ come, un tempo, veniva considerato un insulto alla religione ed alla pietà procedere all’arresto nei templi e nelle chiese. Detto questo, qualche parola di commento sul comportamento dei magistrati. Già in altra occasione, su questo stesso giornale, ho considerato irragionevole, se pure consentito dalla legge, condannare alla reclusione i giornalisti che hanno commesso diffamazione e, soprattutto, i direttori che, per colpa, hanno omesso di controllare il contenuto del giornale (è comunque un fatto, ho pure osservato, che le sentenze di condanna alla reclusione in materia di diffamazione a mezzo stampa si contano sulle dita di una mano, e che, normalmente, i giudici, quando ritengono esistente il reato di diffamazione, condannano, ragionevolmente, alla pena pecuniaria). Nessuna questione, invece, su quanto i magistrati hanno fatto nella fase della esecuzione della sentenza. Di fronte ad un Parlamento che, si pensava, si stava muovendo per risolvere il problema con una opportuna riforma di legislazione, essi hanno, giustamente, procrastinato l’esecuzione della sentenza dì condanna per tutto il tempo che la legge concedeva loro. Esaurito questo tempo, essi hanno dovuto, ovviamente, agire; ina, sempre nei limiti previsti dalla legge, hanno cercato di mitigare l’asprezza dell’esecuzione concedendo domiciliari e benefici. Quando poi, condotto coattivamente al domicilio prestabilito, Saltasti è, provocatoriamente, e per suscitare scandalo, subito uscito in strada abbandonando il luogo dove si trovava “ristretto”, è scattato, inesorabile, l’arresto in flagranza. E non poteva essere altrimenti. Formalmente il condannato aveva commesso il delitto di evasione (che si applica anche a chi, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato, se ne allontani), la flagranza imponeva l’arresto ed il processo per direttissima. Saltasti è stato quindi legittimamente (e doverosamente) riarrestato e condotto in Tribunale per i prescritti adempimenti procedurali e dovrà affrontare, di qui a poco, il processo per il nuovo reato compiuto. A questo punto la giustizia seguirà il suo corso (vedremo come). La palla torna tuttavia a questo punto, inesorabilmente, al Parlamento. E vedremo allora se, di fronte ad una situazione per certi versi grottesca, ma per altri versi drammatica, avranno ancora il coraggio di baloccarsi, fra diatribe e rancori, nell’affrontare una riforma che logica vorrebbe semplice e facile: abolizione del carcere per i giornalisti e previsione di pene esclusivamente pecuniarie, possibilmente nel quadro di un processo affidato a percorsi privilegiati, dato che la vittima ha davvero ristoro soltanto se, oltre a “ricevere un giusto risarcimento dei danni subiti, la condanna del diffamatore avviene in tempi non troppo lontani dalla offesa perpetrata. Giustizia: Bruno Tinti; caso Sallusti, il pm ha sbagliato, per chi è condannato c’è il carcere Il Messaggero, 3 dicembre 2012 “Secondo me è ora di piantarla di parlare di questa storia: Sallusti è una persona che è stata condannata in via definitiva e come tale deve andare in carcere. Se dovessimo trattare allo stesso modo tutti coloro che si proclamano innocenti, non discuteremmo d’altro”. Per Bruno Tinti, già procuratore aggiunto a Torino dove si è occupato dell’inchiesta Telekom Serbia, è il momento di affrontare la questione con distacco e soprattutto di separare i fatti dalle opinioni. E allora facciamo un pò di ordine. “Nei confronti di Sallusti c’è una condanna della Cassazione. Ha mentito, si è rifiutato di pubblicare una smentita sul suo giornale e si è difeso sostenendo tesi ridicole. Di giornalisti finiti in prigione per diffamazione ce ne sono stati due in cinquant’anni di storia, Guareschi e Iannuzzi. Ciò dimostra che il problema non c’è. L’intera vicenda è una speculazione fatta da Sallusti, che ha la sindrome del condannato, insieme a tutta la casta che gli gira attorno”. Come giudica il provvedimento di Bruti Liberati? “Il criterio della doppia sospensione è sbagliato, non si applica mai, e Bruti ha commesso due errori. Il primo: ha avocato a sé il caso Sallusti. Vero che è nelle sue competenze, ma è un bruttissimo segno. Perché si è mosso solo per il direttore del Giornale e non per un povero marocchino, senza lavoro e con una famiglia da sfamare? Secondo errore: ha scavalcato il suo ufficio specializzato in esecuzione delle pene. In casi controversi - e sono molti - è prassi riunirsi, confrontarsi, quindi si emette un’ordinanza e se possibile si danno delle direttive per l’intero ufficio che valgano da lì in avanti. Non si fa un colpo di mano come questo”. Aprendo tra l’altro il problema della retroattività. Proprio così. A questo punto tutti i casi analoghi dovrebbero essere rivisti. I poveretti che stanno in carcere e hanno i medesimi requisiti hanno diritto che qualcuno riprenda in mano il loro fascicolo. È una pagina bruttissima e Sallusti mi sembra un po’ strano, non ho idea di ciò che voglia raggiungere. Le manifestazioni paraideologiche le ha date, adesso gli tocca andare in prigione per un anno e quattro mesi e ha pure una condanna per evasione. Otto mesi con le attenuanti generiche”. Giustizia: i mammozzoni artistici nelle carceri… e gli amici degli amici di Pablo Echaurren www.huffingtonpost.it, 3 dicembre 2012 Mi piace l’idea dell’assessore alla cultura del comune di Milano di spostare a San Vittore la Pietà Rondanini. Anzi la cosa potrebbe avere un suo seguito anche altrove: si potrebbe continuare organizzando una bella mostra itinerante del Piranesi oppure esporre a Regina Coeli San Pietro cura sant’Agata in carcere di Lanfranco o ancora portare a Poggio Reale Le sette opere di misericordia del Caravaggio. Ma pochi sanno che le carceri italiane sono già piene zeppe di opere d’arte realizzate con la legge del 2 percento. Partiamo dall’inizio, la legge 29 luglio 1949, n. 717, Norme per l’arte negli edifici pubblici, meglio nota come legge del 2 percento prevede che il “2 per cento” delle somme destinate alla costruzione di “edifici pubblici”, debba essere destinato “all’abbellimento di essi mediante opere d’arte”. Pensata in primis da Giuseppe Bottai, questa lodevole legge, spesso disattesa, negli ultimi anni è stata la mangiatoia di una nutrita schiera di amici degli amici. Un’enclave di accoliti che si sono spartiti la torta creando opere su opere che non tengono conto della particolare collocazione, della controversa destinazione d’uso. Opere che nella maggior parte dei casi possono essere definite tranquillamente di pubblica inutilità. Ben altro sarebbe l’intervento intramurario necessario. Nelle carceri nostrane le condizioni strutturali e di vivibilità sono quelle che sono, non certo delle migliori, eppure si continua a “abbellirli”, i carceri, con degli straordinari mammozzoni che paiono degli ufo provenienti da altri pianeti, astronavi aliene atterrate o precipitate in territorio ostile. Fatevi un giro per Rebibbia e poi mi direte. Quanti di questi cosoni bronzei, marmorei, in acciaio