Giustizia: Emma Bonino; il 25 aprile la nostra marcia per la Liberazione Agi, 9 aprile 2012 "I cittadini, credo, possono cominciare a riflettere come il 25 aprile, data che ricorda la liberazione dal fascismo, sia opportuno marciare per una nuova liberazione: una liberazione dalla partitocrazia, da questo regime che ha occupato tutti i gangli del vivere civile del nostro Paese". Lo ha detto Emma Bonino, intervistata da Radio Radicale, a proposito della marcia per l'amnistia, la giustizia e la libertà convocata dai Radicali per il 25 aprile. "I cittadini, avendo avuto qualche informazione in più dai Tg di ieri sulla nostra marcia e la nostra iniziativa, eccezione che conferma la regola, potranno evitare di consumare la loro indignazione con qualche borbottio e trovare la forza e la consapevolezza che le cose si possono cambiare", ha detto la Bonino. "La malagiustizia di questi mesi dovrebbe spingere i cittadini ad uscire di casa il 25 aprile e ad unirsi nel nostro grido, un grido di liberazione non populista per l'uscita dell'Italia dall'illegalità e il ritorno allo stato di diritto. Servono istituzioni credibili, una ammnistrazione della giustizia credibile". Quanto al dibattito sul finanziamento pubblico ai partiti, ha detto la senatrice Radicale, "evidentemente è imbarazzante per alcuni dover dire che questi quattro gatti visionari avessero ragione. Abbiamo avuto la cocciutaggine di non mollare mai. Per esempio: iscriversi al Partito Radicale dicono tutti, è costoso. Ma se ogni cittadino andasse a vedere quanto costa al bilancio dello Stato (cioè alle proprie tasche) il finanziamento dei partiti, scoprirebbe che l'iscrizione esosa al Partito Radicale è molto meno esosa. Ma i radicali sono espulsi dalla informazione, per una sorta di fastidio, nel dover dire che qualcun altro ha avuto ragione, dal 1978 in poi", ha concluso la Bonino. Giustizia: la Liberazione che libera tutti di Lanfranco Palazzolo La Voce Repubblicana, 9 aprile 2012 Intervista a Ferdinando Imposimato, avvocato ed ex magistrato, rilancia un’idea per il 25 aprile: l’occasione giusta per un’amnistia. Avvocato Imposimato, cosa pensa della possibilità di una concessione dell’amnistia da parte del Parlamento italiano? Cosa è necessario fare per salvare il sistema penitenziario italiano? “Ci sono diverse ragioni che mi hanno spinto ad aderire alla campagna in favore dell’amnistia. In un momento come questo è doveroso votare l’amnistia da parte dello Stato. Questo provvedimento riguarderebbe provvedimenti di scarso allarme sociale. Noi abbiamo, dentro le carceri, una quantità enorme di persone che non sono socialmente pericolose. Queste persone sono responsabili di piccole devianze. Queste persone subiscono un trattamento disumano rispetto ai principi e ai diritti inviolabili dell’Uomo. Credo che questa situazione - che ormai si protrae da tanto tempo - si risolverebbe con questa amnistia, lo sono convinto che l’amnistia sia un fatto doveroso, che non mette assolutamente in pericolo la sicurezza delle persone. L’ho sempre detto a coloro che esigono un trattamento penitenziario durissimo nei confronti dei detenuti che sono in carcere e non sono a conoscenza delle cose”. Perché non si studiano pene alternative? Purtroppo prevale la politica della carcerazione. So perfettamente che molte di queste persone potrebbero stare fuori dal carcere. L’articolo 27 della Costituzione stabilisce il principio del recupero delle persone che sono in carcere e che la pena deve mirare al recupero del reo soprattutto quando è responsabile di reati minori. Un provvedimento del genere gioverebbe alla sicurezza degli italiani e al nostro benessere. Dobbiamo farci guidare dal nostro buon senso. Da avvocato ed ex magistrato sono avvilito nel constatare che l’amnistia non viene concessa. Credo che le iniziative del prossimo 25 aprile, una marcia a favore dell’amnistia, possano essere l’occasione giusta per rilanciare questo dibattito proprio nel giorno dell’anniversario della Liberazione”. Cosa pensava della riforma costituzionale che ha reso più difficile