Giustizia: il Parlamento Europeo esprime seria preoccupazione per situazione dei detenuti Notizie Radicali, 14 dicembre 2012 Mercoledì 12 dicembre il Parlamento Europeo ha votato a stragrande maggioranza la “Relazione sui Diritti Fondamentali nell’Unione Europea 2010 e 2011” esprimendo, grazie a un emendamento proposto dal Gruppo Alde, seria preoccupazione per la situazione dei detenuti nell’Unione europea. Il testo approvato invita la Commissione, il Consiglio e gli Stati membri a presentare proposte, insieme con il Consiglio d’Europa e con il comitato per la prevenzione della tortura, volte ad assicurare che i diritti dei detenuti siano rispettati e che venga promosso il loro reinserimento nella società; chiede l’attuazione delle richieste contenute nella sua risoluzione del 15 dicembre 2011 sulle condizioni di detenzione nell’Ue e, in particolare, quelle riguardanti un’iniziativa legislativa sulle norme minime comuni di detenzione nell’Unione europea e l’attuazione di meccanismi di monitoraggio appropriati. La Relazione sui Diritti Fondamentali “rammenta le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo relative alle procedure elettorali, fondante tra l’altro sul codice di buona condotta in materia elettorale della Commissione di Venezia, ed esorta l’Ue e gli Stati membri a darvi esecuzione” e, tra l’altro “esprime forte preoccupazione per la situazione della democrazia, lo Stato di diritto, il sistema di pesi e contrappesi, i mezzi di comunicazione e i diritti fondamentali in alcuni Stati membri e, in particolare, per la prassi di coloro che detengono il potere di selezionare, nominare o licenziare le persone che occupano posizioni indipendenti, ad esempio, nelle corti costituzionali, nella magistratura, nelle emittenti radiotelevisive pubbliche, negli organismi di regolamentazione dei mezzi di comunicazione e negli uffici dei difensori civici o commissari, unicamente per questioni di affiliazione politica anziché in base a competenze, esperienza e indipendenza”. Giustizia: abolizione dell’ergastolo; ventimila firme per proposta legge iniziativa popolare Famiglia Cristiana, 14 dicembre 2012 In molti hanno già aderito alla campagna “Firma contro l’ergastolo” iniziativa sostenuta dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. La campagna “Firma contro l’ergastolo”, la proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo (previsto dall’articolo 22 del Codice Penale), lanciata da Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, e appoggiata dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ha già raccolto oltre 20 mila adesioni. Tante, infatti, sono le firme raccolte dal giugno scorso, data del lancio dell’iniziativa, contro il carcere a vita e, in particolare, contro il cosiddetto “ergastolo ostativo”, una pena veramente senza fine che in base all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, modificato dalla legge 356/92, nega ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario a chi è stato condannato per reati associativi, in mancanza di una collaborazione processuale. Spiega l’appoggio all’iniziativa Giovanni Ramonda, successore di don Oreste Benzi alla guida della “Giovanni XXIII”: “Da vari anni, incontrando ogni settimana gli ergastolani di vari carceri italiane, ci siamo resi conto che il principio rieducativo della pena sancito dall’art. 27 della Costituzione viene violato dall’ergastolo e tanto più è violato dall’ergastolo ostativo ai benefici. Troviamo ingiusto e disumano che ci siano 1.546 ergastolani in cui il “se” e “quando” dell’accesso ai benefici penitenziari sia assolutamente incerto e ancora più profonda l’ingiustizia è per gli almeno 1.000 ergastolani ostativi ai benefici che non usciranno mai più dal carcere a meno che non collaborino o che sia riconosciuta la collaborazione impossibile, irrilevante o inesigibile”. Tra i primi 183 firmatari della campagna figurano: Umberto Veronesi, don Luigi Ciotti, Margherita Hack, Gino Strada, Maria Agnese Moro, Giuliano Amato, Andrea Camilleri, Roberto Vecchioni, Franca Rame, Erri De Luca, Susanna Tamaro, don Antonio Mazzi, Carlo Freccero, padre Luigi Lorenzetti. Giustizia: i detenuti di Rebibbia scrivono a Fini “in 12 in una stanza da 5, non siamo bestie…” Adnkronos, 14 dicembre 2012 Una lettera aperta al presidente della Camera Gianfranco Fini, nella quale si soffermano sul problema del sovraffollamento e di una vita difficile in cui si dorme anche in 12 in una stanza da 5. L’hanno scritta i detenuti di Rebibbia a nome dei reclusi di tutta Italia, e l’hanno letta oggi al Fini giunto nel loro istituto penitenziario per una visita. “Non vogliamo produrre lamentele note - dice un detenuto leggendo la missiva e guardando negli occhi il presidente - ma vogliamo soffermarci su cosa significhi dormire, mangiare e vivere in 12 in una stanza da 5 dove non si ha lo spazio per elaborare un eventuale lutto o un problema familiare”. I detenuti di Rebibbia ricordano a Fini che questa è una condizione condivise da moltissime delle “70mila anime dietro le sbarre. Noi abbiamo il diritto di non essere trattati come bestie”. Chi sta scontando una pena si appella dunque alla politica. “Servite voi, che siete l’espressione viva della rappresentanza popolare. Noi abbiamo il diritto di non essere dimenticati”. Al presidente della Camera i detenuti di Rebibbia hanno donato due tele dipinte da loro, una raffigurante il mare, l’altra dedicata a Leda Colombini. Giustizia: Fini; resto contrario all’amnistia, clemenza non ha mai risolto il sovraffollamento Tm News, 14 dicembre 2012 “Personalmente resto contrario”. Così il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha risposto alla domanda di un cronista sull’ipotesi di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario facendo ricorso ad una amnistia. “La pena - ha spiegato Fini - che parlava a margine dei detenuti alla cassa di reclusione di Rebibbia - va scontata. In passato si è fatto ricorso alla clemenza ma non si è risolto il problema”. “Da queste cose - ha detto ancora la terza carica dello Stato - sempre alludendo al sovraffollamento carcerario - si esce con delle politiche che operano sul lungo periodo. Politiche - ha concluso - che siano anche pene detentive diverse dal carcere, ma questo non significa ricorrere alla clemenza”. Nel corso dell’incontro con i detenuti uno dei reclusi ha letto un appello rivolto al presidente della Camera e centrato proprio sul problema del sovraffollamento: “Stare in 12 in una stanza - ha affermato - richiede uno sforzo sovrumano tutti i giorni. Abbiamo diritto a non essere trattati come bestie”. Da Schifani impegno su iter ddl messa alla prova “Ho chiesto a Schifani quante possibilità ci sono che il disegno di legge sulla detenzione domiciliare e messa alla prova venga licenziato dal Senato. Non vi mentirò: sono poche”. Così il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante l’incontro con i detenuti di Rebibbia, ancora in corso nel carcere romano. “Schifani però - ha sottolineato Fini - mi ha comunque confermato il massimo impegno da parte sua affinché la legge venga licenziata dal Senato”. Nelle parole del presidente della Camera “se non si riuscirà a renderla legge adesso, credo che debba essere il primo impegno in agenda per la prossima legislatura”. Fini ai detenuti: mi auguro che possiate votare “Un gruppo di parlamentari si è appellato al ministro dell’Interno affinché’ possa rendere possibile l’esercizio del diritto di voto nelle carceri. Mi auguro che la richiesta fatta da questi colleghi venga raccolta. Essere detenuti non può infatti significare essere cittadini di serie B”. Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, incontrando i detenuti nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Giustizia: Giachetti (Pd); alle primarie dei parlamentari facciamo votare anche i detenuti Italpress, 14 dicembre 2012 “Le primarie sono certamente una buona notizia, anche se avrei preferito una nuova legge elettorale, obbiettivo per il quale ho digiunato nel 2012 per 123 giorni. Le primarie sono sicuramente meglio della lista bloccata del porcellum, ma sicuramente meglio ancora sarebbe stato quello che io rimango convinto sia il metodo migliore, cioè i collegi uninominali in una nuova legge elettorale che avrebbe dato così la possibilità per gli elettori di eleggere i propri rappresentanti”. Lo ha detto a Radio Radicale il deputato del Pd Roberto Giachetti. “Vedremo quali saranno le regole, io penso che comunque parteciperò perché penso e spero che comunque sia possibile raggiungere un obbiettivo. Non ho pacchetti di voti e quindi mi rivolgerò con i mezzi e gli strumenti che ho a tutti coloro che pensano che sia utile che io ritorni in Parlamento per chiedere di darmi una mano perché ci saranno otto nove giorni a disposizione - aggiunge. E proprio in vista della direzione che si terrà lunedì sulle regole delle primarie rivolgo un appello: in linea con la risoluzione che abbiamo approvato alla Camera all’unanimità sul diritto di voto dei detenuti, sarebbe davvero bello se a coloro che sono rinchiusi negli istituti di pena e che hanno il diritto di voto dessimo la possibilità di partecipare al voto per le primarie dei parlamentari, qualora lo volessero. Non credo che sia difficile e per quanto mi riguarda per quelle che sono le carceri di Roma , Rebibbia e Regina Coeli, mi rendo disponibile per fare un seggio volante come si fa per gli ospedali o per altre situazioni, facendo un accordo con il Dap. Sarebbe un bel segnale da parte del Pd, mi auguro che questa mia proposta venga accolta”. Meloni (Clemenza e Dignità): disponibile a candidarmi per il dramma carceri “Tanti anni di faticoso lavoro di approfondimento e di ricerca giuridica, tanti anni di faticosa opera di comunicazione per la sensibilizzazione costante sulla penosa e disumana condizione dei detenuti, senza che poi, anche al termine di questa legislatura, si potesse registrare un qualcosa di concreto, qualche apprezzabile innovazione o qualche minimo miglioramento nel mondo delle carceri. Per questo motivo, per riaffermare la presenza di questo grande dramma umano e giuridico che è tuttora irrisolto, e soprattutto per dare adesso molta più forza, un suono politico, a quell’urlo di dolore che proviene dagli ultimi della società e, quindi, dalle carceri italiani, desidero, in caso fosse ritenuto proficuo e valido per l’arricchimento del generale dibattito e della competizione, offrire al Partito democratico, ai suoi organi direttivi e territoriali, la mia personale disponibilità a candidarmi, per partecipare alle primarie finalizzate alla scelta dei parlamentari del Pd”. È quanto afferma in una nota l’Avvocato Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. Giustizia: caso Cucchi; una perizia accidentale… la verità ancora lontana di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 14 dicembre 2012 La vicenda di Stefano Cucchi è stata ridimensionata a uno dei tanti casi di mala-sanità. Stefano Cucchi sarebbe morto perché dopo essere probabilmente scivolato, come spesso capita alle persone arrestate o carcerate, sarebbe stato malnutrito dai medici. Dopo tre anni è arrivata la superperizia che di super ha ben poco. In modo ineffabile essa afferma che: “Il quadro traumatico osservato si accorda sia con un’aggressione, sia con una caduta accidentale, né vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva”. Se non fosse tutto terribilmente tragico risulterebbe degno di una commedia o ancora peggio di una farsa. Ci sono voluti tre anni perché i superperiti giungessero a sentenziare il nulla di fatto. D’altronde siamo abituati a riesumazioni macabre di corpi che avvengono a vent’anni dagli eventi senza che ci si approssimi di un millimetro alla verità. Non sappiamo quale sarà la verità processuale nel caso di Stefano Cucchi. I giudici a questo punto potrebbero cavarsela condannando i soli medici e infermieri, usualmente meno protetti dalle loro corporazioni rispetto al personale delle forze dell’ordine nelle quali regna l’inossidabile spirito di corpo. La superperizia non è però decisiva nella valutazione dei giudici. Questi potrebbero onorare la loro toga e la giustizia andando, nonostante la superperizia, alla ricerca della verità storica. I periti d’altronde non hanno escluso che Stefano Cucchi possa avere subito un pestaggio violento. Quanto meno si riconosce che fratture ed ecchimosi sono contestuali al momento dell’arresto. Sta ora ai giudici provare, verificare cosa è accaduto prima del ricovero all’ospedale Pertini. Ciò che si desume dalla superperizia è che i poliziotti incriminati non dovranno rispondere di omicidio doloso. Potrebbero però sempre rispondere di omicidio preterintenzionale, di tentato omicidio o di lesioni personali gravissime. La superperizia non impedisce ai giudici di sentenziare più o meno quanto segue: c’è chi deve essere punito perché ha torturato e chi deve esserlo perché non ha adeguatamente curato. Si tratta di fatti diversi tra loro, non necessariamente eziologicamente collegati. Un caso di scuola per chi studia giurisprudenza è il seguente: tizio spara e ferisce caio. Caio viene raccolto da una autoambulanza e portato in ospedale dove muore dissanguato qualche ora dopo in quanto i medici lo hanno dimenticato in corsia. La dottrina penalistica ci dice che chi ha sparato non risponderà di omicidio tout court ma sicuramente risponderà di tentato omicidio o di lesioni personali. A parte saranno valutate le colpe gravi dei medici. La morte terribile di Stefano Cucchi, documentata da quelle foto che tutti abbiamo potuto vedere in rete grazie al coraggio di una famiglia eccezionale, riguarda lo stato della democrazia, della giustizia e dei diritti umani in Italia. È trascorsa un’altra legislatura e ancora la tortura non è un crimine per la legge penale italiana nonostante vi siano precisi obblighi internazionali ed europei in questo senso. Il governo tecnico ci ha messo del suo per evitare la codificazione del crimine facendo melina e proponendo modifiche peggiorative alla definizione del reato presente nella Convenzione delle Nazioni Unite del lontano 1984. Erano modifiche evidentemente funzionali ad assicurare l’impunità dei torturatori. Chi sostiene la tesi che Stefano Cucchi sia scivolato in carcere, oppure in caserma o in tribunale gioca con l’intelligenza delle persone e si rende complice di tesi precostituite di impunità. Giustizia: chi è Stefano Cucchi? un morto, e cosa volete che conti un morto… ma Stefano conta! di Giuseppe Anzani Avvenire, 14 dicembre 2012 Ma chi è Stefano Cucchi? Un morto, e cosa volete che conti un morto. Niente, quando chi muore è nessuno. O peggio che niente, quando è meno di nessuno, quando l’arresto e le manette e l’accusa e la presentazione a processo direttissimo ne fanno storia di delinquente catturato, e il corpo offeso (come fosse percosso, dai segni) trasloca in ospedale per atroce agonia, poi in cimitero. Niente, se niente è la disperazione che ci prende al crocevia d’una malagiustizia e a una malasanità che si annodano, segni entrambi di un deficit d’umanità e di civiltà che ferisce la nostra coscienza. Stefano Cucchi è morto per l’incuria dei medici dell’ospedale dov’era stato ricoverato. Non le botte, dunque (per le quali restano accusati tre agenti) l’avrebbero ucciso, ma la negligenza e l’imperizia dei medici. Così dice la relazione peritale depositata ieri alla Corte d’assise di Roma. Leggiamo, registriamo, aggiorniamo le emozioni che ci presero allora, tremende, su quella morte. Ma non troviamo di che placare l’angoscia che ancora ci stringe, rievocando la sequenza di quel trascinamento che strappò via una vita dalla vita: un uomo fu preso, con qualche grammo di droga addosso, portato via, portato nel sotterraneo, portato nell’aula per la direttissima, portato in ospedale, lì lasciato, poi portato al cimitero. Ora le indagini degli scienziati convergono a dire che fu l’ospedale il punto del tracollo, e che Stefano poteva essere salvato da morte, sol che avessero capito, i sanitari, e dato giusto soccorso, al suo stato devastante di malnutrizione. Ma noi dobbiamo ancora verificare tutto il percorso di questa storia e i suoi snodi e i suoi nessi. Gli schemi, i protocolli, le prassi che accompagnano queste vicende. E prendere occasione dalla tragedia sofferta per riflettere sull’intero orizzonte: sulle verità vere e sulle verità convenzionali, fin sulle maschere narrative che a volte insidiano i