Giustizia: il premier Monti visita Pannella “è lucido… ma sospenda lo sciopero della fame” Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2012 La protesta del leader dei Radicali è arrivata all’ottavo giorno consecutivo. Ieri è rientrato in clinica dopo esserne uscito contro il parere dei medici. Il presidente del Consiglio: “Ci siamo confrontati”. Celentano: “Possibile che si debba rischiare la vita per avere giustizia?” Mario Monti invita Marco Pannella a sospendere lo sciopero della fame e della seta. Il presidente del Consiglio è giunto nell’ottavo giorno di digiuno totale dello storico leader dei Radicali, messo in atto per far ottenere l’amnistia e il voto ai detenuti. All’uscita dalla clinica dove Pannella è ricoverato, Monti ha affermato di averlo trovato “lucido e intellettualmente combattivo”. Il presidente - si legge in una nota di Palazzo Chigi - ha avuto con lui un colloquio sui temi della legalità, della giustizia e della situazione carceraria, in Italia e nel contesto europeo. Pannella ha anche esposto le ragioni e gli obiettivi della sua azione. Dallo scambio di opinioni, Monti ha tratto spunti che si ripromette di approfondire. L’ottantaduenne leader radicale è in condizioni preoccupanti a detta dei medici che lo stanno assistendo. Nell’ultimo bollettino medico di ieri si legge che “malgrado alcune parzialissime assunzioni di caramelle, che nell’immediato gli hanno consentito di parlare, gli esami eseguiti prima dell’uscita di oggi pomeriggio dalla clinica, contro il parere dei sanitari, documentano una ulteriore deterioramento della funzionalità renale”. Ieri pomeriggio Pannella ha abbandonato il suo ricovero per un paio di ore, facendovi rientro su invito dell’equipe medica per scongiurare conseguenze cliniche irrimediabili. Sulla battaglia civile portata avanti nell’ultima settimana da Pannella è intervenuto stamane anche Adriano Celentano che su twitter ha scritto: “Possibile che si debba rischiare la vita fino a questo punto per avere giustizia!”. È giunta inoltre anche la solidarietà dell’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti: “Marco Pannella sta testimoniando, con la sua civile e drammatica testimonianza, l’intollerabilità di una situazione di illegalità e di inumanità. Non ho titoli per rivolgere appelli a chi che sia - ha affermato l’ex segretario di Rifondazione comunista - ma penso sia indispensabile che tutte le autorità istituzionali che possono, Presidente della Repubblica, Parlamento, presidente del Consiglio e Governo, debbano prendere l’iniziativa per accogliere la domanda che vive nella nobile testimonianza di Marco Pannella”. Tra le tante personalità che hanno provato a incontrare o che hanno espresso la loro vicinanza a Pannella, ieri è stata la volta anche del ministro della Giustizia Paola Severino, la quale si è recata nella clinica romana Nostra Signora della Mercede dove è ricoverato il leader dei Radicali, non potendolo però incontrare su divieto dei medici. Solidarietà è stata espressa anche dai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, nonché dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani che in una nota ha sottolineato come “la sua testimonianza richiama le forze politiche all’evidente violazione dell’articolo 27 della Costituzione, che indica la finalità riabilitativa del carcere e vieta l’applicazione di pene disumane”. Giustizia: l’urlo disperato di Pannella per gli ultimi di Mattia Feltri La Stampa, 18 dicembre 2012 Pochi di noi sono scampati al sospetto che gli scioperi della fame e della sete di Marco Pannella servano al dimostrante per mettersi al centro delle sue stesse dimostrazioni. Ancora di meno sono scampati alla sensazione che le periodiche, reiterate e accavallate proteste siano soprattutto stucchevoli e lagnose, elencate quotidianamente con implacabile costanza dalla Radio radicale; che riguardino il leader o i suoi, in solitaria o a staffetta. Sono sospetti e sensazioni che andrebbero messi alla prova - almeno oggi - delle disastrose condizioni di salute di Pannella, dopo sette giorni di astensione totale dal cibo e dall’acqua. Inoltre sono sospetti e sensazioni che avrebbero un senso se si parlasse di rimpiazzo dei giudici costituzionali o di riforma delle legge elettorale, ma non ne hanno alcuno poiché si parla cristianamente e laicamente dei diritti degli ultimi, i carcerati. Anche in questo caso sembra prevalere nella discussione il “chi” o il “come” piuttosto che il “che cosa”. Un erroraccio. Le questioni sono tali, e hanno una dignità o un rilievo indipendentemente da chi o come le sollevi. E se non fosse per Pannella, per il suo coraggio o cocciutaggine o persino vanità, chiamatela come volete, ci avvieremmo verso Natale a fauci spalancate, con la preoccupazione residua dello smaltimento del cotechino a fine feste. In quello stomaco così accogliente, invece e per fortuna, ci arriva il cazzotto di Pannella, a dieci anni esatti dalla visita di Giovanni Paolo II al Parlamento italiano a domandare agli eletti un gesto di carità verso i detenuti. Dieci anni dopo siamo alle solite. Il Libro Verde sull’applicazione della normativa Ue sulla giustizia penale elenca i dati vergognosi. La popolazione carceraria oggi è di circa settantamila detenuti; di questi, il 43/44 per cento sono in attesa di giudizio. Significa che oggi abbiamo in galera trentamila persone tecnicamente innocenti. Pare poco? La media europea è del 28 per cento. Quella tedesca - Paese con una certa tradizione di severità - è del 15 per cento. Ci si può divertire anche coi numeri sul sovraffollamento. In Italia, la densità penitenziaria in rapporto con la capacità ufficiale è del 153 per cento; traduzione: ogni due carcerati ce n’è uno di troppo. Peggio di noi, in Europa, c’è soltanto la Bulgaria col 155 per cento, mentre la media continentale è del 107 per cento e in Germania dell’89. Coltivare la pretesa costituzionale (a proposito della Costituzione più bella del mondo) della rieducazione del reo in celle dove ci si mette i piedi in testa, dove si dorme uno sopra l’altro, si va al bagno en plein air, è effettivamente un bella pretesa. Alla disperata richiesta pannelliana dell’amnistia si replica ancora oggi che sarebbe meglio costruire nuove prigioni, sebbene non le si costruiscano da mai: quelle vecchie si inzeppano sempre più, fino al primo abborracciato provvedimento di clemenza e la storia va avanti da decenni, in condizioni che si definiscono disumane ormai in automatico, che si fa fatica a iscrivere alla voce che gli compete, la voce “tortura”. Il nostro Grande Capo radicale ci ha ricordato l’obbrobrio, ed è un risultato pagato caro ma raggiunto. Almeno qualcuno ne parla. E sarebbe davvero ora - che bella speranza natalizia - di ragionare seriamente sui reati, se tutti debbano davvero comportare la detenzione in carcere, se qualcuno non sia espiabile ai domiciliari, su quali pene alternative vogliano introdurre, su quali depenalizzazioni siano percorribili. Un Paese che si pretende civile non ha il diritto di essere fuorilegge e tantomeno di eludere una questione soltanto perché è poco popolare. Che ci abbia obbligato a scriverlo, è un merito di Pannella scolpito nel marmo. Giustizia: Pannella sta morendo e gli italiani se ne fregano di Vittorio Feltri Il Giornale, 18 dicembre 2012 Marco Pannella ci riprova, e potrebbe essere l’ultima volta. Uno sciopero - l’ennesimo - della fame e della sete, alla sua età (quasi 83) è una scommessa sconsigliabile. Dal nostro punto di vista. Ma da quello del Grande Radicale è una mossa disperata per farsi udire dai sordi del Palazzo. Non sappiamo come andrà a finire: gli indifferenti dei partiti sono troppo impegnati nei traffici di bottega e non hanno alcuna voglia di occuparsi delle carceri (fuori legge) e dei carcerati, cui manca solo di essere torturati per accontentare quelli, tanti, che dicono: “Uno in galera? Qualcosa avrà fatto; chiudetelo in cella e gettate via la chiave”. L’unico che si fa in quattro per ripristinare la legalità calpestata da questo Stato criminale è lui, Pannella, e passa pure per fesso. Davanti alle foto che lo ritraggono smagrito e sofferente, sul punto di morire, molti sbuffano annoiati: lo accusano di scarsa fantasia, di recitare sempre lo stesso copione del digiuno totale. Già, ogni due o tre anni, quell’omone imponente si fa ricoverare per impietosire gli italiani, i quali invece se ne fregano, hanno capito il trucco esibizionistico. Facile esprimere sciocchezze quando si trascurano i motivi di certe proteste estreme. Come è facile dimenticare i sacrifici di Marco, le sue battaglie combattute con (eccessivo) furore e che hanno segnato la storia politica del nostro Paese: il divorzio e la depenalizzazione dell’aborto sono opere sue. I referendum, che dormivano nella Costituzione, li ha svegliati lui. Per esempio quello che aboliva il finanziamento pubblico dei partiti, approvato dal popolo e disatteso da chi doveva dargli effetto. Vi pare poco? Il potere esecutivo e il potere legislativo del nostro Paese hanno sempre cercato di sottovalutare, sminuire e addirittura ridicolizzare le iniziative radicali. Perché? Confinandole nel recinto più lontano dalle priorità, avevano la speranza, se non la certezza, di soffocarle nell’oblio. Non valeva la pena di prenderle in considerazione, di far crescere, così, la Rosa nel pugno (una minaccia). Inoltre, i diritti civili non fruttano tangenti, non portano vantaggi elettorali, ma un rischio: quello di scontentare una parte cospicua di cittadini. Figuriamoci i diritti dei detenuti: a chi possono stare a cuore se non a qualche anima bella? C’è un’ignoranza quasi totale del dramma delle patrie galere, e non mi riferisco soltanto al sovraffollamento, che pure è causa di orrori ripugnanti. Si ignora che quasi la metà dei reclusi è in attesa di giudizio e che il 50 per cento di loro vengono poi regolarmente assolti. Si ignorano l’inadeguatezza delle strutture, l’impossibilità di garantire a tutti un letto, l’assenza di servizi igienici degni di questo nome. Si ignorano l’assurdità dei regolamenti, le vessazioni inflitte a chi è privato della libertà e della personalità, costretto a una promiscuità avvilente. Non proseguo nell’elencazione dei “delitti” che lo Stato commette in qualsiasi luogo delimitato dalle sbarre: desidero evitare di impressionare il lettore. Pannella è uno dei pochi ad aver visitato varie prigioni e a conoscere le atrocità che vi si consumano (senza che nessuna autorità senta il bisogno di gridare allo scandalo) ed è per questo che da anni urla e strepita affinché il presidente della Repubblica intervenga. Solo Giorgio Napolitano ha facoltà di sollecitare il governo e il Parlamento a porre fine a questo strazio. Ecco perché Marco, non avendo altra arma efficace per destare l’attenzione del Quirinale, è ricorso al solito sciopero della fame e della sete, pronto a morire per ottenere ciò che pretende. L’amnistia, che non è un regalo ai delinquenti, ma il punto di partenza d’una riforma non rinviabile allo scopo di ripristinare la legalità in un settore dello stesso Stato, quello carcerario, il quale non può essere un “porto franco” di violazioni dei diritti umani (sottoscritti dall’Italia). D’altronde, lo comprende chiunque, per mettere ordine negli stabilimenti di pena e nella legislazione è obbligatorio partire da una situazione di normalità. Raggiungibile soltanto dimezzando il numero dei detenuti e dei processi in corso, molti dei quali peraltro (200mila l’anno) si esauriscono nella prescrizione, cioè una sorta di amnistia riservata a chi ha soldi per pagarsi un buon avvocato. I poveracci marciscano dentro. La forza di Pannella moribondo è tutta qui: nell’altruismo. Egli non chiede nulla per sé; si danna per dare una mano ai derelitti della società e per aiutare lo Stato a redimersi, visto che si comporta da criminale. Giustizia: dite che la battaglia di Pannella è di tutti noi di Valter Vecellio Europa, 18 dicembre 2012 Conosco le obiezioni, le prevengo, così si risparmia del tempo: Marco Pannella è un grandissimo rompicoglioni, e anche se non lo penso, dico con quanti ne sono convinti che Marco ha prodotto più danni che benefici, dove passa lui cresce cicoria e gramigna, ha vagonate di difetti, è logorroico, insopportabile, è confuso e confusionario. Va bene così? Il repertorio è al completo? A me basta quel che ebbe a scrivere nel 1979 Indro Montanelli: “È un figlio discolo e protervo, un giamburrasca devastatore che dopo aver appiccato il fuoco ai mobili e spicinato il vasellame, è scappato di casa per correre le sue avventure in prateria. In caso di pericolo o di carestia, lo vedremo tornare portandosi al seguito mandrie di cavalli e di bufali selvaggi, quali noi non ci sogneremo mai di catturare e domare”. Sono ormai quarant’anni che conosco Marco, su di lui ho scritto decine di articoli e un libro (e per scriverlo l’ho fatto a sua insaputa, ché forse mi avrebbe dissuaso); l’ho visto “accorrere” non so quante volte, è stato ed è generoso e comprensivo, paziente e disponibile sempre, ogni volta che ho bussato e sapevo che altro aveva da fare. Il Pannella che io conosco e che ogni volta è capace di meravigliarmi, non è quello che raccontano spesso i giornali, quello che sento dire e leggo. È l’uomo che per Leonardo Sciascia era “il solo politico italiano che costantemente dimostra di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia”. È l’uomo che, ha scritto Eugenio Montale, che di elogi era assai parco, ispirato che sorge “dove il potere nega, in forme palesi, ma anche con mezzi occulti, la vera libertà”, e lo accosta - pensate! - ad Andrej Sacharov, “soli e inermi, essi parlano anche per noi”. Marco da giorni non mangia, non beve. I medici diffondono bollettini angosciati e angoscianti; e ti assale una sorta di rabbia cupa, sorda...: “Marco, c’at vègna un cancher, smetti!”, avresti voglia di ululargli. “Con quale diritto fai quello che fai, e ci imponi questo tormento, questa sofferenza?”, e davvero vorresti ficcargli a forza un imbuto in bocca e poi giù, litri d’acqua, che ne anneghi...Ma no, ha ragione lui, purtroppo. Ha ragione a ricordarci, a quel prezzo, in quel modo, pregiudicando la sua salute e la vita stessa, la situazione che si è determinata, l’illegalità diffusa, profonda in cui affonda il paese; e a tentare di scuoterci dalla nostra inerzia, dall’indifferenza, dalla rassegnazione. Se vuoi, puoi. Se puoi, devi...Marco ci ricorda un il testo di un appello del 1976 aperto da Pietro Nenni, e sottoscritto tra gli altri da Giuseppe Saragat, Ferruccio Parri, Alberto Moravia, Elena Croce, Arrigo Benedetti, Guido Calogero, Aldo Visalberghi, Loris Fortuna, Giacomo Mancini, Riccardo Lombardi, Franco Fortini, Lucio Colletti, Antonio Baslini, Alessandro Galante Garrone, Ignazio Silone, moltissimi altri, politici, scrittori, registi, pittori, giornalisti…Erano tanti, e tanti sono morti. È arbitrario, certo, dire cosa avrebbe fatto oggi chi che non c’è più, ma non ho dubbi: oggi si sarebbero mobilitati, avrebbero levato la loro voce, come allora. Non tanto o solo per Pannella, quanto e soprattutto, per la causa che Marco agita e - letteralmente - incarna. Ci sono i vivi, quelli che possono, che devono, che sanno: Giuliano Amato, Giorgio Galli, Francesco Alberoni, Franco Ferrarotti, Carlo Ripa di Meana, Giorgio Albertazzi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Franca Rame, Adele Cambria, Maurizio Costanzo, Francesco Rosi, Umberto Eco, Stefano Rodotà...Lo chiedo, sommessamente a Maurizio Belpietro e a Mario Calabresi, a Virman Cusenza e a Ferruccio de Bortoli, a Vittorio Feltri e a Giuliano Ferrara, a Umberto La Rocca, Ezio Mauro, Antonio Padellaro, Alessandro Sallusti, Luca Telese, a tutti noi: è così difficile per una volta accorrere noi per dire non tanto e non solo, a Marco, di bere una goccia d’acqua; quanto, piuttosto, che quella battaglia per la legge, il diritto, la legalità è la nostra battaglia? Giustizia: emergenza carceri… “Fate presto”! www.napolicittasociale.it, 18 dicembre 2012 Da lunedì anche il comune di Napoli ha deciso di fare suo l’appello de Il Carcere Possibile a Governo e Parlamento: “Occorre garantire il rispetto dei diritti umani e favorire il recupero dei condannati”, spiega l’assessore al Welfare Sergio D’Angelo. Sulla facciata di Palazzo San Giacomo l’urgenza della condizione carceraria suona come l’allarme