Da oggi la Costituzione “più bella del mondo” ha un articolo in meno Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2012 Scippati nel Decreto Stabilità i fondi (esigui) per rifinanziare la Legge Smuraglia sul lavoro penitenziario. Il grande Benigni può declamare articoli della Carta costituzionale finché vuole: da oggi però “la più bella del mondo” ha un articolo in meno. Anche se non molti se ne accorgeranno, perché è un articolo che non ha mai goduto di grandi fortune. In queste ore si è decretata la morte dell’articolo 27 della Costituzione Italiana. O perlomeno del suo terzo comma. Ricordate? Quello che recita - poche parole, sintesi di grande umanità e di una grande civiltà del diritto - “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Bene, questa rieducazione è destinata a rimanere lì, sulla carta. Costituzionale, ma pur sempre carta. Mentre le carceri vanno a rotoli (ma è la dignità del nostro Paese che va a rotoli), mentre il sovraffollamento permane inesorabile, mentre si incrementa la fila di chi abbraccia Marco Pannella sotto gli obiettivi dei fotografi e con tanta umana partecipazione, di nascosto, in tutta fretta e all’ultimo minuto, al di là dei proclami di facciata, a prevalere sono gli interessi personali e i calcoli elettorali. I pochissimi euro previsti nel decreto stabilità per rifinanziare la Legge Smuraglia, riguardante il lavoro penitenziario, vengono letteralmente scippati. Pochi soldi, vale la pena ricordare, che servirebbero a porre un argine allo scandalo e a una spesa - questa sì - senza fondo, determinata da un semplice prodotto: 67mila detenuti per una spesa complessiva pro capite al giorno di 250 euro. Lasciamo il compito a chi leggerà questo comunicato di fare in proprio la moltiplicazione. Noi ricordiamo solo due cose: che il prodotto, calcolato su 365 giorni all’anno, dà un risultato di dieci cifre, e che il lavoro penitenziario è il principale presidio medico che argina questa emorragia mortale. Emorragia non solo per il senso di umanità, ma quanto meno per le casse dello Stato. Ci diranno che non è l’unica voce sacrificata e che ci sono tanti problemi più importanti fuori dal carcere. Ma rimane veramente difficile capire il perché di un simile taglio. Ormai anche i bambini sanno che investire in rieducazione e recupero dei detenuti fa risparmiare una valanga di soldi e porta sicurezza sociale. Rubare è un termine appropriato al mondo del carcere, chi ruba è normalmente definito un ladro. Chi ha scelto di non rifinanziare la legge Smuraglia ha rubato qualcosa. Ma non ai detenuti: a tutti noi. Consorzio Rebus - Veneto, Associazione Antigone - Italia, Cooperativa Alice - Milano, Ristretti Orizzonti - Padova, Cooperativa Men At Work - Roma, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII - Servizio Carcere - Italia, Cooperativa Gulliver - Perugia, Associazione Il granello di Senape - Padova, Cooperativa Ecosol scs - Torino, Consorzio Pinocchio Group - Brescia, Cooperativa Altracittà - Padova, Cooperativa sociale 153 Onlus - Perugia, Associazione Incontro e Presenza - Milano, Cooperativa Giotto - Padova, Consorzio Tenda - Montichiari (Bs), Cooperativa Nesos - Porto Azzurro (Li), Cooperativa Il Cerchio - Venezia, Cooperativa Work Crossing - Padova Fondi al sociale, il giorno più nero, di Gabriella Meroni (Vita) Colpo di mano in Senato: tolti 300 milioni al sociale e distribuiti fondi ad personam. Per minori, detenuti, servizio civile e pace solo 16 milioni. Ne fa le spese anche l'8 per mille statale. E la legge non si può più modificare. E' affondata anche la zattera dei disperati. Nella legge di stabilità, in approvazione oggi alla Camera con tanto di fiducia (e quindi non più modificabile), è stato praticamente azzerato il fondo da 315 milioni (già tranche del cosiddetto "fondo Catricalà", presunto "fondo sociale" di Palazzo Chigi) che avrebbe dovuto essere ripartito tra importanti finalità di spesa sociale (università, minori stranieri, missioni di pace, lavoro per i detenuti ecc.). Ebbene: dopo il passaggio della legge al Senato, di quei 315 ne sono rimasti solo 16. Sì avete letto bene: 16 milioni, che dovranno essere ripartiti tra il Fondo nazionale per il servizio civile, il Fondo per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, il Fondo per il finanziamento delle missioni di pace, il Fondo affitti, il Fondo per lo sviluppo e diffusione della pratica sportiva e le Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti. Che fine hanno fatto gli altri 299 milioni? Semplice: sono andati in gran parte a tre dei precedenti destinatari dei 315 milioni, che sono stati estrapolati dalla tabella in cui figuravano con gli altri e ora saranno "premiati" con un finanziamento ad hoc. La parte del leone l'hanno fatta le università, visto che 100 milioni andranno al Fondo per il finanziamento ordinario delle università; altri 52,5 milioni sono stati destinati ai Policlinici universitari gestiti direttamente da università non statali e strutture ospedaliere e 6 milioni al Comitato italiano paralimpico. Mancano però ancora all'appello circa 140 milioni. Che fine hanno fatto? Rispondere non è facile, perché bisognerebbe andare a cercare tra le pieghe della legge di stabilità, e va comunque osservato che non è detto che i soldi "spariti" da una parte siano automaticamente "girati" da un'altra. Sta di fatto però - come ci segnala non senza disappunto l'onorevole Gabriele Toccafondi, che si era speso alla Camera proprio per salvaguardare i fondi al sociale - che al Senato sono stati inseriti diversi finanziamenti a vari enti, che alla Camera non erano contenuti nel testo di legge. Qualche esempio? 200mila euro sono stati stanziati a favore della Basilica di San Francesco in Assisi, per l'esecuzione di interventi di manutenzione ordinaria; 500mila andranno alla Lega italiana per la lotta contro i tumori; 2,4 milioni in tre anni anche alla Fondazione Ebri di Rita Levi Montalcini; un contributo straordinario di 1 milioni alla Fondazione Arena di Verona "nell'ambito della celebrazione del secondo centenario della nascita di Giuseppe Verdi"; 130mila euro al Castello di Udine; 2 milioni di euro all'Ente Giardini Botanici Villa Taranto. Chicca finale: il fondo dell'8 per mille a gestione statale "è ridotta di 85,5 milioni per l'anno 2013 e 14 milioni per l'anno 2014"; sempre dall'8 per mille si dovranno poi pescare altri 8 milioni che andranno "a interventi diretti a fronteggiare i danni conseguenti agli eccezionali eventi alluvionali che hanno colpito il territorio della Provincia di Teramo". Che dire? Siamo proprio agli sgoccioli... Antigone: dal ministro Severino solo parole. Molti detenuti tornano dentro “Nel disegno di legge sulla stabilità sono stati azzerati i fondi per il lavoro delle persone in esecuzione penale un tempo presenti nella legge Smuraglia, ovvero una buona legge che prevedeva vantaggi fiscali per le cooperative che assumevano detenuti”. Lo segnala Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri. “Si tratta - dice - di un fallimento del ministro della Giustizia Paola Severino che tante parole (solo parole) ha detto sul tema del lavoro quale strumento di lotta alla recidiva. Ora grazie al Governo e a chi ha votato quel provvedimento - spiega Gonnella - il sovraffollamento crescerà, visto che perderanno il posto di lavoro centinaia se non migliaia di persone in regime esterno che così faranno rientro in carcere. Per i detenuti - conclude - l’anno finisce male. Molte lacrime di coccodrillo sono state versate in modo ipocrita”. Farina (Pdl): reintrodurre fondi per lavoro in carcere “In tanti vanno da Pannella per ringraziarlo e sostenerlo nel suo impegno per la giustizia nei confronti dei detenuti, e poi si lascia passare nell’indifferenza l’indecente decisione del Senato di eliminare lo stanziamento di pochi milioni di euro, stabilito dalla Camera d’intesa con il ministro Severino e quello dell’Economia, per il rifinanziamento della legge Smuraglia che favorisce il lavoro in carcere. Una vergogna a cui il governo dovrebbe rimediare con un decreto urgente, com’è urgente la necessità di dare un minimo di speranza ai carcerati”. Lo ha detto nell’Aula della Camera Renato Farina. Giustizia: se le carceri sovraffollate tradiscono la Costituzione di Giancarlo De Cataldo (Magistrato e scrittore) La Repubblica, 21 dicembre 2012 Il digiuno di Marco Pannella ha il merito di tenere desta l’attenzione sull’intollerabile situazione delle carceri italiane. Molte voci autorevoli si sono levate, in questi ultimi giorni, dando vita a una sorta di dialogo a distanza con le istanze poste dal leader radicale. Nelle opinioni prevalenti sembra dominare una sorta di rassegnato realismo: sappiamo che le carceri italiane non sono gli alberghi a cinque stelle di cui in anni passati parlò, sciaguratamente, un ministro della Repubblica, e abbiamo fatto molto, in termini di depenalizzazione, misure alternative, ecc. Ma l’amnistia, per esempio, che pure servirebbe quanto meno a tamponare l’emergenza, è impraticabile per difetto delle condizioni politiche, la legislatura sta finendo e qualche disegno di legge qualificante appare destinato a naufragare. Pannella parla, con l’abituale enfasi, di “flagranza criminale” dello Stato; gli si risponde “prendiamo atto, siamo consapevoli, facciamo il possibile”. Che, peraltro, e anche di questo vi è consapevolezza, non è abbastanza. Non è solo dialettica fra passionalità e realismo, fra emotività e freddezza. Il dialogo a distanza investe un punto nodale, e irrisolto, che non appartiene né alla tecnica legislativa né all’organizzazione delle risorse, ma alla struttura stessa del sistema penale italiano, e, soprattutto, al grado di accettazione e condivisione degli italiani. Basta scorrere i commenti che si rincorrono sul web per farsi un’idea degli umori dominanti: non è tanto il fatto che si ironizzi