rapporti e i referti. Che cos’è un uomo, per noi, resta la domanda fondamentale. Che cos’è un uomo perché te ne curi, viene in mente il tremendo interpello del salmo. Un corpo arrestato non diviene corpo vile; al contrario, diviene qualcosa di civilmente sacro, perché in custodia dello Stato. Ciò che l’offende offende lo Stato e la sua civiltà. Le violenze degli “uomini d’ordine” (qualcosa è ancora apparso sul web dei giorni passati) sono un ingiustizia che disonora lo Stato. Le negligenze di contorno, se vi sono, ricadono sullo Stato. Noi non archivieremo mai le pagine della vergogna, prima che ai deboli sia resa giustizia. Ma trascorrendo dallo scenario ella costrizione legale a quello del soccorso terapeutico, una diversa attenzione ci concentra sul responso dei periti: i medici avrebbero dovuto capire che Stefano stava morendo per “inanizione” (mancanza di nutrizione, di sostanza vitale) e non hanno fatto ciò che occorreva. Perché? Forse i loro avvocati diranno: perché Stefano aveva detto di rifiutare le cure, perché Stefano voleva morire. Sarebbe questo l’incrocio ultimo della coscienza umana, fra accoglienza e abbandono; la scelta che può congelare l’altrui solitudine dentro l’imbuto della morte, o invece abbracciarla orientandola alla vita. Ebbene, nel crepuscolo etico che stiamo traversando, questa indicazione di rifiuto soffiata dal dolore d’un uomo percosso in faccia alla morte rassomiglia all’implorata e disperata invocazione di vita dei vinti. Non dovevano ignorarla, non dovevano spegnerla. Se la spegniamo, siamo noi ad averla uccisa. Giustizia: intervista a Ilaria Cucchi; un passo verso la verità, ma restano aspetti da chiarire di Valentina Errante e Cristiana Mangani Il Messaggero, 14 dicembre 2012 Ilaria Cucchi è soddisfatta, ma soltanto in parte. “Questa perizia racconta qualcosa sulla morte di Stefano che non era ancora emersa”. Così dice la donna che ha iniziato tre anni fa una vera e propria battaglia e ancora chiede di sapere come sia morto suo fratello. “Il documento dei periti della Corte d’Assise - dice - è un passo avanti verso la verità. Ma ci sono aspetti che non vengono chiariti”. Per esempio quali? “In un passaggio della perizia si afferma l’irrilevanza delle lesioni, tanto da sostenere che avrebbero potuto essere curate a casa. Ma in un altro punto si ammette che queste lesioni hanno prodotto effetti sulla vescica con conseguenze neurologiche, tanto da richiedere l’applicazione del catetere. Considerazioni che non mi sembrano coerenti”. I periti sostengono che Stefano sia morto di stenti. Non era un dato che emergeva già dalla perizia dei pm? “Non è questo il punto. I periti della Corte d’Assise circoscrivono ai giorni successivi all’arresto le lesioni. E soprattutto sostengono che siano compatibili con una caduta o con percosse. C’è intanto una determinazione temporale, che nella perizia della procura non risultava. E che in questo contesto è significativa”. La perizia non dice che Stefano sia stato picchiato. “Certo. Ma non c’è una nota di servizio che riferisca di una caduta di mio fratello durante la sua custodia. Di fatto Stefano era sotto la tutela delle forze dell’ordine e, se le lesioni risalgono ai cinque giorni in cui era detenuto, qualcuno dovrà spiegare cosa sia accaduto e perché dagli atti non risulti nulla. Quantomeno non si parla di alcuna caduta accidentale. Il che rende più forti i sospetti che possa essere stato picchiato”. La causa della morte è comunque la malnutrizione e lo stato già precario di suo fratello. “Nel mondo ci sono migliaia di persone anoressiche che vivono perfettamente. Stefano era molto magro, per costituzione, come lo sono tanti. Mio fratello faceva una vita normale, ci sono molti testimoni che lo hanno raccontato, anche davanti alla Corte. Lei crede che sarebbe morto allo stesso modo se fosse stato in casa sua?”. La perizia comunque dovrà essere discussa, ritiene che questi aspetti verranno affrontati in aula? “Io credo che la perizia sia un passo in avanti verso la verità e sono certa che i punti oscuri e le zone d’ombra che prospetta saranno affrontati e chiariti in aula. Penso che i punti interrogativi che i periti hanno sollevato dovranno trovare risposta davanti alla Corte d’Assise”. Crede che alla fine si arriverà alla verità? “Ho molta fiducia nella Corte e nei nostri consulenti. Credo e voglio credere che avremo giustizia”. Le reazioni al Pertini: il reparto detenuti è un corpo a sé Nel blocco detenuti dell’ospedale Pertini l’aria è fredda quanto fuori. “Questa è una storia bastarda che ci ha avvelenati”, dice prima di fuggire dietro le tante sbarre del reparto un operatore. “Di Cucchi non se ne parla più”, sussurra l’uomo dietro il banco del bar dell’ospedale, “peccato perché qualcosa qui è successo”. Il dottor Umberto Agrillo direttore di Neurochirurgia e del dipartimento chirurgico sottolinea quanto “sia orrendo visitare qualcuno in carcere, è alterato il rapporto medico-paziente, è tutto distorto perché si deve sottostare ai regolamenti carcerari. Poche volte sono andato, ho preferito sempre di no”, ammette. “E nessuno sa dire cosa sia successo, perché il reparto è un corpo estraneo”. Il chirurgo e senatore Pd, Ignazio Marino, non si stupisce di quanto rilevato dai periti. “Nella relazione della commissione d’inchiesta che presiedevo era già emerso come la morte di Stefano fosse legata a uno squilibrio metabolico e soprattutto elettrolitico. Ci aveva particolarmente colpito e allarmato il fatto che il paziente avesse subito un drastico dimagrimento: dieci chili in sei giorni. Sono solidale con la famiglia e immagino il dramma del ragazzo che avrà pensato dossier stato abbandonato. In realtà il regolamento penitenziario proibiva a medici e infermieri di rivolgersi direttamente ai familiari in casi di aggravamento. Ora si può, il protocollo organizzativo è stato modificato. Giustizia: Alessandro Sallusti assolto dall’accusa di evasione, ma resta in detenzione domiciliare Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2012 Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, è stato assolto dall’accusa di evasione dagli arresti domiciliari. Il giornalista, che deve scontare una condanna definitiva a 14 mesi per l’accusa di diffamazione, dopo la notifica del decreto che disponeva per lui di scontare la pena ai domiciliari, aveva violato le disposizioni del giudice. Raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari e messo sotto processo per evasione, ha scelto di essere giudicato che rito abbreviato e oggi è arrivata la sentenza di assoluzione nei suoi confronti da parte del giudice di Milano Gaetano La Rocca. Sallusti resta così ai domiciliari per la sola condanna definitiva a 14 mesi per diffamazione. Sallusti, ha riferito il suo legale, l’ex ministro Ignazio La Russa, “è stato assolto perché il fatto non sussiste. Non ha violato la norma perché non è uscito dal ‘raggiò di vigilanza della polizia”. Il direttore del Giornale, avendo dichiarato di non volere scontare la pena ai domiciliari ma in carcere, aveva detto di voler fare un gesto dimostrativo “evadendo” dai domiciliari. Il giudice La Rocca, tuttavia, non deve aver considerato il suo gesto una evasione e infatti ha assolto il giornalista dall’accusa, quando la procura di Milano aveva chiesto per lui una condanna a sei mesi e 20 giorni. La decisione del tribunale “fa decadere la sospensione dall’ordine dei giornalisti”, ha aggiunto l’avvocato La Russa, spiegando che “un alto numero di parlamentari sta raccogliendo le firme da consegnare al presidente della Repubblica per la grazia” a Sallusti, anche se, ha specificato il legale, il giornalista “non ha intenzione di chiedere la grazia”. Il direttore, presente in aula, ha accolto commosso la notizia della sua assoluzione. Lettere: abolizione dell’ergastolo, una replica a Marco Travaglio di Umberto Veronesi L’Espresso, 14 dicembre 2012 Caro direttore, la ringrazio per aver dato ampio spazio in apertura del suo giornale (“l’Espresso” n. 48-49) al dibattito sull’abolizione dell’ergastolo, permettendoci di conoscere il pensiero di due intellettuali di grande valore. Sono ovviamente molto felice, e direi onorato, che Roberto Saviano condivida la mia posizione in modo così netto, e