per un terremoto: “Fate Presto” Nell’ultimo anno sono 151 i detenuti morti in cella, 59 i suicidi, uno ogni cinque giorni. La punta dell’iceberg di una situazione resa drammatica da sovraffollamento, cure scadenti e mancati progetti di reinserimento. “Fate presto” si legge su uno striscione esposto ai balconi della sede del Comune di Napoli che aderisce all’appello de Il Carcere possibile onlus: “Le condizioni di vita in carcere non sono più tollerabili”, dice l’assessore al Welfare D’Angelo. Le associazioni impegnate nella difesa dei diritti dei detenuti: “Amnistia subito, poi le riforme”. Che in Italia siano violati i diritti dei detenuti è cosa nota. Lo ha ammesso il governo nel lontano 13 gennaio del 2010. Fu l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano a dichiarare lo stato d’emergenza del sistema carcerario. Urgenti interventi di riforma furono sollecitati alle Camere dal Presidente della Repubblica Napolitano. A distanza di due anni è lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella a riproporre all’attenzione mediatica la drammatica condizione d’illegalità dei penitenziari italiani. “In due anni non è stato fatto nulla di concreto. Anzi si è passati da 64 mila detenuti di due anni fa ai circa 66mila di oggi”, spiega il presidente di Antigone Campania Mario Barone. “Il ministro Severino aveva annunciato provvedimenti entro settembre, li stiamo ancora attendendo”, attacca la garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco. La Campania fa registrare il record nazionale di sovraffollamento in un istituto di pena: nel carcere femminile di Pozzuoli su una capienza di 90 posti sono 200 le detenute, il 219 percento in più del previsto. Al 195 percento il carcere di Poggioreale dove in 2600 affollano uno spazio destinato a 1347 detenuti. “Lì ho visto uomini costretti a vivere, senza iperboli, come dei maiali. Otto dietro porte blindate, in celle dove non possono restare in piedi contemporaneamente tre persone”, denuncia l’avvocato Riccardo Polidoro de Il Carcere Possibile Onlus. “I numeri di Poggioreale sono quelli di un piccolo comune cui a causa della spending review sono stati negati tutti i servizi”, è il parallelo proposto dalla Tocco, “Spazi angusti, impossibilità di garantire l’apertura delle celle per mancanza di agenti, una sola cucina per tutti”. L’accesso alle cure è una delle criticità maggiori. “Ogni volta che visito le carceri devo registrare tantissimi casi di assistenza medica insufficiente, segnalarle alla direzione e talvolta chiedere l’intervento della magistratura”, racconta la garante dei diritti dei detenuti, “Meno di un mese fa a Poggioreale sono intervenuta per sanare una situazione in cui un solo detenuto doveva aiutare quattro compagni di cella paraplegici, di cui uno in gravi condizioni di salute. Mi chiedo come sia possibile che nessuno si fosse accorto di nulla. Ottenere una visita specialistica, come un controllo cardiologico, è poi un’impresa impossibile, possono passare mesi”. Oggi la sanità nelle carceri è di competenza delle Asl e non più del ministero di Giustizia. Un passaggio che non sembra aver prodotto grandi benefici: “Abbiamo riscontrato difficoltà nel concordare interventi tra direzione e aziende sanitarie in quasi tutte le carceri monitorate”, dice Barone, “per non parlare della mancanza quasi totale di interventi di sostegno psicologico”. Amnistia e indulto sono invocati come interventi necessari, urgenti, ma non sufficienti da chi è in prima fila nella difesa del diritto dei detenuti. “Occorre riformare il sistema della pena con un ricorso alle misure alternative e l’attivazione di percorsi veri di reinserimento. Così come sono le carceri restano delle università del crimine”, dice la Tocco. “Una resa incondizionata dello Stato”, è il parere di Polidoro, “Oggi in mancanza di una qualsiasi idea di intervento strutturale sono, però, necessarie per tamponare l’emergenza”. Dello stesso avviso Barone: “Un’amnistia porterebbe dei benefici, ma non si può considerare sempre come l’unica soluzione possibile al sovraffollamento. I dati statistici dimostrano che la recidiva di chi sconta la pena con misure alternative e di gran lunga inferiore a chi esce dal carcere. La strada da intraprendere è chiara”. Nell’anno in cui il cinema italiano è rappresentato agli Oscar dal film “Cesare deve morire” dei Taviani, un detenuto è il protagonista di Reality di Garrone, e “Il gemello” di Marra sulla vita nel penitenziario di Secondigliano è accolto dagli applausi al Festival di Venezia, la maggioranza dell’opinione pubblica sembra ancora non particolarmente sensibile al tema della condizione carceraria. “Prevale l’idea che chi è in carcere si meriti tutta la sofferenza che subisce. È l’atteggiamento anche dei politici, sono pochissimi quelli disposti ad assumersi il peso di una questione percepita come impopolare”, spiega Barone, “Il carcere è popolato da immigrati, tossicodipendenti, autori in genere di piccoli reati. E non da pedofili e sanguinari come risulta all’immaginario collettivo. I detenuti per mafia, ad esempio, sono solo il 4 percento del totale”. Anche dall’interno dei penitenziari le voci di protesta sono effimere. Resta poco dei movimenti di rivendicazione dei detenuti degli anni ‘70. “La discrezionalità dello sconto di pena per buona condotta, introdotto dal ordinamento del 1975”, continua il presidente di Antigone “se da un lato è giustissimo, dall’altro mette il bavaglio ai detenuti che, per usufruire di giorni di permesso e riduzioni, non denunciano”. Polidoro la chiama “estorsione di Stato”: “Il carcere dovrebbe essere trasparente e invece non mi è mai capitato di poter raccogliere la testimonianza di un detenuto senza la presenza costante di un agente. La violenza è diffusa, ma tutti tacciono. Alcuni agenti hanno avuto il coraggio di denunciarlo apertamente. Con questo non voglio gettare la croce sulla polizia penitenziaria, sottodimensionata e costretta a un lavoro improbo”. Al caso Cucchi si rifà la Tocco “Un caso eclatante che evidenzia tutte le distorsioni del sistema. Nelle nostre carceri c’è una situazione permanente di illegalità e violazione dei diritti”. Giustizia: per le carceri c’è bisogno di una seria riforma, dopo decenni senza diritto di Davide Giacalone Il Tempo, 18 dicembre 2012 È un errore limitarsi a far “sfiatare” la pentola a pressione carceraria C’è bisogno di una seria riforma dopo decenni senza diritto e senza diritti. Marco Pannella è tornato a gettare la vita, anzi, la propria morte, dentro al piatto vuoto delle chiacchiere politicanti. Conosce a menadito l’arte della politica e sa bene che comporta una dose massiccia di cinismo, cui non si sottrae. Sa, dunque, che la sua decisione può essere commentata sia come ricatto, come sceneggiata, che come ostinazione, prima o dopo, a incontrare la fine nel corso di una battaglia. Non solo l’ha messa nel conto, ma forse ci conta. Spero che non accada, ma non per altruismo, bensì per egoismo, giacché, in quel caso, resteremmo noi a morire di sete e di fame, non fisicamente e non per volontaria privazione, ma civilmente e per generale imposizione, che, oramai, la politica non ha più nulla di commestibile, né è più deglutibile. Accanto al cinismo, che lo rende imperturbabile innanzi al pericolo più immediato, Pannella incarna un disperato candore. I suoi scioperi si sommano nel tempo, tanto che taluni fanno confusione su quale sia la causa del giorno, la battaglia per la quale s’incammina ancora verso l’ipotetico non ritorno, ed è questa la cosa che mi colpisce di più: in un’Italia che ha cancellato la malagiustizia dall’agenda politica, che l’ha soppressa anche nella cronaca, con un mondo politico oramai appecoronato al più bieco giustizialismo, diffuso come sifilide fascistoide per ogni dove, fra i legittimi eredi del fascismo come fra gli eredi della sinistra comunista, che fuori dai confini del comunismo realizzato fu garantista, accompagnata, quella politica, da un giornalismo che ha traslocato nelle pagine nobili le mentalità ignobili del rotocalchismo da parrucchiere, nel mentre il Parlamento si occupa di giustizia solo per varare un immondo riordino dell’ordinamento forense, che