sul digiuno a colpire, quanto la netta percezione che trent’anni e passa di politica più o meno riformatrice in materia carceraria non abbiano prodotto nessun serio mutamento culturale. Una buona parte dei nostri cittadini, forse la maggioranza, resta convinta che l’unica ricetta per chi delinque sia una cella ben solida, poi prendere la chiave e gettarla via. E amen. Il destino dei carcerati lascia indifferenti, non accende passioni. Al massimo, c’è chi chiede di costruire nuove carceri e chi, per contro, ne diffida, già rassegnato all’inevitabile sequenza di corruzioni all’italiana. Un coro unanime e impressionante che accomuna sedicenti progressisti e conservatori e sommerge di lazzi e becere facezie le poche voci problematiche. Il popolo, almeno quello del web, invoca repressione e galera. La politica rischierebbe persino di farci una bella figura; se non avesse la sua buona parte di responsabilità: dopo vent’anni di urla scomposte, di allarme sicurezza, di leggi esasperatamente punitive, l’effetto era prevedibile. Una cultura della vendetta, livorosa e ghignante, sembra imporsi. Non ne siamo esenti - parlo per esperienza diretta - neanche noi magistrati. Ma se le cose stanno così, è una sconfitta non solo per Pannella e per coloro - e non mancano - che continuano a credere nell’utopia di un carcere diverso. È una sconfitta per la stessa Costituzione. Oggi la nostra Carta fondamentale è tornata di moda. Il rischio è che diventi un oggetto di culto da venerare, ma tenendosi a debita distanza. Che se ne citino, con enfasi, i passi che più ci convengono, stendendo un velo d’oblio su tutti gli altri. Chissà quanti fra coloro che fanno del sarcasmo su Pannella e sui “poveri delinquenti” l’altra sera provavano fremiti di orgogliosa commozione davanti allo show costituzionale di Benigni. Bisognerebbe, con la santa pazienza, ricordar loro che è proprio la Costituzione a fissare i parametri della “giusta” pena, imponendo allo Stato di attivarsi per promuovere la rieducazione dei condannati. E, piaccia o non, un carcere sovraffollato, un carcere che non offre lavoro, cultura, istruzione, e, dunque, speranza, un carcere che alimenta suicidi è un carcere fuori dalla Costituzione. Giustizia: il ddl “Severino” sulle misure alternative non passa, l’amarezza del ministro Corriere della Sera, 21 dicembre 2012 Scende il sipario sul ddl per la “messa in prova” e le misure alternative, che avrebbe dovuto alleggerire la pressione carceraria, giunta a livelli insostenibili e denunciata con veemenza da Marco Pannella, io sciopero della fame e della sete da undici giorni. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha rinviato all’esame della commissione Giustizia la norma, che non sarà quindi votata dall’Aula del Senato. Come si sa la legislatura è agli sgoccioli, la legge è stata avviata su un binario morto. “Il provvedimento avrebbe potuto essere approvato questa mattina, senza recare alcun danno a nessuno”, ha commentato il ministro della Giustizia Paola Severino, esprimendo tutta la propria amarezza per una norma che avrebbe potuto consentire (salvo diverse disposizione del giudice) la scarcerazione di 2.100 detenuti, evitando un ulteriore sovraffollamento: “Sarebbe stata una pagina bellissima per concludere la mia esperienza di ministro della Giustizia. Purtroppo vado via con questa amarezza, ma grazie comunque per il sostegno che ci avete dato”, ha aggiunto il guardasigilli. Le forze contrarie al provvedimento sono Lega, Cn, Idv e il nuovo gruppo Fratelli d’Italia, che hanno chiesto il ritorno in Commissione. Subito dopo il discorso di Severino, anche il presidente della commissione giustizia, Filippo Berselli, si è detto d’accordo sulla necessità di tornare in commissione. “La mia è una decisione sofferta” ma “devo rinviare in commissione il decreto sulle pene alternative al carcere” per “garantire la possibilità a quest’aula di lavorare produttivamente, mentre questo testo richiederebbe un intero pomeriggio di dibattito senza che si raggiunga l’effetto finale, per compensare il mancato dibattito in commissione”. Ha detto il Presidente del Senato, Renato Schifani intervenendo in Aula. Marco Pannella aveva già annunciato di voler proseguire ad oltranza lo sciopero della sete contro “il degrado delle carceri e l’inciviltà della giustizia italiana”. Giovedì anche lo stesso presidente del Senato si era recato in visita dal leader radicale, nel tentativo di convincerlo a desistere da una protesta non violenta che mette a rischio la sua stessa incolumità. “Mi troverà - aveva detto Schifani - accanto alle sue battaglie per la giustizia e per carceri umane quando non sarò più presidente del Senato”. Severino: amarezza per esito confronto su ddl misure alternative Il ddl sulle misure alternative non introduce, per i condannati per stalking o furto, esenzioni particolari dalla carcerazione preventiva rispetto a quanto già previsto dalla normativa attuale in riferimento ai reati con pena non superiore ai quattro anni. Lo specifica in aula al Senato il ministro della Giustizia Paola Severino, rispondendo alle critiche mosse da alcuni gruppi che hanno chiesto il rinvio in commissione. Un esito dato per scontato, se il ministro confessa la sua “amarezza” per quella che sarebbe stata una “bellissima pagina” a conclusione del suo impegno di governo. Il Guardasigilli ha osservato che alla Camera “i gruppi della maggioranza hanno condiviso con forza il provvedimento, nelle sue premesse e nei suoi contenuti”. In particolare, rispetto alle osservazioni dell’Idv, Severino sottolinea che il provvedimento dice al giudice che può, al momento della sentenza, comminare l’arresto, o la detenzione domiciliare o la messa alla prova: il provvedimento, insomma, “non impone nulla al giudice”. E poi “si impone di sentire per la messa alla prova il parere della persona offesa, che noi consideriamo determinante in questa legge”. Sul numeri dei detenuti interessati, Severino ha riferito che in base ai dati da lei richiesti, le persone coinvolte sarebbero 2100, non solo 200 come è stato detto. “In altri Paesi - ha detto - le misure alternative vengono applicate nel 75% dei casi, in Italia si va in carcere nell’85% dei casi mentre vorremmo che il carcere fosse l’extrema ratio per avere un Paese al passo con i tempi”. Per il Guardasigilli, inoltre, anche gli avvocati sono consapevoli della priorità di questo provvedimento. E ha concluso: “Sarebbe stato per me una pagina bellissima concludere con questo provvedimento la mia esperienza di governo: vado via con questa amarezza ma grazie comunque per il sostegno che ci avete sempre dato”. Severino: ddl non favoriva colletti bianchi ma poveri disgraziati “Ho sperato fino all’ultimo che questo Parlamento potesse avere oggi una giornata bella e importante”. Lo dice il ministro della Giustizia Paola Severino che parlando con i giornalisti al Senato afferma di “non avere armi per contestare la scelta politica” del rinvio in commissione del ddl sulle misure alternative al carcere, ma contesta quanto di sbagliato è stato detto sul piano tecnico. “Non era - aggiunge - un’amnistia mascherata, come è stato detto: c’è un giudice che decide chi può andare alla detenzione domiciliare, chi può essere messo alla prova e chi no. Non è vero che era un provvedimento per i ‘colletti bianchì: un colletto bianco per un reato con pena fino a quattro anni solitamente non va in carcere, se difeso bene. Questa era una legge per i poveri disgraziati”. A chi ha parlato di rischio di detenzione domiciliare per chi è stato condannato a 15 anni, Severino da un lato la ritiene un’ipotesi “impossibile” ma “anche volendolo ammettere, mi chiedo quale giudice deciderebbe, di fronte ad una condanna a 15, di dare i domiciliari o la messa alla prova. È ovvio che il filtro del giudice lo impedirebbe”. Un altro numero sbagliato è quello della platea dei beneficiari: per il ministro sarebbero di più dei 200 indicati dai critici, per attestarsi, invece, secondo le ultime stime del Dap, sui 2.800 l’anno: sono i detenuti che ogni anno entrano in carcere per quella tipologia. “Non è vero, inoltre - prosegue Severino - che avrebbe inciso sui reati contro la pubblica amministrazione: corruzione e concussione sono ampiamente fuori da questo provvedimento”. Finocchiaro (Pd): non approvare ddl è fallimento politica “Il provvedimento sulle pene alternative è uno dei più importanti che il Parlamento si sia trovato a esaminare e uno dei più cari alla cultura politica del mio gruppo e del mio partito e io penso che sarebbe stato giusto che il Parlamento lo discutesse ed approvasse immediatamente”. Lo ha detto Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd, intervenendo nell’aula di Palazzo Madama. “È molto facile - ha aggiunto Finocchiaro - fare su questo testo esercitazioni parossistiche, perché è ovvio che tutte le volte che si discute di sicurezza dei cittadini, di sanzioni penali e di criminalità la tentazione della battuta ad effetto è sempre dietro l’angolo”. “Parliamo di un provvedimento che riguardava pene detentive non carcerarie e che prevedeva comunque, proprio per evitare eccessi, sempre e comunque il filtro del giudice e del soggetto finora estraneo delle parti offese. Parliamo di un provvedimento la cui lunga discussione ha prodotto, in questi mesi, speranze in esseri umani e nelle loro famiglie. Io credo che non approvarlo sia stato un fallimento di uno dei compiti essenziali della politica: rispondere alle promesse che fa e mantenerle, specie quando riguardano la carne viva delle persone”. “Ricordo le numerosissime perorazioni del presidente Napolitano sulle carceri, ricordo il convegno al Senato organizzato dal presidente Schifani, ricordo il grande impegno del ministro Severino e ricordo che il testo arrivava dalla Camera, dove era stato approvato con un consenso amplissimo e vero. Io - ha concluso