inox, se ne stanno lì, immobili, impenetrabili, enigmatici come il monolite di Odissea nello spazio. Uno strazio per la vista, uno shock per i palati disabituati degli umani. Decisamente fuori dalla portata di comprensione degli attoniti terrestri (nella fattispecie detenuti e polizia penitenziaria). E non perché guardie & ladri non siano all’altezza di cotanta bellezza, quanto piuttosto perché quei mammozzoni sono davvero difficili da mandar giù e da digerire. Sono fuori posto. Si sa, l’arte contemporanea non di rado resta indigesta a noi profani. Ma qui il problema è che in edifici non proprio belli in partenza, l’abbellimento (che a volte diventa perfino un imbruttimento, un abbrutimento delle facoltà critiche) rischia di diventare superfluo. Stridente. Comico, se ci fosse da ridere. Sculture, monumenti, capolavori incompresi, che giacciono inerti, che non si pongono la minima domanda sulla fruizione finale cui vanno incontro, che se ne sbattono di dialogare con il luogo, con i residenti, con gli utenti. Opere indifferenti. Che non si sa bene che cosa ci stiano a fare proprio lì, se non a incrementare gli incassi dei vincitori dei relativi bandi di concorso. Come dicevano i situazionisti, bisognerebbe organizzare visite scolastiche in carcere, gite istruttive, portarci la gente a vedere di che si tratta e come ci si vive, aprirli all’occhio del mondo esterno, renderli trasparenti, sottrarli alla rimozione visiva collettiva. Ma l’abbellimento con opere discutibili e di dubbia pertinenza non contribuisce. Anzi intristisce. In certi casi stizzisce. Molise: Sappe; due tentativi di suicidio nelle carceri, domani e mercoledì visita a Istituti Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2012 Visita dei luoghi di lavoro ed assemblea con i Baschi Azzurri in servizio nei penitenziari di Isernia, Campobasso e Larino: è l’inteso programma della giornate di martedì 4 e mercoledì 5 dicembre 2012 del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo di Categoria, che vedrà in Molise la presenza di Donato Capece, Segretario generale del Sappe, di Umberto Vitale, Segretario generale aggiunto, e Giovanni Lombardi, segretario regionale Sappe del Molise. “La nostra presenza in Molise” spiega Capece “vuole per prima cosa testimoniare la vicinanza e la gratitudine del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria alle colleghe ed ai colleghi delle tre carceri molisane di Isernia, Campobasso e Larino, quotidianamente impegnati in una situazione di costante sovraffollamento con significative carenze di organico. Alla data del 30 ottobre scorso, ad esempio, in tutto il Molise erano detenute 493 persone (97 imputati e 396 condannati) rispetto ai 391 posti letto regolamentari. Donne e uomini della Polizia Penitenziaria che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, svolgendo quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento”. Il SAPPE sottolinea come “i dati recentemente elaborati dall’Amministrazione Penitenziaria, riferiti agli eventi critici accaduti nelle carceri molisane nel corso del primo semestre del 2012, devono fare seriamente riflettere sulle evidente problematiche del sistema e su quanto essi vadano ad incidere sul duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Da questi dati emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena del Molise partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti. Nei primi sei mesi del 2012 in Molise 2 detenuti hanno tentato il suicidio (a Campobasso e Larino; erano stati 8 nell’anno 2011), 5 gli atti di autolesionismo - ingestione di corpi estranei, chiodi, pile, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette - (erano stati 11 nel 2011), 11 i ferimenti e 3 le colluttazioni”. Piacenza: il padre del 22enne morto in cella “non è suicidio… stava per uscire dal carcere” Il Resto del Carlino, 3 dicembre 2012 Il giovane, Francesco Cerzoso di 22 anni, era in carcere da maggio per un furto. Meno di un mese fa era stato trasferito dal carcere di Ravenna a quello di Piacenza. Alla notizia della misteriosa morte i detenuti ravennati hanno fatto una colletta per la famiglia raccogliendo 250 euro. Un giovanissimo detenuto ravennate è stato trovato privo di vita all’interno della sua cella nel carcere di Piacenza. Si tratta di Francesco Cerzoso, di 22 anni, in carcere per espiare una breve pena - otto mesi - per un furto. “Mio figlio avrebbe dovuto lasciare il carcere domenica (domani ndr). Non posso credere che si sia ucciso” ha detto il padre che ieri mattina si è rivolto all’avvocato Carlo Benini per poter seguire da vicino l’inchiesta giudiziaria avviata dalla Procura di Piacenza. Primo atto dell’inchiesta è l’autopsia che verrà eseguita stamane. Dovrebbe servire a chiarire le cause della morte. Nel quesito, il pm ha anche chiesto di accertare se il corpo presenta lesioni e di che genere. Il padre ha riferito all’avvocato Benini che in un primo momento gli avevano parlato di un suicidio, mentre in un secondo momento dal carcere gli avevano comunicato che la morte era dovuta a un improvviso arresto cardiaco. “Voglio la verità” chiede il padre, affranto. Di suicidio, in relazione alla morte di Cerzoso, giovedì aveva parlato anche il segretario generale aggiunto del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Giovanni Battista Durante: “È l’ennesima tragedia nelle carceri sovraffollate”. In particolare, per quanto riguarda Cer-zoso, la prima notizia riferiva di una morte per inalazione di gas dal fornellino, poi smentita (non è raro per i detenuti utilizzare il gas butano per inebriarsi). Francesco aveva alle spalle una piccola serie di piccoli reati contro il patrimonio. L’ultimo arresto risaliva al maggio scorso: fu trovato in sella a uno scooter delle poste appena rubato. Il suo difensore, l’avvocato Luca Berger, patteggiò la pena a otto mesi di reclusione. Il giovane detenuto era stato trasferito al carcere di Piacenza da Ravenna meno di due mesi fa. Avendo sempre mantenuto una buona condotta, Cerzoso sarebbe uscito con 45 giorni di anticipo. Pavia: detenuto di 27 anni si impicca in cella, è ricoverato in condizioni gravissime di Maria Fiore La Provincia Pavese, 3 dicembre 2012 È in condizioni disperate Giuseppe G., 27 anni, che ieri si è impiccato nella sua cella del carcere di Torre del Gallo. Era stato trovato in arresto cardiaco ed è stato trasportato al pronto soccorso. I sindacati: “Sorveglianza più difficile con celle sovraffollate e personale scarso”. Ha aspettato che il compagno di cella uscisse per l’ora di socializzazione. Una volta rimasto solo con la sua disperazione, provocata dalla notizia di un prolungamento della detenzione, ha cercato di mettere in pratica il suo proposito, annodando tra loro le lenzuola, per ricavarne una corda. Gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno salvato per un soffio. Giuseppe G., un detenuto di 27 anni originario di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, era già in arresto cardiaco, quando è stato