chiameremmo controriforma se solo qualcuno si fosse prodotto in una riforma, negli stessi giorni in cui il centro destra attacca il governo Monti (un attimo prima di offrire a Mario Monti la guida del centro destra medesimo) perché non rispetta i patti sulla giustizia, intendendosi per tali non una radicale riforma che restituisca diritto all’Italia, ma una leggiucola che cambi, in modo inutile e sbagliato, le regole delle intercettazioni telefoniche, quando i magistrati che imbastiscono inchieste farlocche vanno a sostenere l’accusa presso la cassazione televisiva, in un’Italia in cui tutti si sono scordati che senza giustizia non c’è mercato, ma solo mercimonio, Pannella che fa? Prova a crepare per la sorte dei carcerati. Prova a far diventare pietra il proprio sangue e vetro il proprio piscio per denunciare il girone infernale delle carceri italiane, laddove la gran parte dei nostri concittadini sono pronti a rantolare sbavando che al Tizio o al Caio, nonché a tutta intera la classe dirigente, null’altro si può augurare se non la galera. Ovviamente senza processo e sulla base della sola accusa, perché questo è il grado d’inciviltà cui il popolo bue è stato condotto per mano, a cura di qualche vacca sacra, con o senza toga. Chiedo alla sorte un privilegio: scrivo la sera di lunedì e conto che la mattina di martedì possa giungere a Marco Pannella il mio dissenso: sono contrario all’amnistia. O, meglio, sono favorevole. Sappiamo tutti benissimo che solo l’amnistia potrà evitare il crollo definitivo della giustizia italiana, e chi lo nega non è neanche un ipocrita, ma un falso nel midollo. Ma l’amnistia dobbiamo farla per salvare una seria riforma dallo stramazzare sotto al peso di decenni senza diritto, senza diritti e senza giustizia. Non dobbiamo farla per far sfiatare la pentola a pressione carceraria. Anche Pannella sa bene che se ci limitassimo a quello non faremmo altro che rinviare il problema, inevitabilmente destinato a ripresentarsi tale e quale. E, del resto, ciò è esattamente quanto scrissi quando un Parlamento di bugiardi sostenne di varare l’indulto per rendere omaggio alle parole di un pontefice. Previsione azzeccata. E non ci voleva niente. L’amnistia è un provvedimento d’enorme ingiustizia, perché lascia senza giustizia i colpevoli come gli innocenti. È un prezzo altissimo, che può essere pagato solo innanzi a un valore più alto. Quindi dovremo pagarlo, per onorare il diritto e rimettere la giustizia in cammino. Non possiamo pagarlo lasciandola violentata e boccheggiante, preda delle bassezze corporative e in balia delle cordate corruttive. Chiedendo l’amnistia qui, ora e in queste condizioni Pannella sostiene quel che non condivido. Né mi fa cambiare opinione l’agitarsi della sua morte. E nel mentre lo scrivo, nel mentre spero che gli giunga il rispetto e l’ossequio di tale dissenso, penso alla disgraziata Italia in cui possiamo, anzi dobbiamo litigare fra noi, che della giustizia abbiamo un’idea la cui altezza la rende irraggiungibile dai tanti guitti che s’agitano per sé, con sé e per avere a sé. Non gli chiedo di smettere, perché tanto ha già deciso (qualsiasi cosa abbia deciso) e neanche Giove gli farebbe cambiare idea. Testone egocentrico ed esasperante. Guarda a cosa s’è ridotta la politica italiana e non gettare una perla nella palta. Giustizia: Severino; spero in ddl pene alternative; il Parlamento risponda a Sos Napolitano Il Mattino, 18 dicembre 2012 “Non posso che sottolineare l’importanza di questo messaggio”. Così il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha risposto ai giornalisti al Quirinale che gli chiedevano un giudizio sulle parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato aveva chiesto un impegno del Parlamento ad approvare il ddl sulle pene alternative al carcere. Napolitano è più volte intervenuto in questi mesi per denunciare il terribile sovraffollamento del sistema penitenziario italiano. “Sarebbe davvero un bel segnale se la legislatura si concludesse con l’approvazione di misure che facilitino le pene alternative” ha commentato il ministro che qualche giorno fa in un’intervista aveva ricordato che “il primo impegno da ministro della giustizia è stato proprio per i problemi legati al sovraffollamento. Gli immediati effetti positivi del decreto salva carceri, approvato un anno fa per contrastare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli, ossia la permanenza per appena soli due o tre giorni in cella - aveva avvertito, rischiano di essere vanificati se non accompagnati da altre riforme strutturali basate sul principio del carcere come extrema ratio”. I detenuti - ha ricordato ancora la Severino - sono oggi circa 66.500, mentre quando sono stata nominata ministro, nel novembre del 2011, erano 68.047. Può sembrare una flessione lieve, ma è in ogni caso un risultato di rilievo. E grazie alla legge salva carceri dello scorso gennaio, la detenzione di soli due - tre giorni si è pressoché dimezzata, passando dal 27% sul totale degli ingressi nel 2009 al 13% nel 31 ottobre 2012. Inoltre, sono 8.363 i detenuti usciti dal carcere per effetto delle norme che consentono di scontare gli ultimi 12 - 18 mesi di pena in detenzione domiciliari”. Giustizia: Berselli (Pdl); Severino non pianga lacrime coccodrillo; perché non fatto decreto? Dire, 18 dicembre 2012 “Il ministro alla Giustizia non pianga lacrime di coccodrillo, se le norme sulle pene alternative al carcere erano così urgenti perché il governo non ha fatto, non fa un decreto legge? Non scarichino sul parlamento la loro inerzia?”. È quanto dice il presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, spiegando di aver fissato per “domattina alle 8.30” una seduta di commissione sul ddl governativo per le misure alternative alla detenzione, a proposito del quale ieri il guardasigilli Paola Severino, nella lettera lasciata in ospedale a Marco Pannella, ha detto che farà di tutto per farlo approvare. “Il capo dello Stato e il governo - aggiunge Berselli - non scarichino su di noi le colpe di un ritardo che non dipende da noi. La Camera ci ha trasmesso il disegno di legge soltanto lo scorso 6 dicembre e io fino a oggi non ho potuto calendarizzarlo perché avevamo in commissione la Legge di stabilità. Alla prima seduta utile, ossia domani alle 8.30, l’ho quindi inserito in calendario anche se ormai i tempi per approvarlo non ci sono più. Non ce la possiamo fare. A giorni le Camere saranno sciolte. Non è colpa della commissione Giustizia se non verrà approvato”. Giustizia: Cascini (Dap); nel 2012 sono diminuiti gli arresti e gli ingressi in carcere Ansa, 18 dicembre 2012 “Nel 2012 sono diminuiti di oltre diecimila unità gli ingressi in carcere e si sono dimezzate le permanenze fino a tre giorni. L’impatto dello svuota carceri c’è stato, ma il fenomeno rientra anche nel trend di diminuzione degli ultimi anni. A scendere sono stati sostanzialmente gli arresti”. Lo ha affermato Francesco Cascini, direttore dell’Ufficio ispettivo e controllo del Dap, nel corso della presentazione oggi a Roma del rapporto “I detenuti nelle carceri italiane”, realizzato da Dap e Istat. L’ultimo dato aggiornato parla di 66.200 presenze in carcere, di questi Cascini ha ricordato che sono 700 quelli in regime 41 bis e 9.000 in alta sicurezza. “Il 50 per cento dei reati gravita intorno al fenomeno della tossicodipendenza - aggiunge Cascini - molti tossicodipendenti sono dentro per violazione del Testo unico sulla droga, ma sono tanti anche quelli che commettono reati contro il patrimonio. Troppo pochi sono, invece, quelli in affidamento terapeutico, una misura che ha raggiunto per ora mille detenuti rispetto ai 15 mila che ne avrebbero diritto”. Rispetto ai dati, dal rapporto emerge che negli ultimi 11 anni l’ammontare della popolazione detenuta ha subito un incremento del 25,8 per cento. Il numero delle persone presenti è di gran lunga superiore alla capienza regolamentare, fissata a 45.700 posti. La maggior parte dei detenuti entrati nelle carceri nel 2011 (76.982) è in attesa di giudizio, mentre soltanto il 10 per cento circa ha una condanna definitiva. Il 25 per cento di questi torna in libertà entro una settimana. Il cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli” (detenzioni brevi) riguarda quasi esclusivamente gli imputati (il 98%). Le violazioni della normativa sugli stupefacenti rappresentano la tipologia più diffusa di reati per i detenuti presenti (27.459). Seguono i reati contro il patrimonio, per i quali si contano 17.285 detenuti che hanno commesso rapine e 13.109 furto. Dei 38.023 condannati detenuti in carcere circa la metà (il 51%) deve scontare una pena inferiore a cinque anni. Il 95,8% dei detenuti è di sesso maschile: si tratta di una quota stabile nel corso del tempo. Cresce inoltre al 36% la percentuale dei detenuti stranieri (era il 29% nel 2000). Tra i detenuti entrati in carcere dallo stato di libertà gli stranieri rappresentano il 43%. In totale sono circa 10 milioni i detenuti nel mondo, in gran parte già condannati. Il tasso di detenzione per 100.000 abitanti è pari a 112,6 in Italia, a 127,7 in Europa, a 156 nel mondo. Giustizia: Bernardo Provenzano operato al cervello, la vita del boss appesa a un filo di Riccardo Arena La Stampa, 18 dicembre 2012 È caduto per la quinta volta, se ci si fida del referto medico che in burocratese, all’inizio del mese, accreditava di ben “quattro cadute accidentali intercorse” in carcere Bernardo Provenzano. La nuova caduta è stata però la più seria e rovinosa e ieri i medici del supercarcere di Parma hanno deciso di ricoverare di nuovo d’urgenza il boss corleonese: trasferito ancora una volta in ospedale, l’ex superlatitante è stato operato alla testa per un ematoma frontale, che è stato rimosso, perché stava premendo contro le pareti craniche e rischiava di uccidere il detenuto eccellente o di procurare danni irreparabili alle sue funzioni cerebrali è vitali. Nel tardo pomeriggio i familiari e i suoi legali hanno ricevuto l’esito dell’operazione: “Il soggetto è ricoverato in prognosi riservata e in coma”, recita la laconica nota inviata dalla direzione del carcere emiliano. Nessuna valutazione sulla durata della prognosi e sul coma, che sarebbe indotto con dei farmaci specifici, per non affaticare il cervello del paziente. Provenzano ha superato l’intervento, ma rimane gravissimo e rischia comunque la vita: il 31 gennaio compirà 80 anni, ma è da tempo malandato in salute e le sue condizioni appaiono deteriorate soprattutto sotto l’aspetto mentale, visto che è affetto, tra l’altro, anche da parkinsonismo. Proprio venerdì lo avevano visitato i periti nominati dal giudice Piergiorgio Morosini, che sta gestendo l’udienza preliminare del procedimento sulla trattativa Stato - mafia e che sulle condizioni fisiche e psichiche del suo imputato vuol veder chiaro. Per questo ha mandato in carcere, a Parma, lo psichiatra Renato Ariatti e il neurologo Andrea Stracciari, entrambi bolognesi, mentre i familiari del detenuto, assistiti dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, si avvalgono di Francesco Bruno e Elisabetta Giuliani. Quando è stata effettuata la visita, i quattro medici non avevano rilevato alcuna ferita. Circa 24 ore dopo, sabato pomeriggio, il figlio minore di Provenzano, Francesco Paolo, con la madre, Saveria Benedetta Palazzolo, compagna del boss, sono andati a trovare il congiunto nel penitenziario e hanno notato invece che portava un berretto e aveva un vistoso cerotto in testa. Il padre, le cui défaillance mentali sono ormai frequenti - così sostengono da tempo unanimemente i parenti - non ha saputo spiegare cosa fosse successo: ieri i Provenzano sono stati avvisati, nella loro abitazione di Corleone, del ricovero improvviso. Non era apparso lucidissimo, il capomafia, nella sua audizione di sei mesi fa, il 31 maggio, ma nemmeno del tutto fuori di testa. Di fronte all’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che voleva indurlo al pentimento, assieme al collega Ignazio De Francisci, “lo Zio Binnu” a tratti aveva risposto a tono: “Non ho cose particolari da dire. Io vado più avanti di lei...”. Lettere: Marco Pannella ha una grande ragione e un grande torto di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2012 Caro Colombo, secondo te bisogna rischiare di morire per attrarre un briciolo di attenzione su questioni grandi come una casa, come l’illegalità e i carcerati? Come hai capito mi riferisco al digiuno estremo di Marco Pannella. Michele Marco Pannella ha una grande ragione e un grande torto. La ragione è di avere visto con chiarezza un punto in cui il male italiano, così generale (ma anche percepito in modo generico) e diffuso (dunque “tipico” e perciò tollerato) diventa una causa specifica di dolore e di morte, con i suoi volti; i suoi corpi, le sue vite accatastate in spazi invivibili: i carcerati. L’improvvisa, implacabile concretezza dell’impegno preso (liberare i carcerati dalla tortura), deve essere apparso irritante sia alla politica sia alla stampa italiana che usano invece la lingua diversa e protettiva del politichese o del giornalistese, con cui si riesce a sostenere di avere “denunciato a suo tempo, questa o quella cosa”, ma senza essersi esposti, senza avere rischiato e senza che i cittadini capiscano di che diavolo si sta discutendo. In questo senso Pannella è brutale. Non smette di ripetere, di interrompere, di ricominciare da capo, calmo o in tensione, febbrile o ragionevole, gentile o aggressivo. Si è capito presto che l’unico modo era di togliergli microfoni e punti. di contatto con l’opinione pubblica. E vero, c’è Radio Radicale, ma per il resto la consegna è fare finta di niente. Di qui la testardaggine di un uomo che invece di smettere con buona educazione e di restare nel suo recinto, ne esce usando se stesso come un kamikaze a rovescio: giocarsi (o almeno rischiare molto) la sua vita per portare un pò di vita ad altri. Potete immaginarvi il fastidio che dà. Ma c’è il torto di Pannella. Il torto è di credere ancora, dopo tutto e nonostante tutto, che ci sia una opinione pubblica “sveglia” (nel senso di non addormentata) pronta a raccogliere. Non c’è perché, dopo decenni, l’anestesia funziona. E la crisi diminuisce, non aumenta quel tanto di altruismo che altrimenti ci sarebbe persino in un Paese di corporazioni e di separazioni rigide fra un gruppo e l’altro. Marco Pannella sta rasentando l’estremo in un silenzio che fa paura (a parte l’espediente di celebrarlo come si celebrerebbe il personaggio del giorno) e che ha il nome desolante di disattenzione autorevole. Non resta che restargli vicino e fargli da portavoce. Nel senso letterale: portare un pò più in là il suo messaggio, impedendo che si celebri il grand’uomo, ma non la sua ragione. Lettere: io, ergastolano “totale” privato pure della speranza di Carmelo Musumeci Il Giornale, 18 dicembre 2012 Caro direttore, innanzi tutto mi presento: sono un uomo ombra, un ergastolano ostativo a qualsiasi beneficio se in cella non rimetto qualcuno al posto mio, se non faccio condannare un altro al posto mio. Da poco tempo faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti” del carcere di Padova e io non c’ero quando sei venuto a trovarci. Ho letto le tue ultime dichiarazioni, che condivido: “Credo di non avere i requisiti per andare ai domiciliari e dunque dovrei andare in carcere. I miei colleghi? Dovrebbero giocare con le loro vite non con la mia”. E mi fa piacere che finalmente un giornalista pensi e dica quello che scrive. Umanamente ti auguro che la tua situazione si risolva nel miglior modo possibile, ma non ti nascondo che per molti detenuti sei diventato una specie di cavallo di Troia per fare parlare di carcere e malagiustizia. Spero che per questo però non ci chiami infami come hai fatto con i tuoi colleghi giornalisti, perché, a differenza di loro, noi non abbiamo voce e luce per fare sapere là fuori che cosa accade qui, all’inferno: opportunità di reinserimento inesistenti, autolesionismo, suicidi, tensioni interne che sfociano a volte in condotte aggressive dell’uno o dell’altro, abusi, soprusi, ingiusti - zie istituzionali, e la lista sarebbe troppo lunga per andare avanti. Direttore, la prigione è un mondo ignoto per tutti coloro che sono liberi: aiutaci con il tuo caso d’ingiustizia a fare conoscere ai nostri politici l’inferno che hanno creato e mal governano. Ma piacerebbe