l’approvazione dell’amnistia? “Quella modifica ha impedito che fosse concessa l’amnistia con un certo senso di giustizia. I criminali più pericolosi per l’Italia sono fuori dal carcere. Negli istituti penitenziari ci sono tanti poveracci. Basta guardare quello che sta accadendo in questi ultimi mesi. Abbiamo visto ruberie incredibili da parte di alcuni partiti politici e fatti che certo hanno aumentato le perplessità dell’opinione pubblica italiana. Questi soldi vengono spesi per fini personali e non certo per gli scopi per i quali sono stati concessi”. Giustizia: Pasqua in carcere, psicofarmaci e morte di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 aprile 2012 Settimana di passione per il carcere. Negli ultimi due giorni, tre detenuti morti “per cause naturali” a Bergamo, a Genova Marassi e a Perugia, e un agente penitenziario suicida a Rossano. Continua così lo stillicidio di morte nelle celle italiane. Colpisce il caso dell’assistente capo di polizia penitenziaria che a 46 anni si è tolto la vita negli alloggi collettivi del carcere di Rossano, in provincia di Cosenza. Dalle notizie diramate dalla Uilpa penitenziari, l’uomo sarebbe stato gravemente malato e con forti problemi familiari, “circostanze che però non avevano impedito all’amministrazione penitenziaria di respingerne l’istanza che aveva avanzato per ottenere la proroga del distacco presso il penitenziario rossanese”. Il carcere uccide anche così. Detenzione chimica Ma colpisce altrettanto la tragedia consumatasi nel carcere di Capanne, a Perugia, lo stesso dove è morto Aldo Bianzino: il corpo senza vita di A. B., 43 anni, è stato trovato dall’agente di turno ieri mattina alle 8,10 disteso sul letto della cella singola dove era stato rinchiuso nella sezione d’accoglienza. A. B., che era in cura presso il centro d’igiene mentale, era stato arrestato il giorno prima (il 6 aprile) alle 14 per l’omicidio del fratello cinquantenne avvenuto a Citerna di Città di Castello. In preda a un raptus, dopo un diverbio, lo avrebbe colpito con un coltello alla schiena, sotto gli occhi della madre ora ricoverata in stato di choc. Per gli inquirenti si tratta di una morte “naturale”: sul corpo non sono stati trovati segni di violenza e si esclude il suicidio. Dalle prime indiscrezioni riportate dai media locali, l’uomo avrebbe assunto - “prima dell’arresto” - un cocktail di psicofarmaci e alcol che si sarebbe poi rivelato evidentemente letale (anche se con molte ore di ritardo, almeno una decina dopo l’arresto). Ne sapremo di più nei prossimi giorni, ma intanto vale la pena riportare la recente denuncia del segretario generale dell’Osapp (sindacato di polizia penitenziari), Leo Beneduci, secondo il quale “nelle carceri italiane ci sono almeno 16 mila detenuti in “contenimento chimico” a causa del “massiccio uso” di psicofarmaci. Si tratta di oltre il 40% dei detenuti in attesa di giudizio, pari ad oltre 12 mila individui, e di oltre il 10% di detenuti condannati nelle case di reclusione, pari ad ulteriori 3.500/4.000 detenuti”. Giustizia: il detenuto vale oro… col via libera ai privati il sovraffollamento fa profitto di Fabio Dalmasso www.lettera43.it, 9 aprile 2012 Con l’art. 43 del decreto legge sulle liberalizzazioni, il governo ha dato il via al project financing carcerario. Mantenere le carceri sovraffollate per generare profitto. È questo uno dei principali rischi che si nascondono dietro all’ingresso dei privati nella costruzione e nella gestione dei penitenziari. Con l’art. 43 del decreto legge sulle liberalizzazioni, il governo ha ufficialmente sdoganato il project financing carcerario: società private potranno investire soldi nella costruzione di nuove strutture recuperando le spese attraverso la gestione di alcuni servizi interni e un canone fisso pagato dallo Stato per ogni detenuto. Nelle intenzioni del governo di Mario Monti, il provvedimento dovrebbe rappresentare un passo fondamentale per “fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri”. Il rischio di una deriva. Ma il pericolo di una deriva negativa è stato denunciato