soccorso. È stato portato in condizioni gravi all’ospedale, dove è stato sottoposto agli accertamenti del caso. Il tentativo di suicidio è avvenuto ieri mattina, poco prima delle 11, nel carcere di Torre del Gallo. In base a quanto è stato ricostruito, il detenuto, che era da tempo in una condizione di fragilità psicologica e fisica, sarebbe dovuto uscire dal carcere a ottobre, ma la liberazione era stata posticipata al 2013 sulla base di un ordine di esecuzione pena, per reati contro il patrimonio, diventata definitiva. Quando è rimasto da solo, ha tentato di mettere fine alla sua angoscia. Ma è stato salvato dagli agenti. “Per prevenire questi episodi la polizia penitenziaria fa il possibile - spiega Salvatore Giaconia, delegato regionale del sindacato Osapp. Il sovraffollamento del carcere, che ospita attualmente 530 detenuti e si prepara con il nuovo padiglione ad accoglierne altri 390, non aiuta a gestire al meglio queste situazioni. Il personale, infatti, è sempre più ridotto. In queste condizioni il carcere finisce per diventare un contenitore di persone perdendo del tutto la sua funzione rieducativa”. Nuoro: Sdr; nella Colonia Penale di Mamone nuovo record stranieri (93%) e manca lavoro Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2012 “È ulteriormente aumentato il numero di stranieri nella Colonia Penale di Mamone, in provincia di Nuoro, che vanta un’estensione territoriale di circa 2.700 ettari. L’arrivo di altri 17 cittadini privati della libertà ha portato l’indice al 93% (aveva raggiunto l’88% a ottobre). Il nuovo record nazionale di stranieri però non ha migliorato le condizioni di vita dei detenuti che purtroppo, a fronte di un alto numero di presenze, non possono avere garanzie di lavoro adeguate nonostante i programmi di valorizzazione delle produzioni agricole”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme sottolineando che “i soldi per il finanziamento delle attività lavorative straordinarie e comuni sono insufficienti e la maggioranza dei ristretti è costretta a rimanere per lungo tempo inattiva nei cameroni”. “La Sardegna - sottolinea Caligaris - è l’unica regione italiana con tre colonie penali e quindi con il più alto indice di terreni destinati a servitù penitenziaria. I cittadini privati della libertà che stanno scontando il residuo di pena all’aperto sono prevalentemente marocchini, tunisini e rumeni. Il dato appare ancora più significativo se si considera che per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con i dati aggiornati al 30 settembre 2012, i detenuti stranieri costituiscono complessivamente il 36% dei reclusi nei 206 Istituti della Penisola. Al secondo posto della graduatoria nazionale si colloca un’altra colonia penale sarda quella di Is Arenas con il 78%”. “Una così massiccia presenza di stranieri - rileva la presidente di Sdr - è un ulteriore segnale inequivocabile di come il Dipartimento non rispetti il principio della territorialità della pena. La maggior parte dei cittadini comunitari ed extracomunitari vengono trasferiti dal Continente, principalmente dall’Italia settentrionale dove spesso risiedono familiari o dove hanno creato relazioni sociali con conterranei. A conclusione della pena rischiano quindi di non trovare più le persone con le quali avevano convissuto con negativi effetti di disadattamento. La netta superiorità numerica di cittadini prevalentemente islamici genera inoltre talvolta reciproca insofferenza con attriti non sempre controllabili al punto che alcuni detenuti sardi rinunciano alla colonia penale. Anche il cappellano spesso si ritrova a celebrare la Messa domenicale con pochi fedeli. A determinare il più profondo malessere è però la scarsità dell’attività. A parte alcune borse-lavoro infatti la cassa delle ammende è praticamente vuota e quindi anche nelle colonie è stato necessario - conclude Caligaris - organizzare le turnazioni con lunghi periodi di riposo forzato che generano ancora più profondi malesseri e tensioni”. Vicenza: dopo la denuncia di Rita Bernardini ora il Dap prepara visita ispettiva al carcere www.clandestinoweb.net, 3 dicembre 2012 Dopo la visita ispettiva al carcere di Vicenza, nel corso della quale ha constatato lo stato di degrado e grave sovraffollamento della struttura e ha raccolto la testimonianza di alcuni detenuti che hanno avuto il coraggio di denunciare maltrattamenti e pestaggi, la deputata del partito radicale Rita Bernardini risponde all’onorevole Sbrollini che ha incautamente affermato: “S. Pio X, macché pestaggi. È “solo” troppo affollato”. Quel “solo”, forse l’on. Sbrollini non lo sa, vuol dire illegalità, vuol dire trattamenti inumani e degradanti secondo la Corte Europea dei diritti dell’Uomo. spiega la deputata. “Secondo la direttiva europea 2008/120/CE del Consiglio (18 dicembre 2008) riguardante le norme minime per la protezione dei suini “il verro (suino) adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 metri quadrati”. Poi continua sottolineando la gravità delle parole di Sbrollini: Quanto al “macché pestaggi”, visto che alcuni detenuti li hanno denunciati, non sarebbe dovuta un’indagine? È così sicura che non ci sia, magari anche tra il personale, qualcuno vi che abbia assistito? Il dott. Cascini del Dap, non è stato così liquidatorio come l’on. Sbrollini quando alla mia email ha risposto: “Gentile Onorevole, grazie per avermi scritto. Ho letto la Sua interpellanza e la gravità dei fatti segnalati mi ha indotto a fissare a breve una visita ispettiva generale presso l’istituto. Sarò lieto, di tenerla al corrente dell’esito anche in via del tutto informale”. Di seguito l’articolo de Il Giornale di Vicenza di domenica 2 dicembre: “L’on. Sbrollini smentisce la collega radicale Bernardini. “S. Pio X, macché pestaggi. È “solo” troppo affollato”. L’on. Rita Bernardini, radicale, aveva accusato: “In carcere a Vicenza ho notizie di pestaggi”. E su questo aveva presentato un’interrogazione. “Mi trovo in disaccordo con l’interrogazione e le affermazioni della collega Bernardini - ha replicato la parlamentare vicentina Daniela Sbrollini (Pd). Ho avuto modo di visitare il carcere di Vicenza e ho potuto notare il lavoro che il personale penitenziario svolge in modo eccellente ogni giorno. I problemi a Vicenza ci sono e li ho più volte denunciati, in piena sintonia con il dottor Tolio e il garante dei detenuti della città, e riguardano la carenza di personale rispetto al numero dei detenuti, il sovraffollamento e la conseguente minaccia di un’emergenza sanitaria. È giusto tenere alta l’attenzione sulla drammatica realtà delle carceri italiane, ma dobbiamo anche ammettere che l’istituto di Vicenza, pur fra tante difficoltà, funziona ancora! bene, soprattutto se messo a confronto con quelli che purtroppo sono gli standard del nostro paese”. “Mi trovo d’accordo col Ministro Severino - conclude - quando dice che la detenzione dev’essere utilizzata solo quando le altre misure alternative non si possono adottare”. Rieti: il Garante; detenuti ed