che andassi sul sito www.carmelomusumeci.com per aderire all’abolizione dell’ergastolo ostativo, quello che come fine pena ha la parola “mai”. Potrai leggere che questa iniziativa popolare ha già raggiunto 22mila firme e tra i primi firmatari troverai il tuo collega del Giornale Stefano Lorenzetto. Poi troverai anche Margherita Hack, Umberto Veronesi, Giuliano Amato, Don Luigi Ciotti, Franca Rame, Don Andrea Gallo, Susanna Tamaro, Giuseppe Ferraro, Ornella Fave - ro, Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Agnese Moro, Giovanni Paolo Ramonda della Comunità Papa Giovanni XXIII, Associazione Antigone, Roberto Vecchioni, Bianca Berlinguer, Gino Strada, Andrea Camilleri, Barbara Alberti, Benedetta Tobagi, Carlo Fiorio, l’onorevole Francesco Ferrante, Erri De Luca e tanti altri. Ti invio un abbraccio fra le sbarre. E un “in bocca al lupo”. Caro Carmelo, associo la mia firma alla petizione. Qualsiasi cosa tu abbia combinato resti un uomo. E qualsiasi uomo ha diritto a essere trattato con dignità e rispetto. Auguri. Alessandro Sallusti Lettere: Benigni ci hai traditi anche tu.... di Nadia Bizzotto Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2012 Tanti bei discorsi ma io mi sono svegliata stamattina per niente orgogliosa di appartenere a questo popolo, ma schifata della sua ipocrisia, quella che tu ieri sera non hai fatto altro che alimentare: sì, abbiamo proprio la più bella Costituzione del mondo, ma è anche la inapplicata, quindi la più derisa... Caro Benigni, io vivo in carrozzina da 25 anni in seguito ad un incidente stradale all’età di 20 anni e ho capito bene che sono tra gli ultimi della mia società, quella società che tace su tante cose che non vuole vedere... Sono ultima tra gli ultimi, perché da 5 anni tutti i giorni mi batto e incontro in carcere i “sepolti vivi” , gli ergastolani che la nostra bella Italia ha condannato a morire in carcere. Ergastolani senza speranza, senza benefici penitenziari, persone che sono in carcere anche dal 1979, ragazzi di 40 anni che sono stati condannati all’ergastolo a 18 anni e che non sono mai usciti, neanche per il funerale del padre. Ragazzi che hanno vissuto più tempo della loro vita in carcere che fuori, persone che l’ergastolo se lo vivono sulla propria pelle, giorno dopo giorno, anno dopo anno, da decenni. Persone profondamente e completamente cambiate rispetto al tempo dei loro reati, ma che sono uomini da noi condannati ad essere “per sempre cattivi e colpevoli”, non ci interessa affatto che siano “uomini nuovi”, come ci chiede l’art. 27 della Costituzione che ti piace tanto. Noi li vogliamo realmente far morire in carcere, tu che sei contro la pena di morte. Io li incontro: sono sempre lì, estate, inverno, Natale e Pasqua, hanno la cella del carcere come tomba. Vedo il tempo scorrere sui loro volti, settimana dopo settimana, e lasciare solchi profondi. Ti avevamo chiesto un cenno, una tua parola ieri sera. Niente: indifferenza e silenzio. Eppure tutti quei bei discorsi sulla pena di morte: caro Benigni, quanta ipocrisia quando ci schieriamo contro la pena di morte immediata e condanniamo 1.500 persone ad una pena di morte al rallentatore. A morire giorno dopo giorno. Grazie anche al tuo silenzio. ( ... ) Erode mandò a decapitare Giovanni nel carcere. Quelli che mangiavano con lui a tavola non alzarono un dito contro quell’iniquità, ma continuarono a sganasciare. Col silenzio sono divenuti complici. (Don Oreste Benzi “Scatechismo”). Puglia: sottoscritto accordo tra Regione e Prap. Vendola: assordante silenzio della politica www.marketpress.info, 18 dicembre 2012 “Come il titolo di un famoso romanzo di Francoise Sagan, credo che questo atto che sottoscriviamo oggi rappresenti un raggio di sole nell’acqua gelida”. Così il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a margine della sottoscrizione dell’Accordo Operativo tra Regione Puglia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato di Bari. All’incontro hanno partecipato il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Giuseppe Martone e gli Assessori regionali Elena Gentile e Alba Sasso. “Noi cerchiamo di fare il possibile - ha spiegato Vendola - di accendere un riflettore sulla condizione del carcere e anche di operare perché si possa dare speranza, possibilità di formarsi professionalmente, magari di sperimentare forme di lavoro per chi è oggi in prigione. Purtroppo, il sovraffollamento delle carceri rappresenta una condizione insostenibile e disumana: l’Italia è osservato speciale dai consessi internazionali per la violazione dei diritti umani nelle nostre carceri”. “In Italia - ha proseguito il Presidente Vendola - abbiamo il picco storico dei suicidi e degli atti di autolesionismo: un carcere violento e disumano fa male all’intera società. Credo, invece, che bisogna occuparci di chi ha sbagliato e occorre garantire ai detenuti il diritto di poter ritornare in società e potersi reintegrare. Si tratta di rispettare una norma della nostra Costituzione che prevede l’umanità della pena e il carcere come un luogo di transizione verso la reintegrazione. Penso che dobbiamo avere umanità, intelligenza e penso che dobbiamo dare chance di vita a chi oggi è in carcere”. “Firmiamo con piacere questo accordo operativo - ha concluso Vendola - tuttavia, resta ancora assordante il silenzio della politica sul tema del carcere. Siamo oggi nella necessità di affrontare di petto il problema relativo a provvedimenti che possano deflazionare la realtà della popolazione dei detenuti, ma anche a provvedimenti strutturali di modifica della nostra cultura penale. Credo che non si può più trattare la questione dell’immigrazione come un problema di ordine pubblico e credo che non si possano più trattare le questioni della tossicodipendenza con gli esorcismi normativi che sono la causa di tanta inutile galera, per chi avrebbe bisogno non di agenti di polizia penitenziaria, ma di assistenti sociali e psicologi”. “Come Regione Puglia - ha evidenziato l’Assessore Elena Gentile - abbiamo deciso di costruire in questi anni percorsi di formazione e di inserimento lavorativo nelle carceri pugliesi. Oggi vogliamo continuare su questa strada, cercando di costruire una feconda relazione con il sistema d’impresa”. “Con questo Accordo - ha dichiarato l’Assessore Alba Sasso - raccogliamo tutte le esperienze che abbiamo già fatto in questi anni e diamo a queste buone prassi il senso di una continuità”. Ancona: Ombudsman incontra Direttrice; a Montacuto carenze nell’organico e non solo www.consiglio.marche.it, 18 dicembre 2012 L’Ombudsman regionale incontra la Direttrice e lancia un appello per risolvere le criticità della struttura. Ancora sovraffollamento e carenza di organico. Il Garante regionale dei detenuti Italo Tanoni ha incontrato nei giorni scorsi la Direttrice della casa circondariale di Montacuto Santa Lebboroni per conoscere il quadro complessivo della struttura. Attualmente sono presenti nel carcere di Ancona 359 detenuti, di cui 191 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 178. Un terzo della popolazione carceraria, 120 reclusi, è ancora in attesa di primo giudizio. L’Ombudsman regionale segnala inoltre alcuni casi di stranieri, con decreti di espulsione, “trattenuti da mesi in cella, perché non si trovano i fondi per i biglietti di viaggio per il rimpatrio”. “Rimane in tutta la sua drammaticità il problema del sovraffollamento - spiega Tanoni. Dopo un iniziale deflusso di detenuti verso il carcere di Barcaglione, dove sono arrivate circa 80 unità da diversi istituti di pena, nell’ultimo mese il trasferimento si è improvvisamente interrotto”. Evidenziate anche le carenze nell’organico della polizia penitenziaria: “Su 180 agenti assicurati dal DAP, oggi a Montacuto ne sono in servizio solo 130”. Infine resta irrisolta l’emergenza educatori (funzionari giuridico pedagogici). “È previsto un organico di cinque professionisti, a Montacuto lavorano solo due educatori, di cui uno part-time”. L’Ombudsman, nel ribadire il clima di proficua collaborazione con la direzione dell’istituto e il PRAP, ha ribadito il personale impegno di far presenti queste ed altre criticità durante un incontro, previsto dopo le