la capogruppo Pd - penso che oggi sia persa una grande occasione”. Marcenaro (Pd): destra garantista a parole e forcaiola nei fatti “Il blocco di questa mattina al Senato della legge sulle pene alternative è l’ultima manifestazione di una destra garantista a parole e forcaiola nei fatti”. Lo ha dichiarato Pietro Marcenaro, senatore Pd e presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama. “Si è trattato di una decisione grave, che colpisce un tentativo di riforma limitato ma importante e concreto, una prima risposta alla grave violazione dei diritti umani nelle carceri italiane”, ha aggiunto. L’iniziativa della Lega Nord, alla quale il Pdl si è accodato, è un altro schiaffo alla ricerca di legalità e giustizia - ha proseguito Marcenaro. Nella prossima legislatura la nuova maggioranza che uscirà dalle elezioni dovrà affrontare con decisione questo problema e separare la parola “pena” dalla parola carceri, ricorrendo alla prigione solo in mancanza di altre possibilità. Di qua bisogna partire per affrontare le cause profonde del sovraffollamento penitenziario. Ugl: stop ddl dimostra che non s’è voluto fare sul serio “Lo stop al ddl sulle pene alternative al carcere dimostra che, ancora una volta, sulle criticità del sistema penitenziario non si è voluto fare sul serio”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, aggiungendo che “ci uniamo al rammarico del ministro della Giustizia, Paola Severino, perché ancora una volta il problema del sovraffollamento e della dignità della detenzione subisce uno stop ingiustificato che si rifletterà sensibilmente sulla gestione degli istituti e sul lavoro che le donne e gli uomini della polizia penitenziaria portano avanti con impegno”. “Si tratta di un provvedimento importante che, anche se nel suo impatto generale avrebbe determinato una diminuzione minima del numero dei detenuti ristretti, avrebbe comunque consentito di alleggerire i carichi di lavoro che hanno raggiunto livelli insostenibili per gli agenti. Inoltre, se si pensa di risolvere le criticità degli istituti penitenziari riducendo la vigilanza attiva, senza un adeguamento strumentale e strutturale, corriamo davvero il rischio di far implodere il sistema”, conclude Moretti. Berselli (Pdl): bene rinvio ddl in commissione Nel corso dell’esame del disegno di legge sulle misure alternative al carcere, Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia, ha condiviso la richiesta avanzata dal gruppo “Fratelli d’Italia - Centrodestra nazionale” con cui se ne chiedeva il ritorno in commissione. Berselli ha ricordato che il testo, a causa della sessione di bilancio, è stato esaminato dalla sua commissione per soli 15 minuti nella seduta di ieri e che era pertanto necessario un serio confronto data la delicatezza e la complessità del provvedimento. Il senatore ha anche fatto presente che la sospensione del processo penale con la messa alla prova avrebbe comportato dopo due anni e senza che l’imputato avesse trascorso nemmeno un giorno di carcere la estinzione di 23 reati contro la Pubblica Amministrazione, anche particolarmente gravi, come il peculato, la malversazione, la corruzione, l’istigazione alla corruzione, tutti reati per i quali i partiti del centro sinistra e l’Udc vorrebbero aumentare i termini di prescrizione, giudicati troppo brevi. Si trattava, secondo Berselli, di un’amnistia mascherata. Il ddl è stato successivamente rinviato in commissione. Li Gotti (Idv): bene stop a provvedimento su pene alternative “Con soddisfazione abbiamo rispedito in Commissione il pessimo provvedimento sulle pene alternative alla detenzione voluto dal ministro Severino. Un testo tecnicamente sbagliato, un mostro giuridico, che sicuramente in questa legislatura non vedrà mai la luce. Votando questo provvedimento noi oggi avremmo consegnato al Paese una legge che di fatto avrebbe introdotto un’amnistia e un indulto striscianti e permanenti, non conferita per via legislativa, ma giudiziale. Per esempio, un condannato a 10-12 anni di carcere si sarebbe visto sostituita la pena con i domiciliari fino ad un massimo di quattro anni. Tra l’altro, stiamo parlando di un provvedimento che nell’immediato sul carcere non avrebbe nessun impatto, infatti sono poco più di 200 i soggetti che rientrerebbero in questo beneficio, che invece avrebbe effetti perversi nel tempo. Sarebbe bastato introdurre tre parole: ossia fare riferimento non solo ai quattro anni come fascia di reato, ma alla pena in concreto applicata dal giudice, intervenendo sui giudicato. Ci vuole riflessione, tempo e attenzione per approvare una legge che modifica una cinquantina di articoli di procedura penale. Se l’Italia dei Valori non si fosse battuta per chiedere il ritorno in Commissione del provvedimento, con i risultati scandalosi che avrebbe prodotto, alla faccia della sicurezza e della certezza della pena, avremmo regalato al Paese l’ennesimo pacco di Natale”. Lo ha dichiarato il senatore Luigi Li Gotti, responsabile giustizia dell’Italia dei Valori. Marsico (Caritas): rinvio ddl pene alternative dimostra disinteresse “È un’ennesima prova che questa non viene considerata un’urgenza per il Paese”. Così il vicedirettore della Caritas italiana Francesco Marsico commenta a Radio Vaticana il rinvio in commissione del disegno di legge sulle pene alternative al carcere. “È sicuramente una conferma, piuttosto che un atto grave - ribadisce - Una conferma drammatica di come un problema grave in termini di quantitativi e di sofferenze, che produce sul piano sociale il mancato reintegro delle persone che hanno commesso reati, non sia appunto una priorità del Paese”. Per Marsico, “sicuramente deve essere una priorità che dovrà affrontare il prossimo governo. Con le pene alternative, è più facile il reintegro della persona nella società. Le pene alternative sono il modo per ragionare fin da subito su come persone che hanno commesso reati possano essere collegate, connesse, incluse dentro la società, nei confronti della quale hanno espresso atti di violenza e di rifiuto ed hanno subito anche atti di abbandono”. Per il vicedirettore della Caritas italiana, “riconciliare la società e le persone che hanno commesso reati è da una parte la prima forma di una pena intelligente e dall’altra, appunto, la costruzione di percorsi, come prevede la Costituzione, di ricostruzione della persona”. Giustizia: Olivero; sì amnistia, se verrò eletto in Parlamento sarà mio impegno prioritario Ansa, 21 dicembre 2012 “Se si guarda nella logica dell’interesse di parte, e della acquisizione del consenso, chi farà mai una amnistia? Invece io penso proprio che sia ciò di cui il Paese ha bisogno e ciò su cui tutti dovrebbero ritrovarsi”. Lo ha detto Andrea Olivero, appena dimessosi dalla presidenza delle Acli, in campo in una delle liste a sostegno dell’agenda Monti, intervistato da Radio Radicale sull’iniziativa di Pannella per l’amnistia e sul suo sciopero della fame e della sete. “Se sarò in Parlamento nella prossima legislatura, prendo con ferma convinzione l’impegno a lavorare sulla realtà del carcere e della giustizia per un’amnistia. Penso sia necessario superare il populismo su questi temi. Si chiede un atto di clemenza perché il Paese, fino ad oggi, non è stato clemente. Perché non ha corrisposto ai suoi obblighi di Paesi civile. È una battaglia di civiltà. E anche a fronte delle difficoltà a spiegare ai cittadini, questo non ci deve far indietreggiare”, ha detto Olivero. “Purtroppo è chiaro che soltanto delle battaglie estreme, rischiosissime, come quella condotta da Pannella, riescono a portare qualche attenzione su questi temi, visto che si stenta persino ad approvare un disegno di legge che pure non è risolutivo della condizione abominevole in cui vivono troppe persone. Noi - per quanto invitiamo Marco Pannella a stare molto attento - dobbiamo ribadire quanto il suo gesto abbia un significato enorme per tutti noi”, ha concluso l’ex presidente Acli. Giustizia: Dap; 70% detenuti recidivi, ma la percentuale scende a 30% tra chi trova lavoro Adnkronos, 21 dicembre 2012 Uno zainetto scolorito, due biglietti dell’autobus, un cambio di biancheria intima, due t-shirt e una guida con i riferimenti sociali della città. Con questo bagaglio i detenuti di tanti istituti penitenziari italiani si lasciano alle spalle il tempo passato in carcere. Ad aspettarli, in tanti casi, un salto nel vuoto che nessun manuale può aiutare a superare. Quando finisce di scontare la pena, la persona riacquista i diritti di libero cittadino ma perde lo status di detenuto e con esso la “coperta protettiva” che lo ha tenuto al riparo per mesi o per anni dalle insidie della quotidianità. L’esempio più eclatante, in questo senso, è quello dei migranti senza permesso di soggiorno che, appena usciti dall’istituto penitenziario, diventano nella maggior parte dei casi immediatamente per la legge italiana clandestini. Per questo tornare in libertà è forse uno dei momenti più delicati nella vita di un detenuto, un passaggio chiave dove l’accompagnamento delle autorità è fondamentale per evitare di ricadere nel baratro dell’illegalità. Del resto, le statistiche parlano chiaro. Secondo quanto riporta Le Due Città, la rivista dell’amministrazione penitenziaria, il tasso di recidiva in Italia si attesta intorno al 70%, mentre scende al 30% quando vengono messe in campo misure alternative alla detenzione, e quindi il recluso viene avviato a un percorso formativo e lavorativo capace poi di aiutarlo a camminare con le sue sole gambe una volta riconquistata la libertà. I soggetti in campo in questa fase sono diversi. Vanno dal ministero della Giustizia, al Dap che attraverso la Cassa Ammende finanzia ogni anno progetti lavorativi per l’inclusione sociale, fino ai singoli penitenziari che con l’aiuto del personale volontario accompagnano il detenuto nel percorso verso l’esterno. È però