operatori privi di assistenza sanitaria durante la notte Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2012 Il Garante dei detenuti Angiolo Marroni “in caso di necessità, operatori costretti a chiamare guardia medica e 118. una situazione insostenibile che mette a rischio la salute di centinaia di persone”. Assistenza medica ed infermieristica preclusa, nelle ore notturne, per gli oltre 300 detenuti e per le decine gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Rieti, quello che è stato definito il fiore all’occhiello del sistema penitenziario regionale. Lo ha denunciato, in una conferenza stampa, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo cui, “è già successo che, in casi di necessità e di urgenza, agenti ed gli operatori siano costretti a ricorrere alla guardia medica del capoluogo reatino o, nelle situazioni più gravi, al 118. Ma, questo, è un sistema di emergenza che non può funzionare, visto che nei casi di necessità ogni minuto è essenziale per salvare la vita di una persona”. La mancanza dell’assistenza notturna è da addebitarsi alle carenze di personale e di risorse finanziarie. Infatti, dopo il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero di Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e, da questo, alle Asl, a Rieti è stato trasferito personale sufficiente alla copertura di un bacino di detenuti di 150 unità, ma inadatto ai livelli di presenze attuali. Attualmente nel carcere c’è un medico incaricato dalle 08.00 alle 11.00, poi c’è un medico sostituto ex siais che tutti i giorni, tranne il mercoledì, svolge la sua attività dalle 11 alle 14 ed il sabato e la domenica dalle 8.00 alle 14. 00. Si registra un turno di guardia medica dalle 14.00 alle 20.00. Il personale infermieristico è presente dalle 07.00 alle 21.00. La Asl ha richiesto, con diverse note alla Regione, la concessione di deroghe per l’assunzione di figure professionali necessarie a garantire l’assistenza ai detenuti. Alla Regione è stato anche segnalato che, per non incorrere in problemi di responsabilità penale, sarebbe necessario assumere - anche a tempo determinato di almeno 1 anno - di 6 dirigenti medici, uno psicologo, 7 infermieri, 2 tecnici di radiologia e un assistente sociale. Ma, su questo punto, la Asl è frenata dal Piano di Rientro del debito sanitario imposto alla Regione Lazio. In questi mesi, in attesa di risposte, diversi operatori hanno fornito, a titolo volontario, un aiuto per affrontare la situazione. A quanto risulta al Garante, il Direttore Amministrativo e il Direttore Sanitario della Asl, in assenza di risposte certe, hanno segnalato con un esposto la situazione alla Procura della Repubblica. La mancanza dell’assistenza sanitaria h 24 a Rieti è, secondo il Garante, “la criticità fondamentale di questo istituto, che non si riscontra in nessuna altra struttura della nostra Regione”. Per questi motivi, nei mesi scorsi il Garante aveva scritto al Ministro della Giustizia Paola Severino (dopo la visita che il responsabile del dicastero aveva compiuto proprio nel carcere di Rieti), al presidente della Regione Lazio Renata Polverini, al Direttore Generale della Asl reatina Rodolfo Gianni e al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maria Claudia Di Paolo sollecitando invano, una soluzione al problema. “È riconosciuto da tutti che quello alla Salute è il diritto più a rischio nelle carceri italiane - ha concluso il Garante Angiolo Marroni - soprattutto ove si consideri che un libero cittadino può scegliere il medico a cui rivolgersi, un detenuto ovviamente no. Come ufficio del Garante, in questi ultimi mesi abbiamo acceso un faro sullo stato della sanità penitenziaria regionale ed i risultati sono stati sconfortanti. Ciò che abbiamo concluso, in attesa di tempi migliori, è che occorre razionalizzare le risorse economiche e professionali a disposizione per cercare di risolvere le problematiche più gravi della tutela della salute in carcere. A Civitavecchia, ad esempio, insieme alla Asl locale abbiamo varato la prima Carta dei Servizi sanitari per i detenuti che rappresenta una grande conquista di civiltà. Lo stesso occorre fare qui a Rieti. Non possiamo fare di questa struttura penitenziaria un fiore all’occhiello e, poi, lasciare centinaia di detenuti e di operatori senza assistenza medica ed infermieristica durante la notte”. Perilli (Pd): per intervenire a Rieti si aspetta il morto? “Rieti è la provincia piu umiliata dalla Giunta Polverini. Ha solo ospedale, ma vanta anche l’unico carcere del Lazio -ospita 300 detenuti , il doppio della popolazione prevista- senza assistenza sanitaria 24 ore su 24. Essere detenuti a Rieti significa anche perdere il diritto alla salute. La denuncia del Garante per i detenuti Angiolo Marroni, è drammatica ed evidenzia che tutto quanto fatto dalla Polverini per le terre reatine in questi due anni era, al 90% ,propaganda. Del carcere di Rieti aveva detto ai quattro venti che si trattava di un modello, intendeva in negativo. I detenuti cosi come il personale usufruiscono del sanità a mezzo servizio nelle ore diurne che diventa nulla dalle 20 di ogni giorno. La Regione non ha mai concesso alla Asl deroghe per l’assunzione del personale necessario a garantire il diritto alla salute ai detenuti e agli stessi liberi cittadini di Rieti e provincia, come invece ha fatto per tutte le altre aziende sanitarie e ospedaliere del Lazio. In questi due anni la Polverini ha portato nelle carceri del Lazio tanti cantanti ma a Rieti nemmeno un medico. Sulla vicenda è stato presentato, dalla stessa direzione Asl, anche un esposto alla Procura della Repubblica, il Garante ha coinvolto tutte le articolazioni dello Stato, ma non è stato fatto nulla. Per intervenire si aspetta il morto?”. Lo dichiara in una nota il Consigliere Pd, Mario Perilli. Catania: su misure alternative è polemica tra Camera Penale e Tribunale di Sorveglianza La Sicilia, 3 dicembre 2012 Nel corso di una conferenza stampa tenuta al Palazzo di Giustizia di Catania, il Presidente della Camera Penale “Serafino Famà”, avv. Giuseppe Passarello, ha rilasciato una intervista, pubblicata dal giornale “La Sicilia” del 23 novembre 2012, nella quale ha espressamente dichiarato che la legge Gozzini (che consente ai detenuti meritevoli di poter fruire di misure alternative alla detenzione in carcere) “è talmente disattesa a Catania che in un anno, su 281 richieste di applicazione da parte di detenuti che avevano i requisiti per ottenere la misura alternativa, il Tribunale di Sorveglianza di Catania ne ha accolte solo 16”. A riguardo si precisa quanto segue. Il Tribunale di Sorveglianza di Catania, anche se con un organico da circa due anni scoperto nella misura di un terzo rispetto al totale, e con un carico di lavoro sempre crescente in conseguenza del noto sovraffollamento delle carceri del distretto, è stato parimenti in grado di aumentare la propria produttività, assicurando inoltre che la decisione dei procedimenti di sorveglianza avvenga mediamente