Giustizia: Severino; no a campagna elettorale su pelle detenuti, insisterò per ddl alternative Asca, 13 dicembre 2012 “La strumentalizzazione del ddl sulle pene alternative al carcere è molto facile e può rappresentare il leit motiv di una campagna elettorale. Ma non si gioca la campagna elettorale sulla pelle dei detenuti”. Ad affermarlo è il ministro della Giustizia, Paola Severino, intervenuta questa mattina nel programma di Rai Radio1 “Prima di Tutto”, dove ha espresso il suo disappunto per la mancata calendarizzazione del disegno di legge in Senato. Più che mai determinata a non arrendersi il ministro ha insistito sull’importanza della legge: “La discussione in Senato non era impossibile, ed era doverosa - ha proseguito il Guardasigilli. Si tratta di un provvedimento indispensabile che avrebbe consentito di diminuire l’affollamento delle carceri contemperando questo risultato con la sicurezza dei cittadini”. La Severino ha poi ribadito di voler arrivare all’approvazione del ddl entro la fine della legislatura e ha annunciato di voler fare “un estremo tentativo con grande determinazione”. “Parlerò con il presidente e poi con i capigruppo del Senato affinché venga rimesso in calendario - ha concluso, comincerò senz’altro dal Presidente Schifani”. Papa (Pdl): giustizialismo contamina centro destra “Esiste il concreto pericolo che nella prossima legislatura non ci sia in Parlamento chi si batte per la giustizia giusta, per il rispetto delle garanzie delle persone imputate e detenute”, è quanto dichiara il deputato del Pdl Alfonso Papa. “Nel clima giustizialista, che ottenebra il Paese tutto, i pochi baluardi di democrazia e libertà sono messi a repentaglio da un’ondata demagogica contro la quale occorre armarsi. È un’urgenza vitale per la democrazia italiana”, continua Papa. “Oggi alla Camera alle ore 18 parteciperà con Marco Pannella e Ottaviano Del Turco alla presentazione del libro Condannati preventivi, scritto da Annalisa Chirico contro l’abuso della carcerazione preventiva. In tale occasione - conclude Papa - intendo soffermarmi sulla contaminazione giustizialista, che sembra oggi dettare l’agenda politica dei partiti che hanno fatto del garantismo la propria ragion d’essere”. Moretti (Ugl): bene Severino, no passi indietro su misure alternative “Ci uniamo all’appello del ministro della Giustizia, Paola Severino, e chiediamo al presidente del Senato, Renato Schifani, di non vanificare il buon lavoro fatto dalle commissioni parlamentari sul ddl delle misure alternative alla detenzione”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti. “Dopo la prima approvazione alla Camera del progetto di legge, auspichiamo che non ci siano passi indietro. Il sovraffollamento ha raggiunto il livello massimo di criticità - sottolinea - e l’effetto incrociato di un eventuale stop al ddl pene alternative, insieme all’accantonamento di quello sulla depenalizzazione, potrebbe avere ulteriori ricadute negative sulla sicurezza interna delle carceri, già messa a dura prova dalla forte carenza organica nella Polizia Penitenziaria”. “Testimonianza evidente della deriva in cui sta scivolando il settore è l’esponenziale aumento delle aggressioni a danno del personale e tra gli stessi detenuti, così come l’incremento delle evasioni - prosegue il sindacalista - di cui quella avvenuta al carcere di Bellizzi Irpino è solo l’ultimo esempio. Il prezzo di questa situazione non può certo essere pagato dagli agenti di polizia penitenziaria a cui, a causa della carenza di organico, viene paradossalmente richiesto di essere presenti in più luoghi nello stesso momento”. Giustizia: Tamburino (Dap); carceri restino fuori da scontro politico, situazione migliorerà Adnkronos, 13 dicembre 2012 Il capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ai Dibattiti Adnkronos parla del mancato varo del ddl sulle misure alternative: “Se dovuto a timori legati alla campagna elettorale, credo si tratti di timori infondati”. Sul sovraffollamento carcerario: “Ci sono situazioni intollerabili”. E annuncia: “Ci vorrà ancora tempo, ma c’è prospettiva di miglioramento”. “Il problema della sicurezza, del carcere e del trattamento dei detenuti deve stare fuori della contesa politica, dello scontro politico: è qualcosa che riguarda tutto il Paese. Il livello di civiltà e di sicurezza che dobbiamo dare al Paese e il tipo di risposta che dà il diritto penale, questo dovrebbe essere interesse generale della politica”. Lo ha detto Giovanni Tamburino, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, intervenuto ai Dibattiti Adnkronos, riferendosi alla mancata approvazione in Parlamento del ddl sulle misure alternative al carcere. “Non so se si tratti di timori legati alla campagna elettorale, credo che si dovrebbe considerare che questi timori non sono fondati. Una risposta penale - ha osservato Tamburino - può essere molto forte e capace di trasmettere sicurezza alla società, anche se non è solo una risposta carceraria”. “Anzi, una risposta più articolata, che si avvalga di una pluralità di mezzi e di sistemi di sanzione, è una risposta più efficace e, alla fine, vincente”, ha osservato. A proposito del sovraffollamento carcerario che ha raggiunto livelli limite, con 66mila detenuti per 45mila posti, Tamburino ha dichiarato: “Il sistema penitenziario soffre in questo momento di un eccesso di popolazione. Probabilmente abbiamo raggiunto il punto più basso, ma stiamo vedendo una prospettiva di miglioramento anche a breve”. “Da un lato - ha aggiunto - abbiamo una stabilizzazione del numero dei detenuti: non c’è più crescita, per fortuna, anzi ci sono stati momenti di qualche leggera diminuzione da circa due anni”. “Dall’altro lato, abbiamo un programma di edilizia penitenziaria - ha rimarcato il capo del Dap - che sta già portando a delle realizzazioni. Purtroppo questo richiede ancora del tempo, uno o due anni. E in questo tempo, certamente è vero che abbiamo delle situazioni molto gravi e direi proprio intollerabili...”. “Abbiamo già avuto delle realizzazioni - ha proseguito Tamburino - ci sono state consegne non solo di padiglioni per oltre 2.000 posti ma veri e propri istituti penitenziari: i due delle Sardegna, e altri due ne avremo a breve. Strutture molto moderne e con condizioni di vita assolutamente dignitose”. “Questo progetto alla fine dovrà portare a oltre 10.000 posti in più - ha assicurato - però occorre un certo tempo. E di questo sento tutto il fortissimo rammarico. Perché dire a chi sta in otto in una cella da due o da tre ‘devi aspettare sei mesi, un anno o di più’, non è accettabile”. “Ci sono aree delle realtà penitenziaria - ha fatto notare - che sono capaci di realizzare in buona misura l’obiettivo della rieducazione. Il sistema penitenziario è un mondo complesso, dove ci sono situazioni non degne di un paese che vuole essere civile ma ci sono anche molte realtà - e sarebbe sbagliato trascurarle - dove si realizzano condizioni assolutamente accettabili”. “Una realtà articolata”, quindi, “che richiede un giudizio differenziato. Quello che l’Amministrazione penitenziaria deve fare - ha spiegato Tamburino - è da un lato estendere le buone prassi, ovvero quei risultati positivi che ci sono in numerose realtà e riguardano per fortuna un buon numero di detenuti”. “Dall’altro lato - ha osservato - cercare di portare in porto il più rapidamente possibile questo progetto che renderà il sistema adeguato al numero dei detenuti”. Il Dap è al lavoro per affrontare il problema degli atti di autolesionismo e dei suicidi in carcere, ha assicurato Tamburino. “C’è un monitoraggio in corso - ha detto - l’ho riattivato io tornando al Dap”. “Occorre studiare questi casi uno a uno - ha sottolineato - per capire perché sia avvenuta questa scelta tragica ed estrema”. E tuttavia “non vi è un aumento del fenomeno, a differenza di quello che si dice. Non è una questione che si possa esaminare in termini statistici, perché parliamo di vite umane e di scelte. Di morte”. “Ma non vi è un aumento numerico dei casi - ha ribadito - anzi, considerando che c’è un incremento della popolazione penitenziaria, potremmo dire che vi è una stabilità o addirittura una diminuzione. Occorre però fare di più, va fatto tutto il possibile”. E “la strada migliore è una riconsiderazione dei rapporti interni agli istituti”. In merito al tema dell’amnistia che torna ciclicamente ad affacciarsi sulla scena del dibattito politico, Tamburino ha spiegato: “La risposta deve essere politica. Non spetta a me dirlo, né come magistrato né come capo di un’amministrazione. Certamente una forte spinta a pensare a un indulto è data dal fatto che ci sono situazioni di detenzione che sono al limite della legalità, o oltre questo limite”. Tamburino ha ricordato che “bisogna distinguere l’amnistia dall’indulto. La prima potrebbe avere un effetto molto utile sull’arretrato giudiziario, perché estingue il reato. Ciò che invece riduce la popolazione penitenziaria è l’indulto, che certo porterebbe a una soluzione immediata del problema del sovraffollamento perché potrebbe ridurre di diverse migliaia le persone detenute (la misura vale solo per coloro che sono condannati definitivamente), ma l’esperienza mostra che questi provvedimenti generali e indiscriminati non danno effetti duraturi”. “C’è una esperienza verificata molte volte - ha ricordato - e si è visto che a breve c’è un ritorno dei numeri di prima, o addirittura un aumento come è avvenuto dopo l’indulto del 2006”. Sul tema dell’ergastolo, ha spiegato Tamburino, “vi è stato un referendum e la gran parte della popolazione ha ritenuto che non vada abrogato. Credo che se fosse interpellata oggi, sarebbe ancora favorevole a questa pena illimitata, perché vi sono reati di estrema gravità e persone che, sulla linea di partenza, non si possono considerare tali da avere la certezza del recupero”. Per il capo del Dap, “quello che bisogna dire è che questa pena eterna, che corrisponde alla vita dell’individuo, può essere rivista, a distanza di un punto ragionevole, per vedere il cambiamento che si è verificato nelle persone. Dopo 20, 25 o 30 anni, la persona si trasforma - ha rimarcato Tamburino - occorre verificare se la persona è cambiata e ammettere che la pena stessa, a quel punto venga meno, o si trasformi”. Riguardo alla situazione della polizia penitenziaria che lamenta carenze di organico, Tamburino ha sottolineato: “Il vero problema è l’utilizzazione”. “Tutto ciò che in questo momento intendo fare con i miei collaboratori - ha proseguito - è promuovere un lavoro più qualificato, professionalmente avanzato”. Insomma, “più di intelligence e meno di materiale e quasi brutale ripetizione di gesti sempre uguali che portano alla stanchezza e a volte anche a una diminuzione di quell’attenzione che invece occorre sempre avere”. “Il discorso degli organici - ha proseguito - nel momento attuale non è molto realistico. Siamo in una situazione di crisi economica, c’è la spending review e una generale tendenza che riguarda tutti i settori della pubblica amministrazione”. “Ma devo riconoscere - ha concluso il capo del Dap - che in Italia il rapporto tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria può stare benissimo a confronto con quello di altri paesi europei ed extraeuropei. Anzi, da questo punto di vista stiamo quasi meglio”. Giustizia: il dispiacere del ministro Severino, ma intanto nelle carceri si continua a morire di Valter Vecellio Notizie Radicali, 13 dicembre 2012 Manifesta la sua “grande delusione” per il fatto che “non si potrà approvare il provvedimento sulle misure alternative al carcere”. Il ministro della Giustizia Paola Severino dice di provare “una grande delusione… è un peccato perché c’era stato un grande consenso alla Camera, fatta eccezione per la Lega, su un provvedimento equilibrato, che non fa uscire nessuno dal carcere, ma riesce a coniugare la sicurezza sociale con il bisogno di considerare il carcere come l’estrema ratio”. Siamo alla vera e propria impudenza. Il ministro sostiene che avvicinandosi il Natale “volevo dare un messaggio di speranza, ma purtroppo non ci siamo riusciti e mi dispiace”. La giustizia italiana è, letteralmente, allo sfascio. Una situazione che comporta, a parte gli irrisarcibili costi umani, un incredibile, enorme spreco di risorse; la situazione nei tribunali civili è tra le principali cause dei mancati investimenti nel nostro paese di capitali esteri; la durata dei processi è di tale irragionevole durata, che le corti di giustizia europee ci condannano a ogni piè sospinto; la situazione nelle carceri è una letterale vergogna. Il nostro paese vive una quotidiana, diffusa, persistente illegalità, le leggi vengono costantemente violate e disattese…Il ministro, che non ha mai perso occasione per boicottare la proposta politica dell’amnistia, “è dispiaciuto”… L’educazione e il buon gusto ci impediscono di dire altro. E del resto non c’è bisogno. Dice tutto da sola, il ministro Severino. E mentre si dispiace, si muore. Si muore, informa “l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere” a Foggia e a Catanzaro: due detenuti suicidi in meno di ventiquattro ore. A Foggia si è impiccato A.N., 44 anni, condannato a 20 anni di carcere per omicidio. Nel carcere di Catanzaro si è impiccato H.G., 32 anni, di origini marocchine. Era in attesa di giudizio con l’accusa di tentato omicidio. Dall’inizio anno salgono a 59 i detenuti suicidi (oltre a 9 poliziotti penitenziari) ed a 151 il totale delle morti in carcere. Dal 2000 ad oggi si contano 750 suicidi tra i detenuti e 96 tra le fila della Polizia Penitenziaria, mentre altri 1.334 detenuti sono morti in carcere per cause “naturali”. Giustizia: il voto ai detenuti diventerà un diritto concreto di Valentina Ascione La Repubblica, 13 dicembre 2012 Le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera hanno dato il via libera alla risoluzione che garantisce l’effettivo diritto di voto a chi è dietro le sbarre. La decisione è stata sottoscritta da deputati di tutti i gruppi parlamentari, eccetto la Lega. Il diritto di votare diventerà reale per quanti godono ancora dei propri diritti civili e politici. E che sono moltissimi. Via libera alla risoluzione che garantisce l’effettivo diritto di voto dietro le sbarre. Le commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera hanno approvato un testo - sottoscritto da deputati di tutti i gruppi parlamentari, eccetto la Lega - che impegna il governo affinché il diritto di votare sia concreto per coloro che nelle carceri italiane godono ancora dei propri diritti civili e politici. E che sono moltissimi, tra cittadini italiani in attesa di giudizio e condannati in via definitiva per i cosiddetti reati “non ostativi”, ai quali la legge attribuisce pieno diritto di voto e la facoltà di esercitarlo nei seggi elettorali volanti allestiti all’interno degli istituti di pena. Ecco quindi una norma per abbattere la burocrazia sul voto nei penitenziari. L’astensionismo tra i detenuti è altissimo. Lo scorso ottobre soltanto 46 detenuti in tutta la Sicilia si sono recati alle urne per il rinnovo del Consiglio regionale. Alle politiche del 2008 si erano contati tra i reclusi appena 1368 votanti, un bilancio peggiore di quello registrato nel 