necessario l’apporto fondamentale degli enti locali, in particolare delle Regioni che, attivando una serie di progetti e iniziative ‘ad hoc’, costruiscono di fatto una rete di sicurezza sul territorio. Un esempio di questo lavoro di squadra è il protocollo d’intesa sul reinserimento dei detenuti di Trento firmato a settembre dal Guardasigilli, Paola Severino, insieme al presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, presente il Capo del Dap, Giovanni Tamburino. Obiettivo dell’iniziativa è realizzare un quadro organico di iniziative mirate al reinserimento sociale e lavorativo, valorizzando le opportunità offerte dalla nuova struttura carceraria di Spini a Gardolo. L’importanza della relazione che si crea tra autorità penitenziaria ed ente locale trova conferma nel caso delle Marche, regione storicamente molto sensibile al reinserimento dei detenuti nella società. In questo senso il caso della casa circondariale di Pesaro e dell’ex - mandamentale Macerata Feltria (oggi di fatto una sezione aggiunta di Pesaro) è significativo. A Macerata Feltria, ad esempio, ci sono solo una ventina di detenuti, con una pena massima residua di 2 anni. Sono tutte persone coinvolte in progetti di reinserimento lavorativo, in particolare in attività agricole, la specialità dell’Istituto. Tutti i detenuti di Macerata Feltria lavorano e sono attivi nel settore agricolo, in quello florovivaistico e vitivinicolo. Nella casa circondariale ci sono invece 320 detenuti e per il loro reinserimento lavorativo è attivo ormai da anni uno Sportello Lavoro che seleziona all’interno gli individui più adatti per seguire determinati corsi di formazione, e dall’altro fa da ponte all’esterno con le aziende e le cooperative che collaborano con la struttura penitenziaria e possono aver bisogno di forza lavoro. Una volta raccolte le indicazioni sui detenuti in uscita, le loro competenze e le loro attitudini, lo Sportello Lavoro manda ai Comuni del territorio le indicazioni e una sorta di bilancio di competenza dell’aspirante lavoratore in modo che il Comune possa cercare di inserirlo in progetti mirati rispetto alle sue caratteristiche. E gli effetti benefici del gioco di squadra si vedono anche nel progetto “Il lavoro penitenziario: una sfida per tutti”, dove è previsto un finanziamento combinato della Regione e della Cassa Ammende. L’iniziativa prevede prima sei mesi di tirocinio lavorativo nel corso dei quali il detenuto riceve 400 euro mensili dal fondo pubblico. Se supera il tirocinio viene poi assunto per 12 mesi dall’azienda che partecipa al progetto che paga uno stipendio regolare e riceve dal Prap un aiuto economico di 500 euro mensili per ogni detenuto. Il reinserimento dei detenuti è un tema finito ormai nelle agende politiche delle amministrazioni regionali. A questo proposito la Regione Puglia ha pubblicato nei mesi scorsi un bando regionale per l’inclusione sociale con un panel di 10 milioni di euro. Eppure, nonostante le tante iniziative avviate in giro per l’Italia, scrive Le Due Città, il numero di ‘chi veramente ce la fa rappresenta ancora una goccia in un mare di profonda incertezza e probabile emarginazione. L’impegno, adesso, è che per la maggioranza degli uomini e delle donne che dopo mesi o anni di reclusione tornano a respirare la libertà, l’unico bagaglio da portare con sé non sia uno zaino per superare la nottata. Giustizia: Dap; detenuti stranieri in calo, ma resta difficoltà di accesso a misure alternative Adnkronos, 21 dicembre 2012 Dopo gli anni del boom, calano i detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane. Oggi, secondo i dati del numero di ottobre di Le Due Città, la rivista dell’Amministrazione penitenziaria, sono 23.828 (di cui 22.741 uomini e 1.124 donne). Ma al 30 giugno 2012 erano solo 3.679 stranieri in misura alternativa contro 12.733 italiani. Da presenza marginale nella popolazione carceraria quale erano ancora negli anni 80, gli stranieri sono cresciuti nei decenni successivi con incrementi percentuali costanti fino a raggiungere nel 2007 il 37,48% delle presenze e il 48,50% degli ingressi. Da allora le percentuali vanno lentamente diminuendo fino a superare, negli ultimi rilievi disponibili, di poco il 35% nelle presenze e il 43% negli ingressi. Possiamo già parlare di inversione di tendenza? Tante le ipotesi possibili - si legge ancora sulla rivista del Dap - dagli effetti della politica dei respingimenti, attuata soprattutto tra il 2008 e il 2011, a quelli della crisi economica che ha reso l’Italia meno attrattiva e ridotto del 40% l’affluenza complessiva degli stranieri. Diversi sono stati anche gli interventi dipartimentali che hanno cercato di avvicinare le opportunità degli stranieri a quelle degli italiani. Le ultime statistiche semestrali sulle misure alternative riportano 3.679 stranieri in misura alternativa contro 12.733 italiani, una differenza ancora notevole, chiaro indice della difficoltà per i non cittadini italiani di usufruire a pieno titolo delle opportunità offerte dall’ordinamento penitenziario. Nonostante tali interventi sul piano amministrativo e giurisprudenziale ancora oggi gli stranieri sono più arrestati (e, verrebbe da dire, anche più controllati) degli italiani e, una volta condannati, restano in carcere più a lungo. È quello che descrivono ancora le statistiche. Se analizziamo l’ultimo dato annuale (al 31 dicembre 2011) vediamo che a fronte di 42.723 presenze di italiani prodotte da 43.723 ingressi (pari al 97,82%) vi sono 24.174 presenze di stranieri prodotte da 33.305 ingressi (72,58%). È difficile prevedere se gli effetti di queste cause di flessione si esauriranno a breve nella demografia carceraria. Di sicuro si confida molto nelle iniziative dell’Unione europea ed in particolare si attendono gli effetti della risoluzione adottata nel 2011 dal Parlamento europeo e della Raccomandazione 2012/12 approvata di recente dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Le linee strategiche di entrambe tendono a incentivare la migrazione legale proprio per ridurre la presenza di migranti che, in quanto sprovvisti di titoli di soggiorno, finiscono per essere maggiormente esposti alla violazione dei diritti umani. Giustizia: la situazione delle carceri al Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura di Giovanna Di Rosa Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2012 Oggi, a fronte della situazione drammatica degli istituti penitenziari in Italia, in apertura dei lavori del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ho letto la seguente dichiarazione: La situazione delle carceri italiane, definita “vergognosa” lunedì scorso dal Presidente della Repubblica, impone a mio avviso un momento di riflessione per quello che anche il Consiglio Superiore della Magistratura può e deve fare in tutti i suoi momenti istituzionali, trattandosi dell’organo di governo autonomo dei magistrati e considerato che non c’ è un solo detenuto in carcere che non vi sia stato collocato da un provvedimento di un giudice. Abbiamo provato con i lavori della Commissione Mista, proseguiremo per questa strada. Il senso di responsabilità impone di ricordare e ribadire questo nostro i pegno istituzionale, su cui faccio un appello accorato e convinto, e non perché siamo in prossimità delle feste natalizie, le quali, trascorse al freddo e in situazioni di disagio fisico estremo e lontananza dagli affetti non sono feste per i quasi 70.000 detenuti, ma come regola e onere di comportamento e di pensiero. Giustizia: Farina (Pdl); tutti i deputati passino una settimana in azienda e una in carcere Tempi, 21 dicembre 2012 Aziende e carceri devono rilasciare il buono - presenza. Infatti sono le aziende e le carceri i punti di massima sofferenza sociale di questa nostra Italia. Se non ci si va, non si capisce niente. Propongo due lavori socialmente utili per i deputati della prossima legislatura, con tanto di presenze da firmare, altrimenti si decade. Formalizzerò la proposta di legge, anche se non c’è tempo di votarla, ma magari risorgerà nella prossima legislatura. Boris Godunov ha avuto questa idea paragonando i discorsi sapienti delle tv con quelli ascoltati dal gommista conosciuto da una vita, in coda per i pneumatici da neve, con camionisti, piccoli e medi imprenditori. Una signora mi riconosce e dice: “Dovreste voi deputati e ministri, Monti per primo, passare un giorno alla settimana in una azienda, vicino al telefono del titolare, quando parla con i fornitori, i clienti, le banche. Come c’è l’open day delle scuole o delle università, andrebbe fatto in tutte le ditte per i politici e gli economisti e i conduttori televisivi. Non dieci minuti e poi a pontificare. Ma un giorno”. Ci ho provato. Ho resistito qualche ora, poi sono scappato. Anche se c’era l’allegria naturale del nostro popolo, che risorgeva ogni volta dopo le picconate subite ogni dieci minuti dai funzionari bancari, i quali - li ho uditi in viva voce - dicono: “Guardi, lei deve rientrare. Il fatturato è diminuito, dunque anche di conseguenza il castello del credito. È logica…”. È logica un par di balle, è la logica di chi ha avuto iniezioni potenti di liquidi dalla Bce ma le ha trasformate in vitamine per essere più stronzo con chi rischia ogni dì. Per la esistenza delle aziende lo spread è una specie di variabile indipendente rispetto ai problemi quotidiani, una cosa lontana. Può crescere o decrescere, ma la vita concreta scorre e inciampa a prescindere. Tu muori di inedia, di fame e di sete, in compenso ti danno notizie sui progressi della lotta al colera. Lo spread è basso, evviva, come no? Importantissimo, come no? Ma per lottare contro il colera è necessario che il virus ci trovi vivi. Dunque una legge per cui si passino otto - ore - otto in una azienda che rilascerà il buono - presenza. Anzi facciamo una volta ogni quindici giorni. Una settimana in una