dall’associazione Antigone, che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, opponendosi fortemente all’art.43: “Il trattamento penitenziario non può essere affidato a chi ha scopi di lucro. Gli imprenditori privati potrebbero avere interesse a trattenere i detenuti perché per loro rappresentano un profitto”, spiega il presidente Patrizio Gonnella, “e il rischio che si corre è quello di voler mantenere le carceri in una situazione di sovraffollamento perché per i privati le prigioni piene sono una fonte di guadagno”. Nelle carceri italiane un sovraffollamento di 20.952 detenuti. Per lo stesso motivo, secondo l’associazione, anche le opportunità di ritorno anticipato in libertà non possono essere affidate a imprenditori privati così come “è palesemente incostituzionale affidare la gestione della salute dei detenuti a un imprenditore privato”. Il diritto alla salute è stabilito dall’articolo 32 della Carta e non può essere condizionato dalle risorse finanziarie che lo Stato mette a disposizione del sistema carcerario. Gonnella sottolinea inoltre come già ora la situazione carceraria italiana presenti seri problemi. In quello che, secondo il ministro della Giustizia, Paola Severino Di Benedetto, dovrebbe essere “un luogo non solo di punizione ma anche di redenzione”, sono attualmente recluse 66.695 persone, a fronte di una capienza totale di 45.743 posti. Oltre 20 mila detenuti in surplus. Questo significa un sovraffollamento di 20.952 detenuti, con le conseguenze inevitabili che ciò comporta: “I carcerati non hanno spazio vitale, nelle celle sono costretti a stare in piedi alternativamente, non godono di un minimo di riservatezza quando usufruiscono del bagno e devono dividersi un paio di docce in 100 e più persone”, sottolinea Gonnella. Senza contare che l’attuale patrimonio carcerario italiano è costituito da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 e il 1500, da un 60% costruito tra il 1600 e il 1800 e solo un altro 20% realizzato successivamente. Massimo 20 anni di concessione e una quota di capitale pubblico del 20%. Il project financing è lo stesso che da dicembre consente alle banche e ai fondi di investimento privati di costruire e gestire tratte autostradali, linee metropolitane, alta velocità ferroviaria e altre infrastrutture. Di questo strumento si parla già da alcuni anni in Italia: in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009, la relazione del ministero della Giustizia sottolineò che l’ingresso dei privati nelle carceri sarebbe stato fattibile nel caso in cui lo Stato avesse partecipato “al finanziamento dell’opera nella fase di costruzione con un contributo finanziario pari al 60-70% del costo e, in fase di funzionamento, con una rata annuale di circa 45 milioni di euro, per un periodo determinato in 30 anni per piccoli penitenziari e in 40 anni per quelli grandi”. Difficile recuperare l’investimento. Indicazioni che il governo Monti non sembra aver recepito visto che la nuova legge prevede un massimo di 20 anni di concessione e una quota di capitale pubblico che può anche essere del 20%. “Non si capisce proprio come il privato possa recuperare l’investimento e il pubblico ammortizzare la spesa con questi paletti”, commenta Stefano Anastasia, docente all’Università di Perugia ed ex presidente dell’associazione Antigone. Il rischio è che il privato tenda a offrire servizi scadenti e poco costosi ai detenuti perché solo così può pensare di recuperare la somma investita. I servizi devono rimanere pubblici. Nessuna riserva aprioristica, invece, da parte del Si.di.pe (il sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari) che però chiede una garanzia: che tutti servizi erogati alla persona detenuta rimangano in mano all’amministrazione pubblica. “La figura del direttore del carcere, degli educatori, degli assistenti sociali, del medico, degli infermieri, del personale amministrativo hanno un senso se continuano a essere di rilevanza pubblica”, spiega il segretario del Si.di.pe e direttore del carcere di Trieste, Enrico Sbriglia. Sull’emergenza