2006, quando alle politiche aveva votato il 10 per cento dei circa 30 mila aventi diritto: dato da non trascurare, se si considera in quell’occasione la gara elettorale fu decisa da meno di 25 mila voti. A determinare questa forte astensione non sarebbero soltanto lo scarso interesse o un sentimento di sfiducia nei riguardi della politica, ma anche i ritardi nell’informazione e nell’iter burocratico che intercorre dalla domanda del singolo detenuto al rilascio della tessera elettorale, fino all’allestimento dei seggi nelle carceri. Come si potrà votare. Un detenuto che intenda partecipare al voto deve far pervenire al sindaco del comune di residenza tramite il direttore dell’istituto di pena, entro e non oltre il terzo giorno antecedente quello delle elezioni, una dichiarazione che attesti la volontà di votare nel luogo di detenzione. Il sindaco a sua volta dovrà includere le dichiarazioni in specifici elenchi da consegnare, il giorno prima del voto, al presidente di ciascuna sezione, e comunicare immediatamente ai richiedenti, anche per telegramma, l’avvenuta inclusione nelle liste. Procedure farraginose che, unite alla disinformazione, “privano i detenuti di un diritto-dovere fondamentale”, denuncia la deputata radicale Rita Bernardini promotrice e prima firmataria del documento. Il sollecito ai direttori delle carceri. Il testo approvato impegna il governo a sollecitare i direttori degli istituti di pena, attraverso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, affinché informino velocemente e con mezzi adeguati i detenuti, affinché si assicuri in modo tempestivo l’esercizio del diritto di voto, in particolare di coloro che sono interessati dalle elezioni regionali e che sono reclusi in regioni diverse da quelle in cui risultano residenti. A tutela del diritto di voto in carcere nei giorni scorsi Marco Pannella aveva iniziato uno sciopero totale della fame e della sete e anche il coordinatore dei Garanti dei detenuti Franco Corleone ha annunciato una campagna. Mentre migliaia di reclusi l’hanno rivendicato con la classica “battitura delle sbarre”. Giustizia: ladri di pigne a Roma… l’altra faccia della crisi nera di Eraldo Affinati Il Messaggero, 13 dicembre 2012 In questo Paese rubare le pigne è più rischioso che intascare i soldi pubblici. Chi traffica nel bosco per sbarcare il lunario subisce l’arresto in flagrante. Chi trucca i bilanci di un’azienda ha più possibilità di restare impunito, se non altro per scadenza dei termini di prescrizione. Non c’è niente da fare: nonostante tutta la nostra buona volontà, l’Italia resta il regno di Pinocchio dove il buon Geppetto va in prigione e il burattino di legno, dopo averlo sbeffeggiato, se la svigna. Tempo di Natale. I pignaroli entrano in azione. Se ne vanno in giro coi sacchi di juta, le roncole e il furgone. Dalla Tuscia al Tuscolano, da Casal Palocco a Castel Fusano. Cercano i pini ma non sono pittori. Quello, celebre, inclinato verso il mare, dipinto da Carlo Carrà, nemmeno lo conoscono e, se lo vedessero, così nudo e spoglio, lo disdegnerebbero. Quatti quatti s’avvicinano ai rami degli alberi più carichi e staccano le pigne una a una, talvolta per farlo spezzano i rami: loro non lo sanno, ma questo gesto trasforma il semplice furto in danneggiamento aggravato. Se poi varcano i limiti di una proprietà privata, allora davvero, quando vengono acciuffati, la gattabuia non gliela leva nessuno. Chi sono questi malandrini pronti a tutto, gaglioffi di conifere ai quali Pan, il dio silvestre, avrebbe assicurato senz’altro il rogo e cosa ci fanno con la preziosa refurtiva caduta sulla testa di non pochi fra noi quando da piccoli andavamo a mangiare i pomodori col riso nella pineta di Ostia insieme a mamma e papà? Rumeni, magrebini, ghanesi: ecco i responsabili. Vendono il bottino ai produttori di pinoli: pare che questi ultimi, ricercatissimi per dolciumi e pesti vari, costino sessanta euro al chilo. Inoltre dalle pigne stesse, utili anche per alimentare i caminetti delle nostre case, si ricavano carbone, essenze, olii. Per non parlare degli addobbi festivi: delle pigne, come del maiale, non si butta via niente. Gli amici di Accattone trafugavano la mortadella a Testaccio. Oppure alleggerivano i pazienti nelle corsie degli ospedali. Oggi Alì e Ivan s’attaccano agli alberi della flora mediterranea. Cambiano i tempi, le povertà e le disperazioni restano uguali. La procura di Roma s’affanna a sbrigare queste pratiche comminando condanne ogni due o tre giorni. Una tira l’altra. I magistrati si dividono: chi infligge pene fra i sei e gli otto mesi; chi sdrammatizza. I primi fanno la voce grossa. I secondi forse si chiedono, non senza motivo, se di questo passo finiremo per mettere dietro le sbarre perfino chi raccoglie la cicoria nei prati. Noi restiamo sempre con la vecchia domanda inevasa, che in fondo, ci scommettiamo, ronzava anche nella testa dei Padri Costituenti, nel momento in cui ci consegnarono le chiavi della nuova Repubblica: perché questa medesima solerzia esecutiva, insieme alla velocità del giudizio, viene applicata soltanto ai ladri di polli, o di pigne, mentre i soliti pezzi grossi, se rubano, anche sotto i nostri occhi, continuano a fare, salvo eccezioni, la bella vita? Giustizia: madri detenute, l’importanza di salvare i vincoli familiari di Vittorio Campus (Docente Università di Sassari) La Nuova Sardegna, 13 dicembre 2012 Ho letto con molto interesse l’articolo pubblicato martedì 11 dicembre dal titolo “Neonati dietro le sbarre, triste primato a San Sebastiano”, così come gli altri sul “pianeta carcere” realizzati recentemente dalla Nuova Sardegna. In quest’ultimo articolo si evidenzia anche come “una donna con prole arrestata a Milano gode, a parità di reato, di un trattamento differente da un’altra che invece ha subito la privazione della libertà a Sassari e/o Cagliari”. Mi pare opportuno specificare che questa differenza di trattamento dipende dal fatto che a Milano è stato istituito sin dal 2006 l’I.C.A.M., ovvero l’Istituto di Custodia Attenuata per detenute Madri con prole sino a tre anni di età. Dal 2006 i bambini con le loro madri possono evitare le condizioni di vita del carcere di San Vittore e permanere in un immobile opportunamente attrezzato ed organizzato messo a disposizione dalla provincia di Milano e realizzato in una via centrale della città. La persona che ha maggiormente sostenuto questo progetto è Francesca Corso, in precedenza assistente sociale all’interno del carcere e poi dal 2002 al 2009 assessore ai diritti e alla tutela sociale della Provincia di Milano con delega alle carceri. Per la realizzazione di questo Istituto sono stati stipulati una Dichiarazione d’intenti tra Ministero della Giustizia, D.A.P., Provincia e Comune di Milano, Ministero dell’Istruzione e Regione Lombardia, un contratto di comodato d’uso dell’immobile con la provincia e una convenzione con l’Università Bicocca per la formazione degli operatori. Anche gli addetti alla sicurezza che operano in tale struttura svolgono la loro attività in abiti borghesi. Le stesse istituzioni operano anche nel nostro territorio ed anzi esistono anche rapporti di collaborazione tra la nostra università e la “Bicocca” di Milano. Certo è necessaria una volontà corale da parte di tutte le istituzioni per realizzare questo importantissimo “salto di civiltà” imposto dalle Convenzioni internazionali per la salvaguardia dei minori. Ratificata dall’Italia nel 1991, che stabilisce: “il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati”. Al riguardo, non ci si può non domandare quanto tali “contatti appropriati” vengano realizzati nel carcere di San Sebastiano anche per i minori di età superiori ai tre anni e magari domandarsi se sia possibile individuare dei locali “appropriati” per gli incontri tra genitori e figli nel carcere di prossima apertura nel nostro territorio, magari con opportune turnazioni. Certo è che le convenzioni internazionali e le raccomandazioni europee, oltre che le stesse Regole penitenziarie europee, sottolineano l’importanza della preservazione dei vincoli familiari nella prevenzione della recidiva e nella reintegrazione sociale dei detenuti. È ben noto, infatti, che la dimensione familiare ed il recupero dei ruoli genitoriali costituiscono degli elementi di straordinaria importanza nel percorso di recupero del detenuto. Dev’essere considerata anche la conferma normativa data dalla legge n. 62/2011, il riferimento importante costituto dalla legge n.40/2001 ed infine si ricorda come in Spagna, ovvero in un Paese che non si trova certo in condizioni economiche migliori dell’Italia, esistono da tempo le “Unidades externas de madres”. È giusto segnalare come buona parte dei dati contenuti in questa lettera siano stati inseriti nel lavoro di tesi della dott.ssa Irina Manconi del Corso di laurea in servizio sociale dell’Università di Sassari. Giustizia: dalle bambole ai torroni, così i detenuti si trasformano in creativi e artigiani di Federica Seneghini Corriere della Sera, 13 dicembre 2012 “Abbiamo cominciato un po’ per gioco, nel 2008, con un piccolo telaio e una tiratura di appena 500 t-shirt: sopra ci avevamo stampato i versi delle canzoni di De André. A sorpresa, in poco tempo sono andate a ruba”. Paolo Trucco, di Bottega Solidale, è uno dei responsabili del progetto “ÒPress”, nato a Genova dietro le sbarre della sezione di Alta sicurezza del carcere di Marassi, dove, ogni giorno, quattro detenuti realizzano le serigrafie delle magliette (in cotone bio ed equosolidale) della linea “Canzoni oltre le sbarre”. “Dopo Faber si sono aggiunti Capossela, Battiato e Bandabardò. Oggi abbiamo una produzione annuale di 25 mila capi, in vendita nelle botteghe del commercio equo delle maggiori città”. Non è un caso isolato. I prodotti realizzati “dentro” in Italia sono centinaia. Natale è un buon momento per scoprirne qualcuno, magari facendo un giro al mercato dei prodotti “made in carcere” allestito presso il Museo criminologico di Roma (Via del Gonfalone 29, fino a domenica) o visitando la vetrina virtuale sul sito del ministero (giustizia.it), che raccoglie oltre 450 articoli diversi. Le borse in pvc riciclato prodotte a Rebibbia per esempio, nate per iniziativa della onlus Ora d’Aria (i punti vendita, a Roma, sono su oradarialab.com), o quelle in feltro realizzate nel carcere di Enna, grazie alla coop Filo Dritto (ordini e info 0935.1820716, filodritto.com). A Milano, dal 2006, a Bollate si realizzano mobili su misura con “un anima di ferro e un carattere flessibile”, secondo il sistema Marcaclac: tavoli, sedie e lampade, ma anche accessori per bambini (cooperativaestia.org). A Padova invece si punta su torroni, grissini e biscotti preparati da una quarantina di detenuti-pasticceri del Due Palazzi. “I nostri dolci sono piaciuti anche al Papa”, racconta Nicola Boscoletto, della coop Giotto (coopgiotto.org). Tanto che la specialità, i panettoni, per questo Natale sono già esauriti: “Ma Pasqua è vicina e le nostre colombe sono eccellenti”. Per i più piccoli, a Firenze, una decina di recluse del Sollicciano realizza bambole in lana e in stoffa, ma anche personaggi del presepe (su ordinazione, lapoesiadellebambole.it, tel. 055.473070). “Il laboratorio è un momento di creatività, concepito come risposta ai bisogni di chi sta dentro”, spiega Elisabetta dell’associazione Pantagruel. “E il ricavato va tutto a favore delle recluse, che usano i soldi per comprarsi beni di prima necessità. Qui manca tutto: spesso anche gli assorbenti”. “Sbirciare all’interno dei laboratori delle carceri ti fa stringere il cuore, peccato però che allargando lo sguardo alle sezioni il cuore ti salga letteralmente in gola”, dice Riccardo Arena, che dal 2002 conduce su Radio Radicale il programma “Radio Carcere”, seguitissimo anche dai detenuti, che gli scrivono 200-300 lettere alla settimana. “Sono esperimenti utili per capire che lavorare dentro è possibile, ma non danno la fotografia reale della situazione attuale. Anche se “lavorare” è una delle richieste più frequenti nelle lettere che ricevo, in realtà chi ha un impiego è una minoranza”. Lo confermano i numeri. Oltre al sovraffollamento (66.529 detenuti per 47.048 posti al 30 novembre) e un tasso di suicidi infernale (59 dall’inizio dell’anno), un lavoro “dentro” è una merce preziosa. Se nel 1991 la percentuale di detenuti occupati era del 34%, nel 2001 è scesa al 25%, mentre oggi solo meno del 20% ha un impiego (13.278 su 66.528 al 30 giugno). Senza contare il fatto che la maggioranza di chi lavora lo fa per l’amministrazione penitenziaria - come “spesini”, scopini o portavitto - per periodi molto brevi e retribuiti 200-300 euro al mese. “Un danno per i datori di lavoro, ma soprattutto per i detenuti”, dice Lillo di Mauro, presidente della Consulta Penitenziaria del Comune di Roma. Un problema perché “sostenere il lavoro in carcere è l’unico modo per contribuire a un migliore funzionamento del sistema rieducativo carcerario”, spiega Pietro Raitano, direttore della rivista Altreconomia. Con tanti anni da trascorrere rinchiusi, c’è il tempo per imparare un mestiere, per diventare ciò che si vuole. È il lavoro che salva. Come l’arte. Lo sa bene Aniello Arena, ergastolano a Volterra e protagonista del film “Reality” di Garrone. “Sono un uomo nato due volte”, dice. Gli esempi virtuosi ci sono. “Gorgona e Bollate sono carceri modello, dove si lavora tutto il giorno. E allora poco importa se le celle sono piccole, visto che i detenuti ci rientrano solo per dormire”, dice Riccardo Arena. “Anche il carcere di Laureana di Borrello, situato in una delle zone più difficili della Calabria, era un esempio d’eccellenza: lì, come vorrebbe la legge, il lavoro era al centro dell’esecuzione della pena. Per questo la sua chiusura, avvenuta il 29 settembre, ci ha lasciato quantomeno perplessi”. Giustizia: Fp-Cgil; poliziotti penitenziari a fare imbianchini, mortificante per il Corpo Adnkronos, 13 dicembre 2012 Il ministro della Giustizia interrompa l’emorragia di agenti penitenziari. L’appello arriva da Fabrizio Fratini, segretario nazionale di Fp-Cgil. “Parliamo di circa 370 poliziotti che, di fatto, sono stati sottratti agli istituti penitenziari da cui provengono, come noto in grande difficoltà operativa e funzionale - spiega in una nota. Ma la Corte dei Conti non aveva sollecitato un diverso e più consono impiego del personale della polizia penitenziaria?”, si chiede. “Inoltre ci risulta che per tinteggiare i muri di alcuni di quegli uffici sono stati incredibilmente impiegati poliziotti in servizio nella stessa sede, sottratti anche in questo caso ai propri compiti istituzionali, non si capisce a che titolo e se eventualmente utilizzando pressioni o promesse. Impegnare appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria per simili attività è non solo è mortificante per l’intero Corpo, ma - denuncia - viola praticamente tutte le normative che sanciscono il corretto impiego dei poliziotti penitenziari, oltre che quelle altrettanto vincolanti per l’amministrazione che normano la ristrutturazione e gli interventi di natura manutentiva per i luoghi della pubblica amministrazione”. Giustizia: “Stefano Cucchi morì per colpa dei medici”, depositata oggi la