azienda, l’altra settimana in un carcere. Infatti sono le aziende e le carceri i punti di massima sofferenza sociale di questa nostra Italia. Se non ci si va, non si capisce niente. (Aggiungo anche gli ospedali e gli ospizi, all’elenco delle visite necessarie). COSA SI IMPARA IN CARCERE. Devo dire che in questo ramo, diciamo carcerario, Boris è piuttosto esperto. Eppure impara sempre. Non solo qualcosa sulla condizione dei detenuti, ma su che cosa sia necessario per vivere: non essere soli, quella cosa che si chiama amore. Nei momenti di massima difficoltà per l’Italia o anche per la mia personale vicenda, ho conosciuto la capacità di voler bene nelle celle. Non perché i detenuti siano più buoni di quelli fuori, ci sono persino degli omicidi. Ma perché lì emerge che cosa sia l’essenza della nostra specie di bipedi: con bisogni materiali ma anche con desideri infiniti di libertà e felicità. Per questo le condizioni infami in cui oggi stanno i reclusi in Italia sono delitti contro l’umanità, qualcosa che chiede inderogabilmente una risposta. Ma se non ci passi le ore nelle case circondariali non si immagina neanche. E allora si invoca in Parlamento maggior durezza, come se fosse possibile essere ancora più cattivi di come riusciamo a essere senza neanche saperlo. Occorre dare lavoro dentro le mura, soprattutto rendere possibile una compagnia umana che rieduca contemporaneamente il detenuto e il non - detenuto. Non è un’utopia. Ho in mente l’esperienza dell’Homo faber nel carcere di Como, purtroppo vessata dalla burocrazia. Avanti Boris, che c’è da lottare. Giustizia: Bernardo Provenzano in coma profondo, ma per il Dap è ancora pericoloso Notizie Radicali, 21 dicembre 2012 Dichiarazione di Irene Testa e Alessandro Gerardi, rispettivamente segretario dell’associazione “Il Detenuto Ignoto” e membro del Consiglio Generale dell’Associazione Luca Coscioni. “Le condizioni psichiche e fisiche di Bernardo Provenzano si erano già da tempo irrimediabilmente compromesse, adesso il detenuto è addirittura in coma, sottoposto a tracheotomia, impossibilitato a respirare e giace immobile in un letto d’ospedale, eppure continua ad essere sottoposto al 41bis ossia ad un regime carcerario la cui concreta attuazione è una offesa alla Costituzione e ai principi più elementari di umanità e dignità che dovrebbero regolare ogni tipo di detenzione carceraria in uno stato democratico. Quali collegamenti con l’esterno si vogliono impedire ad un detenuto in coma? Il Ministro Severino e il Dap ci dicano che senso ha continuare ad isolare una persona che non risponde più agli stimoli esterni. La verità è che le condizioni di salute in cui versa Provenzano rendono impossibile immaginare una qualche forma di continuità del detenuto con l’attività associativa, il che vuol dire che in questo caso l’applicazione del 41-bis sta svolgendo soprattutto una “funzione di bandiera”: mantenere il carcere duro nei confronti di una persona in coma, infatti, ha come solo e unico scopo quello di marcare l’assoluta inaccettabilità del crimine per il quale si è stati condannati. Il sostanziale unanimismo delle forze politiche e parlamentari - con le solite coraggiose eccezioni dei radicali, di Marco Pannella e di Rita Bernardini - in difesa dell’ incivile istituto del 41-bis, frutto di conformismo e pavidità intellettuale prima ancora che di radicata convinzione, rende ancora più necessario ed urgente un forte rilancio della iniziativa politica su questo tema. Come radicali non siamo contrari ad un controllo efficiente del “circuito criminale”, bensì ad una forma di repressione/induzione (al pentimento, è ovvio) che da tempo - e col tempo - ha superato il confine della sofferenza ragionevolmente imponibile per sfociare nella vera e propria tortura, come dimostra il trattamento riservato a Bernardo Provenzano. Con buona pace dei professionisti della repressione, possiamo tranquillamente dire che oggi il carcere duro è sempre più “mafiogeno”, rappresentando - agli occhi di quella popolazione che dovrebbe essere recuperata - la più evidente dimostrazione dell’ingiustizia di Stato. Giustizia: arrestati medico e avvocato, attestarono cecità boss camorra per farlo scarcerare Tm News, 21 dicembre 2012 Professionisti al soldo e a disposizione del boss Giuseppe Setola per aiutarlo non solo a ottenere vantaggi per la sua carcerazione, ma anche disposti a fare da emissari di messaggi per i fedelissimi del clan dei Casalesi. Cinque i destinatari dei provvedimenti cautelari eseguiti oggi dai carabinieri su mandato della Dda partenopea: tre nei confronti di persone già detenute come lo stesso Setola, Massimo Alfiero e Gabriele Brusciano, ma anche dell’avvocato e assessore all’Urbanistica e ai Lavori pubblici del Comune di Casagiove dal giugno 2011, Girolamo Casella, e del medico oculista di Pavia, Aldo Fronterra. In particolare il professionista del Foro di Santa Maria Capua Vetere, accusato di 416 bis, avrebbe agito per contribuire alla liberazione di Setola e, seguendo gli ordini, avrebbe anche riferito messaggi del capoclan ai suoi affiliati, pronunciati durante i colloqui in carcere. Il legale, secondo quanto supposto dalla magistratura, fungeva stabilmente da messaggero tra i singoli esponenti e vertici del clan. L’indagine ha evidenziato “lo stabile e consapevole apporto” dell’avvocato Casella alle finalità dell’organizzazione camorristica casalese, anche nel ricevere in “modo costante” da parte del suo assistito disposizioni per gli affiliati in libertà. Durante uno dei colloqui tra il detenuto e il legale fu anche sequestrato un messaggio scritto, contenente direttive d’azione, plico che Setola aveva nascosto nel cavo orale e che aveva tentato di nascondere una volta scoperto. L’avvocato, inoltre, si è prestato a dirimere la controversia che vedeva contrapposti Setola e i capi della frangia camorristica Bidognettiana, giunta a punire Setola e l’affiliato Alessandro Cirillo con la sospensione dello `stipendiò per il sostentamento delle famiglie dei detenuti, essendo incolpati di aver voluto coinvolgere, anche in fase esecutiva, Giuanluca Bidognetti, figlio di Francesco detto “Cicciotto ‘e mezzanotte”, nella fallita azione omicida che portò al ferimento di Francesca Carrino, sorella della collaboratrice di giustizia Anna, già convivente del capoclan Francesco Bidognetti. Ruolo di primo piano hanno avuto anche gli affiliati Massimo Alfiero e Gabriele Brusciano, essendosi adoperati per l’individuazione di professionisti idonei ai propri scopi, per il mantenimento delle relazioni e per la retribuzione con denaro proveniente dalle casse del clan. Con gli arresti di oggi - ha evidenziato Cafiero de Raho - si è ricostruita, per la quasi totalità, la scia di sangue tracciata a partire dall’evasione di Setola, tra il 2 maggio al 12 dicembre 2008, quando si contarono 18 morti e 8 feriti in soli sette mesi. Lettere: la grazia a Sallusti, uno schiaffo a migliaia di detenuti di Antonio Rispoli www.julienews.it, 21 dicembre 2012 E così, a completamento delle schifezze che Pdl, Lega, Pd, Udc e governo stanno facendo sulla vicenda Sallusti, adesso arriva anche la notizia che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, su richiesta di Ignazio La Russa, ha inoltrato al Ministro Severino la procedura per la domanda di grazia. Chiaramente qui non ci troviamo di fronte ad un completo ignorante della Costituzione come Roberto Castelli, che nel 2005 bloccò la procedura per la grazia a Sofri e quindi tra pochi giorni probabilmente la grazia verrà accordata. Tuttavia questo è un vero e proprio schiaffo alle migliaia di detenuti che sono in carcere in Italia. Innanzitutto perché quella di Sallusti non è una detenzione vera e propria: sta in una bellissima villa, con la sua compagna; ha la possibilità di uscire per due ore al giorno e di contattare chi vuole; svolge regolarmente il suo lavoro... insomma, l’unica cosa a cui ha dovuto rinunciare è stato al fatto di apparire in Tv. Il che, come sanzione, non mi pare tanto grave. Niente al confronto dei 70 mila detenuti che stanno ammassati in celle di due metri per due. Per non parlare degli extracomunitari detenuti nei Cie, fino a 18 mesi in un lager senza aver commesso alcun reato. Come un terzo dei detenuti, che sono in custodia cautelare (cioè sono detenuti in attesa di processo). Per non parlare poi delle migliaia di extracomunitari detenuti illegittimamente. Infatti pochi sanno che quasi tutti gli extracomunitari processati e condannati per Bossi - Fini (cioè la legge sull’immigrazione), vengono condannati sulla base di un documento che di solito viene redatto in maniera contraria alla legge. Mi riferisco al decreto di espulsione, quello che prevede cinque giorni di tempo per uscire dal nostro Paese e che, laddove non si esegua, porta a sanzioni penali. Essendo un documento della Pubblica Amministrazione, ciascun decreto di espulsione necessiterebbe di una motivazione scritta ad hoc, come avviene per le sentenze o per le multe. Ma questo non avviene: si tratta di moduli precompilati, in cui viene solo messo il nome della persona da espellere. Ma questo è un modo di fare illegale, secondo un regio decreto del 1865 tuttora in vigore. Per cui l’atto è nullo e l’espulsione non valida. Ma i giudici, che dovrebbero far rilevare questo punto al momento del processo, solitamente sorvolano, si guardano bene dal controllare i documenti: condannano e via. Eppure, se vogliamo dare retta a coloro che - falsamente - dicono che Sallusti è in galera solo per un reato di opinione, cosa dire di queste persone che stanno in galera senza aver commesso alcun reato? Non è peggio stare in galera senza aver commesso alcun reato, salvo quello di essere nati al di fuori dell’Europa? Ma di queste cose nessuno ne parla, nessuno avanza domande di grazia. Perché non si chiamano Alessandro Sallusti, e perché non sono il direttore