in 4 mesi, in tal modo dimezzando i tempi di attesa rispetto al passato. I Magistrati di Sorveglianza di Catania, consapevoli tutti della attuale drammatica situazione di sovraffollamento in cui versano gli istituti penitenziari del distretto, che di per sé sola non consente lo svolgimento concreto delle attività trattamentali intramurarie previste per il recupero sociale dei detenuti, (peraltro ripetutamente denunciata alle competenti Autorità amministrative e formalmente accertata ed affermata in sede giurisdizionale con ordinanza 5.3.2012 del Magistrato di Sorveglianza di Catania), sono certamente ben orientati riguardo alla possibilità di concedere misure alternative alla detenzione in favore dei detenuti ritenuti all’uopo meritevoli. Va peraltro precisato che il Tribunale di Sorveglianza, nell’esercizio della sua delicata funzione, ha il preciso dovere di bilanciare l’esigenza di assicurare, a fini rieducativi, il carattere umanitario all’esecuzione della pena, con l’esigenza parimenti pregnante, di ordine pubblico e di tutela della collettività, che esclude la possibilità di concedere misure alternative, nei casi in cui il collegio giudicante ritenga che l’accertata pericolosità sociale del condannato sia tale da potere essere fronteggiata solo con la detenzione in carcere. Nel rispetto di tale ruolo, il Tribunale di Sorveglianza di Catania nell’anno 2011, a fronte di 715 procedimenti sopravventi originati da altrettante richieste di concessione di misure alternative proposte da detenuti condannati con sentenza passata in giudicato, ha concesso 255 misure alternative. Nell’anno 2012, fino alla data del 29 novembre, il Tribunale di Sorveglianza di Catania ha inoltre, a fronte di 623 procedimenti sopravvenuti originati da altrettante richieste di concessione di misure alternative proposte da detenuti condannati con sentenza passata in giudicato, ha concesso 234 misure alternative. Va peraltro precisato che la popolazione carceraria sovente è rappresentata in prevalenza da detenuti in esecuzione di sentenza di condanna non definitiva, sulla vita dei quali il Tribunale di Sorveglianza non può incidere in alcun modo, in base alle sue competenze istituzionali, (così ad esempio alla data del 2.2.2012, presso la casa circondariale di Catania Piazza Lanza, su 562 detenuti presenti, solo 119 detenuti, in quanto ristretti in esecuzione di condanna definitiva, erano nelle condizioni di potere richiedere benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, al Tribunale di Sorveglianza di Catania). Alla luce delle argomentazioni di cui sopra e dall’esame delle statistiche sopra riportate emerge pertanto la netta discrasia rispetto a quanto pubblicato dal giornale “La Sicilia” il 23 novembre. Carmelo Giongrandi Presidente Tribunale di Sorveglianza presso Corte d’Appello di Catania Spoleto (Pg): 27 detenuti hanno ricevuto attestati dei corsi di formazione in informatica Adnkronos, 3 dicembre 2012 Acquisire conoscenze informatiche avanzate e di base e competenze grafiche per eseguire illustrazioni e impaginazioni grafiche. Sono le materie con cui si sono confrontati 27 detenuti della Casa di reclusione di Spoleto che hanno partecipato ai progetti finanziati dalla Provincia di Perugia con le risorse dell’asse inclusione sociale per l’orientamento, la formazione e l’accompagnamento al lavoro di persone sottoposte ad esecuzione penale. La conclusione dei percorsi formativi “Addetto operatore informatico” di primo e secondo livello e “Grafico editoriale” che rientrano nel progetto “Dai Paesi di domani”, con la consegna dei relativi attestati di partecipazione e di qualifica professionale, è avvenuta nei giorni scorsi in occasione di un evento svoltosi presso la biblioteca della sede carceraria di Spoleto. “Ci tenevamo molto ad essere qui presenti - ha detto il vicepresidente Aviano Rossi ai detenuti durante la consegna degli attestati - per dimostrare la nostra attenzione e impegno nei confronti di tutte le persone che appartengono alla nostra comunità e, in modo speciale, a quelle che si trovano in difficoltà malgrado le poche risorse finanziarie a disposizione. Questa esperienza sarà utile a voi per investire nel vostro presente e futuro, ma anche a noi per dimostrarne l’utilità e sperimentare un modello di formazione capace di diventare un cantiere sempre aperto e un punto di riferimento per coloro che avranno la sfortuna di passare qui dentro”. Soddisfazione è stata espressa anche dal direttore aggiunto Pantaleone Giacobbe, il quale, nel parlare della soddisfazione dei detenuti per aver raggiunto l’obiettivo della qualifica, definisce l’iniziativa “molto importante perché li aiuta a maturare positivamente un eventuale inserimento sociale”. Il coordinatore del progetto Telesforo Camelia ha, invece, evidenziato come l’aver ottenuto dei significativi risultati di apprendimento rappresenti una grande soddisfazione professionale. Numerosi sono stati infatti gli interventi dei detenuti i quali hanno evidenziato che i corsi, accanto all’opportunità di imparare per migliorare loro stessi e il loro futuro, sono stati anche l’occasione per occupare il tempo durante la detenzione e per socializzare con gli altri partecipanti. Siracusa: il ministro Paola Severino incontra i detenuti di contrada Cavadonna di Gaetano Scariolo Asca, 3 dicembre 2012 Prima delle celebrazioni per i 40 anni dell’Isisc, il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha fatto, sabato scorso, un salto nel penitenziario di contrada Cavadonna per conoscere le condizioni di vita dei 510 ospiti e di lavoro del personale. Ha voluto vedere il detenuto che qualche mese fa le ha fatto un ritratto e scritto una lettera. Prima delle celebrazioni per i 40 anni dell’Isisc, il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha fatto, sabato scorso, un salto nel penitenziario di contrada Cavadonna per conoscere le condizioni di vita dei 510 ospiti e di lavoro del personale. Era molto incuriosita di conoscere la storia di quel detenuto che, prima di salutarla, le ha regalato un quadro ad olio. “È stata un’esperienza emozionante - spiega il direttore del carcere, Angela Gianì - anche perché la visita del ministro non è stata affatto formale. Ha voluto vedere il nostro biscottificio, rimanendo molto sbalordita dal lavoro che viene svolto in quello che è uno dei nostri fiori all’occhiello. Ha voluto che fosse scattata una foto con il personale che ogni giorno ci mette passione”. Il ministro si è soffermato, per qualche minuto, con un centinaio di detenuti, raccolti nella cappella del penitenziario che ospitava il reliquiario della Madonna delle Lacrime. “C’era - dice il direttore del carcere, Angela Gianì - il rettore del Santuario della Madonna delle Lacrime, Luca Saraceno, che ci ha fatto questo regalo. Il ministro ha detto ai detenuti di approfittare di questo momento di pace in chiesa per portarlo anche nei loro cuori”. Si è anche parlato delle condizioni di vita nel penitenziario che ha abbondantemente superato