affollamento, il sindacato ammette il bisogno di nuove strutture, ma proponendo modelli diversi di carceri e un maggior ricorso alle pene alternative. “Ma per far questo occorrerà rivedere il codice penale”, conclude Sbriglia. Usa, 731 detenuti ogni 100 mila abitanti: un business per la lobby delle carceri. Negli Stati Uniti, quella delle carceri private è una realtà dal 1984. Il Correctional business prese il via con il presidente Ronald Reagan assumendo dimensioni sempre maggiori negli Anni ‘80 con Bill Clinton: nel corso degli anni, le aziende private come la Correctional corporation of America, che gestisce 66 penitenziari ed è quotata in borsa, e la Wackenhut corrections corporation hanno costruito e preso in gestione più di 1000 prigioni per far fronte a una crescita del numero dei detenuti che non ha conosciuto sosta, raggiungendo gli attuali 2 milioni e 200 mila presenze, cioè 731 detenuti ogni 100 mila abitanti. Immensa fonte di guadagno. Una massa di persone che è diventata fonte di guadagno immensa per quella che è già stata definita la “lobby delle carceri”, ma che ha sollevato più di qualche dubbio: se lo Stato paga un canone per ogni detenuto presente nelle carceri private, è ovvio che più persone sono in carcere maggiori saranno i guadagni. La Correctional corporation of America si è recentemente offerta di acquistare alcuni penitenziari che il governo degli Stati Uniti intende dismettere, ma specificando che per lavorare avrà bisogno di penitenziari occupati almeno al 90% della capienza. In alcuni casi, si è arrivati anche alla corruzione, come in Pennsylvania dove due giudici sono stati condannati dopo aver ricevuto finanziamenti per aumentare il numero di condannati. Giustizia: strage Bologna; esplosivo usato non risulta compatibile con “pista palestinese” Il Resto del Carlino, 9 aprile 2012 La procura di Bologna ha chiesto l’autorizzazione a sentire per rogatoria Christa Margot Frohlich e Thomas Kram, i due tedeschi indagati nell’inchiesta bis sulla strage del 2 agosto 1980. “Se le autorità tedesche autorizzeranno la richiesta, li sentiremo, poi decideremo come proseguire”, ha spiegato il procuratore capo Roberto Alfonso. Più cauto il commento alla nuova richiesta del terrorista Carlos di essere sentito. “È già stato sentito - ha aggiunto riferendosi all’interrogatorio del 2009 condotto dal pm Enrico Cieri - ha detto quello che ha detto”. Carlos parlò di responsabilità generiche di Cia e Mossad, poi disse che avrebbe parlato davanti ad una Commissione d’inchiesta. Dal 2010 invece si è detto disponibile a parlare di nuovo con i magistrati per fornire dettagli di sua conoscenza. Richiesta rinnovata ora attraverso il difensore che ha appena nominato, l’avvocato Gabriele Bordoni. Dalla comparazione tra i documenti sulla qualità degli esplosivi utilizzati dal gruppo del terrorista Carlos e le perizie sull’esplosivo usato per l’attentato del 2 agosto 1980 non è, al momento, risultata alcuna immediata compatibilità. Quella della comparazione sulla qualità degli esplosivi era una delle strade che vengono seguite nell’inchiesta bis sulla strage della stazione. Una strada che al momento quindi non registra novità. Il pm Enrico Cieri aveva chiesto ed ottenuto delle autorità francesi i documenti sulla qualità dell’esplosivo utilizzato dal gruppo dello Sciacallo. Parimenti negativa sarebbe stata la comparazione fatta con la qualità dell’esplosivo che Margot Frohlich (indagata nell’inchiesta assieme a Thomas Kram) aveva in una valigia quando fu arrestata a Fiumicino nell’82. Genova: Sappe; detenuto marocchino muore nel carcere di Marassi per “cause naturali” Comunicato stampa, 9 aprile 2012 Un detenuto straniero, di nazionalità marocchina, è morto questa mattina all’alba per infarto nella sua cella all’interno del carcere di Genova Marassi che condivideva con altri ristretti. Era in carcere per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti. “La notizia della morte del detenuto intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. Ad esempio proprio a Marassi, alla data del 31 marzo