superperizia Corriere della Sera, 13 dicembre 2012 Stefano Cucchi morì per grave carenza di cibo e liquidi e quindi “i medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini, non trattando il paziente in maniera adeguata, ne hanno determinato il decesso”. Questa la conclusione dei periti incaricati dalla III Corte d’assise di Roma di accertare le cause della morte del 31enne geometra romano, deceduto il 21 ottobre del 2009 nel reparto giudiziario dell’ospedale Sandro Pertini a pochi giorni dal suo arresto. Per la morte di Cucchi sono imputati tre agenti della polizia penitenziaria e nove tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. “Tutti i sanitari della Medicina protetta del Pertini - si legge nella perizia - ebbero una condotta colposa, a titolo sia di imperizia, sia di negligenza, quando non di mancata osservanza di disposizioni comportamentali codificate”. “I medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini non si sono mai resi conto di essere (e fin dall’inizio) di fronte a un caso di malnutrizione importante, quindi non si sono curati di monitorare il paziente sotto questo profilo, né hanno chiesto l’intervento di nutrizionisti (o di altri specialisti in materia), e, non trattando il paziente in maniera adeguata, ne hanno determinato il decesso”, scrivono i periti. Non solo. I medici sono anche colpevoli di non aver informato in maniera adeguata Stefano Cucchi dei rischi che correva digiunando: “Non avendo consapevolezza della patologia di cui Cucchi è affetto, venne pure a mancare da parte dei sanitari una adeguata e corretta informazione al paziente sul suo stato di salute e sulla prognosi a breve inevitabilmente infausta, nel caso egli avesse persistito nel rifiutare cibi e liquidi”. La perizia redatta dal gruppo di lavoro dell’Istituto Labanof di Milano è stata depositata giovedì, una settimana prima della prossima udienza del processo che vede imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. “In definitiva - si legge nella perizia - la causa della morte di Stefano Cucchi, per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche, va identificata in una sindrome da inanizione”. “Con il termine di morte per inanizione - scrivono i periti - si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi”. Quelle di Stefano Cucchi erano “lesioni circoscritte”, sia al capo che alla regione dell’osso sacro e “di per sé non idonee ad influenzare metabolicamente sulla evoluzione clinica infausta della sindrome da inanizione. Solitamente queste lesioni non richiedono neppure il ricovero del paziente in ambiente ospedaliero”. Lo scrivono i sei periti. “Il corpo di Cucchi - scrivono i periti - presenta una serie di lesioni ed escoriazioni crostose, persino ulcere, che possono trovare la loro eziologia in microtraumi (sfregamenti, grattamenti, aree di appoggio e da decubito) anche di epoca precedente all’arresto, in manovre relative al trattamento da parte dei sanitari e persino nelle condizioni patologiche del Cucchi; esse quindi non possono essere attribuite con certezza ad episodi traumatici di una certa violenza/entità avvenuti tra l’arresto e il ricovero”. Scrivono ancora i periti: “In mani esperte l’allarme rosso era in atto con gli esami del 19 ottobre 2009 e che da questo momento Cucchi, per avere un trattamento appropriato, doveva essere trasferito in una struttura di terapia intensiva”. “Un trasferimento ed un trattamento immediato - rilevano gli esperti riferendosi al personale sanitario che ha avuto in cura Cucchi - avrebbero probabilmente ancora consentito di recuperare il paziente. È intuibile che se il trasferimento del paziente fosse stato rimandato le di lui possibilità di sopravvivenza si sarebbero proporzionalmente e progressivamente ridotte, fino a raggiungere livelli molto bassi in data 20 ottobre ed ad annullarsi in data 21 ottobre”. Concludono i periti: “Il quadro traumatico osservato si accorda sia con un’aggressione, sia con una caduta accidentale, né vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva”. “In questo contesto - si legge nella relazione di 190 pagine - pare anche inutile perdersi in discussioni sulla causa ultima del decesso. Se vale a dire - scrivono ancora i periti nominati dalla corte di assise - esso sia da ricondursi terminalmente ad un disturbo del ritmo cardiaco, piuttosto che della funzionalità cerebrale, trattandosi di ipotesi entrambe valide ed ugualmente sostenibili. Questo anche in considerazione del fatto che il decesso (vuoi per causa ultima cardiaca, vuoi per causa ultima cerebrale) intervenne nelle prime ore della mattinata del 22 ottobre quando, quanto meno a partire da due-tre giorni prima, già si era instaurato il catabolismo proteico, indice come abbiamo visto sopra di una prognosi “a breve” sicuramente infausta”. Andava trasferito in struttura terapia intensiva “In mani esperte l’allarme rosso era in atto con gli esami del 19 ottobre 2009 e che da questo momento Cucchi, per avere un trattamento appropriato, doveva essere trasferito in una struttura di terapia intensiva”. Lo dicono i sei periti incaricati dalla terza corte d’assise di Roma di stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi, in un documento depositato questa mattina in cancelleria. “Un trasferimento ed un trattamento immediato - rilevano gli esperti riferendosi al personale sanitario che ha avuto in cura Cucchi - avrebbero probabilmente ancora consentito di recuperare il paziente. È intuibile che se il trasferimento del paziente fosse stato rimandato le di lui possibilità di sopravvivenza si sarebbero proporzionalmente e progressivamente ridotte, fino a raggiungere livelli molto bassi in data 20 ottobre ed ad annullarsi in data 21 ottobre”. Per la morte di Cucchi sono imputati tre agenti della polizia penitenziaria e nove tra medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. Nessun medico cura registrazione qualità e quantità alimenti “In generale manca inoltre da parte dei sanitari della struttura protetta una attenzione all’esame obbiettivo del paziente: certamente si trattava di un paziente non facile, ma l’assenza di descrizione clinica anche solo della ispezione vieppiù denota come le condizioni generali di Stefano Cucchi fossero sottovalutate”. Così i periti della III corte d’assise di Roma scrivono in un passaggio del dossier riguardante il giovane morte nell’ottobre del 2009 ad una settimana dal suo arresto. “Da nessun sanitario - si aggiunge - è fatta richiesta di un controllo seriato del polso periferico e centrale, della pressione arteriosa, della diuresi, degli elettroliti plasmatici e urinari, del Ph e gas analisi, di un controllo glicemico anche solo con un stix, di una ripetizione dell’elettrocardiogramma”. E poi “nessun medico cura (né in tal senso vengono date disposizioni agli infermieri) che siano regolarmente registrate qualità e quantità di alimenti e liquidi ingeriti da Cucchi; della scarsa attenzione ad una regolare raccolta e registrazione della diuresi”. Invece “si pone attenzione alle questioni di natura ortopedica ma nel contempo ci si trincea dietro il rifiuto del paziente ad essere visitato e senza entrare nel merito delle motivazioni alla base di questo rifiuto”. 17 accessi a pronto soccorso dal 1999 al 2009 Stefano Cucchi, nato il 17 gennaio 1978, in base alla anamnesi riportata nella cartella dell’ospedale Pertini fumava 20 sigarette al giorno e prendeva 7 od otto caffè. Inoltre faceva uso di droghe (eroina, cocaina, cannabinoidi, metadone). I periti nominati dalla III corte d’assise del tribunale di Roma mettono in fila la “storia clinica” del giovane morto ad una settimana dal suo arresto. “Dal dicembre 1999 al settembre 2009 sono documentati 17 accessi al pronto soccorso per svariati motivi (traumi, contusioni, ferite da taglio lacero-contuse, crisi comiziali da abuso di alcolici, overdose, stato ansioso)” Cucchi poi “soffriva di crisi epilettiche dall’età di 18 anni; e nel settembre 2009 gli era stato diagnosticato il morbo celiaco”. Per tutto questo, e sottolineando la perdita di peso del giovane “il medico di fronte ad un paziente che rifiuti di nutrirsi e bere è grandemente coinvolto sotto il profilo deontologico ed etico; e lo è particolarmente quando il rifiuto è una forma di protesta del detenuto, che ritenga di non aver altro modo per far valere le proprie richieste”. Perché “nello sciopero della fame la libertà di scelta, per essere libera, deve essere informata, vale a dire formarsi solo sulla scorta di una corretta ed esaustiva informazione da parte del medico”. Sappe: agenti hanno lavorato con professionalità Il Sappe plaude alla perizia della Corte d’assise sul caso Cucchi secondo la quale Stefano sarebbe morto per malnutrizione. “È certamente importante e fondamentale la perizia esperita dai periti della Terza Corte d’Assise sulle cause della morte di Stefano Cucchi. È importante apprendere che la morte è avvenuta per sindrome da inanizione e non da presunti pestaggi. Attendiamo dunque con serenità gli accertamenti della magistratura”, afferma in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe. “La nostra convinzione - osserva Capece - è che a piazzale Clodio la Penitenziaria ha lavorato come sempre nel pieno rispetto delle leggi, con professionalità e senso del dovere. Ci auguriamo che anche gli approfondimenti giudiziari confermino questa nostra convinzione. Di sicuro rigettiamo ogni tesi manichea che ha associato e associa più o meno velatamente al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo. Noi confidiamo che la magistratura accerti - come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso”. Giustizia: il caso Sallusti e la beffa del carcere di Giovanni Palombarini Il Mattino di Padova, 13 dicembre 2012 Alessandro Sallusti, dopo una interminabile manfrina parlamentare, ha evitato il carcere grazie a una norma del decreto-legge del 22 dicembre 2011, detto “svuota carceri” (decreto che per la verità non ha svuotato nulla, visto che il numero dei detenuti supera ancora di oltre 20.000 unità la ricettività dei penitenziari italiani), che prevede la detenzione nella forma degli arresti domiciliari per chi abbia subito una condanna non superiore a 18 mesi di reclusione. La vicenda dovrebbe attirare l’attenzione di commentatori e giuristi su una stortura legislativa che ha solo teoricamente sfiorato il direttore de il Giornale, ma che riguarda tante persone senza tutele. Al tempo della legge Gozzini (1986) il condannato a una pena inferiore a tre anni poteva evitare il carcere facendo una domanda di misura alternativa - quella che Sallusti aveva dichiarato di non voler fare - che comportava l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena carceraria fino alla decisione del tribunale di sorveglianza. Una legge saggia, sia perché tendeva a ridurre la inevitabilità della carcerazione in casi non gravi, sia perché consentiva di evitare il tanto deprecato (a parole) sovraffollamento. Avveniva peraltro che un rilevante numero di persone non facesse la domanda, non per desiderio di espiazione, ma perché, non avendo un difensore di fiducia o essendo rimaste contumaci nel processo, nella gran parte dei casi neppure sapevano che la sentenza di condanna era passata in giudicato o comunque ignoravano l’esistenza di quel diritto. La conseguenza? I condannati venivano arrestati e portati in carcere. Solo qui venivano a conoscenza della possibilità di fare la domanda, rimanendo peraltro detenuti fino alla decisione del tribunale, decisione che non di rado, in caso di condanne a pene brevi, arrivava quando la pena era stata già scontata. Un sacrificio evitabile e in alcuni casi una beffa per il condannato, un inutile turn over per carceri già troppo piene. Per ovviare a questa situazione intervenne la legge Simeone-Saraceni, subito attaccata a destra come a sinistra (secondo alcuni era una legge “salva delinquenti”). La nuova norma stabiliva che l’esecuzione della pena inferiore a tre anni era sempre sospesa e che il decreto di sospensione veniva consegnato al condannato con l’avvertimento che sarebbe finito in carcere se entro trenta giorni non avesse fatto la domanda di misura alternativa. Si trattava di una legge che riportava le garanzie della devianza marginale al medesimo livello di quelle dei condannati con adeguate difese tecniche. La cosa però non piacque. Così nel 2001 una maggioranza destra-sinistra ha approvato una norma per cui l’ordine di esecuzione sospeso non deve essere “consegnato” ma “notificato” al condannato, se del caso con il rito degli irreperibili o nelle mani del difensore, anche d’ufficio, che lo ha assistito nel corso del processo. In tal modo il difetto della legge Gozzini, uscito dalla porta con la Simeone-Saraceni, è rientrato in grande misura dalla finestra. Per molti poveri cristi, in particolare se stranieri, la notifica (anziché la consegna) si risolve infatti in un burocratico movimento cartaceo che ne decreta la irreperibilità. Passati i trenta giorni per presentare la domanda di misura alternativa, entra in ballo la polizia che arresta il condannato - che nulla sa ma è formalmente irreperibile per la burocrazia giudiziaria - e lo porta in carcere affinché sconti la pena della reclusione. In tal modo, un certo numero di persone che vorrebbero e potrebbero evitare una simile iattura, vanno ad aumentare la popolazione carceraria. Se ne sarebbe potuto parlare, in occasione della vicenda Sallusti. Ma la generalità dei commentatori, pur auspicando giustamente la cancellazione del carcere per la diffamazione, ha preferito parlare di attentati alla libertà di opinione. Libertà che con la condanna del giornalista, come è ormai noto, non aveva nulla a che fare. Lettere: abolizione dell’ergastolo, una risposta a Marco Travaglio di Beppe Battaglia (Associazione Liberarsi) Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2012 Caro Marco, la sicumera che hai ostentato su L’Espresso per dichiararti… amante dell’ergastolo, mi induce ad alcune riflessioni semplici, quasi banali. La prima riflessione: affermi che la Corte Costituzionale si è pronunciata per la costituzionalità della pena dell’ergastolo in Italia. In verità La Corte si è pronunciata due volte su questa materia ed in modo contraddittorio… Ma a te interessava una sola di quelle pronunce e citandola estrapoli una riga soltanto di quella sentenza, quella che consente a te di giustificare la tua tesi, o il pregiudizio da bar sport. La citi per sostenere l’idea tua secondo la quale “…in Italia l’ergastolo è sostanzialmente finto”. Naturalmente se io ti citassi qualche centinaio di nomi e cognomi di persone che sono all’ergastolo da oltre 26 anni, oltre i 30 e alcuni oltre i 40 anni di prigione (pur senza aver fatto parte di organizzazioni mafiose), non basterebbero a farti cambiare idea! E questo mi introduce alla Seconda riflessione: citi il referendum per l’abolizione dell’ergastolo del 1981, bocciato con il 77,4% dei voti. Tu sai bene, evidentemente, che cos’è quest’altro luogo comune della “opinione pubblica”. Le persone, per scegliere hanno bisogno di conoscere. E se l’informazione che dai tu (ma sei in buona compagnia: sono molti, purtroppo, i giornalisti come te, che informando deformano, che seminano la colpa