lo ringrazio per aver avuto il coraggio di abbracciare un tema così forte e così impopolare, che va sicuramente contro il sentire della gente. Tuttavia capisco anche la posizione di Marco Travaglio, espressa, come al solito, con grande lucidità e competenza. Desidero però segnalare a Travaglio una mia riflessione personale sulle sue parole. Io sento parlare di mafia da quando ero bambino, e dunque da molti anni, e posso testimoniare come il suo potere nel tempo non è mai stato intaccato da nulla, e tantomeno dalle pene giudiziarie. Basta un esempio su tutti: quando era in vigore la pena di morte, la mafia non era certo più debole, e quando la pena capitale fu abolita in Italia, il tasso di omicidi non è aumentato, ma è molto diminuito. Questo dimostra che la mafia va combattuta alle sue radici, che sono economiche e affondano nel mercato nero delle droghe e delle armi. Anche se, con un inasprimento di pena, come è avvenuto nel 1992, abbiamo ottenuto la cattura di latitanti e l’identificazione di colpevoli di stragi, non abbiamo minimamente inciso sul fenomeno globale. Ci sono altri latitanti e nuovi colpevoli, e anzi, negli anni la mafia si è espansa anche territorialmente, come dimostrano i fatti di Milano. Invece noi cittadini tutti, pur non avendo guadagnato in termini di sicurezza, abbiamo perso qualcosa: ci siamo allontanati da un principio di civiltà della nostra Costituzione, che indica la pena come strumento di rieducazione e non di vendetta. Voglio ricordare la frase del filosofo Giuseppe Ferraro, che condivido in pieno: il grado di civiltà di una società si misura dalle scuole e dalle carceri. Quanto meno le scuole saranno delle carceri e quanto più le carceri saranno delle scuole, potremo dire di vivere in un Paese civile. Mi rendo conto che la mia posizione sull’ergastolo sia impopolare proprio perché la giustizia è vissuta dai più come vendetta, tuttavia sono convinto che attraverso il dibattito sui grandi temi etici più scomodi, che si tende piuttosto ad allontanare dalle coscienze, l’Italia può ritrovare il suo posto fra i Paesi avanzati e moderni dove noi e i nostri giovani vorremmo vivere. Puglia: Csv.net-Provveditorato-Volontariato Giustizia; accordo a tre per reinserimento detenuti Redattore Sociale, 14 dicembre 2012 L’accordo, tra Csv.net, Provveditorato regionale Amministrazione penitenziaria e Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, prevede la creazione di percorsi di volontariato per chi sta scontando una condanna penale in misura alternativa alla detenzione. Promuovere l’inserimento di volontari nell’esecuzione penale esterna di tutto il territorio pugliese: è la finalità perseguita dall’accordo sottoscritto recentemente da Csv.net Puglia - Coordinamento regionale dei Centri di servizio per il volontariato, Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e Conferenza regionale volontariato e giustizia. L’accordo tra i tre soggetti intende rafforzare e supportare i percorsi di rieducazione e di reinserimento sociale nel territorio di residenza degli adulti che scontano una condanna penale in misura alternativa alla detenzione. Un percorso che spesso è auspicato ma altrettanto spesso è trascurato, soprattutto a causa dell’impegno che richiede da parte di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. Oggetto dell’accordo, quindi, è l’organizzazione delle attività di volontariato da svolgere sul territorio regionale in collaborazione fra organismi di volontariato e uffici locali di Esecuzione penale esterna (Uepe), mediante l’azione di coordinamento svolta dal tavolo permanente costituito presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Il meccanismo prevede che le associazioni di volontariato contribuiscano alla costruzione di progetti individualizzati di trattamento, anche con l’obiettivo di contribuire alla sicurezza della collettività, grazie alla diminuzione del rischio di recidiva che un effettivo inserimento sociale porta con sé. Vendola: questo protocollo è “un raggio di sole nell’acqua gelida” “Un raggio di sole nell’acqua gelida”. Così il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola ha definito il protocollo di intesa siglato oggi a Bari, con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, per implementare le attività di formazione e inserimento lavorativo dei detenuti in Puglia. “Sigliamo con molto piacere questo accordo operativo - ha detto Vendola - ma è ancora assordante il silenzio della politica sul tema del carcere. Noi - ha detto Vendola - possiamo impegnare risorse e buona volontà, si potrà fare ancora di più per promuovere i percorsi di risocializzazione, formazione professionale e inserimento lavorativo. Ma tutto questo appare come una cura palliativa rispetto alla patologia che sta uccidendo la credibilità del circuito penitenziario inteso come luogo della giustizia”. Per Vendola, “oggi il carcere è luogo di una somma ingiustizia e la Puglia è vetrina di questa ingiustizia: gli atti di autolesionismo e i suicidi sono all’ordine del giorno nelle nostre come in tutte le carceri” Vendola: deflazionare popolazione carceraria “Oggi siamo nella necessità di affrontare di petto il problema relativo a provvedimenti che possano deflazionare la realtà della popolazione in carcere, ma anche a provvedimenti strutturali di modifica della nostra cultura penale”. Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, siglando a Bari un protocollo di intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, per implementare le attività di formazione e inserimento lavorativo dei detenuti in Puglia. “L’Italia - ha sottolineato - è un Paese sotto osservazione per la violazione di diritti umani nel circuito penitenziario. La realtà del sovraffollamento è in sé lesiva di diritti fondamentali dei cittadini detenuti. Ed è inimmaginabile che possano essere esercitati quei diritti minimi in una condizione di perdita del sentimento della decenza e del pudore”. “La ritualità con cui le più alte autorità religiose e politiche ci sollecitano - ha rilevato - è legata al fatto che non succede mai niente dopo le parole solenni che vengono pronunciate: settantamila detenuti sono incompatibili con la dimensione fisica delle nostre galere”. “In quella cifra - ha aggiunto - bisogna considerare detenuti in attesa di giudizio che si presume innocenti fino a un giudicato compiuto. E nella fenomenologia del carcerario bisogna considerare il prevalente rappresentato dalle popolazioni straniera e tossicodipendente. Tutto questo - ha concluso - disvela la natura del carcere italiano come discarica sociale”. Valle d’Aosta: il Difensore Civico svolgerà anche le funzioni di Garante delle persone detenute Ansa, 14 dicembre 2012 Il Difensore Civico della Valle d’Aosta svolgerà le funzioni di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Lo stabilisce il protocollo d’intesa siglato oggi, in attuazione di una legge regionale, da Enrico Formento Djot e Domenico Minervini, rispettivamente Garante e Direttore della casa circondariale. “Il nostro obiettivo - ha spiegato il presidente della Regione, Augusto Rollandin, presente alla firma assieme al presidente del Consiglio regionale Emily Rini - è dare più trasparenza alle attività della Casa circondariale” e al tempo stesso, come ha spiegato Formento, “operare per garantire il rispetto dei diritti dei detenuti”. Da parte sua il direttore Minervini ha ribadito l’obiettivo di “fare del carcere una risorsa per il territorio e non un problema”. Ha quindi evidenziato che “sono sempre più numerosi gli imprenditori valdostani che si dimostrano sensibili alle attività di inserimento nel mondo del lavoro di detenuti”. “Anche la Regione - ha sottolineato Rollandin - è impegnata a favorire il processo di integrazione e recupero con numerosi progetti”. Dei 280 detenuti nel carcere valdostano, oltre una 20 sono impegnati in attività di formazione o lavorativa interna ed esterna; sei sono occupati presso la lavanderia interna che esegue lavori per aziende esterne; 6 detenuti frequentano degli stage esterni e 10 hanno iniziato un corso di formazione per panettieri. Alla conclusione quattro sanno assunti dalla panetteria interna che sarà attivata nel prossimo ottobre il cui progetto è già