la capienza massima, fissata intorno a 350 unità. “Il ministro - dice il direttore del carcere di Cavadonna, Angela Gianì - ci ha assicurato che il governo sta predisponendo un pacchetto per la giustizia in grado di risolvere il problema del sovraffollamento”. Il governo, infatti, ha promesso fondi per i penitenziari e soprattutto interventi legislativi per favorire le misure alternative, come i domiciliari e svuotare così le celle. Napoli: al Teatro San Carlo esposti manufatti dei giovani detenuti dell’Ipm di Nisida Adnkronos, 3 dicembre 2012 Saranno esposti, dal prossimo 5 dicembre al Teatro San Carlo di Napoli, i manufatti in ceramica e i pastori presepiali realizzati dai giovani detenuti dell’Istituto penale minorile di Nisida nell’ambito dei corsi che la Fondazione ‘Il meglio di te Onlus’ ha organizzato e portato avanti per gli ospiti della struttura penitenziaria. Il lavoro dei giovani esce dal carcere per entrare nel più antico teatro d’opera europeo e fare bella mostra dell’impegno profuso dai ragazzi in un’attività dall’alto valore culturale e sociale. Le lezioni del laboratorio, riattivato dalla Fondazione nel 2010, infatti, costituiscono un momento importante nella giornata dei detenuti e un’attività fondamentale nel complesso processo di rieducazione di ragazzi che hanno commesso reati in giovane età per cui sono privati della libertà. “Far esprimere la propria creatività in una attività di gruppo dal notevole valore artistico è lo strumento di crescita individuale e collettiva che i volontari della Fondazione puntano a fornire ai giovani attraverso questi corsi”, dichiara la presidente della Onlus ‘Il meglio di tè, Fulvia Russo, che si mostra entusiasta dell’opportunità offerta dal Teatro San Carlo di ‘ospitarè i lavori dei detenuti. “Vedere valorizzato il proprio impegno - spiega Russo - è un risultato importante per giovani che devono imparare a credere nelle proprie capacità per affrancarsi da contesti degradati”. I tanti visitatori del prestigioso teatro napoletano potranno trovare, dal prossimo 5 dicembre, i manufatti realizzati dai ragazzi di Nisida appositamente per il San Carlo, negli spazi dedicati al merchandising della struttura. Quanti lo vorranno potranno effettuare una donazione per il Progetto Nisida della Fondazione e ricevere, in cambio, uno dei manufatti marchiati “Nciarmato a Nisida”. Ascoli: grazie alla Biblioteca “Lesca” le letture animate entrano in carcere Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2012 Operatori della Biblioteca “Lesca” insegnano ai papà-detenuti a leggere le favole. La Biblioteca multimediale "Giuseppe Lesca" ha avviato una proficua collaborazione con la Casa Circondariale di Marino del Tronto di Ascoli Piceno finalizzata alla preparazione della festa che si terrà all'interno dell'istituto penitenziario in occasione di Natale: un appuntamento molto importante perché vede la partecipazione dei bambini ammessi a colloquio e delle rispettive famiglie. Gli operatori della Biblioteca sono stati contattati dalla giornalista Teresa Valiani, direttore responsabile di "Io e Caino", il periodico di informazione del carcere di Ascoli Piceno, per coinvolgere i detenuti nella preparazione della festa per i loro piccoli. Il progetto prevede di portare in carcere l'esperienza delle "Letture animate" che da più di un anno vede alla "Lesca" una vasta partecipazione di bambini di tutte le età. Allo scopo di coinvolgere in prima persona i papà-detenuti, si è pensato di affidare a loro l'animazione e la lettura delle fiabe: storie fantastiche, interattive che riescono sempre a coinvolgere, anche fisicamente, i bambini che, da spettatori, diventano co-protagonisti di mille avventure. Già le scorse settimane le bibliotecarie Barbara Domini e Daniela Traini hanno incontrato una parte del gruppo che prenderà parte all'animazione e spiegato lo scopo e la finalità della loro presenza tra le mura carcerarie. Grande e sentita è stata la partecipazione. Venerdì scorso, 30 novembre, è partito il percorso di formazione degli improvvisati attori che si cimenteranno tra incantate scenografie e buffi personaggi in due storie interamente dedicate ai bambini: "La chiocciolina e la balena" scritta da Julia Donaldson, illustrata da Axel Schefflere "Stellina",scritta e illustrata da Arcadio Lobato. Al termine delle animazioni, proprio come avviene negli incontri in Biblioteca, sono previsti anche dei laboratori di disegno e la creazione di addobbi e decorazioni natalizi con cui abbellire il salone sede dell'incontro. L'intento è quello di creare un bel momento di condivisione e di coinvolgimento tra i detenuti e i loro cari così da rendere il più piacevole possibile un così importante e significativo momento. La realizzazione del progetto è possibile grazie alla stretta collaborazione tra l'Assessorato alla cultura, gli operatori della "Lesca", il direttore del carcere dott.ssa Lucia Di Feliciantonio e il corpo di Polizia Penitenziaria. Verona: San Zeno, un antico “migrante”… ha varcato i cancelli di Montorio www.lafraternita.it, 3 dicembre 2012 Poco dopo le 10, nella prima mattina grigia e ventosa di dicembre, l’autovettura che da più di due mesi trasporta le reliquie del corpo di S. Zeno, Vescovo di Verona, attraverso il territorio veneto per incontrarsi con la gente ha fatto il suo ingresso nella Casa Circondariale di Montorio, proveniente dalla chiesa di S. Zenone degli Ezzelini, a Treviso. Coadiuvato dalla Cappellania, l’abate della basilica di S. Zeno Mons. Gianni Ballarini ha presieduto l’incontro, avvenuto nella chiesa per buona parte riempita da uomini e donne ristretti, al quale erano presenti il Direttore, il Vicecomandante e alcuni Agenti della Polizia Penitenziaria, la Garante dei detenuti e volontari. Sottolineando “l’eccezionalità dell’evento, a 1650 anni dalla morte del Santo”, ne ha brevemente tracciato la vita. Zenone, nato attorno al 300 nell’allora Mauritania, lasciata l’Africa, giunse, forse provenendo da Aquileia, a Verona, dove spese la sua vita “annunciando la Buona Novella e testimoniando la gioia di credere al Signore Gesù, amato anche dagli ortodossi e dai popoli dell’est”. Si racconta che, nella sua sobrietà, pescasse personalmente in Adige i pesci per nutrirsi. Il suo messaggio e i suoi miracoli, narrati nelle formelle del portale bronzeo della basilica a lui dedicata, “ha lasciato un’eco profonda in quanti, credenti e non, ritornano anche oggi alle radici della nostra città”, di cui è patrono e simbolo. Il piccolo coro di detenute, con Sr. Alessandra alla chitarra, ha alternato le parole intonando semplici melodie africane. “Tutti abbiamo bisogno di incontrare qualcuno che ci regala un sorriso - ha continuato l’abate - e “San Zen che ride”, segno della sua umanità e benevolenza verso tutti, ci è maestro e, in special modo quest’anno, padre della fede. Particolarmente toccante è stato poi il momento in cui tutte le persone presenti, ordinatamente a due a due, si sono avvicinate alla preziosa urna, che resterà a Montorio un paio di giorni prima di continuare il suo pellegrinaggio, e hanno ricevuto dall’abate un’immagine del Santo, compresi i detenuti che hanno fatto ritorno poi alle proprie celle portando ciascuno nel cuore chissà quale ricordo, domanda, rimpianto, desiderio, speranza. Libri: “Il candore delle cornacchie”, di Totò Cuffaro… ex governatore Sicilia, ora detenuto di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 3 dicembre 2012 Il detenuto di Rebibbia matricola 87833, tutte le sere che Dio manda in terra, segna su un doppio foglio protocollo, con un pennarello, i giorni trascorsi e quelli che mancano sui 2.130 che deve scontare: “Ho cancellato la 3.760 giornata passata in carcere, me ne restano ancora 1.754...”