e generano la paura. Per fortuna non sono tutti così…) è così perentoria, che “l’opinione pubblica” sei sostanzialmente tu che dai un’informazione ideologicamente falsa. E il gioco è fatto! Sai, io credo che se ci fosse un’informazione moralmente onesta, politicamente indipendente e culturalmente documentata quel 77,4% diventerebbe una sparutissima minoranza. Ma tant’è… Terza riflessione: ti lanci con una disinvoltura incredibile sull’ergastolo ostativo e sul regime di 41 bis. Tu giustifichi persino l’ergastolo “ostativo” e il 41 bis sostenendo che anche da quello si può uscirne, basta diventare “collaboratori di giustizia” che è come dire: basta mandare altri al proprio posto (senza contare che spesso questo è oggettivamente impossibile). Naturalmente non te ne accorgi dello spirito da Santa Inquisizione sotteso dal 41 bis! Non te ne accorgi che occhio per occhio rende il mondo cieco! Non te ne accorgi che sei sul terreno della tortura! Non te ne accorgi che stai parlando di persone e non di patate! Non te ne accorgi che sono questioni che parlano il linguaggio della vita e della morte. Per te, evidentemente, è un gioco tra le patate e che vada a farsi fottere il “senso di umanità” dell’articolo 27 della Costituzione Repubblicana! I diritti derivanti dalla Carta Costituzionale, infatti, quando diventano optional per le persone deboli o fragili, rischiano facilmente di tracimare tra le caste anche meno deboli o fragili. Quarta riflessione: pontifichi sull’effetto deterrente dell’ergastolo (con riferimento alle mafie) e non ti accorgi della bugia che ti racconti (purtroppo non solo a te stesso!). Basterebbero i numeri per smentirti: dal dopo guerra e fino a vent’anni fa, nelle nostre galere c’erano, mediamente, cinquecento ergastolani. Negli ultimi venti anni il numero si è triplicato! E due terzi delle millecinquecento persone hanno l’ergastolo “ostativo”. Se la tua tesi sulla deterrenza fosse vera i paesi che hanno la pena di morte dovrebbero aver sconfitto i reati che la producono (sic). Quanto al 41 bis tu ignori che al cosiddetto carcere duro si ci arriva spesso quando per quelle persone dovrebbe valere il principio di innocenza, ossia persone non giudicate e non di rado persone che non fanno parte di alcuna organizzazione mafiosa. Ma anche alle persone riconosciute colpevoli e appartenenti ad organizzazioni mafiose hanno dei diritti intangibili pur nello status di prigionieri. Tu evidentemente parli di vendetta tout court. E siccome non sai la realtà del 41 bis (il che non ti impedisce di pontificare!) è inutile che io ti dica trattarsi di tortura- Ma che ne sai tu delle mafie, più di quanto possono saperne i perditempo al bar sport? Non sarebbe meglio che tu lasciassi parlarne quelle persone che sono quotidianamente front line con le mafie? Uno per tutti, il presidente e fondatore di Libera, don Luigi Ciotti che, guarda caso, pur dovendo - a differenza di te - dormire ogni notte in un letto ed una casa diversa, ha firmato l’appello contro l’ergastolo. O dopo Veronesi vuoi mettere in discussione anche Luigi Ciotti, che non è uno scienziato, né un tecnico, né un politico? Infine, una ciliegina: tu che padroneggi così bene il Beccaria, più e meglio di Veronesi & C., ti sei scelto un pezzo per la tua citazione che dice l’esatto opposto di ciò che tu vorresti sostenere, ossia che l’ergastolo è peggiore della pena di morte e che per questo è bene riportare: “Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti”. Non sfugga quel “bestia di servigio” che evidentemente non fa difetto al tuo pensiero, così come l’affermazione apodittica del “freno più forte contro i delitti”. Ecco, io credo che faresti bene a rivisitare almeno uno dei padri della Costituzione Repubblicana e accettarne il consiglio: Piero Calamandrei che, più di sessant’anni fa argomentando in Parlamento per chiedere una commissione d’inchiesta sulle carceri, diceva… bisogna avere visto! La tua sete desertica di ergastolo, purtroppo, t’impedirebbe di capire anche dopo avere visto, abituato come sei a scodellare soluzioni semplici per problemi complessi, ma almeno ricaveresti una lezione di verità… dove la vita delle persone vale niente! Lettere: condizioni detentive illegali nella Casa Circondariale di Catanzaro di Emilio Quintieri (Radicali Italiani, Ecologisti) Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2012 Non è solo più un fatto di civiltà, non più soltanto una questione umanitaria, ma un problema di vera e propria illegalità. La Casa Circondariale di Catanzaro Siano è una prigione illegale come tante altre sul territorio nazionale dove i detenuti sono costretti a vivere in condizioni disumane, crudeli e degradanti tanto da indurre al suicidio quelle persone che, sfortunatamente, ci sono finite dentro. Lo ha dichiarato l’Ecologista Radicale Emilio Quintieri. L’ultimo a togliersi la vita è stato il povero Gourram Hicham, classe 1980, arrestato dai Carabinieri di Rocca di Neto (Crotone) lo scorso mese di marzo con l’accusa di tentato omicidio (pare avesse accoltellato un suo connazionale) ed ancora in attesa di giudizio. Si è impiccato nella sua cella dove, a quanto sembra, fosse allocato da solo. Eppure è strano perché quel carcere è gravemente sovraffollato; infatti, a fronte di una capienza regolamentare di 354 posti, vi sono rinchiuse circa 600 persone, 330 dei quali appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza perché imputati o condannati per gravi fatti di terrorismo e criminalità organizzata. I detenuti sono costretti a vivere per 20 ore al giorno chiusi in delle piccolissime celle destinate normalmente per 1 detenuto ed invece occupate da 3 persone con letti a castello, tavoli, sgabelli ed armadietti che non permettono loro nemmeno di muoversi ed alla Polizia Penitenziaria in servizio nei Reparti di poter effettuare nemmeno adeguati controlli. Proprio nei giorni scorsi - prosegue il cetrarese Quintieri - avevo ricevuto una lettera da parte di un giovane detenuto ristretto a Catanzaro Siano con la quale mi chiedeva aiuto descrivendomi tutte le problematiche esistenti in quel Carcere ivi compresi gli abusi ed i pestaggi che qualche Agente della Polizia Penitenziaria si permetterebbe il lusso di compiere ai loro danni. Mi narrava il fatto che, nonostante le condizioni meteo-climatiche non sarebbero stati accesi ancora i riscaldamenti e molti di loro, specie i più sfortunati, costretti a patire anche il freddo. Ma non solo. Infatti, e non è solo un detenuto a lamentarsi di questo, sarebbe mal funzionante la caldaia con la conseguenza che dovrebbero rinunciare persino a fare la doccia per la mancanza dell’acqua calda oppure a farla gelata. Infine, l’orario della doccia coincide con il tempo destinato all’ora d’aria perciò i detenuti che scelgono di lavarsi (seppur con l’acqua fredda !) sottraggono del tempo ad una delle poche attività di socializzazione alle quali gli è consentito accedere. Sempre secondo quanto mi è stato riferito, non gli verrebbe consentito - specie a chi proviene dalle altre Regioni e non riceve le visite dei familiari - di poter usufruire di servizi come la lavanderia costringendoli ad indossare indumenti sporchi per molti giorni. Addirittura che fuoriuscirebbero i liquami fognari nei cortili destinati ai “passeggi” soprattutto in quelli destinati ai detenuti ad Alta Sicurezza rendendo impraticabili gli stessi e che, fatto gravissimo, sarebbero presenti numerosi topi e blatte in tutti i Reparti Detentivi tant’è vero che la popolazione detenuta nel tentativo, spesso vano, di impedirne la penetrazione nelle celle, ha allestito delle rudimentali barriere alle finestre che si notano anche dall’esterno. È del tutto evidente che la presenza di tali animali costituisce un certificato rischio che possano diffondersi malattie infettive tra cui la letale leptospirosi, volgarmente nota come “febbre dei porcai”. Ulteriori rimostranze dei detenuti che mi sono state fatte - aggiunge l’Ecologista Radicale - riguardano l’insufficienza dell’assistenza medico - sanitaria e psicologica prestata nei loro confronti, assurde limitazioni da parte della Direzione, la mancata concessione di permessi di qualunque genere e tipo da parte del Magistrato di Sorveglianza, l’eccessiva umidità dei Reparti e delle camere detentive a causa della perenne infiltrazione di acqua piovana ed il rigetto ripetuto di richieste di trasferimento in Istituti più vicini alle famiglie o dove sia possibile svolgere particolari corsi di studio. Come si può ben capire i reclusi a Siano (ma non solo) sono tenuti dallo Stato in delle vere e proprie condizioni di tortura, severamente proibite oltre che dall’Ordinamento Costituzionale anche dal Diritto Convenzionale Internazionale. Ed il nostro paese lo sa bene perché dal 1959 ad oggi è stato condannato circa 2.200 volte dalla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo e, all’interno degli Stati membri dell’Unione Europea, detiene il primato per le condanne relative alle condizioni dei detenuti mentre è secondo rispetto a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, precedendo persino la Russia. Per tutti questi motivi, ho sollecitato la presentazione di una dettagliata Interrogazione Parlamentare ai Ministri della Giustizia e della Salute Paola Severino e Renato Balduzzi che, nei prossimi giorni, verrà depositata al Senato della Repubblica e una Visita Ispettiva da parte dei membri del Parlamento. L’atto di Sindacato Ispettivo sarà presentato come primo firmatario dal Senatore Radicale Marco Perduca, Segretario della Commissione Giustizia e membro della Commissione Straordinaria per la Promozione e Tutela dei Diritti Umani del Senato e cofirmato dai Senatori Donatella Poretti (Radicali), Salvo Fleres (Grande Sud), Roberto Di Giovan Paolo e Francesco Ferrante (Partito Democratico). Non escludo - conclude l’Ecologista Radicale Emilio Quintieri - di coinvolgere anche il Gruppo Parlamentare dei Verdi in seno al Parlamento Europeo per una Interrogazione in merito alla Commissione Europea come già accaduto in altre circostanze perché la legge in questo Carcere come in tanti altri della Calabria e dell’Italia è violata e non si può continuare a far finta di non vedere che sia così e, soprattutto, non si può continuare a custodire così delle persone, la cui maggioranza è in custodia cautelare e quindi presunta innocente fino a sentenza definitiva. Sardegna: progetto per le carceri, un archivio storico on line che sarà creato dai detenuti Il Giornale, 13 dicembre 2012 L’accelerazione della macchina giudiziaria passa anche attraverso l’informatizzazione. Difficile abbattere i tempi di attesa dei processi quando i faldoni si accumulano negli archivi delle procure e le sentenze vengono ancora scritte a mano (a volte in modo incomprensibile) dai giudici. Ecco perché la giunta Cappellacci, e in particolar modo l’assessorato degli Affari generali, si è data da fare anche nel settore giustizia. Innanzitutto stanziando dei fondi. Un milione di euro per avviare la digitalizzazione del sistema giudiziario regionale darà una bella spinta verso la modernizzazione delle procure e dei tribunali. Il percorso però è lungo e delicato per la complessità dei procedimenti e per il numero di soggetti coinvolti. E serve dunque la collaborazione attiva di tutte le professionalità impegnate nei vari gradi di giudizio. Insomma, bisogna mettersi attorno ad un tavolo e capire da dove partire. Per il momento è stato firmato al Palazzo di giustizia di Cagliari un protocollo d’intesa tra il presidente della Regione, Ugo Cappellacci e il presidente del Tribunale del capoluogo sardo, Leonardo Bonsignore che ha l’obiettivo di ridurre i tempi di lavoro e l’abbattimento dei costi della macchina giudiziaria. In pratica, per migliorare e accelerare le procedure bisogna evitare i mille passaggi cartacei che oggi intasano ancora troppi tribunali italiani. E bisogna affidarsi all’informatica per attuare le notificazioni telematiche delle comunicazioni e degli atti processuali ad avvocati e ausiliari del giudice. Ma non solo. È importante il rilascio telematico dei certificati giudiziari; la trasmissione telematica delle notizie di reato tra forze di Polizia e procure; la registrazione telematica degli atti giudiziari civili presso l’Agenzia delle entrate; l’accesso pubblico via rete alle sentenze e ai dati dei procedimenti; la razionalizzazione, evoluzione e messa in sicurezza delle infrastrutture Ict, dei sistemi informatici e della rete di telecomunicazione della giustizia. Insomma il futuro deve diventare presente anche nelle aule giudiziarie. E non solo. Anche nelle carceri l’informatizzazione può diventare un’occasione per i detenuti. Per questo la regione Sardegna ha ideato un progetto a sfondo sociale e culturale degno di essere “copiato” in altre realtà carcerarie. In pratica la giunta ha stanziato ben 2,5milioni di euro per digitalizzare il patrimonio archivistico custodito nelle carceri dell’isola. Questo lavoro sperimentale sarà gestito inizialmente da un gruppo di detenuti, una trentina, che potranno accrescere le loro competenze informatiche da sfruttare anche all’uscita della prigione, nell’ottica di un reinserimento lavorativo. Affiancati da un esperto, i detenuti dovranno dematerializzare la documentazione presente nelle tre ex colonie penali dell’Asinara, Tramaglio e Castiadas che, per la loro importanza e per l’interesse storico e sociale, consentono di ricostruire la vita negli istituti di pena tra la fine dell’Ottocento e la metà del secolo scorso. Inoltre si cimenteranno a realizzare ricostruzioni virtuali tridimensionali delle ex-colonie, visite guidate e panorami virtuali dei tre siti per valorizzarne il patrimonio architettonico e naturalistico e renderne fruibili i contenuti tramite i portali tematici della Regione. “L’obiettivo dell’iniziativa - spiega l’assessore Mario Floris - è quello di creare e rendere disponibili a tutti sia l’accesso a internet che le potenzialità dello strumento informatico, affinché anche i soggetti sottoposti a provvedimento dell’Autorità giudiziaria possano realmente fruire dei diritti civili e sociali e delle opportunità offerte dalle politiche di e-inclusion portate avanti dalla Regione”. Foggia: detenuto suicida in cella, è il secondo da inizio anno nel carcere dauno www.foggiacittaaperta.it, 13 dicembre 2012 Il secondo suicidio dell’anno avvenuto all’interno del carcere di Foggia. Questa volta a togliersi la vita è stato Arcangelo Navarrino che avrebbe espiato nel 2029 una condanna definitiva a 20 anni di reclusione per l’omicidio di un coetaneo, Giuseppe Fragasso, compiuto il 22 giugno 2009 nel corso di una lite all’esterno del circolo ricreativo gestito dal detenuto. Lo rende noto l’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria della Puglia che proprio pochi mesi fa aveva lanciato l’ennesimo allarme sulle difficili condizioni carcerarie, dovute soprattutto al sovraffollamento. All’interno delle strutture penitenziarie di Foggia, San Severo e Lucera, infatti, succede di tutto. E quanto accaduto nella giornata di oggi è una nuova dimostrazione. Arcangelo Navarrino, 44 anni, si è impiccato nel pomeriggio in cella con un lembo del lenzuolo legato alla finestra. “Il penitenziario