finanziato. Il Garante avrà libero accesso in carcere tutti i giorni della settimana, esclusi i festivi, dalle 9 alle 17, mentre i detenuti possono inviare al Garante, tramite la direzione, richieste di intervento o di studio delle proprie questioni. Il Presidente Rollandin: Regione pronta a esercitare funzioni sanitarie in carcere Dopo le modifiche apportate alla legge regionale in materia di sanità carceraria, il Governo centrale ha rinunciato al ricorso alla Corte Costituzionale e la Regione è pronta ad esercitare le funzioni di medicina e sanità penitenziaria, trasferite alla Regione da una norma di attuazione dello statuto. Lo ha detto il presidente della Regione, Augusto Rollandin, in occasione della firma del protocollo che delega al Difensore civico della Valle d’Aosta le funzione di garante dei detenuti nel carcere della Valle d’Aosta. La regionalizzazione della sanità penitenziaria permetterà di attivare interventi rivolti sia ai detenuti sia al personale operante nella struttura carceraria, finalizzati tra l’altro a ridurre il più possibile il rischio di patologie correlate al regime detentivo con particolare riferimento ad attività di prevenzione delle malattie infettive. Oristano: nuovo carcere già in “ristrutturazione”, piove dai soffitti e riscaldamento non funziona La Nuova Sardegna, 14 dicembre 2012 Come aveva anticipato il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, sono iniziati i lavori di ristrutturazione nel nuovo carcere di Massama. Gli operai di una impresa specializzata stanno lavorando già da alcuni giorni per cercare di porre rimedio alle infiltrazioni d’acqua dal solaio. La preoccupazione arriva soprattutto dalle piogge che nei giorni scorsi hanno causato nuove infiltrazioni. Le abbondanti precipitazioni avrebbero ulteriormente accentuato i danni creando nuove infiltrazioni sui muri e provocando nuove chiazze di umidità. Rimane per ora al palo, invece, l’annunciato rifacimento di una parte delle pavimentazioni interne, anch’esse interessate da infiltrazioni d’acqua provenienti soprattutto dai bagni, ma non solo. La causa degli allagamenti è legata alla carenza di impermeabilizzazione sia del tetto che dei solai. I lavori comunque non saranno facili né veloci perché la ditta appaltatrice deve garantire un adeguato intervento su una superficie di oltre 24 mila metri quadri. I problemi della nuova struttura penitenziaria, costata come si sa quasi 50 milioni di euro, però, non finiscono qui. Da una settimana sarebbe andato in tilt anche l’impianto di riscaldamento della zona riservata agli uffici. Una situazione che sta costringendo il personale amministrativo a lavorare in cappotto e sciarpa per cercare di sopperire alle basse temperature interne. Si parla di temperature medie di 3, 4 gradi, decisamente insopportabili per lavorarci la gran parte della giornata. Il problema, per il momento, non interesserebbe le zone destinate alle celle dei detenuti e agli spazi comuni, anche se rimane la paura per un eventuale blocco totale dei termoconvettori il cui collaudo era stato effettuato regolarmente. Il quadro della situazione quindi non è decisamente roseo se ci si aggiunge anche il fatto che sono ancora da concludere la metà dei cablaggi e parte del sistema telefonico non è funzionante. Alcune carenze sarebbero state individuate anche negli impianti di video sorveglianza. Secondo una stima, si ipotizzano almeno sei mesi di lavori per rimettere in sesto il nuovo carcere, inaugurato solo due settimane fa. Sino a quando non saranno ultimati i lavori comunque, è certo, che nel nuovo carcere di “Is Argiolas” non arriveranno i detenuti in regime di alta sicurezza. Caltanissetta: tentano evasione dal carcere segando le sbarre, due detenuti denunciati La Sicilia, 14 dicembre 2012 La voglia di riconquistare la libertà, evadendo dal primo piano del carcere “Malaspina”, è rimasta solo un’intenzione. Avevano già segato le sbarre della cella condivisa, fissandole provvisoriamente con un po’ di stucco al muro, in attesa di sganciarle e provare a svignarsela a notte fonda dal braccio comune dei detenuti. Piano neutralizzato in tempo da un ispettore sorvegliante della Polizia penitenziaria, che mercoledì pomeriggio s’è accorto dell’anomalia prima che un giovane di Gela e un detenuto ennese - accusati di reati comuni - provassero a mettere piede fuori dalla casa circondariale di via Messina. Sono stati entrambi denunciati alla Procura per tentata evasione e, inoltre, trasferiti in regime di isolamento. Un provvedimento disciplinare obbligatorio, disposto dalla direzione. “S’è trattato di un tentativo serio di evasione - ha commentato il direttore del “Malaspina”, Angelo Belfiore - che con grande responsabilità e tempismo è stato sventato dal nostro personale. Mi piace lodare questo intervento”. Chissà quanta strada avrebbero fatto, i due compagni di cella. Perché prima di raggiungere la strada, il gelese e l’ennese dovevano oltrepassare la barriera di intercinta, scavalcare il muro di cinta e passare inosservati alle telecamere di vigilanza. Sono stati gli strani movimenti in cella dei due carcerati ad insospettire l’agente di custodia, impegnato nel routinario giro di ispezione nel livello al primo piano in cui si trovano i detenuti comuni. A quel punto è scattata la perquisizione degli agenti Polpen, i quali hanno consentito di scoprire che le sbarre erano state segate e poi appoggiate con lo stucco per evitare che qualcuno si accorgesse della manomissione. E così è stato, d’altronde. Milano: per Natale il carcere di Bollate apre i propri mercatini ai visitatori esterni Redattore Sociale, 14 dicembre 2012 Domani nei viali e nello spazio del teatro ci saranno gli stand con i numerosissimi prodotti dei carcerati (dall’artigianato alle piante), animazione, premi e tanta musica. Nessun problema per il cibo: ci saranno anche punti di ristoro. I mercatini di Natale sono ormai un classico non solo in Austria o in Baviera, ma anche nel nostro Paese. Alcuni, però, hanno un supplemento di significato e di poesia: tra questi c’è di certo quello dei detenuti del carcere di Bollate (Mi) che domani, sabato 15 dicembre, si preparano ad accogliere fino a 400 visitatori all’interno del loro istituto di pena. Nei viali e nello spazio del teatro ci saranno gli stand con i numerosissimi prodotti dei carcerati (dall’artigianato alle piante), animazione e tanta, tanta musica, in compagnia del Coro degli alpini di Senago, del gruppo musicale “Ciapa no”, della banda del Corpo musicale Santa Cecilia 1900 di Palazzolo milanese. Nessun problema per il cibo: ci saranno punti di ristoro con frittelle, oltre a pranzo e cena a buffet preparati dai detenuti in collaborazione con i volontari della Sesta opera San Fedele, che ha finanziato il buffet con una sottoscrizione a premi. Una giornata speciale, insomma, ma riservata a chi si è iscritto per tempo. Il carcere, si sa, è un mondo con regole tutte sue, sempre inderogabili: quindi, per partecipare c’è tempo fino alla giornata di oggi. Le condizioni? Avere 18 anni compiuti e iscriversi inviando un’email a avanzidigalera(et)carcerebollate.it: nel testo si dovranno specificare nome e cognome, luogo e data di nascita, indirizzo di residenza e il numero di riferimento di un documento d’identità valido, lo stesso che si presenterà all’ingresso del carcere. L’ingresso è organizzato per due gruppi di circa 200 persone l’uno: il primo è previsto alle 13 con uscita alle 16, incluso il pranzo a buffet; l’altro alle 17, con uscita alle 20.30, con la cena. Al momento dell’iscrizione si dovrà comunicare l’orario preferito: la scelta verrà presa in considerazione fino all’esaurimento dei posti disponibili. L’autorizzazione a partecipare sarà ufficializzata solo dopo la ricezione dell’email di conferma; in ogni caso, gli organizzatori raccomandano di arrivare mezz’ora prima degli orari di ingresso indicati. Per informazioni, www.cooperativaestia.org. Napoli: “ArtigiaNato in Carcere”, è Natale anche per i detenuti… domani la mostra mercato di Fabiana Bianchi www.napolike.it, 14 dicembre 2012 A Natale possiamo avvicinarci un po’ anche al mondo dei penitenziari. I detenuti di alcuni istituti campani produrranno manufatti artigianali che domani, 15 