di uno degli organi di propaganda politica del Pdl. La differenza è tutta là. Lettere: quanta ipocrisia sulle carceri… di Adriana Tocco (Garante dei detenuti della Campania) La Repubblica, 21 dicembre 2012 Si avvicina Natale. L’ufficio del Garante dei detenuti ha lavorato tanto, molti casi gravi sono stati risolti. Meritiamo anche noi un regalo. Il desiderio, anzi i desideri, li esprimo io a nome di tutti. Uno: non sentir più citare l’articolo 27 della Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) e possibilmente neppure quelli che stabiliscono i diritti inviolabili della persona e i principi fondamentali delle regole penitenziarie europee. Due: non ascoltare più in ogni convegno, seminario o conferenza stampa i dati della recidiva che cade verticalmente se il detenuto sconta la pena in misura alternativa piuttosto che in carcere. Tre: non sentir enfaticamente dire che “il carcere è ormai una discarica sociale” e nemmeno, altrettanto enfaticamente, ricordare (attribuendola ora all’uno ora all’altro pensatore) la frase di Voltaire, secondo il quale la civiltà di un paese si misura dallo stato delle sue carceri. Quattro: non sentir ripetere quanto siano stati importanti gli interventi del presidente Napolitano in materia di carcerazione (salvo poi dimenticarsene subito dopo). Perché desideri così bizzarri? Perché riteniamo che tutto questo rientri in una diffusa e vastissima ipocrisia istituzionale. Citano infatti tutti: i responsabili di trattamenti “disumani e degradanti”, chi non sorveglia su di essi, chi le misure alternative deve concederle, chi dovrebbe emanare decreti, modificare leggi carcerogene, abolirne alcune, farne certe altre, parlamentari, sottosegretari, ministri. Citare è facile, fare impossibile. Io poi ho un regalo personale da chiedere. Vorrei che fosse modificata la frase che definisce la funzione dei Garanti dei detenuti che recita “Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. Ecco, vorrei che fosse aggiunto un “di” e cioè “della libertà personale” di provvedere adeguatamente alla propria salute, di mantenere in vita gli affetti familiari, di svolgere qualche attività lavorativa o formativa, insomma di conservare, a magari riacquistare la dignità di essere umano. Vorrei che si comprendesse che la salvaguardia dei diritti è l’unico strumento reale di recupero e reinserimento, l’unico strumento utile per non far uscire dalla patrie galere gente ancora più incattivita e abbrutita, lo strumento indispensabile per la sicurezza sociale. Se questi desideri saranno esauditi, avremo un Natale non più lieto, ma almeno più schietto e franco. Trento: protocollo d’intesa tra Provincia e Casa circondariale sull’educazione degli adulti L’Adige, 21 dicembre 2012 Sottoscritto dall’assessore Marta Dalmaso e dal direttore del carcere Salvatore Pirruccio. La collaborazione tra Provincia autonoma di Trento e Casa Circondariale sull’educazione degli adulti e le altre iniziative di formazione può contare da oggi sul Protocollo d’intesa sottoscritto dall’assessore Marta Dalmaso e dal direttore del carcere di Trento, Salvatore Pirruccio, presso il Palazzo dell’istruzione in via Gilli. Da entrambe le parti, soddisfazione per un passaggio atteso da tempo e che può dare nuovo slancio alle attività di formazione per i detenuti e ad un rapporto diretto con gli istituti scolastici coinvolti. Nella riunione di venerdì scorso, la Giunta provinciale aveva approvato lo schema di protocollo d’intesa tra la Provincia autonoma di Trento e la Casa Circondariale di Trento. Oggi la firma ufficiale in via Gilli a Trento, da parte dell’assessore Marta Dalmaso, per la Provincia autonoma, e del direttore Salvatore Pirruccio per la casa circondariale di Trento. Con loro, Adriano Tomasi ed Enzo Latino, per il dipartimento della conoscenza, Tommaso Amadei, educatore del carcere. Attualmente sono 200 i detenuti coinvolti nelle iniziative di formazione su 260 in totale. “Questo Protocollo è un punto d’arrivo - ha dichiarato l’assessore Dalmaso - che parte dalle diverse esperienze già fatte, cogliendo spunto anche dalle criticità. La filosofia di fondo è quella legata in fondo al compito dell’istruzione: aver fiducia nelle persone e nella loro capacità di mettersi in gioco; e qui si tratta di dare fiducia a chi ha sbagliato nella vita, ma ha voglia di rimettersi in gioco. Un dovere, da parte nostra, un compito difficile ma che può riservare elementi di gratificazione. Un tappa molto importante - ha affermato il direttore della casa circondariale di Trento - che sarà la base su cui costruiremo tutti i progetti che aiutino il riscatto dei detenuti, attraverso l’apprendimento e la formazione. La collaborazione da parte nostra sarà piena sia per le attività prettamente di alfabetizzazione sia per quelle più ampie in ambito formativo”. Tornando al protocollo, prevede la costituzione di un Gruppo di coordinamento, presieduto dal Direttore della Casa Circondariale di Trento, o da un suo delegato, e composto da due rappresentanti della Casa circondariale e due rappresentanti dell’Assessorato all’istruzione. L’offerta formativa rivolta ai detenuti della Casa circondariale di Trento si articola in due tipologie: - corsi di base finalizzati a garantire i diritti imprescindibili di cittadinanza - corsi a carattere professionalizzante finalizzati a sviluppare e/o fare acquisire ai detenuti competenze spendibili sul mercato del lavoro, al fine di facilitarne il reinserimento nella vita attiva. I corsi di base rappresentano la parte stabile dell’offerta formativa e sono rivolti indistintamente a tutta la popolazione detenuta; quelli a carattere professionalizzante, a seconda della tipologia di corso, sono rivolti ai detenuti che posseggono i requisiti di base e che ne fanno richiesta. Lucca: corso di formazione “Ora d’aria”, i detenuti a lezione di fotografia La Gazzetta di Lucca, 21 dicembre 2012 Gli spazi del carcere di Lucca come set fotografico; gli stessi detenuti nel ruolo di fotografi ma anche di soggetti da immortalare; le apparecchiature fotografiche donate o prestate (almeno questa è la speranza degli organizzatori) dai cittadini; la Provincia di Lucca e la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca in qualità di enti sostenitori col beneplacito della Direzione della Casa circondariale “S. Giorgio” e l’aiuto di alcune associazioni di volontariato locali. È riassunta in queste poche righe l’iniziativa lanciata dalla Provincia e dalla Direzione del carcere di un corso di formazione di fotografia, intitolato “Ora d’aria”, che avrà per protagonisti i detenuti con l’intento di educarli all’uso delle moderne macchine digitali e sensibilizzarli alle azioni di socializzazione, fine ultimo del processo di rieducazione della pena detentiva. Il corso partirà a marzo e sarà condotto dal fotografo versiliese Nicola Gnesi che coinvolgerà attivamente i detenuti interessati in un percorso che prevede 10 lezioni (sia teoriche che pratiche). Una prima parte del progetto verterà sull’apprendimento delle tecniche fotografiche e molta importanza verrà data anche allo stimolo creativo attraverso la visione di scatti d’autore. La seconda fase sarà incentrata sulla creazione del progetto personale del fotografo, il quale farà lavorare “sul campo” i detenuti, dando loro la possibilità di scattare immagini all’interno della struttura. I temi trattati riguarderanno le attività di socialità che scandiscono la vita del recluso (progetti teatrali, di scrittura, e le ore d’aria giornaliere appunto). Ma perché annunciare prima ancora di Natale un’iniziativa che partirà a primavera? Il motivo lo spiega l’assessore provinciale alle politiche sociali e giovanili Federica Maineri. “Al di là del fatto che proprio in questi giorni sono stati definiti gli ultimi dettagli del progetto - dice - lanciamo un appello ai cittadini, ai fotografi di professione e amatoriali, affinché donino, se ne hanno le possibilità, qualche macchina fotografica inutilizzata al Comitato S. Francesco che si occuperà della raccolta di apparecchi usati o semi - nuovi da utilizzare durante il corso. Lo stesso comitato, tra l’altro, ha già collaborato con il carcere ad esempio nel caso della raccolta dei libri per la biblioteca. Oltre all’evidente scopo sociale - aggiunge Manieri - l’intento è anche quello di insegnare i segreti e le tecniche di base per quella che potrebbe rivelarsi, una volta ridiventati uomini liberi, un hobby creativo o, perché no, addirittura una vera professione”. Dal canto suo il direttore del “S. Giorgio”, Francesco Ruello, sottolinea come “l’iniziativa - dichiara - sarà un modo originale per valorizzare anche le altre attività già svolte in carcere come i corsi di cucina, il cineforum e i corsi di scrittura creativa o di teatro. Tutti momenti di grande socializzazione che hanno incontrato il favore dei detenuti sin dall’inizio”. “L’obiettivo a cui aspiriamo è ambizioso e, sul nostro territorio, credo sia un’esperienza senza precedenti - commenta il fotografo Nicola Gnesi - : far affiorare la realtà carceraria vista dagli occhi del detenuto dimostrando che una pena efficace non può che basarsi sulla socializzazione. D’altronde è piuttosto comune vedere fotografie del carcere, ma non è affatto comune che queste immagini siano scattate da coloro che dal carcere non possono uscire. Alla fine quello che rimarrà sarà una visione autentica e schietta di questa particolare realtà di cui poco conosciamo”. Questo progetto si arricchirà della collaborazione dei corsi di scrittura creativa tenuti in parallelo, così da valorizzare il lavoro con altre discipline creative. A conclusione del percorso è previsto l’allestimento di una mostra fotografica in cui saranno esposti i migliori scatti dei detenuti. Coloro che sono interessati a donare le macchine fotografiche possono rivolgersi al Comitato San Francesco dal lunedì al venerdì (orario 17.00 - 19.00), tel. 0583 - 467726, e mail: comitatosanfrancescolucca(et)gmail.com Lamezia: convenzione Comune - Casa circondariale per inserimento lavorativo di detenuti Ansa, 21 dicembre 2012 L’Amministrazione comunale di Lamezia Terme, rappresentata dal sindaco Gianni Speranza, ha firmato una convenzione con il direttore del carcere, Maria Luisa Mendicino, per l’inserimento lavorativo di detenuti e internati, sulla base di un protocollo stipulato tra il Ministero della Giustizia e l’Anci. Speranza, è detto in un comunicato, aveva partecipato nei mesi scorsi al primo incontro regionale, tenutosi in città, per l’attuazione dell’Accordo tra Anci nazionale e Ministero della Giustizia rivolto ai sindaci e ai comandanti della polizia municipale dei Comuni calabresi sul cui territorio sono presenti istituti penitenziari, riconoscendo “l’importanza del progetto e sottolineando l’interesse dell’Amministrazione nel portarlo avanti attraverso l’inserimento lavorativo dei detenuti e se possibile anche dei disoccupati promuovendo un programma di recupero sociale di queste persone per restituire anche un beneficio all’intera collettività in termini di lavori e servizi”. Con la convenzione l’Amministrazione metterà a disposizione dei detenuti e degli internati nella struttura penitenziaria opportunità lavorative temporanee per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, dopo l’individuazione da parte della casa circondariale delle condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi o alle licenze. “L’occupazione lavorativa dei detenuti durante l’espiazione della pena o della misura di sicurezza, al fine di promuovere il reinserimento sociale - ha detto il sindaco Speranza - rappresenta un comune obiettivo della nostra Amministrazione e di quella penitenziaria. Il lavoro riveste un ruolo di assoluta centralità nel percorso riabilitativo del detenuto e nella riappropriazione dignitosa della propria vita. Il detenuto non solo torna ad essere un cittadino a tempo pieno, ma s’impegna a dare un contributo concreto alla crescita della propria comunità”. Firenze: Giardino Incontri a Sollicciano; raccolta fondi per un banco bar e altri arredi www.nove.firenze.it, 21 dicembre 2012 Raccogliendo l’appello del Garante dei detenuti Franco Corleone, che ha promosso una raccolta fondi per l’acquisto di un banco bar e altri arredi per il Giardino degli Incontri a Sollicciano, dove i detenuti ricevono le visite dei parenti, Di Puccio ha rivolto al Consiglio Comunale e alla Giunta il proprio intervento, ricordando gli impegni presi per il carcere fiorentino più di un anno fa in occasione del consiglio comunale, convocato all’interno di Sollicciano in via straordinaria proprio per rispondere all’urgenza del problema carceri. “Eppure da allora poco o niente è stato fatto - ha notato Di Puccio. E Sollicciano è in condizioni drammatiche, mancano le cose essenziali, il sapone, la carta igienica, manca l’acqua calda nelle docce, in compenso piove nelle celle, mancano gli assorbenti igienici per non parlare dell’assistenza sanitaria”. “Con questo intervento non risolveremo certo i problemi delle carceri italiane, ma è doveroso occuparsene, e non solo a parole - ha aggiunto il consigliere. E non mi stancherò mai di riportare l’attenzione su un problema di cui pochi si interessano. Il Comune non può certo sostituirsi allo Stato, ma un atto di attenzione è doveroso, Sollicciano è parte integrante della città”. L’intervento, nato come comunicazione al consiglio, si è così trasformato in ordine del giorno approvato, suscitando anche un ampio dibattito in Consiglio. Dibattito che ha toccato in più interventi anche lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella. “Per risolvere il problema delle carceri sovraffollate basterebbe una riforma seria della Giustizia e degli accordi con i Paesi extracomunitari affinché i detenuti stranieri scontino la pena nei loro Paesi di origine”. È quanto dichiara Claudio Morganti, europarlamentare dell’Eld, in merito al sovraffollamento delle carceri toscane, soprattutto a Sollicciano (Firenze) dove, a fronte di una capienza massima di 520 detenuti, ve ne sono 953 (circa il 67% di origine straniera). Morganti sottoline che “sia il centrodestra sia il centrosinistra non hanno mai affrontato seriamente il problema delle carceri se non con misure temporanee, come l’indulto, che non risolve certamente il problema. Pensiamo a quanti ancora sono in attesa di giudizio, e tra di essi magari anche degli innocenti, a causa della lentezza della Giustizia italiana. Serve, inoltre - chiosa Morganti - , la certezza della pena così da evitare l’afflusso di delinquenti che vengono nel nostro Paese con il solo scopo di compiere reati perché qui in carcere non ci vanno o al massimo se la cavano con l’indulto. Inoltre, sarebbe il caso che le vecchie carceri venissero ristrutturate o addirittura che ne vengano costruite delle nuove. In più - ribadisce l’europarlamentare - , la certezza che gli extracomunitari possano scontare la pena a casa loro risolverebbe il problema visto che la maggior parte di chi oggi è nelle carceri è di origine straniera. La massiccia presenza, infatti, di extracomunitari è solo il frutto della politica permissiva e di estrema accoglienza attuata dalla sinistra. Non mi interessa chi urla all’indulto o all’amnistia e non provo pietà per quel politico che con lo sciopero della fame e della sete vuole lo svuotamento della carceri, perché a mio avviso, ricorrendo a queste misure, si metterebbe solo a repentaglio la sicurezza dei cittadini”. Anche il Presidente della Provincia di Firenze, Andrea Barducci, si associa ai firmatari della lettera redatta dal consigliere regionale Enzo Brogi per Marco Pannella. “Seguo con grande inquietudine la lotta non violenta di Pannella - ha detto il Presidente della provincia - che ci deve spronare a introdurre tra le priorità istituzionali la revisione del nostro sistema carcerario, divenuto purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, un luogo di enorme sofferenza e di nessuna riabilitazione. Mi auguro davvero che Marco Pannella sospenda questa sua lotta estrema - ha aggiunto Barducci - e mi unisco a anche io a coloro che si fanno carico della sua battaglia per l’amnistia, e per il ripristino della legalità e del rispetto della dignità all’interno delle nostre carceri.” Ascoli: i detenuti di Marino del Tronto presentano il libro “Il mosaico dei ricordi” www.vivereascoli.it, 21 dicembre 2012 Martedì scorso si è svolta all’interno della Casa Circondariale di Marino del Tronto, alla presenza delle autorità civili, la presentazione ufficiale del libro 2Il Mosaico dei Ricordi”, scritto ed illustrato dai detenuti. Hanno contribuito alla realizzazione il Sindaco di Ascoli Piceno Guido Castelli, il Presidente della Provincia Piero Celani, il Sostituto Procuratore della Repubblica Ettore Picardi, il Direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università di Urbino Gianni Rossetti, la Direttrice dell’Istituto Lucia Di Feliciantonio e Claudia Zappasodi, referente per l’Associazione Papa Giovanni XXIII, nonché alcuni volontari che operano all’interno della struttura. Attraverso la parola, le emozioni e i sentimenti che trapelano dagli scritti i detenuti hanno voluto testimoniare che il carcere non deve essere inteso solo come fase terminale dell’area del disagio, dell’esclusione e dell’emarginazione sociale o come contenitore di povertà. La realizzazione del libro è stata possibile grazie alla disponibilità della Casa editrice Arti Grafiche Picene di Maltignano (Ap) che ha provveduto alla stampa del libro a titolo gratuito. Roma: Campagna della Caritas diocesana; ridare dignità ai poveri in carcere Radio Vaticana, 21 dicembre 2012 “Restituiamo dignità ai poveri in carcere!”: è lo slogan della campagna di sensibilizzazione che è stata lanciata ieri con la presentazione del libro fotografico in due volumi intitolato “Uhuru - Libertà” di Francesco Delogu e Stefano Montesi, corredato da scritti dei detenuti di Rebibbia. La presentazione si è svolta presso la nostra emittente con la partecipazione, tra gli altri, di mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana di Roma, e don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere della Caritas. Fausta Speranza ha intervistato mons. Enrico Feroci. Ci sono 67mila detenuti con 45mila posti nelle carceri e questo già è un qualcosa che ci deve far riflettere. Dal 2000 ad oggi abbiamo avuto 750 suicidi in carcere e 96 tra le file della polizia penitenziaria. Vogliamo riportare l’attenzione su questo problema che è un problema enorme ed è un problema di dignità di una società. Chi sono i “poveri” delle carceri di cui parla la campagna? Sono quelli che sembra che siano nati perché possano andare in carcere. Sono quelli che senz’altro scontano la pena dal primo giorno fino all’ultimo, anzi vengono ripresi successivamente se non hanno scontato tutta la pena, e noi li ritroviamo lì, dove non hanno niente. L’anno scorso la Caritas ha fatto una campagna per tutte le parrocchie di Roma per chiedere che venissero dati indumenti intimi. Uno non ci pensa mai a questo: dà un cappotto, un paio jeans, un paio di scarpe ma queste persone entrano così come stanno vestite e gli viene dato solamente un paio di mutande o una maglietta che gli dovrebbero bastare. Si devono comprare da soli qualcosa e, se non hanno soldi, rimangono con i vestiti che hanno addosso nel giorno in cui sono stati arrestati. La campagna chiede di ridare dignità alla persona, di assicurare almeno il minimo indispensabile, perché la persona si senta veramente persona, non più un numero buttato lì che sta aspettando di potere un domani ricominciare a vivere. La strada non può essere quella della impunità, nel senso che nessuno va più in carcere… Certamente. Il carcere però non può essere