di Foggia alla data odierna contiene circa 760 detenuti contro una forza regolamentare di 330 reclusi di cui 38 donne e due bambini” rileva il vicesegretario generale nazionale Osapp, Domenico Mastrulli, secondo il quale l’organico della polizia penitenziaria nel carcere dauno è sottodimensionato di un centinaio di unità. Non a caso, dall’1 gennaio del 2012 nel carcere di Foggia si sono verificate almeno cinque aggressioni. Ma non solo. Perché sempre nel penitenziario foggiano si sarebbero verificati 5 episodi di ingerimento di sostanze nocive; 12 colluttazioni; 14 episodi di autolesionismo; 1 decesso per cause naturali e soprattutto, con quello di oggi, due suicidi e ben 10 tentativi di suicidio. Nel penitenziario di Lucera, invece, i tentativi di suicidio sono stati tre, ma al di là del calcolo quel che appare certo è che le istituzioni sono chiamate ad intervenire per tentare di portare scampoli di diritti anche dietro le sbarre. Trani: morte detenuto malato di epilessia, medici accusati di concorso in omicidio colposo di Carmen Carbonara Corriere del Mezzogiorno, 13 dicembre 2012 Cinque indagati per la morte di Gregorio Durante, avvenuta la notte di San Silvestro dell’anno scorso nel carcere di Trani, dove il 34enne di Lecce doveva scontare una pena di sei anni. A chiusura dell’inchiesta, il pm Luigi Scimè ha fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini ai cinque medici che hanno seguito l’uomo, malato di epilessia, nell’ultima settimana di vita. Si tratta di Francesco Monterisi, Gioacchino Soldano, Michele De Pinto, Francesco Russo e Giuseppe Storelli, accusati di concorso in omicidio colposo. La causa del decesso, secondo l’autopsia, è stata una “depressione respiratoria indotta da intossicazione da fenobarbital (contenuto nel farmaco assunto quotidianamente per controllare l’epilessia, ndr), agevolata dalla contestuale presenza di broncopolmonite”, contratta negli ultimi quattro o cinque giorni di vita. Durante morì la mattina del 31 dicembre in una cella adibita a infermeria, accudito da un altro detenuto perché ormai incapace di provvedere a se stesso. Ma già dal 24 dicembre l’uomo - scrive la procura nell’avviso di conclusione delle indagini - era “in conclamate condizioni fisiche generali critiche, in quanto era evidente che non fosse in grado di deambulare, fosse incapace di tenere il capo eretto, non si nutrisse o si nutrisse in maniera del tutto insufficiente, non riuscisse a comunicare se non a stento, indossasse un pannolone in quanto incapace di trattenere i propri bisogni fisiologici, avesse bisogno di un piantone per le proprie esigenze vitali, rifiutasse in più occasioni di assumere medicinali, non avesse momenti di lucidità”. L’accusa per i medici, che si occuparono del detenuto dal 24 al 31 dicembre, è di non aver provveduto “a monitorare continuamente le funzioni vitali in maniera attenta e puntuale” e di non aver disposto “il necessario ricovero dello stesso presso un reparto internistico”. La condotta (colposa) dei cinque professionisti sarebbe stata “imperita e superficiale” e non avrebbe tenuto conto delle regole della scienza medica che “suggerivano chiaramente -conclude la procura - un imminente pericolo per la vita di Durante e quindi l’immediata adozione di trattamenti diagnostici e terapeutici presso un reparto ospedaliero”. Proprio gli esiti dell’autopsia - eseguita dal medico legale Biagio Solarino con il tossicologo, Roberto Gagliano Candela, e lo psichiatra forense, Roberto Catanesi - hanno consentito alla procura di escludere le responsabilità di altri otto medici (che si erano occupati del detenuto prima del 24 dicembre in carcere o nell’ospedale di Bisceglie) e del direttore del penitenziario tranese, Salvatore Bolumetti, inizialmente iscritti nel registro degli indagati. Sempre secondo i periti “il ricovero avrebbe ragionevolmente consentito di mettere in luce tanto la broncopolmonite in atto, che sarebbe stata trattata con antibiotici, quanto i presumibili elevanti (ancorché non letali) valori ematici di fenobarnital”. Lo stato di salute precario di Durante, che prima di arrivare a Trani era stato a Bari e Lecce, si era aggravato il 4 dicembre. È quanto denunciò, all’indomani della morte, la sua stessa famiglia, assistita dagli avvocati Francesco Fasano e Nicola Martino. Negli ultimi tempi era anche stato messo in isolamento, legato mani e piedi perché non facesse del male ad altre persone e non ne procurasse a se stesso. Gregorio era figlio di Pippi Durante, l’uomo che nel 1984 uccise l’assessore del Comune di Nardò, Renata Fonte. A Trani, Gregorio doveva finire di scontare una condanna a sei anni per aver dato uno schiaffo (mentre era in regime di sorveglianza speciale) a dei ragazzini che, a suo dire, stavano dando fastidio alla sua compagna, peraltro incinta. Avellino: ripresi tutti e 4 i detenuti evasi, uno arrestato a Potenza e tre a Cosenza Tm News, 13 dicembre 2012 I carabinieri del comando provinciale di Cosenza hanno arrestato questa mattina nella piana di Sibari tre dei quattro detenuti che erano evasi ieri dal carcere di Avellino. Il quarto era stato arrestato nella tarda serata di ieri a Potenza. I quattro, tutti con condanne a 30 anni di carcere, dopo aver fatto un buco nel bagno della cella si erano calati con delle lenzuola attorcigliate dai muri di cinta del penitenziario avellinese. - Erano nascosti in un canalone quando hanno avvertito di essere braccati dai militari, impegnati nelle ricerche anche con unità cinofile ed elicotteri. Nonostante il ritardo con il quale è scattato l’allarme dal carcere di Avellino, i carabinieri del comando provinciale di Avellino, coordinati dal colonnello Giovanni Adinolfi, hanno attivato ricerche capillari anche fuori regione, con la collaborazione delle altre forze dell’ordine. Un lavoro certosino in poche ore su tutti i possibili contatti dei tre fuggiaschi ha dato i suoi frutti nella tarda mattinata. Ieri mattina a bordo di una Fiat Panda rubata ad Avellino è stato bloccato dai carabinieri Daniele Di Napoli, 28 anni, di Taranto, in carcere per furti e rapina. È stato proprio Di Napoli a confessare l’evasione dal penitenziario. Le ricerche sono scattate anche in Puglia e Lucania. In Calabria sono stati però trovati gli indizi più importanti. I tre avrebbero raggiunto la stazione per salire su un treno e far perdere le loro tracce. Il primo a finire in manette è stato Valanzano. Gli altri due sono riusciti a prolungate la fuga di poco nelle campagne. L’imponente spiegamento di forze però ha reso vano ogni tentativo di dileguarsi. Pagano (Dap): comunicato su evasione Avellino “L’evasione dalla Casa circondariale di Avellino, pur nella oggettiva gravità del fatto, non può determinare una presa di distanza del Dap dalle realtà periferiche della nostra Amministrazione, risolvendosi esclusivamente in una ricerca di possibili errori e/o omissioni in capo a singoli operatori”. Lo afferma in una nota Luigi Pagano, vice capo del Dap. “Le responsabilità dell’accaduto, continua Pagano, sono ancora tutte da accertare, ma l’Amministrazione Penitenziaria, nella sua interezza, esprime vicinanza a tutto il personale che opera nell’istituto di Avellino, evidenziandone la professionalità e l’impegno profuso con sacrificio e senso del dovere. Se il sistema penitenziario nel suo complesso tiene, nonostante il grave indice di sovraffollamento e una sensibile flessione delle risorse, prosegue Luigi Pagano, si deve alla capacità e al senso di responsabilità dei nostri operatori, nella straordinaria qualità del lavoro reso che non può essere messo in discussione neppure dopo accadimenti del genere. L’impegno dell’Amministrazione, a partire dal progetto sui circuiti regionali, con la razionalizzazione delle risorse umane e materiali, va proprio nella direzione di garantire la sicurezza degli istituti prevenendo il verificarsi di tali episodi. Il carcere, non dimentichiamolo, come ha oggi dichiarato il Capo del Dipartimento Giovanni Tamburino, “è una realtà articolata, che richiede un giudizio differenziato. Quello che l’Amministrazione penitenziaria deve fare è da un lato estendere le buone prassi, ovvero quei risultati positivi che ci sono in numerose realtà e riguardano per fortuna un buon numero di detenuti”. “Le parole del Capo del Dap - conclude il Vice Capo Pagano - rafforzano il principio che serve il contributo di tutti per rendere il carcere un luogo di riscatto e reinserimento sociale. Noi crediamo nel nostro progetto e lo riteniamo indispensabile per conseguire a breve un miglioramento del sistema penitenziario”. Sappe: Polizia Penitenziaria paga pesante prezzo per colpe precise “Mi sembra del tutto evidente che l’Amministrazione e la Polizia Penitenziaria paghino un pesante scotto per le incapacitè gestionali di chi dirige il Dap”. È l’attacco di Donato Capece, segretario generale del Sappe, dopo l’ultima evasione avvenuta nel penitenziario di Avellino. “In pochi giorni ed in poche ore - registra in una nota - abbiamo contato e contiamo la grave evasione di Avellino, due detenuti suicidi a Catanzaro ed Ariano Irpino, aggressioni a poliziotti penitenziari a Busto Arsizio, al carcere minorile di Bologna, a Vercelli ed a Campobasso, svariati tentati suicidi impediti per tempo dai nostri agenti. Le colpe di tutto quel che succede sono ben precise: sono di chi fino a pochi giorni fa ha parlato di rivoluzioni penitenziaria mentre in realtà il sistema cadeva drammaticamente a pezzi”. Fuga dal carcere di Avellino, ecco come sono evasi in quattro (Il Mattino) Fuga dal carcere di Avellino: sembra quasi il titolo di un film, anche perché davvero cinematografiche sono state le modalità dell’evasione, con tanto di foro nella parete della cella e lenzuola annodate per calarsi dal muro di cinta. Protagonisti quattro detenuti che, all’alba di ieri, hanno riassaporato il gusto della libertà (uno però è stato subito riacciuffato, mentre degli altri per ora si sono perse le tracce). Si tratta di Cristiano Valanzano, 26 anni, di Castellammare di Stabia, condannato per omicidio; Salvatore Castiglione, 47 anni, nato a Crotone e finito dentro per concorso in omicidio ed estorsione; Fabio Pignataro, 34 anni, di Brindisi, responsabile di rapina, estorsione e spaccio, e Daniele Di Napoli, 28 anni, di Taranto (furti e rapina). La sceneggiatura prevede che il piano venga studiato a lungo in cella. Poi la decisione di provarci. I quattro strappano un pezzo di ferro da una brandina e, per giorni e giorni, con questo rudimentale attrezzo, praticano un foro del diametro di cinquanta centimetri nella parete del bagno e lo occultano abilmente con una lastra di marmo. Quando il lavoro di scavo è terminato, scatta la fase due: la fuga vera e propria. L’ora x e alle 3,30 di ieri notte, quando c’è l’ultimo controllo da parte dell’agente penitenziario. I detenuti fingono di dormire, ma una volta che la guardia è andata via, spostano la lastra di marmo e si calano, usando le lenzuola annodate, nel cortile del carcere. A questo punto corrono verso il muro di cinta, che è alto dieci metri. Sanno che non incontreranno nessun agente (i tagli agli organici sono un prezioso alleato) e che sarà un gioco da ragazzi eludere l’obiettivo del vecchio sistema di videosorveglianza. Per scavalcare l’ostacolo, si arrampicano su tre pedane di legno posizionate su un cassonetto dell’immondizia. Quindi scendono dal muro, usando di nuovo le lenzuola. È quasi fatta: resta da superare solo un’inferriata. In un attimo sono fuori, rubano una “Panda” e scappano a tutta velocità. Alle 7,30 viene dato l’allarme. I fuggitivi, alle 8,30, vengono intercettati, a Francavilla in Sinni in provincia di Potenza. Daniele Di Napoli viene arrestato al termine di un inseguimento mentre è alla guida di un “Fiat Doblò”, rubato poco prima. Gli altri tre evasi, invece, abbandonano la “Panda” e riescono a fuggire a piedi. L’evasione dei quattro detenuti ha provocato notevole sconcerto, ma non ha sorpreso i sindacati della polizia penitenziaria. “La realtà delle nostre carceri - dice Eugenio Sarno, segretario della Uil penitenziari - consente questo. Si legano delle lenzuola e addirittura si supera il muro di cinta con l’aiuto di un cassonetto e di alcune pedane. È chiaro che si sono verificate delle congiunture favorevoli, ma allo stesso tempo sono evidenti responsabilità oggettive e soggettive”. “Il sistema e un vero e proprio “colabrodo” - aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sappe. Il servizio notturno ad Avellino viene garantito da neanche 15 agenti. Quello che è accaduto in Irpinia, può succedere in qualsiasi altro carcere italiano”. Reggio Calabria: Golfo (Pdl); bene Severino su Arghillà, avanti completamento carcere Agi, 13 dicembre 2012 “Ho appena ricevuto dal Ministro Severino la risposta scritta alla mia interrogazione circa il completamento e la messa in funzione del carcere di Arghillà e sono grata al Ministro per aver preso a cuore una questione fondamentale per il sistema carcerario calabrese”. Lo dichiara Lella Golfo, parlamentare calabrese del Pdl. “Il Ministro mi conferma - continua Lella Golfo - che gli interventi destinati alla struttura sono inseriti nel Piano carceri e che per il suo completamento e rifunzionalizzazione è stato disposto uno stanziamento di 21,5 milioni di euro. E credo sia una notizia particolarmente positiva che, dopo i lavori, agli attuali 150 posti detentivi se ne aggiungeranno altri 208, andando così ad alleviare l’emergenza carceri in Calabria, dove l’indice di sovraffollamento dei tredici istituti penitenziari si attesta a un pericoloso 71,2%. Viene poi assicurata - afferma ancora la parlamentare - una costante vigilanza da parte del Ministero per evitare stasi temporali non giustificate. Negli scorsi mesi c’era stato già, da parte delle imprese appaltanti, l’impegno a lavorare a ritmi serrati per assicurare la chiusura degli interventi nel più breve tempo possibile. Confido, quindi che presto potremo inaugurare una struttura dalla storia travagliata ma che, grazie anche al costante impegno delle istituzioni calabresi, non resterà l’ennesima cattedrale nel deserto. Oltre a risolvere la situazione carceraria del reggino, la sua messa in funzione - conclude Lella Golfo - rappresenta un segnale importante per l’intera Calabria anche dal punto di vista della riaffermazione della legalità e della presenza dello Stato. Senza contare che in un momento di crisi e di taglio delle spese pubbliche, non si può dare un simile esempio di spreco di risorse”. Sappe: bene inserimento struttura Arghillà in piano interventi “L’inserimento nel piano carceri degli interventi riguardanti la struttura di Arghillà, così come reso noto da Lella Golfo, è una notizia che apprendiamo con soddisfazione, perché l’apertura del nuovo istituto consentirebbe di deflazionare gli altri della provincia di Reggio Calabria, anche se ciò non potrà realizzarsi senza un adeguato incremento di organico della polizia penitenziaria e degli altri operatori amministrativi”. Lo affermano in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale del Sappe. “Infatti - prosegue la nota - la situazione dei tre istituti della provincia di Reggio Calabria è talmente difficile dal punto di vista della carenza