dicembre, esporranno alla Mostra Mercato “ArtigiaNato in Carcere”. Ormai siamo sempre più prossimi al Natale 2012 e, tra i tanti eventi che, sempre più numerosi, vengono proposti ogni giorno dalle svariate associazioni culturali, dobbiamo menzionare anche quelle che si propongono di essere più vicine alle persone in difficoltà. In questo periodo dell’anno, i giorni di freddo si fanno sentire e il Comune ha già predisposto delle iniziative per coinvolgere la comunità in attività di volontariato. Non solo. Insieme con il Garante dei diritti dei detenuti Regione Campania, il Prap e l’Associazione “Il carcere possibile” con il patrocinio di Ministero della Giustizia, la Regione Campania e l’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Comune ha promosso una interessante iniziativa che vede il coinvolgimento dei carcerati napoletani. Si tratta di una mostra chiamata Mostra Mercato “ArtigiaNato in Carcere” e si svolgerà il 15 dicembre presso la Galleria Umberto I di Napoli, dalle ore 10.00 alle ore 18,00. Lo scopo è quello di dare importanza e visibilità anche al lavoro svolto negli istituti penitenziari per veicolare l’idea che l’esperienza carceraria ha anche, e soprattutto, un valore rieducativo e il fine di favorire il reinserimento del detenuto nella società. Nelle carceri della nostra regione sono presenti numerosi laboratori artigianali che producono oggetti anche di fattura molto elevata e fanno anche sì che il detenuto acquisisca quelle competenze necessarie per poter entrare nel mondo del lavoro. All’evento di sabato parteciperanno anche il sindaco Luigi de Magistris, l’Assessore alle Politiche Sociali Sergio D’Angelo e il Garante dei diritti dei detenuti Regione Campania Adriana Tocco. L’evento ospiterà anche Monica Sarnelli con Le ragazze e i ragazzi di Nisida che terranno un intervento musicale. Treviso: Progetto “Start Up”, gli alberelli dei detenuti in legno compensato addobbano la città Redattore Sociale, 14 dicembre 2012 Trecento creazioni in compensato realizzate all’interno della Casa Circondariale saranno dislocati nelle piazze della città per “costringere le persone a comprendere e a non abbracciare per comodità opinioni e luoghi comuni”. Il centro storico si fa bello grazie alle creazioni dei detenuti. Da oggi fino al 6 gennaio le principali piazze saranno addobbati da 300 alberelli natalizi in compensato realizzati all’interno della casa circondariale. Gli abeti stilizzati, alti circa 70 centimetri, colorati di bianco e di azzurro, rientrano nel progetto “Start Up” promosso dalle cooperative Alternativa di Treviso e Punto Zero di Udine, con il sostegno della Caritas Tarvisina e il patrocinio del Comune. “Con il lavoro i detenuti non ripagano il danno causato alla società, ma dimostrano di avere la volontà di ritrovare un posto in essa, con dignità” commenta Mauro Michielon, assessore comunale alla famiglia. “Vogliamo che le persone inciampino sugli alberelli dei detenuti - spiega Antonio Zamberlan, presidente della cooperativa sociale “Alternativa onlus” - il nostro obiettivo è costringerle a guardare dentro per comprendere e a non abbracciare per comodità opinioni e luoghi comuni”. Il carcere cittadino oggi ospita 272 reclusi: quasi il 30 per cento ha meno di 30 anni e due su tre sono stranieri. I reati più frequenti sono lo spaccio di sostanze e furti e rapine (entrambi al 40 per cento). Nell’istituto sono attivi sei laboratori occupazionali (falegnameria, riparazione hardware, assemblaggio motori per le automazioni, allestimento dei cassonetti della raccolta differenziata, incisione artistica su vetro, digitalizzazione), che riescono a coinvolgere circa il 10% dei detenuti. “Trecento alberi che occupano una piazza intera corrispondono ad altrettanti detenuti che vivono in un ambiente pensato per la metà - spiega Don Davide Schiavon, direttore della Caritas Tarvisina: come Caritas vogliamo favorire l’avvicinamento tra la realtà di dentro e quella fuori, affinché quest’ultima abbia coscienza dell’esistenza e delle condizioni dell’altra”. Un’altra occasione per avvicinare la città al carcere è in programma per domenica: alle 16 il Basilico Tredici di piazza San Vito ospiterà “Spirito libero”, iniziativa per presentare i bicchieri ottenuti da bottiglie di vetro incisi all’interno del carcere. Roma: Istituto Statale D’Arte; premiate due detenute Rebibbia per Concorso “Mai più violenza” 9Colonne, 14 dicembre 2012 “Quella della consegna del premio e della menzione speciale, per la sessione artistica, a due studentesse dell’Istituto Statale D’Arte e Liceo Artistico Roma 2 sezione staccata Casa Circondariale Femminile Rebibbia, rappresenta per tutte noi non solo il riconoscimento di opere che trasmettono messaggi forti, ma assume un valore sociale ancora più importante perché unisce due dimensioni umane: quella di libertà e quella della reclusione. Riteniamo che questa circostanza dimostri come il sistema di reinserimento sociale sia ancora più forte se la società tutta contribuisce a far superare situazioni di disagio momentaneo traendone un risultato eccezionale nella crescita di civiltà”. Così Donatina Persichetti, presidente della Consulta femminile regionale per le pari opportunità del Lazio in occasione della premiazione, oggi al carcere di Rebibbia, delle vincitrici del concorso “Mai più violenza: esci dal silenzio!”. Delle due vincitrici detenute sono state rese note solo le iniziali. La vincitrice della sezione artistica è F. C. C., con l’opera “Volti senza paura”, mentre la menzione speciale è stata attribuita a L. P. per l’elaborato artistico “Oltre le sbarre”. Alla cerimonia di premiazione parteciperanno, oltre a Persichetti, Angiolo Marroni - garante per i detenuti della Regione Lazio, Concetta Fusco - coordinatrice gruppo lavoro politiche sociali, Luisa Betti - giornalista, Patrizia Germini - vice presidente consulta e l’attrice Patrizia Masi, testimonial della premiazione. Torino: Rugby, detenuti per il sociale “Giù le mani dalla donne” di Massimo Calandri La Repubblica, 14 dicembre 2012 La Drola, squadra formata da carcerati che gioca nella serie C piemontese, è esempio di integrazione e voglia di riscatto. Sabato prossimo scenderà in campo nel carcere delle Vallette con una maglia di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne Sabato pomeriggio ore 15, la Drola di Torino contro il Tre Rose Rugby di Casale Monferrato, serie C regionale di rugby: i padroni di casa scenderanno in campo indossando una maglia con lo slogan “Giù le mani dalle donne”, in accordo con lo Zonta Club di Torino. La Drola è una squadra di rugby composta da detenuti del carcere delle Vallette che partecipa ad un regolare campionato, quello di serie C piemontese. Drola in dialetto suona come “bizzarra”, “buffa”. C’è qualcosa di meravigliosamente strampalato e visionario in questo progetto nato dalla passione - per gli uomini, per lo sport - di Walter Rista, ex azzurro degli anni Sessanta, presidente della onlus Dietro le Sbarre, e di Pietro Buffa, direttore della casa circondariale Lorusso-Cotugno. La storia comincia quasi tre anni fa con un match dimostrativo all’interno del penitenziario tra due club torinesi. I carcerati hanno apprezzato eccome, qualcuno ha chiesto: “Ma possiamo giocare anche noi?”