. Ogni tanto, per mesi, nella cella che divide con altri tre carcerati, ha riempito dei quadernetti di memorie. Spesso di notte, quando c’era finalmente un po’ di silenzio dopo ore di televisione e partite a carte e chiacchierate fiume. Sono diventati, quei quadernetti, un libro che esce domani mattina edito da Guerini. Si intitola “Il candore delle cornacchie”. Dove il canto di una cornacchia (“Ce ne sono tante qui a Rebibbia”) che si era posata sulla finestra della cella aprendo un breve e muto dialogo col prigioniero prima di volarsene via, rappresenta “il suono della libertà”. Letta la firma dell’autore, Totò Cuffaro, c’è chi si aspetterà un libro di memorie, rancori, velate allusioni, parole dette e non dette. Non è così. Certo, l’ex governatore della Sicilia insiste sulla sua innocenza: “Nessuno ha potuto dire che ho rubato o che mi fossi sporcato le mani. Ed allora che trovano? Un favoreggiamento per aver dato notizie riservate ad un politico mio amico, che poi le avrebbe date ad un mafioso. Informazione che avrebbe consentito al mafioso di scoprire la microspia che i Ros, per ordine del pm, avevano messo a casa sua, e quindi vanificare l’indagine. Non è servito tenere ed avere le mani pulite. È stato peggio. Si è trovato il modo per sporcarmi più gravemente”. Ma come dice ironico un detenuto nel film Le ali della libertà, “qui dentro siamo tutti innocenti”. Non è questo, il succo del libro di Cuffaro. Che non nomina mai Michele Ajello proprietario della clinica Santa Teresa di Bagheria e mai se non di striscio gli altri protagonisti della sue vicende, politica e processuale. Chi vuole vederlo solo come un uomo di potere messo in galera per i suoi rapporti con figuri impresentabili, sia chiaro, può trovare nel libro spunti di diffidenza anche nei suoi silenzi su questo o quel tema. Può dire: ben gli sta, e passar oltre. Così come chi ha sempre evidenziato le contraddizioni tra la sua spregiudicatezza politica e la sua devozione mariana da “lupetto” di parrocchia anni Cinquanta, può sorridere annotando che Totò nomina, prega, supplica in tutto 57 volte la Madonna, otto la Madre Celeste e poi la Beata Vergine e via così per non dire delle invocazioni al buon Gesù e del bagaglio carcerario comprendente i santini di Don Bosco e padre Pio, della Madonna di Lourdes e di quella di Medjugorje. Chi voglia andare oltre, però, nel rispetto dovuto a chi è andato in galera senza strillare insulti contro i giudici ma anzi accettando la sentenza con una dignità riconosciutagli anche dagli avversari, può trovare nel racconto dell’ex governatore molto di più. L’umiliazione delle manette così inutili per chi si era consegnato docilmente. L’assurdità del sequestro all’ingresso a Rebibbia di un plaid che gli aveva messo in borsa sua moglie Giacoma. L’ispezione corporale subita, tutto nudo, in una stanza gelida. L’incubo del “regolamento”: questo no, questo no, questo no... Colpiscono i dettagli. “Mi lavo le mani almeno venti volte al giorno”. “Continuo a chiamare al telefono mio padre e mia madre, sempre solo due volte al mese, sempre per soli cinque minuti per vòlta”. “Una donna mi sta scrivendo una cartolina ogni giorno. La prima l’ho ricevuta qualche giorno dopo che sono entrato in carcere, mi scriveva: “Ti terrò compagnia ogni giorno con un pensiero, ti accompagnerò per tutti i giorni che starai in carcere”. Mi scrive e ricevo le sue cartoline da tutte le parti del mondo, ognuna reca con sé un pensiero sempre bellissimo, ne ho già collezionati 314, le sto conservando tutte. Non so chi sia, so soltanto il suo nome, Antonella”. E sempre il rimpianto per la famiglia, il paese, la fattoria in campagna dove tiene pecore e capre girgentane della razza di Amaltea che allattò Zeus e la cavalla Ginevra e otto cani tra i quali due cirnechi dell’Etna di nome Diana e Tolstoj. Corre, Totò Cuffaro. Appena può correre, in cortile, corre. Immaginandosi sulla via di casa: “Facendo 55 giri di campo per 175 metri ogni giro sono 9 km e 625 metri al giorno avrò bisogno di 110 giorni per fare 1.058 km, tanti ce ne sono da San Michele di Ganzaria, dove si trova la mia azienda, sino a Rebibbia”. Certo, un detenuto proprio come tutti gli altri non è: “Oltre cento parlamentari sono venuti a farmi visita, deputati, senatori, parlamentari europei. Tanti prelati, ecclesiasti, semplici sacerdoti, monaci, suore, vescovi, qualche cardinale”. Tra gli altri Casini, Follini, Alfano... E su tutti, Marco Pannella, “un portento della natura, un uomo inesauribile e di una umanità prorompente” che con una generosità gratuita si presentò la notte del 31 dicembre per cenare con gli agenti e fare sentire i detenuti, compreso lui, un pò meno soli. La parte più interessante, forse, è proprio quella dedicata agli altri carcerati. Come Ciccio, un ergastolano, “detenuto modello, buono, educato, disponibile, rispettoso di tutti, volenteroso; in tutti questi anni di carcere già fatti, oltre a lavorare ha anche studiato, si è diplomato ed adesso è al terzo anno di università, Giurisprudenza; anche io sono iscritto in Legge e quindi siamo due volte colleghi, di carcere e di università”. E poi Halid, un rom musulmano che non può vedere la moglie perché non ha il permesso di soggiorno e che gli ha chiesto, per amicizia, di fare insieme il Ramadan. E ancora Santino, il compagno di cella che il primo giorno gli preparò la branda per fargli sapere che era il benvenuto. E Lamin, figlio di un capotribù dei Kunda destinato lui stesso a diventare capotribù se in carcere non si fosse malato di tristezza: “È scheletrico, ha dolore in tutto il corpo, mangia pochissimo, vomita sempre, non riesce a dormire...” Sì, sono storie che ogni detenuto potrebbe raccontare. Non solo l’uomo che a lungo è stato il padrone della Sicilia. Vale la pena però di sbarazzarsi di qualche pregiudizio di troppo per leggere almeno la storia di Gigino che una mattina fu trovato impiccato nella sua cella. Due celle distante da quella di Totò. Aveva 65 anni, doveva farne 14 per omicidio preterintenzionale e nessuno si ricordava più di lui: “Non faceva colloqui da 7 anni, non lavorava, non stava molto bene. Piccolo, magro, non parlava volentieri, passeggiava sempre solo. A me che lo salutavo e lo trattavo sempre molto gentilmente aveva dato