di organico che il Dipartimento è stato costretto ad inviare gli uomini del Gom (gruppo operativo mobile) per la gestione dei processi. Quindi, è necessario ed utile ultimare i lavori ed aprire al più presto il carcere di Arghillà, ma è necessario assumere il personale di polizia penitenziaria che, lo ricordiamo, a causa dei tagli alla spesa pubblica, nei prossimi due anni, diminuirà di almeno 2.000 unità che andranno ad aggiungersi ai 7.000 che già mancano”. Cagliari: Tocco (Pdl): allarme topi in carcere, urge un intervento di derattizzazione L’Unione Sarda, 13 dicembre 2012 “A Buoncammino è pieno di topi che circolano indisturbati. La situazione è grave, urge un intervento di derattizzazione”. A denunciare l’emergenza sanitaria dovuta alla presenza di ratti all’interno del carcere è il consigliere regionale e comunale del Pdl, Edoardo Tocco. “Non bastavano i problemi di spazio e convivenza, da qualche giorno lo scenario è ulteriormente peggiorato e la situazione dei detenuti è diventata ancora più difficile”. Colpa dei topi che avrebbero invaso l’istituto di pena. “A protestare sono soprattutto i familiari, comprensibilmente preoccupati per il rischio di malattie”. Il problema nasce all’esterno. Una colonia di animali nocivi è proliferata nelle vicinanze del penitenziario. “Nella zona dietro il carcere c’è un sito in abbandono con sterpaglie e rifiuti scaricati dagli incivili”. È lì che i topi si annidano. “Il terreno”, conclude Tocco, “mi risulta essere di pertinenza comunale, sto facendo accertamenti. Mi farò promotore di un sopralluogo della commissione Igiene del suolo, con l’obiettivo di risolvere il problema. Non è tollerabile che l’istituto carcerario sia in queste condizioni. Il diritto alla salute dei reclusi dev’essere salvaguardato”. Urge quindi un intervento di bonifica dei terreni abbandonati adiacenti la casa circondariale. Bologna: Progetto all’Ipm “Liberiamo i diritti, impariamo a conoscere i nostri doveri” Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2012 Progetto congiunto dei Garanti regionali per l’infanzia e l’adolescenza e dei detenuti, rispettivamente Luigi Fadiga e Desi Bruno: i protagonisti saranno i ragazzi ristretti presso l’Istituto penitenziario minorile (Ipm) del Pratello e gli ospiti della Comunità ministeriale di Bologna. Cosa faranno questi ragazzi, una volta usciti dal carcere? A questa domanda cruciale cerca di dare qualche risposta questo progetto, che si compone di una serie di incontri tematici, preceduti da attività informative, sui temi del lavoro, della casa, dello studio, delle opportunità che i ragazzi avranno a disposizione una volta usciti. Questi incontri si propongono di offrire ai giovani ristretti informazioni e chiarimenti per affermare i diritti e per ragionare sui doveri e le responsabilità che li aspettano. Il percorso terminerà con la stesura di un vademecum di orientamento ai diritti e alle opportunità disponibili sul territorio, “per tenere in tasca gli indirizzi utili”. Collabora al progetto dei due Garanti regionali, una delle associazioni che già lavorano all’interno dell’Ipm “Pietro Siciliani” e della Comunità ministeriale, l’Unione Volontari al Pratello Associazione d’Aiuto (U.V.a.P.Ass.A.): il sabato e la domenica, i volontari di Uvapassa realizzano attività di animazione e ludico-creative, per creare le condizioni per una relazione educativa, favorire momenti di aggregazione, promuovere azioni di responsabilizzazione. Il primo degli incontri in programma si svolgerà mercoledì 19 dicembre preso la Comunità ministeriale, e avrà per titolo: “Il lavoro come strumento per realizzare la propria libertà”; sabato e domenica prossimi, Uvapassa preparerà i ragazzi con giochi, proiezione di film, iniziative ricreative; per i minori stranieri, è prevista la presenza di un operatore in lingua araba. In seguito, con una cadenza pressappoco mensile, sono previsti incontri dedicati a “Diritto alla cittadinanza e minori stranieri”, “Diritti e doveri dei minori ristretti nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, e infine “I diritti dei minori detenuti nel procedimento penale minorile”. Busto Arsizio: apertura laboratorio di pasticceria e cioccolateria all’interno del carcere Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2012 Questa mattina nella Casa Circondariale di Busto Arsizio si è svolto un momento conviviale di degustazione dei prodotti realizzati all’interno del laboratorio di cioccolateria e pasticceria, attivo da tre anni e promosso dalla Casa Circondariale stessa in collaborazione con Dolci Libertà. “La cioccolateria ha aperto le sue porte e la sosta nel laboratorio ha avuto il gusto particolare della sfida, ci racconta il direttore della Casa Circondariale di Busto Arsizio Orazio Sorrentini, sfida contro le congiunture economiche poco favorevoli e anche contro le inevitabili difficoltà burocratiche cui un carcere è sottoposto e che deve a sua volta imporre per realizzare e portare avanti un simile progetto: eppure, il laboratorio attualmente produce lavoro per 24 detenuti e siamo arrivati ad un massimo anche di 40 lavoratori. Se fosse possibile, noi ne vorremmo coinvolgere anche di più”. “Difficile parlare di lavoro in questo periodo di crisi - prosegue Barbara Trebbi, Presidente del Consorzio Sol.Co. Varese, che da anni promuove interventi all’interno dell’istituto e sul territorio per il reinserimento di persone ristrette - difficile quando esso è già una “visione” per uomini e donne libere. Immaginiamo quindi quale campo visivo ci possa essere per chi sta scontando una pena. Eppure il lavoro è un elemento fondamentale e irrinunciabile per il trattamento e la rieducazione della persona detenuta.” E così questa esperienza ha un dolce sapore se possiamo gustare le praline ricoperte di cocco e pistacchio e il panettone sfornato per le feste imminenti; ed ha un sapore meno amaro se possiamo capire come è cambiata la vita ristretta di D. da quando esce dalla cella per lavorare al laboratorio e cosa ha imparato M. in questi anni tra formazione e lavoro. E così riflettiamo sul fatto che dare lavoro in carcere significa restituire dignità alle persone, togliendole dall’ozio della branda e dando loro stimoli, interessi, competenze che fuori possono avere un senso e offrire una possibilità in più di reinserimento: lo sviluppo di competenze e la possibilità di trovare un lavoro possono avere prospettive positive nel territorio stesso in termini di sicurezza, perché, come dimostrano le statistiche, il lavoro rappresenta uno degli strumenti che diminuisce il rischio di recidiva. L’esperienza del laboratorio ci sta dimostrando quindi che il lavoro quotidiano contribuisce a rendere più sicuro il territorio e contemporaneamente a ottemperare al difficile mandato costituzionale che sempre ricorda che la pena è tesa alla rieducazione del reo. Usciamo quindi dal carcere con un’immagine diversa delle persone che lo abitano e che vi lavorano e mostriamo al territorio e ai cittadini che il carcere può fare “cose buone” e che la detenzione integrata può produrre qualcosa che il territorio può apprezzare. La storia del laboratorio è recente ma rappresenta una possibilità imprenditoriale da conoscere e valorizzare, una possibilità concreta portata “dal fuori al dentro” che ha investito e scommesso su ciò che fino a poco tempo fa pareva quasi impossibile: portare lavoro “vero” per i detenuti. Per info: Elisabetta Castellini - Ufficio Stampa e Comunicazione Consorzio Sol.Co. Varese. tel. 393 0603733 - 348 8276938; mail: ufficiostampa(et)solcovarese.it Pescara: pizzaioli e calzolai dietro le sbarre, ma anche lavoro all’esterno per i detenuti di Ylenia Gifuni Il Centro, 13 dicembre 2012 Le scarpe antinfortunistiche e i mocassini sono realizzati da 15 detenuti che scontano una condanna definitiva. Dieci collaboratori di giustizia stanno imparando i segreti della preparazione delle pizze. Altri dieci, finiti dietro le sbarre per aver commesso reati comuni, si occupano dell’installazione e della manutenzione degli impianti fotovoltaici. Nella casa circondariale di San Donato la giustizia riparativa non è un concetto astratto, ma un esempio concreto messo in pratica con costanza quotidiana. Tra i 200 detenuti troviamo persone che si avviano alla conclusione del periodo di reclusione e che hanno acquisito una serie di competenze spendibili sul mercato del lavoro. Grazie al supporto delle istituzioni e delle associazioni, infatti, sono stati attivati percorsi per favorire il reinserimento sociale: laboratori nell’istituto di pena, ma anche sportelli di orientamento, esperienze di impiego nei parchi pubblici, gestione dei terreni agricoli e della serra che si trovano a ridosso delle mura di cinta del carcere. A febbraio, racconta il direttore Franco Pettinelli, partirà un nuovo progetto per promuovere la raccolta differenziata. “Bisogna superare la logica punitiva”, spiega, “per riparare il danno non basta lavorare sulla persona, ma bisogna favorire l’inclusione verso l’esterno. Questo si può fare solo attraverso il lavoro. Qui a San Donato la maggior parte dei detenuti ha una scarsa professionalità e un basso livello di scolarizzazione. Per questo abbiamo deciso di puntare sulla formazione professionale”. Sono cinque i progetti con le cooperative e le associazioni che coinvolgono la popolazione carceraria. Il laboratorio di calzoleria “Una scarpa per il futuro” coordinato dalla dirigente Fiammetta Trisi è spalmato su 600 ore di lezioni teoriche e pratiche e coinvolge 15 detenuti con condanna definitiva, di cui 5 stranieri. I ragazzi producono scarpe antinfortunistiche per tutti gli istituti penitenziari italiani e mocassini per i reclusi meno abbienti. “Non possiamo andare avanti con finanziamenti interni”, si rammarica Pettinelli, “abbiamo comprato le macchine e diamo a ogni detenuto un compenso. L’ideale sarebbe trovare un’impresa disposta a rilevare il pacchetto”. Le altre iniziative si svolgono in sinergia con Marco Di Girolamo, presidente di Amici del parco (1 detenuto gestisce il parco dell’Accoglienza), don Marco Pagniello direttore della Caritas diocesana (3 detenuti si occupano dell’orto e della serra), Maria Rita Carota di Castellamare in festa (8 collaboratori di giustizia hanno contribuito all’organizzazione della manifestazione) e Renato Cadderi della cooperativa Le tradizioni (produzione di mandorle pralinate). Per suggellare e potenziare questa linea d’intervento, incentrata sulla giustizia riparativa, ieri mattina sono stati firmati tre protocolli d’intesa tra l’amministrazione penitenziaria, l’assessore provinciale Antonio Martorella e Adelina Pietroleonardo del Silus, il sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia e l’assessore comunale di Montesilvano Feliciano D’Ignazio. L’accordo con la Provincia prevede l’istituzione di tirocini formativi “per il recupero e l’integrazione socio-lavorativa” destinati ai detenuti in esecuzione penale esterna e a chi ha già scontato la pena. Nell’ambito di “Lavorare per lo sport” due reclusi faranno la manutenzione degli impianti sportivi dietro un compenso mensile di 600 euro. A Montesilvano in due avranno il compito di tenere pulite le spiagge e l’area del cimitero, ricevendo 500 euro al mese. Anche il Comune di Pescara farà al sua parte e garantirà per tre anni la copertura assicurativa e il rimborso spese a chi, in regime di semilibertà, sarà impiegato in lavori socialmente utili sul territorio cittadino. Alla firma erano presenti anche il magistrato di sorveglianza Francesca Del Villano e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Bruna Brunetti. Pavia: lavori socialmente utili al posto del carcere, firmato accordo tra Uepe e Csv La Provincia Pavese, 13 dicembre 2012 Per chi deve scontare una condanna è l’occasione di “riscattarsi” con la società. Per Comuni, enti e associazioni, a corto di risorse, è un’opportunità di ottenere un servizio a favore della collettività a costo zero. A fare da cerniera tra le persone e le misure alternative alla detenzione sono l’Uepe (ufficio di esecuzione penale esterna, che dipende dal ministero della Giustizia) e il Csv, Centro Servizi Volontariato della Provincia di Pavia. Le due realtà hanno siglato un protocollo d’intesa. E il progetto è subito decollato. Già nella prima settimana dall’Uepe sono arrivate al centro servizi 15 segnalazioni di casi da collocare. Condannati per guida in stato di ebbrezza ma anche detenuti a fine pena. Sono stati impiegati in una mensa che offre pasti ai poveri e per effettuare servizi di trasporto. “Il Csv - spiega la sua presidente, Pinuccia Balzamo - riceve la segnalazione di una persona che è stata autorizzata a beneficiare di misure alternative. Valutiamo il suo profilo e cerchiamo l’associazione più adatta. Poi la persona incontra anche gli assistenti sociali dell’Uepe per concretizzare il progetto”. Sono 96 i soci del Csv, tra associazioni e cooperative. E in tutta la provincia le quelle iscritte regolarmente al registro del volontariato sono 259. Un bacino da cui pescare, al quale l’Uepe chiede disponibilità. Molto dipenderà anche dai progetti e dalle commesse che le associazioni hanno in corso. “C’è un forte bisogno di associazioni che aderiscano al progetto - dice Diego Turcinovich della Casa del Giovane. Noi facciamo questa esperienza da anni e con buoni risultati. Ma le richieste sono tantissime. Negli ultimi sei mesi abbiamo accolto 6 persone: tre hanno già concluso la loro esperienza positivamente. Abbiamo avuto anche un musicista che ha fatto scuola di chitarra ai nostri ragazzi”. Altri 10 persone sono in attesa. “Questo tipo di servizio risolve anche il problema di persone non alcoliste ma che dopo una cena sono state fermate con un tasso alcolico troppo alto” dice Turcinovich. Il Codice della strada prevede che la pena detentiva e pecuniaria per guida in stato di ebbrezza possa essere sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità. Gli avvocati possono richiedere i moduli per la domanda di ammissione dei loro clienti in Tribunale. E poi chiedere consulenza al Csv. I lavori di pubblica utilità sono un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso enti o organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato. Imperia: Sappe; nel carcere di Sanremo detenuto ferisce poliziotti con una lametta Tm News, 13 dicembre 2012 Un detenuto extracomunitario ha aggredito e ferito con delle lamette di barba alcuni agenti di polizia penitenziaria questa mattina nel carcere di Sanremo. Lo ha reso noto il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. “Ci sono stati attimi concitati e di forte tensione - ha dichiarato il vice segretario ligure Galluzzo - presso il piano terra dell’istituto, nei pressi della locale infermeria”. “Solo dopo vari minuti - ha spiegato Galluzzo - si è riusciti a riportare il soggetto alla ragione grazie all’estenuante impegno profuso dai poliziotti intervenuti ma resta il fatto che alcune unità di polizia penitenziaria, chiamate al celere intervento per evitare il peggio, hanno subito ancora una volta delle ferite accertate successivamente presso il locale nosocomio dove si sono recati per le prime cure”. “Riteniamo l’organizzazione interna da rivedere quanto prima e come