. Sì che si può. “Una vita dedicata al rugby mi ha insegnato il dovere e il piacere di fare qualcosa per gli altri”, racconta Rista. Che ogni giorno varca i cancelli delle Vallette e allena i “suoi” ragazzi con l’aiuto del figlio Stefano e di don Andrea Bonsignori. Il primo si dedica ai tre-quarti, quelli veloci, mentre don Andrea - che la domenica, dopo la Messa, fa il pilone nel Moncalieri - forgia il pacchetto di mischia, quelli grossi che s’azzuffano per conquistare il pallone. “Perché il rugby è come il Vangelo”, spiega. “C’è più gioia nel dare che nel ricevere. I cazzotti”, e scoppia a ridere. Tutto molto “drola”, appunto. Ma la squadra non scherza mica. Ardouane, 34 anni, marocchino, fine pena 2015. Mediano di mischia. “Quando scendo in campo, è come essere libero. Finalmente”. Daniel, 28, romeno, fine pena 2014, secondo centro. “Ti alleni mattina e pomeriggio: corsa, palestra. E almeno di giorno non pensi alla famiglia, non senti più male dentro. Poi la partita, gli avversari: che ti raccontano com’è la vita, fuori da qui”. Shpend, 37, albanese, fine pena 2017, tallonatore: “A furia di placcaggi e di mischie impari a rispettare le regole e le persone. A non mollare mai”. Sono una quarantina di atleti: tunisini, colombiani, polacchi, moldavi, rumeni, albanesi, tre italiani. Alcuni giocavano già da uomini liberi, altri sono ex lottatori, pugili e pesisti che hanno superato un test psico-fisico e si sono messi a disposizione. Anche perché la squadra è distribuita in 9 celle di un solo padiglione e gode di un regime migliore, dieta compresa. Si gioca sempre e solo all’interno della prigione, dove c’è un bel campo circondato dalle mura di cinta. I lunghi pali delle porte sono fissati al terreno con grossi lucchetti per questioni di sicurezza (potrebbero essere utilizzati per evadere, dicono le guardie). L’arbitro identifica i giocatori dal numero di matricola e dalle impronte digitali. Il tradizionale terzo tempo non prevede birra, però l’ambiente è lo stesso di una qualsiasi partita di rugby. Amicizia, risate, rispetto. “Ti senti un uomo migliore. E pensi che quando uscirai di qui, potrai fare qualcosa di buono”, spiega Hamid, marocchino. Giosuè, pilone colombiano, è uno di quelli che partecipa ai corsi per diventare allenatore. “Useremo i permessi per uscire e andare ad insegnare il rugby nelle scuole”. E il campionato? “Qui si rispettano le regole”, spiega Alex, moldavo, 27 anni. Fine pena 2014. “Ma io non me ne vado fino a quando non vinco il campionato”, giura. Secondo Nadia Biancato e Anna Maria Rambaudi, dello Zonta Club, “la partecipazione della squadra del carcere alla campagna contro la violenza sulle donne assume un particolare significato, tenuto conto del contesto in cui si svolgerà la partita e dal fatto che gli spettatori saranno composti in gran parte dalla popolazione carceraria”. Cuneo: incontro con i detenuti e proiezione di cortometraggi nel carcere di Fossano www.targatocn.it, 14 dicembre 2012 Il Valsusa Filmfest organizza, insieme alla “Rete del caffè Sospeso” di cui fa parte, un incontro nel carcere di Fossano con i detenuti e con alcuni studenti di Mondovì con dibattito e proiezione di sette pellicole La Rete del Caffè Sospeso ha recentemente fissato fra i suoi obiettivi quello di attivare collaborazioni con le case circondariali per consentire ai detenuti di vedere cortometraggi che normalmente vengono proiettati solo nei festival di settore, come per esempio al Valsusa Filmfest. Il primo di questi appuntamenti si svolgerà il 20 dicembre 2012 alle ore 13 nella Casa di Reclusione di Fossano in un incontro tra esponenti del Valsusa Filmfest, della Rete del Caffè Sospeso e dell’associazione Sapori Reclusi con i detenuti e con un gruppo di studenti di Mondovì; dopo un breve dibattito sulle condizioni delle carceri i detenuti e gli studenti potranno vedere sette cortometraggi selezionati dall’archivio del festival valsusino. L’associazione culturale Sapori Reclusi di Fossano aderisce alla Rete del caffè Sospeso ed è nata dall’idea di portare la fotografia e la gastronomia in carcere, ma che ha ampliato il proprio raggio d’azione in molti altri quei luoghi segreti, privati, nascosti, in cui i sapori e gli odori diventano vita, immagini, storie. Il Valsusa Filmfest è un Festival sui temi del recupero della memoria storica e della difesa dell’ambiente che da 17 anni anima la Valle di Susa con concorsi cinematografici, proiezioni fuori concorso e numerosi eventi collaterali tra letteratura, cinema, musica, arte e impegno civile; il festival si svolge nel mese di aprile e ogni anno propone un tema su cui riflettere e sulla base del quale vengono organizzati la maggior parte degli appuntamenti. Il Valsusa Filmfest è tra i fondatori della “Rete del Caffè Sospeso – Festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” costituita a Napoli nel novembre del 2010 dalla Rete dei Comuni Solidali www.comunisolidali.org, dall’ASGI – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione www.asgi.it e da questi 7 festival: Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli www.cinenapolidiritti.it, Valsusa Filmfest della Valle di Susa (To) www.valsusafilmfest.it, Lampedusa in Festival di Lampedusa (Ag) www.lampedusainfestival.com, Festival S/paesati di Trieste www.spaesati.org, Filmfestival sul Paesaggio di Polizzi Generosa (Pa) www.fondazioneborgese.it, Marina Cafè Noir - festival di letterature applicate di Cagliari www.marinacafenoir.it e Riaceinfestival di Riace (Rc) www.riaceinfestival.it. A Napoli c’era in passato un’usanza molto curiosa, quella del “Caffè Sospeso”: chi era meno abbiente poteva trovare al bar un caffè in omaggio pagato da un precedente avventore, che lo lasciava in sospeso per persone meno fortunate che non potevano permetterselo. La Rete è nata ispirandosi a questa antica tradizione popolare di solidarietà per riproporla in chiave moderna, in un’epoca in cui i tagli alla cultura voluti dai Governi del nuovo millennio hanno privato il Bel Paese non solo del welfare, ma anche delle sue grandi tradizioni di incontro e confronto popolare. Una Rete costituita per unire le forze attraverso lo scambio di idee, progetti e prodotti culturali che consentano di sopravvivere, o addirittura crescere, in questi difficili tempi di crisi… Un’unione che si ispira alla sobrietà affinché non ci si dimentichi che si può cambiare il modo di sentirsi vicini agli altri e vivere meglio il nostro tempo anche offrendo un semplice caffè. In www.retedelcaffesospeso.com è possibile trovare maggiori informazioni, curiosità e consultare la lista di associazioni, festival e locali che hanno fino ad ora aderito alla Rete. Da due anni la Rete ha anche istituito e lanciato il 10 dicembre - Giornata del Caffè Sospeso, per proporre la ripresa dell’antica usanza partenopea in bar e locali d’Italia e per conseguire nuovi aderenti che diffondano, nel settore della promozione culturale e nella vita quotidiana, la filosofia solidale su cui si fonda. Sono una quarantina in tutta Italia, da Aviano all’Aquila, da Scilla a Varese, da Este a Campobasso, da Lampedusa a Trieste, gli esercizi che hanno aderito e che da un anno hanno affisso nei locali il manifesto che invita alla pratica del Caffè Sospeso. Sono 17 le associazioni che si sono unite al gruppo dei 9 fondatori e che praticano la cultura dal basso in mutuo soccorso come forma di resistenza alla crisi e ai tagli. Le nuove realtà che desiderano aderire alla Rete possono scrivere a caffesospeso(et)hotmail.it Inoltre è appena stato pubblicato il libro “La rete del Caffè Sospeso - cultura liquida per svegliarci tutti” (Piemme Edizioni) dedicato a tutte le persone che con grande affanno presidiano luoghi di cultura. Novantacinque pagine per raccontare la Rete, le nove Associazioni Culturali che l’hanno fondata, le diciassette associazioni di promozione sociale e culturale che hanno in seguito aderito, i quaranta bar in tutta Italia che si sono impegni a diffondere la pratica solidale e per descrivere le ricette più antiche per la preparazione di un buon caffè. Spagna: reintrodotto l’ergastolo, si chiama “carcere perpetuo reversibile…” di Giuseppe Grosso Il Manifesto, 14 dicembre 2012 Il partito popolare vara la riforma della giustizia più aspra dai tempi di Franco: spunta “il carcere perpetuo reversibile” e una “detenzione di sicurezza” durissima di stampo tedesco. Anche i tribunali servono a fare cassa: aumentano fino a 1.200 euro i bolli per un ricorso in Cassazione. Protesta il Csm iberico: “Norme incostituzionali”. C’è chi dice che la crisi genera opportunità. E così è, senza dubbio, per il partido popular, che sta sfruttando appieno l’occasione di imporre al Paese un’epocale svolta ideologica nascondendo dietro il paravento della crisi una metodica opera di annichilimento dello stato sociale: l’istruzione pubblica boccheggia, abbandonata a se stessa, con gli investimenti sulla ricerca ridotti dell’80% e le tasse universitarie aumentate del 20; la sanità percorre a velocità crescente la china della privatizzazione (solo a Madrid 6 ospedali stanno per passare in mani private e, dopo la tassa sulle ricette mediche, l’ultima trovata è far pagare 10 euro per i trasporti non urgenti in