festività di fine anno, con il vice capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Luigi Pagano. Ancona: un seminario sullo stato d’attuazione della legge regionale sul sistema carcerario Regione Marche, 18 dicembre 2012 Migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri e favorire il reinserimento nella società di adulti e minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria sono gli obiettivi perseguiti dalla Regione, contenuti nel testo della legge sul sistema carcerario nelle Marche. A quattro anni dall’approvazione, ci si pone l’interrogativo sullo stato di attuazione della legge e verso quale tipo di sistema ci si sta orientando. Entrambi saranno al centro di un convegno, organizzato dall’Assessorato alle Politiche sociali, in programma giovedì 20 dicembre, alle ore 9, ad Ancona, nella Sala Parlamentino di Palazzo Li Madou. “La legge del 2008 - spiega l’assessore Luca Marconi - mira a creare un sistema integrato di servizi. Pensiamo sia utile, come già accaduto lo scorso anno, fare il punto sullo stato di attuazione, sulle criticità e sui risultati raggiunti, in particolare quelli che riguardano il progetto di inserimento lavorativo per i detenuti”. “È fondamentale - dichiara Marconi - garantire condizioni di vita accettabili all’interno del carcere e costruire le condizioni per un pieno inserimento in seno alla società una volta scontata la pena; solo così si potranno ottenere benefici sia per i singoli individui che per l’intera comunità”. Al convegno interverranno, oltre all’assessore Marconi, tra gli altri, Anna Bello (presidente del Tribunale di Sorveglianza), Giorgio Caraffa (direttore sanitario dell’Asur), Elena Cicciù (coordinatore del Centro regionale per la mediazione dei conflitti Regione Marche), Patrizia Giunto (responsabile Ufficio Servizi Sociali Minorenni delle Marche, Centro Giustizia Minorile, Ministero della Giustizia), Patrizio Gonnella (presidente dell’Associazione Antigone), Ilse Runsteni (provveditore Prap), Italo Tanoni (garante dei diritti dei detenuti delle Marche), Serena Tomassoni (presidente della Conferenza regionale volontariato giustizia). Venezia: Balamòs Teatro; si conclude il progetto teatrale “Passi Sospesi” Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2012 Il progetto teatrale “Passi Sospesi”, attivo negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006 (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, Casa Circondariale Sat, quest’ultima attualmente chiusa), e diretto da Michalis Traitsis, sociologo, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, conclude il suo ultimo ciclo - realizzatosi nel 2012 presso la Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, con la rappresentazione dello studio teatrale “appunti Antigone”, libero adattamento dall’omonima tragedia di Sofocle. La rappresentazione avrà luogo mercoledì 19 Dicembre 2012, alle ore 14.30, all’interno dell’Istituto Penitenziario veneziano (ingresso riservato agli autorizzati). “appunti Antigone” è stato realizzato dal gruppo degli allievi detenuti dell’Istituto Penitenziario veneziano insieme ad un gruppo di allievi del laboratorio teatrale del Centro Teatro Universitario di Ferrara, in seguito ad un precedente incontro di laboratorio che si è svolto nel mese di luglio dal titolo “Il lamento di Ismene” (sempre ispirato alla storia di Antigone). “appunti Antigone” racconta sinteticamente la storia di Antigone, che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del nuovo re di Tebe Creonte. Scoperta, Antigone viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell’indovino Tiresia e alle suppliche del coro, Creonte decide infine di liberarla, ma troppo tardi, perché Antigone nel frattempo si è uccisa. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie di Creonte, Euridice, lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza. Il dramma offre uno spunto di riflessione sul conflitto tra Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma forte moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (fìsis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nòmos). Il progetto teatrale “Passi Sospesi” è attivo anche alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, lo spettacolo teatrale “Le Troiane” diretto da Michalis Traitsis che era stato creato e rappresentato dalle donne detenute all’interno dell’Istituto Penitenziario di Giudecca nel 2011, nel mese di maggio 2012 è stato riallestito, ed è stato rappresentato presso il Teatro Maddalene di Padova. Il progetto teatrale si è concluso nel luglio del 2012 con un evento speciale, il gruppo delle donne detenute ha lavorato insieme ad un gruppo di allievi del Centro Teatro Universitario di Ferrara su uno studio teatrale dal titolo “sto camminando su un sentiero di luce” curato dal poeta e drammaturgo Giuliano Scabia. Durante l’anno i registi e attori Cèsar Brie e Pippo Delbono e Mira Nair sono stati invitati a condurre incontri di laboratorio con i detenuti e le detenute degli Istituti Penitenziari veneziani. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” per l’anno 2012 è stato finanziato dalla Regione Veneto e tutto il processo del laboratorio è stato documentato tramite la produzione di materiale fotografico (Andrea Casari) e la produzione di un video (Marco Valentini). Gli ultimi anni i video documentari del progetto teatrale “Passi Sospesi” sono stati presentati alla Mostra di Venezia, nell’ambito dell’iniziativa “L’esperienza del progetto teatrale Passi Sospesi negli Istituti Penitenziari di Venezia” e nell’ambito del festival della rivista Internazionale. Al progetto teatrale “Passi Sospesi” collabora ormai da molti anni il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Di recente è in fase di ratifica un protocollo d’intesa tra i due Istituti Penitenziari di Venezia, il Teatro Stabile del Veneto e Balamòs Teatro. È in fase di ratifica anche il protocollo d’intesa tra il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere (Balamòs Teatro è membro fondatore) e l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” continuerà il suo nuovo percorso nel 2013 con l’obiettivo di ampliare e intensificare la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia. Info: www.balamosteatro.org - 328 8120452 Stati Uniti: pena morte; Governatore Ohio grazia condannato obeso di Alessandra Baldini Ansa, 18 dicembre 2012 Un condannato a morte che aveva fatto appello per evitare l’esecuzione dichiarandosi troppo grasso per morire è stato graziato dal governatore dell’Ohio John Kasich. Ronald Post, che avrebbe dovuto essere sottoposto all’iniezione letale il 16 gennaio, aveva chiesto di fermare l’esecuzione perché il tentativo di ucciderlo sul lettino del boia rischiava di trasformarsi in un processo lungo e difficile, con il rischio concreto di gravi sofferenze fisiche e psicologiche. La grazia è arrivata dopo che il Parole Board dello stato aveva raccomandato clemenza sulla scorta del fatto che 30 anni fa Post non aveva ricevuto una assistenza legale degna di questo nome. Nulla a che fare con i 218 chili del condannato, dunque, ma il risultato per Post non cambia. ‘A prescindere dalla natura orribile del delitto, un condannato ha diritto a una difesa efficace e il Parole Board ha concluso che non è stato questo il suo caso. Io concordò, ha detto Kasich. 