Sappe - ha concluso il vice segretario - auspichiamo di incontrare la direzione prossimamente non per fare il solito ‘braccio di ferrò tra le parti ma proprio per entrare in maniera pregnante negli argomenti che vedono la sicurezza e l’incolumità interna al primo posto per i nostri colleghi”. Roma: Progetto “Galeghiotto”; a Ristorante Senato prodotti sardi delle colonie penali Asca, 13 dicembre 2012 Prodotti tipici sardi sulla tavola del Ristorante del Senato per promuovere il progetto “Galeghiotto” che ha come obiettivo quello di favorire l’integrazione sociale e lavorativa dei detenuti di tre colonie penali dell’isola: Isili, Is Arenas e Mamone. È questa l’iniziativa che è stata presentata oggi grazie all’impegno del senatore di Coesione nazionale, Salvo Fleres per focalizzare l’attenzione sul problema del reinserimento dei detenuti. Finanziato dai fondi della Cassa delle ammende, realizzato sotto l’egida del ministero della Giustizia e curato dal Provveditorato regionale della Sardegna, il progetto ha coinvolto quest’anno circa 900 detenuti dell’isola, per la maggior parte stranieri, tutti impegnati in quella che oramai è diventata una vera e propria attività imprenditoriale volta alla produzione di prodotti caseari, miele, carni, prodotti ortofrutticoli freschi ed essiccati, piante officinali, mirto e olio d’oliva. A questa si affianca anche l’attività di formazione e sicurezza, che ha coinvolto negli ultimi due anni circa 250 detenuti complessivamente. Il prossimo impegno sarà quello di avviare la vendita on line dei prodotti, direttamente dal sito internet. Per il momento chi fosse interessato può rivolgersi al Provveditorato regionale della Sardegna chiedendo del progetto Galeghiotto. Droghe: non è più tabù discutere pubblicamente della fine della “war on drugs” di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 13 dicembre 2012 Discutere pubblicamente della fine della war on drugs e di una politica internazionale sulle droghe alternativa alla repressione è sin dai tempi di Nixon un vero e proprio tabù. Può un documentario di un’ora, fra interviste, dati e immagini, aiutare a romperlo? È quanto tenta di fare il video della campagna Breaking the taboo, lanciata dalla Beckley Foundation insieme a molte altre Ong internazionali. Le immagini di Baltimora, città simbolo degli effetti della tolleranza zero in Usa, sono meno violente e tragiche di quelle che documentano gli effetti della “guerra alla droga” esportata in America Latina, ma non meno agghiaccianti: in quarant’anni, la popolazione della città natale di Frank Zappa si è quasi dimezzata. Oggi, il 10% dei residenti è tossicodipendente e sono circa 50.000 gli edifici abbandonati; nel solo 2007 sono stati 100.000 gli arresti per droga su una popolazione di 600.000 residenti. In tutti gli Stati Uniti, dal 1970 al 2012, i detenuti sono passati da 330.000 a due milioni e trecentomila, con una progressione che ricorda molto da vicino l’effetto sulle carceri italiane della Fini-Giovanardi. Non siamo i soli a seguire pervicacemente il cattivo esempio. Lo zar antidroga russo Ivanov annuncia di voler trasportare nell’Asia continentale la strategia armata Usa in America Latina, forse non soddisfatto del milione di sieropositivi causato dal rifiuto di minime pratiche di riduzione del danno in madrepatria. Proprio l’America Latina è il terreno privilegiato su cui si gioca il futuro delle politiche mondiali. Da un lato è sotto gli occhi di tutti il fallimento della war on drugs con la conseguente escalation di violenza (che ha portato a cinquantamila morti in Messico negli ultimi 6 anni); dall’altro, molte sono le voci che oggi si alzano per chiedere una svolta politica (cfr. Amira Armenta, il manifesto 20.6.12). Svolta già intrapresa in Uruguay, con il progetto di legge governativo per la legalizzazione della marijuana che sta contagiando la gran parte dei paesi latinoamericani. Illuminanti le parole del presidente colombiano Santos: “Abbiamo combattuto la droga e i cartelli per quarant’anni, ma il narcotraffico continua come prima. Oggi mi sento come su una bicicletta bloccata: tu ti sforzi, pedali, guardi a destra e sinistra, ma vedi sempre lo stesso luogo. Ci vuole un nuovo approccio: ci sono molte alternative, inclusa la legalizzazione, ma prima dobbiamo rompere il tabù”. La campagna Breaking the taboo (col film disponibile su Youtube) rilancia nel dibattito pubblico le conclusioni della Global Commission on Drugs, composta da importanti personalità internazionali fra cui l’ex segretario generale Onu, Kofi Annan. La Global Commission ha chiesto all’Onu di fermare la guerra alla droga. Una lettera aperta all’Onu per rivedere la convenzione unica del 1961 è stata sottoscritta da artisti del calibro di Morgan Freeman (che è anche voce narrante del film), Sting, Kate Winslet, Natalie Imbruglia, Bernardo Bertolucci; ma anche da politici, come alcuni ex presidenti: l’americano Jimmy Carter, il brasiliano Fernando Cardoso, la svizzera Ruth Dreifuss, il colombiano Cesar Gaviria, il messicano Vicente Fox e alcuni “insospettabili” come Lech Walesa e Javier Solana. Si può aderire on line alla lettera aperta e alla campagna #breakthetaboo. Documentario e adesione www.fuoriluogo.it. Francia: Oip; ratti e scarafaggi nelle celle, chiudere carcere Baumettes a Marsiglia Tm News, 13 dicembre 2012 L’Osservatorio internazionale delle prigioni (Oip) vuole andare fino in fondo e ha presentato due esposti presso il tribunale amministrativo di Marsiglia, in merito alla situazione della prigione di Baumettes, a Marsiglia, dopo lo scandalo suscitato dal rapporto sulle condizioni di vita “raccapriccianti” dei 1.700 detenuti che vi sono rinchiusi. Ratti e scarafaggi a ogni piano, fili elettrici volanti e scoperti, pioggia che filtra dai soffitti, sanitari in condizioni deplorevoli: sono queste alcune delle prove raccolte dal controllore generale, Jean-Marie Delarue e rese pubbliche il 6 dicembre scorso. L’Oip si è pronunciata per l’immediata chiusura di Baumettes e ha chiesto ai giudici di prendere intanto “misure urgenti di salvaguardia” per “mettere fine alle gravi e manifestamente illegali” condizioni di vita inflitte ai detenuti. Il problema di fondo però resta - spiega Le Monde - e pertanto l’organismo ha presentato una seconda istanza per le “misure utili”, nella quale si reclama la chiusura dei tre edifici di Baumettes, “nell’attesa della realizzazioni di lavori o qualsiasi altra misura indispensabile ad accogliere i detenuti in condizioni soddisfacenti di sicurezza e di salubrità ambientale”. Afghanistan: prove generali di libertà per le detenute di Herat di Paola Severino Avvenire, 13 dicembre 2012 È durata due giorni, sabato e domenica, la missione in Afghanistan del ministro della Giustizia, Paola Severino. Oltre ai colloqui col suo omologo afghano, Habibullah Ghaleb, e con il governatore e il procuratore generale della provincia di Herat, Daud Saba e Maria Bashir, domenica mattina il Guardasigilli ha avuto modo di visitare il carcere femminile di Herat, gestito anche grazie al sostegno dell’Italia. Un incontro toccante con le detenute afghane, che attraverso il lavoro fra le mura del penitenziario provano a costruirsi un futuro migliore, del quale ha voluto affidare ad “Avvenire” un racconto in prima persona. Odori e rumori. Ciascun carcere si disvela attraverso l’immediatezza dell’olfatto e dell’udito prima ancora che la vista metta a fuoco uomini o donne, e che la parola verbalizzi storie di dolore, rimorso, rabbia, pentimento, speranza. Ciascun carcere che ho visitato in questi dodici mesi da ministro della Giustizia - tanti, 25 in Italia e uno negli Stati Uniti - mi ha offerto storie complesse e sempre diverse, talvolta precedute dall’odore pungente della carne speziata cucinata dai detenuti maghrebini nel carcere di Marassi, altre volte dal suono dei violini accordati nel laboratorio di liuteria di Opera. In Afghanistan, nel carcere femminile di Herat, il suono era quello del canto dei bambini figli delle detenute, il profumo quello di biancheria pulita di un bimbo di poche settimane appena cambiato dalla nonna alla quale ogni giorno è consentito entrare in cella per fare da baby-sitter mentre la madre è al lavoro nel laboratorio di tessitura dei tappeti. Entrare in un carcere, qualunque esso sia e in qualsiasi luogo del mondo si trovi, è sempre un’esperienza dura e struggente. Farlo in Afghanistan, accompagnata dalla procuratrice Maria Bashir, figura di riferimento del Paese per il rispetto dei diritti umani, è stata l’affermazione di una conquista. Una conquista difficile, visto che la stessa Bashir è stata vittima, con i suoi figli, di un attentato che ne ha messo a repentaglio la vita e da cui si è salvata per puro miracolo. Una conquista parziale, se è vero che, come mi è stato detto, alcune donne sono detenute per essersi assunte la responsabilità di delitti compiuti da mariti o da fratelli. Ma pur sempre una conquista in un mondo nel quale la condizione femminile è in larga parte disperata. È bastato spostarsi da Herat a Kabul per comprenderlo e viverlo. Sento ancora l’odore di carne bruciata, ho ancora la vista piena dell’orrore di volti sfigurati dal fuoco o dall’acido nell’ospedale Esteqlal, costruito dalla Cooperazione italiana per accogliere donne vittime di violenza. Le strazianti storie di mogli gettate nel fuoco da mariti che volevano ripudiarle o di fidanzate sfregiate da uomini gelosi hanno già fatto il giro del mondo. Pur essendo preparata a tutto ciò, non ho resistito alla commozione nel vedere il volto di una donna giovane e dai lineamenti bellissimi, accecata e deturpata dall’acido, presumibilmente dai suoi stessi familiari, per aver rifiutato un matrimonio combinato. “Un incidente domestico. La bombola del gas in cucina è esplosa”, è la ricorrente giustificazione fornita da coloro che hanno ancora la forza parlare, avvolte in un sudario di garze e bende al quale presto sostituiranno un burqa che, stavolta, le riparerà dallo sguardo altrui su ferite indelebili. Comprendo quindi l’aspettativa di Maria Bashir e di altre donne parlamentari di vedere mantenuta una forte presenza della comunità internazionale anche dopo il ritiro delle forze di pace, nel 2014. Due di esse - Mahid Farid e Shukira Barakzai - mi hanno particolarmente colpita, per la frustrazione e l’insistenza con cui, quasi ossessive ma dignitosissime, mi rappresentavano la sostanziale esclusione delle donne dalla discussione governativa sul futuro assetto del Paese. Allo stesso tempo ho potuto raccogliere il sincero apprezzamento per i nostri interventi sulla giustizia. L’Italia ha fortemente contribuito, con il suo straordinario progetto di Cooperazione internazionale, con il suo eccellente programma di formazione degli operatori di giustizia, con il suo grande impegno di pacificazione, alla ricostruzione dei principi di riferimento di una nazione tormentata da trenta anni di guerra sanguinosa. Ciò è stato possibile grazie alla professionalità e allo spirito di sacrificio di tanti nostri giovani, militari e civili, i quali, silenziosamente e senza che la maggior parte di noi se ne sia accorto, hanno creato un modello di educazione alla cultura delle regole per le forze di polizia, per gli agenti penitenziari, per i magistrati di quel bellissimo e difficile Paese. Come dimenticare Erica, giovane bella, colta e di successo, trasferitasi in Afghanistan da luglio per insegnare alle donne di quel Paese come rendersi economicamente indipendenti costituendo cooperative di lavoro. Oppure il giovane ufficiale dei Carabinieri, che avevo avuto tra i più brillanti allievi della Scuola Ufficiali di Roma e che ora insegna alla polizia locale le tecniche di investigazione antiterrorismo e antidroga. O, ancora, il colonnello degli Alpini che, nell’illustrarci i progetti di cooperazione in materia di giustizia, dava prova di competenze tanto approfondite ed articolate da farmi sorgere il dubbio che, una volta terminata la sua esperienza, sentirà la mancanza di questo suo grande impegno civile per un Paese lontano e bisognoso del nostro aiuto. E io stessa, mentre il mio mandato di ministro della Giustizia volge al termine, son tornata arricchita del privilegio della scoperta di un piccolo ma straordinario successo italiano, quello di un carcere in cui le donne imparano a leggere e a scrivere, a tessere tappeti e a lavorare al computer, a investire su se stesse sperando e sognando un futuro migliore. Al rientro in Italia resta la profonda amarezza e la grande delusione per non aver visto sino ad oggi diventare legge in Italia il provvedimento sulle misure alternative al carcere. Ma questa è un’altra, triste, storia. Continuerò ad insistere affinché il lavoro compiuto non sia vanificato, sperando che la legislatura possa concludersi con un segnale di rinnovamento anche per i detenuti nelle nostre carceri. Ucraina: indagine legali Usa; in condanna Timoshenko non c’è motivazione politica di Claudio Salvalaggio Ansa, 13 dicembre 2012 Nessuna motivazione politica nella controversa sentenza a sette anni all’ex premier ed ora leader dell’opposizione ucraina Iulia Timoshenko per aver firmato nel 2009 un esoso contratto sulle forniture di gas russo: c’è ora un autorevole timbro proveniente dagli Usa sulla legittimità del verdetto, come emerge dalle conclusioni di un’indagine indipendente voluta dal presidente ucraino Viktor Ianukovich e affidata dal ministero della giustizia allo studio legale statunitense Skadden, Arps, Slate, Meagher and Flom, uno dei più grandi e prestigiosi del mondo. L’expertise di oltre 300 pagine - di cui è entrata in possesso l’Ansa - è stata elaborata in questi ultimi sei mesi da uno staff guidato da un partner dello studio, l’avv. Gregory Craig, ex consigliere legale della Casa Bianca e ‘caro amicò di Obama. Il rapporto riconosce che ci sono state alcune violazioni del diritto alla difesa ma non tali da ribaltare la sentenza, fondata su “supporti probatori” e “non politicamente motivate” o frutto di una “giustizia selettiva”. Un giudizio magari discutibile ma comunque imbarazzante per Usa ed Europa, che finora hanno cavalcato questa tesi. “Basandoci sulla revisione della documentazione, non crediamo che la Timoshenko abbia fornito specifiche evidenze della motivazione politica che sarebbero sufficienti a ribaltare la sua condanna secondo gli standard americani”, si legge nelle conclusioni. Una doccia fredda per l’ex eroina della rivoluzione arancione (sostenuta dagli Usa), che ha sempre accusato il suo rivale Ianukovich di essere il mandante di una rappresaglia politica per mettere a tacere l’opposizione. Il rapporto segna comunque anche alcuni punti a favore della pasionaria “Iulia”, ora in ospedale per curare un’ernia al disco. Ad esempio la sua prolungata e immotivata carcerazione durante il processo, quando assunse un atteggiamento provocatorio e offensivo verso il giudice e i testimoni che “avrebbe giustificato sanzioni anche nei tribunali occidentali, inclusa l’accusa di oltraggio alla corte”: ma “l’estensione della detenzione oltre il processo fu improprie”, scrivono gli autori dell’indagine. Oppure la decisione della corte di impedire all’imputata di citare certi testi e di consentire invece che