una grande prova di apertura di fiducia, mi aveva espresso un desiderio, lui che non chiedeva niente a nessuno, mangiava solo il vitto del carcere, mi aveva chiesto se potevo fargli gustare lo sfincione, tipica pizza in teglia siciliana. È stato contento Gigino quando gli ho dato lo sfincione che avevo fatto portare per lui, lo ha diviso con i suoi compagni di cella, e mentre lo mangiava è stata la prima e l’unica volta che l’ho visto sorridere”. Cina: tribunale smentisce condanna per arresti illegali Ansa, 3 dicembre 2012 Un tribunale di Pechino ha smentito di aver condannato 10 persone (presumibilmente poliziotti) accusate di aver arrestato e detenuto illegalmente alcuni “postulanti”: i cittadini che dalle province vengono nella capitale per denunciare i soprusi subiti dalle autorità locali. In una insolita dichiarazione all’agenzia Nuova Cina, un portavoce del Tribunale del Popolo di Chaoyang, un distretto centrale della capitale, ha affermato che la notizia - pubblicata da un quotidiano e ripresa da molti siti web - è falsa. Il portavoce ha detto che una denuncia per gli arresti illegali è stata presentata, ma che nessuna decisione è stata presa fino a questo momento dai giudici. Il sistema delle “petizioni” ha le sua radici nella Cina imperiale, ma è sopravvissuto fino ad oggi. A Pechino esiste un ufficio apposito per i postulanti che vengono dalle province. Spesso, i postulanti vengono intercettati da poliziotti delle loro province d’origine o da privati assoldati dalle autorità locali per impedire che le denunce delle loro malefatte vengano presentate al governo centrale. In passato casi di prigioni segrete nelle quali i postulanti vengono tenuti prima di essere rimandati di forza nelle loro province, sono stati denunciati dalla stampa internazionale. Nessuno dei responsabili dei sequestri è stato fino ad oggi condannato dalla magistratura. Qatar: il poeta condannato all’ergastolo per “incitamento alla sovversione del governo” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 3 dicembre 2012 Se sei un monarca assoluto, è certo più facile appoggiare le Primavere arabe e la libertà di espressione altrove, anziché in casa tua. Come nel caso del Qatar. Con le sue immense riserve di gas naturale, il piccolo stato del Golfo ha dato appoggio finanziario, militare, diplomatico e televisivo (tramite Al Jazeera) a rivolte che hanno rovesciato quattro regimi - in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen. Ma quando, un anno fa, il poeta trentaseienne qatariota Muhammad Ibn al-Dheeb al Ajami ha descritto in versi la rivoluzione tunisina come un esempio per tutti gli arabi “di fronte alla repressione delle élite”, è stato arrestato. Dopo un anno in carcere, l’altro ieri, Ajami è stato condannato all’ergastolo per “incitamento alla sovversione del governo” e “offesa all’emiro”, in un processo a porte chiuse, in cui la difesa non ha potuto argomentare. Rischiava la pena di morte. Le associazioni dei diritti umani sono insorte contro l’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, con accuse di “doppio standard” e di ipocrisia. Il suo staterello a forma di pollice grande quando l’Abruzzo si è comprato prestigio e influenza sulla scena internazionale, con acquisti che vanno da Valentino a Harrods, dai Giocatori di carte di Cézanne ai Mondiali del 2022, con aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza, alle banlieue francesi e all’istruzione nel mondo al fianco dell’Unesco. Ma intanto la libertà di espressione resta limitata nell’emirato, non esistono partiti d’opposizione né una società civile. L’anno scorso ai qatarioti (una minoranza nel loro stesso Paese popolato da immigrati) sono stati aumentati gli stipendi, del 60% per gli impieghi governativi e del 120% per i militari, un incentivo a pazientare fino al 2013 per le prime elezioni legislative. Ma voci come il poeta Ajami e un gruppetto di “qatarioti pro-riforme” autori di un recente libro critico dell’autorità assoluta dell’emiro mostrano che i soldi non bastano a far dimenticare l’assenza di democrazia. Stati Uniti: serial killer trovato morto nella sua cella, ipotesi di un suicidio Ansa, 3 dicembre 2012 Un uomo di 34 anni che aveva confessato numerosi omicidi, è stato trovato morto nella sua cella di un penitenziario in Alaska, dove era in attesa dell’ inizio del processo, fissato per il prossimo marzo. Rischiava la condanna a morte. Secondo quanto hanno reso noto fonti ufficiali, si tratta probabilmente di un suicidio. Israel Keyes aveva ammesso di aver sequestrato e ucciso una ragazza di 18 anni scomparsa nel febbraio scorso ad Anchorage e di averne occultato il cadavere in un lago ghiacciato. Era stato arrestato poi in Texas, e in diverse ore di interrogatorio aveva rivelato di essere un serial killer e anche di aver rapinato due banche. “Ci aveva detto di aver ucciso anche altre persone e che ci sono i corpi di altre quattro persone (occultati) nello Stato di Washington e uno nello Stato di New York”, ha affermato il vice procuratore distrettuale Kevin Feldis, secondo cui Keyes potrebbe aver ucciso anche altre persone. Aveva anche rivelato di aver ucciso un uomo e una donna in Vermont. Fino a questo momento non è stato ritrovato nessuno dei cadaveri delle sue vittime, tranne quello della ragazza di Anchorage, ma le ricerche proseguono, hanno detto fonti di polizia. Stati Uniti: “Cnn eroe dell’anno” a 29enne nepalese che aiuta figli di detenuti Adnkronos, 3 dicembre 2012 Pushpa Basnet è stata eletta “Cnn Eroe dell’Anno” del 2012. La 29enne nepalese, scelta dal voto del pubblico sul sito della Cnn, aiuta i figli dei detenuti che non sanno dove andare una volta che i loro genitori vengono arrestati. Come si legge sul sito dell’emittente americana, spesso infatti in Nepal i bambini sono costretti a seguire i propri genitori nelle prigioni perché non hanno altro posto dove andare. Per trovare un’alternativa a questa fine, la Basnet ha creato una casa a Kathmandu, dove i bambini possono ricevere istruzione, cibo e cure mediche, e gestisce anche un programma di assistenza per i bambini che sono troppo piccoli per essere separati dalle loro madri. “Mamu (come la chiamano molti bambini, ndr) vi porterà fuori di prigione e verrete a stare da me. Questo è per i miei bambini e per il mio Paese, il Nepal. Grazie per avermi votata e per avere creduto nel mio sogno”, ha detto ieri sera la donna al momento della premiazione. In aggiunta ai 50mila dollari vinti anche dagli altri 9 “Eroi” di quest’anno, la Basnet ha ricevuto anche 250mila dollari per potere portare avanti il suo progetto. “Questi bambini - ha spiegato la vincitrice alla serata “Cnn Heroes: An All-Star Tribute”, allo Shrine Auditorium di Los Angeles - non hanno fatto nulla di sbagliato. Si sono semplicemente ritrovati in qualcosa che non capiscono. Vogliamo lavorare con il governo per portarli fuori dal carcere. Si meritano un futuro migliore”. Dal 2005, attraverso il suo centro no profit la Basnet ha aiutato oltre 140 bambini.