ambulanza); e anche la giustizia è stata risucchiata dal gorgo “riformatore” dei popolari, che ha messo a punto, tramite il ministro Alberto Ruiz Gallardón, una legge che smonta e archivia il concetto di giustizia gratuita e universale. Da ora, infatti, chi ricorrerà ai tribunali civili dovrà pagare una tassa variabile tra i 100 e i 1.200 euro (per un ricorso al Tribunale supremo). Restano esclusi i processi penali e le cause a tutela di diritti fondamentali, familiari o di minori, ,ma è davvero una magra consolazione che non attenua la gravità e l’aggressività ideologica di questo colpo di mano del Pp. Un giro di vite che ha suscitato la preoccupazione di tutto il settore della giustizia, che mercoledì scorso ha scioperato protestando davanti ai tribunali delle principali città spagnole contro il “deterioramento della giustizia causato da queste misure”. Giudici, avvocati e funzionari hanno esibito striscioni con slogan contro la legge Gallardón e hanno chiesto al ministro il ritrito immediato della riforma. Nessuna apertura è stata tuttavia concessa dal titolare della Giustizia, che ha difeso il provvedimento e ha anzi rilanciato, accusando i giudici di strumentalizzare la riforma per fare pressione contro i tagli agli stipendi. Una dichiarazione che ha suscitato la reazione sdegnata dei magistrati: “Il ministro non è capace di creare spazi di dialogo”, ha ribattuto il portavoce dell’associazione Jueces para la democrazia. Alle proteste si sono uniti anche i sindacati e l’opposizione, che ha duramente criticato la riforma, parlando di “un ennesimo passo indietro sulla strada dei diritti”. Intanto i giuristi hanno richiamato l’attenzione sul germe di diseguaglianza incubato dalla riforma, che rischia di generare il paradosso di una giustizia per soli ricchi, sulla scia di quanto sta già avvenendo a scuola e sanità. Gallardón si è difeso dicendo che la legge prevede l’esenzione dal pagamento per i redditi bassi. Ma la questione strettamente economica è solo la parte superficiale di un problema sostanziale (su cui il ministro tace), che verte sulla limitazione del diritto di libero accesso alla giustizia, dato che l’obbligo del pagamento costituisce di per sé e a prescindere dalla condizione reddituale un deterrente al ricorso alla giustizia. Benché non gravato dal pagamento delle nuove tasse, anche l’ambito penale subisce gli effetti della riforma Gallardón, che prevede, tra le varie misure, l’istituzione del “carcere permanente reversibile” (un ossimoro che camuffa l’introduzione dell’ergastolo) e della custodia de seguridad (custodia di sicurezza), una misura che stabilisce un periodo di detenzione supplementare alla pena carceraria originaria per soggetti recidivi e condannati per crimini di particolare gravità. Alla custodia de seguridad (che può durare fino a un massimo di 10 anni) possono essere aggiunte - secondo la legge - misure di libertà vigilata senza limitazioni di tempo. Il “carcere perpetuo reversibile” - bizzarra formula che allude alla possibilità di convertire l’ergastolo in una pena determinata in caso di recupero del detenuto (come in Italia, ndr) - sarebbe applicabile solo ai reati di terrorismo, ma resta in ogni caso il primo velato tentativo, dall’inizio del novecento, di introdurre l’ergastolo nel già rigido ordinamento penale spagnolo; sulla custodia de seguridad (mutuata dal codice penale tedesco) basti dire che è già stata dichiarata incostituzionale dal tribunale europeo dei diritti umani. Non è un caso, infatti, che entrambi i provvedimenti abbiano suscitato le obiezioni del Consejo general del poder judìcial (l’equivalente del nostro Consiglio superiore della magistratura), incaricato di vagliare il testo della legge. Il Consiglio ha ravvisato caratteri di incostituzionalità nella contraddizione tra la finalità rieducativa della pena detentiva stabilita dalla costituzione e il carattere permanente della pena proposta da Gallardón. Il dubbio di incompatibilità con le norme costituzionali incombe anche sulla custodia di sicurezza, dato che, potendo perpetuarsi all’infinito in forma di libertà vigilata, viola il diritto di certezza dei termini della pena. Venezuela: detenuti spogliati e picchiati, video choc su abusi in carcere Tm News, 14 dicembre 2012 Fatti spogliare, messi in fila e poi colpiti uno ad uno con una mazza da baseball. Il video choc girato in un carcere del Venezuela che svela gli abusi dei poliziotti contro i detenuti sta facendo il giro del mondo grazie a Carlos Nieto Palma, attivista per i diritti umani che ha deciso di pubblicare le immagini su internet per accendere un riflettore sulla situazione delle carceri venezuelane. Nieto ha ricevuto il video dai parenti dei detenuti che accusano le autorità di ignorare le loro denunce di abusi. Il ministro dei servizi penitenziari Iris Varela ha negato le accuse e ha detto di ripudiare azioni del genere, sottolineando che il governo Chavez rispetta i diritti umani. Ma secondo un gruppo di attivisti-avvocati, il video è solo la punta di un iceberg. “Questo governo è complice per omissione - spiegano - Ci sono oltre 20mila detenuti vittime di violenze in carcere. Alcuni di loro hanno perso la vita. Lo Stato ha dimostrato di non essere in grado di proteggerli”. Dal 1999 ad oggi in prigione sono morte 5.300 persone, oltre ai 15mila feriti. A peggiorare la situazione c’è il problema del sovraffollamento: si parla di quasi 50mila detenuti chiusi in prigioni che in tutto potrebbero ospitane poco più di 17mila. Australia; dall’Alta Commissione Onu per i profughi dure critiche su apertura isola-carcere Ansa, 14 dicembre 2012 Dopo Amnesty International e la Commissione Australiana diritti umani, anche l’Alta Commissione Onu per i profughi (Unhcr) critica aspramente le “durissime” condizioni nel centro di detenzione aperto due mesi fa dall’Australia nel piccolo e remoto stato-isola di Nauru, nel Pacifico, dove molti dei richiedenti asilo soffrono già gli effetti di preesistenti traumi e torture. In un rapporto presentato oggi dopo un’ispezione di tre giorni di una “squadra di protezione legale”, l’Unhcr afferma che il sistema instaurato dal governo laburista di Canberra per impedire gli arrivi di barconi di profughi nelle sue acque non rispetta gli standard internazionale di protezione dei profughi. In particolare, il cosiddetto principio del “no advantage” imposto come deterrente, secondo cui le domande di asilo non saranno esaminate prima di quelle dei profughi in attesa nella regione Asia-Pacifico, quindi fino a cinque anni, è in contraddizione con gli obblighi dell’Australia secondo le convenzioni sui profughi. Il rapporto solleva forti preoccupazioni per i problemi di salute e per il sovraffollamento nelle strutture temporanee di detenzione, tuttora allo stadio di tendopoli. “Le condizioni sono durissime e congestionate, con poco riparo naturale dal caldo durante il giorno, condizioni aggravate dal forte rumore e dalla polvere durante la costruzione delle strutture permanenti”. Osserva inoltre che la detenzione protratta in condizioni difficili senza una chiara procedura legale porta a danni significativi di lungo termine, fra cui autolesionismo e tentativi di suicidio. Come deterrente agli arrivi non autorizzati via mare, il governo laburista australiano ha ripristinato la Pacific Solution del precedente governo conservatore, trasferendo i boat people che raggiungono acque australiane a Nauru e nell’isola di Manus in Papua Nuova Guinea, applicando l’incerto principio del “no advantage”. A Nauru sono finora detenute circa 400 persone, per lo più provenienti da Sri Lanka, ma anche da Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Nonostante le critiche, il ministro dell’Immigrazione Chris Bowen conferma l’impegno del governo a instaurare strutture permanenti di detenzione a Nauru e a Manus Island. “Siamo impegnati a implementare le raccomandazioni della commissione di esperti secondo cui riaprire Nauru era una priorità per prevenire i pericolosi viaggi via mare e salvare vite umane”, ha detto. “Va anche riconosciuto che l’Unhcr ha da tempo una posizione contraria al centro per richiedenti asilo di Nauru, che risale a quando la struttura operava sotto il governo precedente”, ha aggiunto.