importanti testimoni deponessero mentre la Timoshenko non era rappresentata dai suoi legali: questo “costituirebbe una violazione del giusto processo nei tribunali occidentali”. Il rapporto concede anche che “una corte occidentale avrebbe dato più tempo alla Timoshenko per preparare il processo” ma ritiene “improbabile che un tribunale d’appello avrebbe trovato una violazione del giusto processo su questa base”. Il team dello studio legale Usa, rispettato a livello internazionale per la sua indipendenza e professionalità, ha condotto la sua indagine esaminando tutto il materiale dell’ inchiesta e del processo, e intervistando tutti i principali attori del procedimento, dal giudice ai testimoni, dall’accusa alla difesa, inclusa la Timoshenko. L’allora premier ucraina è stata condannata in via definitiva con l’accusa di aver abusato dei suoi poteri - dopo aver negoziato con l’allora capo del governo russo Putin - ordinando al capo della società energetica ucraina di firmare un accordo con Gazprom senza che fosse stato approvato dal governo. Un accordo che ha causato un grave danno, facendo pagare a Kiev un prezzo troppo alto per il metano russo. Pakistan: Amnesty denuncia abusi esercito “migliaia detenuti in modo arbitrario” Aki, 13 dicembre 2012 L’esercito pakistano è colpevole di “abusi di diritti umani” nelle aree tribali situate vicino al confine con l’Afghanistan, dove i Talebani e al-Qaeda hanno le loro roccaforti. A denunciarlo è Amnesty International, un’Ong per i diritti umani con sede a Londra, secondo cui le forze di sicurezza stanno attuando in questa zona del Pakistan leggi speciali che permettono loro di agire “praticamente nell’impunità”. In un rapporto, basato sulle testimonianze di vittime, avvocati e rappresentanti delle istituzioni, Amnesty rivela che nelle carceri delle aree tribali sono rinchiusi migliaia di detenuti arrestati dalle forze di sicurezza “in modo arbitrario” e in attesa di essere processati. Sono evidenziati, inoltre, casi di “torture inflitte ai prigionieri”, la cui sorte spesso è nascosta ai loro famigliari. “Quasi ogni settimana vengono consegnati alle famiglie corpi di detenuti arrestati in precedenza. In alcuni casi i cadaveri vengono trovati nei fossi”, ha affermato Polly Truscott, vice-direttore di Amnesty per l’Asia. “Il governo - ha concluso - deve immediatamente avviare una riforma dell’imperfetto sistema legale nelle aree tribali che alimenta il ciclo di violenza”. Tibet: auto-immolazioni sono “atti di stupidità”, autorità cinesi arrestano 5 religiosi Ansa, 13 dicembre 2012 Le autorità cinesi hanno arrestato cinque religiosi tibetani nella provincia del Qinghai per aver partecipato a proteste seguite alle ultime immolazioni e hanno condannato otto studenti a pene detentive per il loro ruolo nelle proteste. Lo riferisce il sito di Radio Free Asia. Gli arresti si sono verificati ieri nella zona di Dokarmo, pochi giorni dopo che una giovane monaca di 17 anni, Benchen Kyi, è morta dandosi fuoco in segno di protesta contro il dominio cinese sul Tibet. Tra i cinque detenuti vi sono Aku Tsondru, 49 anni, capo del monastero di Dorje Dzong a Tsekhog (Zeku per i cinesi), Chakthab, un esperto di tantrismo e Shawo, capo di un centro religioso della zona. Arrestate anche due monache, di cui una è la sorella di un’altra monaca immolatasi tempo fa. Intanto, la scuola frequentata dalla giovane monaca deceduta qualche giorno fa è stata chiusa e gli studenti sono stati rimandati a casa fino a nuove istruzioni. Gli arresti di ieri seguono le condanne di otto studenti tibetani della scuola medica di Chabcha (in cinese Gonghe), che lo scorso cinque dicembre sono stati condannati a cinque anni di carcere per la loro partecipazione a proteste a favore della causa tibetana. Lo scorso 26 novembre erano stati più di 1.000 gli studenti che parteciparono a Chabcha ad una manifestazione per protestare contro la pubblicazione, da parte delle autorità cinesi, di un libretto che ridicolizzava la cultura e la lingua tibetana e definiva le auto-immolazioni “come atti di stupidità”. Fino ad oggi, dal primo gennaio scorso, sono 81 le immolazioni per il Tibet, 95 dal febbraio 2009 quando è cominciata questa forma di protesta. Centrafrica: viaggio nelle prigioni delle streghe e degli sciamani di Sergio D’Elia (Segretario “Nessuno tocchi Caino”) Panorama, 13 dicembre 2012 Le strade di Bangui si presentano a macchia di leopardo, con piccole chiazze di asfalto nero che un tempo le ha ricoperte e grandi buche di terra rossa africana che col tempo ha preso il sopravvento. Siamo in Centrafrica, nel cuore più povero e malato dell’Africa, al centro esatto, geografico e simbolico di un continente ricco di natura e immiserito da un secolo di sfruttamento coloniale seguito da sterminio per fame e per guerra. La strada che conduce a Bimbo, quartiere popolare alla periferia di Bangui, brulica di gente apparentemente impegnata in mille attività. Le baracche di legno e lamiera ai lati della strada sono misere dimore ma anche punti vendita di rari prodotti agricoli. Ci sono giovani donne con il figlioletto fasciato sulle spalle e, in perfetto equilibrio sulla testa, il loro piccolo negozio ambulante di frutta e verdura, merceria o panetteria. Ragazzi vanno e vengono con enormi tronchi d’albero assicurati con ingegno di peso e contrappeso su piccoli trabiccoli che non paiono soffrire il carico. Il carcere femminile è nel cuore di Bimbo ed è in aperto contrasto con la qualità della vita circostante. È una delle rare costruzioni in muratura del quartiere, nella quale 31 donne beneficiano di assistenza sanitaria e un corso di alfabetizzazione. Viene loro insegnato a fare il sapone che producono anche per le necessità della prigione e che gli assicura anche un piccolo reddito per quando saranno fuori. “Non siamo del tutto private dei nostri diritti… solo il diritto di andare e venire è regolato, altrimenti non mi sentirei in prigione”, ha detto una detenuta. Sono ospitate in tre stanzoni a seconda del reato di cui sono imputate, e il reato rende anche una differenza di ordine sociale. La prima stanza è assegnata alle detenute per reati contro la pubblica amministrazione ed è quella più dignitosa, “arredata” com’è di materassi, lenzuola, cuscini e zanzariere. Le sei donne che la abitano indossano vestiti tradizionali e veli colorati e hanno con sé tre bambine piccole, che possono accudire fino ai cinque anni di età. La stanza più affollata è quella delle “streghe”, 14 donne vestite più modestamente che incontriamo all’aperto, sedute sotto una tettoia che fa anche da cucina. Sono state portate in carcere per un “reato” che neanche il codice penale riesce a definire e che fino a qualche anno fa prevedeva anche la pena di morte. Oggi la pena in carcere per stregoneria va da cinque a dieci anni, ma fuori del carcere la punizione può essere molto più severa. Negli ultimi due anni e mezzo, oltre 500 persone sospettate di praticare la stregoneria sono state vittima della giustizia privata, non solo in villaggi remoti della foresta, ma anche nei quartieri popolari di Bangui, dove le antiche credenze sono ancora vive ed è davvero pericoloso mettere in discussione pubblicamente l’esistenza di magie, incantesimi, amuleti e altre pratiche occulte. Nella rivista centrafricana di antropologia, Emile Ndiapou, antropologo, ha scritto: “In Centrafrica, una strega è una persona che ha due stomaci, uno per digerire il cibo e l’altro per offrire un ricovero ad alcuni animali: un gufo, un gatto, una rana, un gallo, anche un serpente. Si tratta, il più delle volte, di animali che emettono suoni ad abitare lo stomaco dei maghi. Capirete perché il miagolio del gatto, il grido della civetta, il gracidare del rospo, in piena notte fanno paura, perché annunciano il passaggio o l’arrivo di un mago che sta andando a fare del male a un abitante della casa o del quartiere.” La polizia spesso arriva troppo tardi per salvare dalla giustizia sommaria “streghe” e “maghi” considerati responsabili di morti “sospette”. Il 15 agosto un uomo sulla sessantina, accusato di aver stregato una ragazza, è stato lapidato e bruciato a Danga nella sotto-prefettura di Grimari. La sua casa e quella del presunto complice, che per fortuna è ancora in carcere Bambari, sono state bruciate. Dopo l’incendio delle case, i manifestanti sono andati a distruggere campi di manioca e di banane e un vivaio, perché la vittima esercitava anche l’itticoltura. Il 19 settembre due donne sospettate di stregoneria sono state uccise, bruciate e sepolte in una fossa comune nel villaggio di Kapou, a 60 chilometri da Bangui. Il 10 ottobre una donna di 60 anni, sospettata dagli abitanti di Botoko di aver trasmesso la stregoneria a una ragazza, è stata costretta a rimanere al suo capezzale fino alla guarigione. In caso contrario, sarebbe stata uccisa. Fortunatamente, la donna è stata salvata ed è attualmente protetta da un uomo di Chiesa per sfuggire alla “giustizia” degli abitanti del villaggio. La pena di morte “legale” per stregoneria è stata abolita nel 2010 e, con Marco Perduca ed Elisabetta Zamparutti, siamo venuti in Centrafrica per chiederne l’abolizione completa, dopo oltre trent’anni di moratoria di fatto delle esecuzioni. Una settimana prima del nostro arrivo, il governo ha approvato un disegno di legge abolizionista che attende ora l’esame del Parlamento. Incontrandoci, il Primo Ministro Faustin-Archange Touadera assicura il voto favorevole della Repubblica Centrafricana sulla Risoluzione pro-moratoria in discussione al Palazzo di Vetro e la ratifica del Secondo Protocollo al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che mira all’abolizione della pena di morte. Il nostro viaggio continua nel carcere maschile di Ngaragba, nel cuore amministrativo e residenziale di Bangui. Arriviamo all’ora del rancio, e l’odore è insopportabile, l’aria irrespirabile. I detenuti attendono con la ciotola in mano in fila davanti a due pentoloni di polenta e foglie di tapioca appena usciti da una cucina all’aperto alimentata a legna. Il cibo è insufficiente e i detenuti si affidano al buon cuore dell’addetto al razionamento, un allegro ragazzo cinese detenuto per l’omicidio di un connazionale. È previsto un pasto al giorno e chi può compensa con alimenti supplementari portati dalla famiglia e cotti su piccoli fuochi allestiti nel cortile della sezione. Come le altre 37 prigioni del Paese, Ngaragba è stata costruita durante l’era coloniale e in mezzo secolo non deve aver visto mai una seria opera di manutenzione né una mano di pittura. Le sezioni sono cinque e anche qui, come a Bimbo, sono suddivise, in teoria, per tipi di reato, in pratica, per grado e origine sociali. Non hanno un numero, ma un nome che le contraddistingue e, a scanso di equivoci, in alcuni casi anche un’immagine simbolica. Sicché, la prima è ironicamente denominata “Casa Bianca”, nel senso di quella americana, una sezione di massima sicurezza dove sono rinchiusi quelli più ricchi, a giudicare anche dagli abiti lindi che indossano, dai giacigli rialzati dal pavimento e protetti da veli anti zanzare, dai tappeti persiani su cui dormono. La seconda sezione, “Golo-Waka”, è dedicata a ladri di polli e consumatori di hashish come chiaramente indica il disegno di un rasta con lo spinello che campeggia sul portone. La terza sezione, denominata “D.D.P.”, ha la porta di ingresso sbarrata, non sappiamo se per la mancanza o per la incolumità fisica dei detenuti per reati militari e contro la pubblica amministrazione. La quarta è chiamata “Couloir” e il disegno di una strega sulla scopa non lascia dubbi sul fatto che lì sono rinchiusi presunti maghi, guaritori falliti e ciarlatani di ogni tipo. È la sezione carceraria più triste e fatiscente che abbia mai visto in vita mia. Salvo poche eccezioni, i detenuti vestono abiti più sporchi e lisi e dormono direttamente sul pavimento; le celle sono le più buie della prigione; il gabinetto è un piccolo tugurio immerso nella sporcizia, senza acqua e senza cesso. Sul muro del cortile interno qualcuno, non certo un detenuto, ha tracciato con un celeste pastello la scritta “Gesù è la salvezza” e ha raffigurato la scena di un guardiano che picchia con un bastone le piante dei piedi di un detenuto con l’inquietante didascalia “cinque colpi ben assestati”. Nell’ultima sezione, col nome “Iraq” e il teschio stampati sopra l’ingresso, sono rinchiusi i prigionieri accusati di reati sangue. In questa situazione al limite dell’umanità, languono 328 detenuti, di cui 228 in attesa di giudizio; molti di loro attendono da mesi di comparire davanti a un giudice, pochi hanno un avvocato. Quelli con malattie infettive, dalla scabbia alla malaria, non sono separati dagli altri detenuti. C’è un solo infermiere che provvede a quelli, quasi tutti, che hanno bisogno di cure mediche, in un’infermeria “attrezzata” solo di un lettino, una bilancia, un paio di forbici, un rotolo di cerotto e due flaconi di disinfettante. La sicurezza della prigione è affidata a 20 soldati dell’esercito, una parte dei quali dormono dentro, gli altri fuori accampati in una tenda. Il problema del sovraffollamento è stato in parte risolto il 2 agosto scorso quando una folla di manifestanti ha dato l’assalto al carcere e liberato tutti i 552 detenuti stipati allora nella prigione. A luglio il governo aveva lanciato una chiamata al reclutamento nell’esercito a cui avevano risposto oltre 10.000 candidati. Dopo l’annuncio che ne erano stati selezionati solo 650 come previsto, migliaia di giovani scontenti sono scesi in piazza, hanno invaso le arterie principali della capitale, bruciando pneumatici e gridando all’ingiustizia. Dopo aver distrutto il busto del Presidente François Bozizé, eretto tra i cinque ex capi di Stato nel Giardino del Cinquantesimo Anniversario dell’Indipendenza, si sono recati al carcere, hanno sfondato il portone di ingresso e aperto le celle. Dei 552 detenuti evasi, 76 hanno scelto di tornare volontariamente a Ngaragba nel giro di pochi giorni. Tra coloro che hanno fatto ritorno, alcuni erano già stati condannati, come i soldati e gli alti ufficiali processati da un tribunale militare, altri sono ancora in attesa di giudizio, come Francisco Wilibona, uno degli evasi per qualche giorno. “Sono tornato perché da quando sono stato arrestato nel luglio 2010 non sono ancora stato ascoltato da un giudice. Voglio comprendere perché mi hanno messo in prigione”. “Questi detenuti che sono tornati da soli hanno dimostrato un buon senso civico”, ha commentato Léonard Mbélé, sovrintendente della prigione di Ngaragba che ci accompagna nel corso della visita. Fatti i conti, dopo un mese, oltre 300 detenuti che si erano dati alla macchia, chi per qualche giorno, chi per qualche settimana, sono ritornati volontariamente a Ngaragba, ben sapendo l’inferno che li avrebbe attesi. Al di là della pena di morte tramite esecuzione che di fatto in Centrafrica non c’è più e che presto verrà abolita anche di diritto, il Governo da un lato, la comunità internazionale dall’altro, hanno ora il compito di evitare che l’esecuzione della pena si risolva di fatto nella morte, ponendo fine, oltre che alla caccia alle streghe, alla condizione disumana e degradante delle prigioni del Paese.