scorso, c’erano 820 detenuti stipati in celle realizzate per ospitarne 450 e oltre 130 Agenti di Polizia Penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti.” È il commento di Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri “Questa ennesima morte di un detenuto testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane” rilancia il Sappe, che rinnova il suo appello alla classe politica del Paese. “A poco o nulla è servita ad oggi la legge approvata sulla detenzione domiciliare, la legge 199 del novembre 2010 (improvvidamente definita ‘svuota carcerì), che consente di scontare ai domiciliari pene detentive non superiori a un anno, oggi elevati a diciotto mesi dal recente provvedimento del Governo in materia penitenziaria. Ma rispetto all’indulto che fece uscire complessivamente e quasi subito circa 35mila persone detenute, ad oggi con la legge sulla detenzione domiciliare sono uscite poco più di 5mila persone dalle oltre 200 carceri italiane, solo 161 in tutta la Liguria. Rinnoviamo allora l’auspicio che la classe politica ed istituzionale del Paese faccia proprie le importanti e pesanti parole dette dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri “terribilmente sovraffollate” e ci si dia dunque da fare - concretamente e urgentemente - per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ‘ripensì organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso ed un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale con contestuale impiego in lavori di pubblica utilità per il recupero ambientale del territorio. Oltre all’espulsione degli stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle prigioni del Paese di provenienza”. Sassari: chiudete subito il carcere di San Sebastiano La Nuova Sardegna, 9 aprile 2012 “Chiudere al più presto San Sebastiano, accelerando l’apertura del nuovo istituto di Bancali”. Il deputato del Partito democratico Guido Melis, componente della commissione Giustizia della Camera, ha ribadito la propria posizione dopo la nuova visita nel penitenziario di via Roma, durata circa due ore. “Dal 2008 è la settima o l’ottava volta che visito San Sebastiano - ha detto Guido Melis - e ogni volta lo trovo sempre più degradato, nonostante l’impegno davvero eroico della direzione e del personale”. Il parlamentare sassarese parla di “celle fatiscenti , letti a castello (parlare di letti, però, mi sembra un pò troppo: secondo me sono pagliericci), uomini uno sull’altro, bagni alla turca a vista, maleodoranti, a pochi metri da dove i detenuti si scaldano il caffè e i pasti”. Guido Melis si è soffermato anche sull’emergenza aggiuntiva di questi giorni: “Per un guasto manca anche l’acqua, con le conseguenze che è facile immaginare”. Dopo la visita a San Sebastiano, che ha confermato la grave situazione, il deputato del Pd ha ricordato di avere denunciato formalmente alla magistratura, già nell’estate del 2010 (insieme ai colleghi Arturo Parisi, Giampiero Scano e al direttore di “A buon diritto” Luigi Manconi), ma ha anche lamentato “il successivo silenzio da parte dell’autorità giudiziaria. “Come si fa - ha detto ancora Melis - a fare finta di niente? Come si può tollerare una simile violazione di diritti elementari della persona umana? Noi - ha concluso il parlamentare sassarese - chiediamo con forza che si acceleri l’apertura del nuovo carcere e si ponga fine a questa situazione gravissima”. C’è da dire che il dibattito sull’apertura del nuovo carcere di Bancali ha avuto nuovo impulso a seguito delle dichiarazioni del ministro della Giustizia Paola Severino che, in realtà, aveva fatto riferimento alla possibile riapertura dell’Asinara. In realtà, l’obiettivo finale sembra essere quello di puntare sull’apertura della sezione 41 bis a Bancali. Gela (Ct): nel nuovo carcere mancano 50 agenti, l’educatore lavora due giorni la settimana La Sicilia, 9 aprile 2012 Sono 82 i detenuti attualmente ospitati al carcere di contrada Balate, dieci meno delle capacità ricettive della struttura. Ma ci sono stati momenti in cui si è toccato quota novanta cioè il pienone. Riempire