considerato una vendetta, non dobbiamo vendicarci di chi ha sbagliato. Dobbiamo trovare gli strumenti ed è difficile questo. Io mi rendo conto che non è un discorso semplice ma dobbiamo trovare percorsi per far sì che le persone, se si sono rese conto del male che hanno fatto, possano non solo riparare il male fatto ma riprendere anche un cammino di vicinanza di nuovo in questa nostra società. La deresponsabilizzazione - diceva Gandhi - è la forma più grande di violenza che esista. La Chiesa sta sempre dalla parte degli umili, il Papa è andato nelle carceri e la Caritas e i cappellani sono vicini in prima linea… L’anno scorso a novembre il Papa è andato nel carcere di Rebibbia. E il 23 dicembre ci andrà di nuovo il cardinale vicario. Noi siamo stati sempre presenti davanti alla problematica, l’abbiamo sempre denunciata. Che appello lanciare alla politica? L’appello che faccio continuamente è che in questa nostra società la persona sia considerata un individuo avente diritti. È ovvio che ha anche i suoi doveri, ma non deve essere considerato solo un cliente, un cliente positivo o negativo, scomodo da eliminare, oppure un cliente che devo venerare, ma una persona in quanto tale che è soggetto di precisi diritti. Credo che la società debba ricordare questo per tutti, dal primo all’ultimo, e dall’inizio alla fine della vita. Al microfono di Fausta Speranza, don Sandro Spriano sintetizza una delle tante esperienze possibili di incontro e di riconciliazione con l’umanità racchiusa nel mondo delle carceri promosse e portate avanti dalla Caritas e dai volontari. Racconta della moglie di un carabiniere ucciso di recente che ha accettato di recarsi in visita a chi si è macchiato dell’orrendo crimine. Oggi pomeriggio questa donna viene con me a portare la sua testimonianza alla celebrazione eucaristica che facciamo in carcere. Lei non chiede l’ergastolo per chi ha brutalmente ucciso il marito carabiniere, morto dopo sette mesi in coma. Piuttosto lei vuole incontrare questo ragazzo - ha già incontrato i suoi genitori - e dirgli: “Io mi preoccupo adesso che tu possa crescere con modalità diverse, forse, rispetto a quelle che ti hanno portato a compiere quel gesto orribile”. Quindi lei è su un percorso di riconciliazione, che è quello che tutti vorremmo. E lo vorremmo anche per la sicurezza delle nostre città. Perché se non facciamo questo, chi entra in carcere, poi, esce più delinquente di prima. Napoli: Sappe; a Secondigliano agenti aggrediti da un detenuto, situazione oltre il limite Italpress, 21 dicembre 2012 Ancora tensione nel carcere napoletano di Secondigliano, dove ieri un detenuto ha aggredito e ferito due poliziotti penitenziari. “È la ciliegina sulla torta di una situazione ben oltre il limite della tolleranza - commentano Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. I nostri agenti sono stati colpiti con estrema violenza dal detenuto, con calci, pugni e graffi. Ai nostri Agenti di Polizia Penitenziaria va tutta la nostra solidarietà ed il nostro affettuoso saluto. Ma tutto questo non è accettabile e tollerabile. Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari, anche sotto il profilo disciplinare, i detenuti che la commettono per evitare sul nascere pericolosi effetti emulativi. Pensiamo ad esempio ad un maggiore ricorso all’isolamento giudiziario fino a fine pena con esclusione delle attività in comune ai detenuti che aggrediscono gli Agenti”. Aggiunge il sindacalista del Sappe: “La situazione penitenziaria resta e rimane allarmante e le risposte dell’Amministrazione penitenziaria a questa emergenza sono favole”. “Così non si può più andare avanti - continua Capece. Proprio le gravi carenze di organico della Polizia Penitenziaria ed il pesante sovraffollamento carcerario condizionano irrimediabilmente i livelli di sicurezza dei servizi all’interno delle sezioni detentive e delle traduzioni dei detenuti, riducendoli al minimo dei minimi”. Francia: se lo psichiatra finisce in carcere per il delitto commesso dal paziente di Maria Novella De Luca La Repubblica, 21 dicembre 2012 Il crinale è sottile, controverso, pericoloso. Se un detenuto ritenuto ormai “recuperato”, esce dal carcere per un permesso premio e compie un omicidio, di chi è la colpa? E se un paziente psichiatrico, considerato ormai “guarito” scappa dall’ospedale in cui era ricoverato, torna a casa e uccide un suo familiare, chi dovrà pagare per questo? La psichiatra che lo aveva in cura - hanno decretato i giudici - e che non aveva mai accettato di “internarlo” in un cosiddetto reparto protetto, giudicando il suo paziente ormai non più pericoloso. Sta dividendo la Francia la sentenza contro Daniéle Canarelli, psichiatra di Marsiglia condannata per omicidio colposo a un anno di reclusione, per aver sottovalutato la pericolosità di un suo paziente schizofrenico. Il quale, Joel Gaillard, ricoverato in ospedale ma non sottoposto ad alcuna restrizione, nel 2004 fuggì dal reparto per andare ad uccidere l’anziano compagno della nonna, convinto che questo volesse impadronirsi dell’eredità familiare. Ed è stato uno dei figli della vittima a denunciare la dottoressa Canarelli, dopo che il killer era stato ritenuto “irresponsabile penalmente”. Un processo lungo e sotto i riflettori, che ha spaccato animi e coscienze, da una parte i medici, dall’altro le associazioni dei parenti delle vittime, e concluso con una sentenza di condanna, la prima in Francia, nei confronti della psichiatra. Una condanna giusta per un conclamato errore medico? Oppure no, perché curare e lavorare con i fantasmi di una mente malata lascia sempre dei margini di insicurezza, ma nello stesso tempo è necessario provare e credere nel reinserimento degli esseri umani? Risponde con voce grave uno dei più famosi psichiatri italiani, Giovan Battista Cassano: “Predire la pericolosità sociale di un soggetto con una patologia mentale, anche dopo anni di terapia, è quasi impossibile. Ogni mattina quando mi alzo spero di non leggere una notizia di cronaca nera che riguarda un paziente che ho curato, che è passato nei nostri reparti. Spero che non abbia fatto male a se stesso, alla moglie, ai suoi bambini. Perché c’è sempre una parte non governabile nella malattia mentale, ma anche, aggiungo, in soggetti che sembrano perfettamente sani”. Del resto, dice ancora Cassano, “se pensiamo che le persone debbano essere restituite alla società, fuori dalle carceri, fuori dagli ospedali psichiatrici, dobbiamo correre il rischio di questa libertà”. L’alternativa, infatti, è “tenere tutti dentro, riaprire i manicomi, luoghi di contenzione da cui non si esce più, abdicando così al principio del recupero e del reinserimento”. È dunque insito nella professione di chi cura la malattia mentale il rischio di errore, “ma non può e non deve essere lo psichiatra a pagare”, conclude il professor Cassano. Ci vogliono servizi, strutture, assistenti sociali, controlli. I permessi, la semilibertà, sono misure fondamentali, vogliono dire che la società si occupa di tutti, anche di chi ha sbagliato. Ma costano, e sono pochi. E sono ormai diversi i casi di detenuti considerati non più pericolosi diventati killer durante le loro ore “libere”. Angelo Izzo, uno dei “mostri” del delitto del Circeo, per ricordare il caso più clamoroso, considerato da giudici e psichiatri completamente “redento”. Che invece uscì, e assassinò una madre e una figlia. Nessuno di quelli che concessero la semilibertà ha pagato per quell’errore, al contrario di quanto è invece accaduto per in altri casi. Racconta un giudice di sorveglianza romano: “Sulle nostre spalle grava una responsabilità enorme, e facciamo il massimo perché quando viene decisa una misura di liberà il rischio sia minimo. E in effetti il tasso di delitti compiuti durante i permessi è ancora molto basso. Ma un margine di rischio c’è, inutile negarlo”. Un’ombra, una zona oscura. Una parte scissa che resta nascosta anche allo psichiatra più attento, al perito più esperto. E poi affiora, e porta alla tragedia. Perché appunto il crinale è sottile, ragiona Emanuele Caroppo, docente di Tecnica della riabilitazione psichiatrica alla Cattolica di Roma. “Ma noi ci troviamo tra due fuochi, criticati se applichiamo misure troppo coercitive e criticati se invece proviamo a reinserire i pazienti in un contesto normale. Noi sappiamo curare la psicopatologia: c’è una terapia, un decorso, la guarigione, tutto è documentato nella cartella clinica. Diverso il caso invece della psicopatia, quella follia nascosta che può sfuggire al terapeuta più bravo, e sfociare purtroppo in tragedia. Non possiamo controllare tutto, ma non è giusto che lo psichiatra venga considerato responsabile per i gesti commessi dal paziente”. Gran Bretagna: risarcimenti a vittime di torture e abusi nelle carceri dell’Iraq occupato Nova, 21 dicembre 2012 Il ministero della Difesa britannico ha pagato 14 milioni di sterline a titolo di risarcimento per centinaia di iracheni che hanno denunciato di essere stati detenuti illegalmente e torturati dalle forze britanniche durante i cinque anni di occupazione dell’esercito del Regno unito nel sud-est del paese. Altre centinaia di denunce sono in corso, ora che gli iracheni sono consapevoli di poter agire contro le autorità britanniche nelle corti di Londra. Il ministero della Difesa ha dichiarato che sta indagando su ogni accusa di abuso che stato fatta, aggiungendo che la maggior parte dei militari britannici e delle donne inviati in Iraq hanno avuto una condotta “con i più elevati standard di integrità”. I gruppi per la difesa dei diritti umani e gli avvocati degli ex prigionieri non sono dello stesso avviso e hanno dichiarato che i maltrattamenti erano sistemici. Inoltre hanno affermato che i responsabili degli abusi agivano secondo regole apprese durante la formazione avvenuta in Gran Bretagna ed eseguivano ordini scaturiti in Iraq.