53 anni, condannato per aver ucciso una donna durante una rapina nel 1983, Post passerà dunque il resto della sua vita in prigione senza sconti di pena. Nella richiesta di appello, rinnovata anche nelle ultime ore, il detenuto “oversize” aveva allegato una dichiarazione di David Lubarsky, anestesista e professore dell’università di Miami, secondo cui “la sua singolare condizione fisica e medica” avrebbe messo la squadra responsabile dell’esecuzione di fronte a “gravi difficoltà”. C’era il sostanziale rischio che “l’intero torso di Post non entri nel lettino” e che questo comunque possa crollare sotto il suo enorme peso come è successo alle cyclette del carcere usate dal condannato per tentare di dimagrire, aveva argomentato Lubarsky. Secondo l’anestesista di Miami, il detenuto aveva “una incredibile quantità di grasso che circonda i muscoli e il sistema vascolare”: in passato i medici che lo hanno avuto in cura in prigione avevano fatto fatica a trovargli le vene. Post non è il primo prigioniero dell’Ohio che ha cercato di far valere il fatto di essere decisamente obeso per fermare la mano del boia: nel 2008 una corte di appello aveva respinto un simile ricorso di Richard Cooey, che pesava cento chili di meno. Cooey era stato messo a morte nell’ottobre di quell’anno, apparentemente senza i problemi temuti dai suoi legali. Un anno prima tuttavia, l’esecuzione di Christopher Newton, anche lui di stazza sopra il quintale, si era protratta per 90 minuti nel tentativo del boia di trovargli la vena. Russia: “Le mie prigioni di Pussy Riot”, Marja e l’assurdo lager di Putin di Marja Aljokhina (traduzione Claudia Zonghetti) La Repubblica, 18 dicembre 2012 Se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi. Non c’è un inizio, in questa storia. Anzi, non c’è nemmeno una storia. C’è qualcosa di assurdo che prende forma per tramite delle parole. Tra l’altro, dubito che qualcuno vorrà confermarle, le mie parole. In tanti le confuteranno, piuttosto. “Tutto regolare”, vi diranno. Magari senza troppa convinzione, all’inizio; ma in un crescendo continuo di entusiasmo. Fino a sostenere, anzi, che va “tutto bene”. Perché “alla colonia penale 28 va tutto bene”, e ve lo diranno detenuti, personale e difensori dei diritti umani. La 28 è la Colonia Penale (IK) femminile della regione di Perm. Intorno solo fabbriche e tajga. Il fatto che - da ex militante ecologista - io sia finita in un carcere dove si respirano veleni ha dell’ironico. C’è solo grigio, intorno. Il colore di partenza può anche essere un altro, ma un tono di grigio c’è sempre. E ovunque: case, cibo, cielo, parole. È l’antidoto alla vita di un piccolo spazio chiuso. Qui si arriva solo in tradotta. Nel mio caso, da Mosca, dopo tre carceri di transito (Kirov, Perm e Solikamsk) e tre viaggi tra vagoni senza finestre (gli “stolypin”) e una lunga serie di camionette. Sull’ultima, quella che finalmente si avvicina al ferro alto della cancellata, siamo in diciannove. Diciannove “nuove”: nuove operaie tagliatrici, nuove cucitrici e ausiliarie. Dall’ingresso alla stanza dove ci perquisiscono arriviamo a piedi, piegate sotto le nostre sacche. Io ne ho tre. Insieme fanno quasi il mio peso. Entriamo in un edificio cinto da un muretto: il carcere (e le celle) di isolamento punitivo. Lì ci spogliano e ci spediscono in quarantena con un camice a scacchi. Uguale per tutte. In quarantena comincia l’adattamento. O meglio, il callo inizia a formarsi. Si impara a saltare giù dal letto alle cinque e mezza del mattino e a correre in bagno (ma solo io mi ostino a chiamarla “bagno”, quella stanza): tre lavandini e due water per quaranta detenute; e svelte, che alle sei, a gruppi di dieci, c’è da correre in cucina per la colazione. Prima, però (sempre che si ambisca a bere una tazza di tè), c’è da trovare il tempo per passare al deposito, là dove si conserva ogni cosa, cibo compreso. Anzi no: siccome non si può lasciare il pigiama sotto il cuscino, la tappa al deposito è obbligatoria. Dopo due settimane di acqua gelata non sento più le mani; potrei usare l’acqua calda, certo, ma c’è la fila e c’è da correre anche lì. E ho già da correre per altri sei mesi. Però ci sto facendo il callo. Ce lo stiamo facendo tutte quante, anzi, in questo nostro “albergo regolamentato”. Con regole - il Regolamento interno - che vanno studiate a memoria. Non scherzo. Non crediate che basti una volta. Ce le ripetono (leggendocele) ogni giorno, e ogni giorno noi le ascoltiamo. La stanza dove questo accade si chiama “Regolamento interno” anche lei, e sullo stipite della porta c’è proprio una targhetta che lo dice: Stanza Regolamento Interno. E nella Stanza del Regolamento si va ogni giorno a sentire il Regolamento. Assurdo? Neanche un po’. Per non addormentarmi (c’è una telecamera che ti controlla, in un angolo), vado a spalare la neve in cortile. Ogni baracca ne ha uno (non è un cortile, in realtà, ma un quadrato di terra cinto da filo spinato). C’è da inventarsene più d’una, per non addormentarsi: lego le sigarette con un filo (niente pacchetti: alla prima perquisizione svuotano il contenuto in un grosso sacco e buttano via il pacchetto), tolgo e rimetto i fiammiferi dentro la scatola, cucio e ricucio la targhetta col nome sulla divisa, censisco pulci e pidocchi. Tutto per non addormentarmi. Perché se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi. C’è un sistema, qua dentro, di “elevatori sociali”. È una serie di criteri che se osservati o ignorati permettono alla commissione che concede la libertà sulla parola di capire se il detenuto si è redento o meno. E ci leggono ogni giorno pure quello. Non infrangere il regolamento, lavora, presenzia a ogni sorta di iniziative, vai regolarmente in biblioteca, dallo psicologo e a pregare (eppure il nostro è uno Stato laico, non ce lo ripetono in continuazione?). Ostenta le tue relazioni sociali e mantieni i contatti con i familiari. Il detenuto compie ogni singola azione per un segno di spunta nella lista della “parola”. E non per una crescita individuale. Nella mia ultima seduta, la psicologa ha paragonato questo processo alle tappe di una carriera professionale, chiamandosi in causa in prima persona: “Funziona così anche per noi militari “, mi ha detto. È una verità amara: mezza Russia vive come chi ha una condanna da scontare. Non serve gente di carattere. Serve gente dal callo facile. “Tanto non cambia mai niente”, ci troviamo a commentare, all’unisono, io e un’altra detenuta. Perché noi non serviamo a nessuno - la mia deduzione esce da sola, in un sussurro. E in quell’istante preciso, a notte fonda, in un cambio di turno in fabbrica, per un attimo mi sento - orribilmente - tutt’uno con una persona che è rinchiusa da più di vent’anni; tutt’uno nell’inutilità, tutt’uno nell’essere un aborto di quanto c’è di oggettivo. Della “società”, del potere. E figlia di quel mondo morto che, paradossalmente, si riproduce in chi abita la colonia penale. Non ci vuole molto, per uscire sulla parola. Basta cucire dodici ore al giorno per un migliaio di rubli al mese, basta non scrivere reclami, incastrare qualcuno, fare la spia, non fiatare mai e sopportare sempre. Pakistan: appello di Asia Bibi dalla sua cella “scrivete al presidente pachistano” Avvenire, 18 dicembre 2012 “Penso alla mia famiglia, lo faccio in ogni momento. Vivo con il ricordo di mio marito e dei miei figli e chiedo a Dio misericordioso che mi permetta di tornare da loro. Amico o amica a cui scrivo, non so se questa lettera ti giungerà mai. Ma se accadrà, ricordati che ci sono persone nel mondo che sono perseguitate a causa della loro fede e - se puoi - prega il Signore per noi e scrivi al presidente del Pakistan per chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari”. Con queste parole Asia Bibi, condannata a morte per il reato di blasfemia e detenuta dal giugno 2009 in attesa della sentenza definitiva, conclude la lettera che “Avvenire” ha pubblicato sabato 8 dicembre in prima pagina. Numerosi lettori ci hanno scritto chiedendo come dare corso al suo appello. Dato che l’indirizzo dell’ambasciata fornito sabato si rivela inaffidabile, “Avvenire” si fa intermediario dalla raccolta: è possibile scrivere all’indirizzo e - mail asiabibi@avvenire.it per aderire all’iniziativa, rivolgendosi, nel testo del messaggio, al presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, sollecitando un intervento a favore di Asia Bibi, inserendo i propri dati anagrafici completi. Il giornale, raccolte lettere e firme, le trasmetterà in blocco secondo i canali diplomatici appropriati. Qui di seguito uno schema di messaggio, per chi vuole incollarlo sulla mail. Io sottoscritto (Nome Cognome Città) aderisco all’appello per la liberazione di Asia Bibi. Chiedo al presidente del Pakistan Asif Ali Zardari di intervenire a suo favore. I, the undersigned, adhere to the call for the release of Asia Bibi, a young woman sentenced to death in Pakistan with a specious charge of blasphemy and now in jail because of her faith. I ask the president of Pakistan, Asif Ali Zardari, to act in her favour.