un piccolo carcere, con il sovraffollamento che c’è in Sicilia ed in Italia non è difficile. I gelesi attualmente detenuti nel carcere vicino casa sono trenta. Il personale è rimasto però quello che era al momento dell’inaugurazione lo scorso novembre: 50 agenti di polizia penitenziaria a fronte di una pianta organica che ne prevede il doppio. Un solo educatore al carcere di Gela mentre ne servirebbero almeno due. L’educatore peraltro è presente solo due volte la settimana. Troppo poco per l’importante lavoro che svolge e che è indispensabile supporto alle decisioni del magistrato di sorveglianza. I detenuti nel carcere di Gela ancora non possono svolgere attività ricreative e lavorative. Solo qualcuno di loro è impegnato in cucina come cuoco e qualche altro è addetto alle pulizie degli spazi comuni. Un regalo pasquale per tutti i detenuti dall’Associazione Cittadini Attivi Una carriola, un raschietto, un rastrello, due zappe, tre badili, un piccone e due pc: autotassandosi l’Associazione cittadini attivi guidata da Carlo Varchi ha acquistato e donato per Pasqua i queste attrezzature ai detenuti del carcere di Balate perché possano impegnare il tempo in modo utile, a curare il giardino della struttura penitenziaria o a imparare l’uso del computer. Ieri pomeriggio per la consegna dei materiali si sono recati al carcere il presidente di Cittadini attivi Carlo Varchi con i soci Filippo Franzone, Sebastiano Scaglia e don Aldo Contrafatto. Assente per gravi motivi familiari il vice presidente Vincenzo Catania che si è molto speso per questa iniziativa. Con loro c’era il Garante per i diritti dei detenuti sen. Salvo Fleres. Ad accoglierli l’ispettore Luigi Carfì con alcune guardie penitenziarie. “Abbiamo lottato per l’ apertura del carcere come cittadini ed attivisti. Oggi non vogliamo che il carcere rimanga un’isola deserta lontana anni luce dalla città. Assieme a garante dei detenuti attueremo un percorso pedagogico e di educazione programmando alcuni obiettivi fondamentali” - ha commentato Carlo Varchi. Il senatore Fleres si è soffermato sulla necessità che il periodo di carcerazione diventi occasione per recuperare dignità. “È importante - ha detto il Garante dei detenuti - che in carcere i detenuti seguano un percorso di recupero. Ci guadagnano loro ma anche la società. A Caltagirone i detenuti producono ceramica, a Siracusa dei biscotti molto buoni che hanno chiamato dolci evasioni. Qui a Gela ancora non c’è questa opportunità. Perciò plaudo all’iniziativa di Cittadini attivi ed invito altre associazioni ed i club service della città ad imitarla. Spesso servono anche indumenti, soprattutto per gli extracomunitari detenuti”. Don Aldo Contrafatto ha puntato l’accento sulla possibilità dell’ uomo di pentirsi e sul fatto che anche in carcere va rispettata la dignità dell’uomo. Durante la vista ai detenuti fatta con Fleres e Varchi don Aldo è rimasto colpito dall’ accoglienza riservata dai detenuti. “Sono in gran parte detenuti giovani - ha raccontato il sacerdote - hanno gradito la visita e gli auguri pasquali. Hanno chiesti di avere dei palloni per poter giocare al calcio. Ho promesso loro che al più presto li avranno. Mobiliterò la communito buterese. C’è un teatro all’interno. Spero che in estate si possa organizzare uno spettacolo con il team di Insieme come è stato fatto all’Ucciardone”. Trento: “La mia vita col braccialetto”, alle “Iene” per parlare dei domiciliari particolari Il Trentino, 9 aprile 2012 Il volto è coperto ma non ci sono dubbi. Il testimonial scelto dalle “Iene” per sostenere l’utilizzo massiccio del braccialetto elettronico, è il trentino Arrigo Poletti. Che ha aperto le porte della sua casa sopra il Buonconsiglio alla “iena” Luigi Pelazza per raccontare la sua vita ai domiciliari con un braccialetto (in realtà si allaccia alla caviglia) che lo tiene monitorato 24 ore su 24. Arrigo Poletti è stato uno dei primi in Italia ad utilizzare questo strumento che gli ha permesso di lasciare il carcere - dove è stato per 14 mesi come lui stesso a raccontato nella trasmissione andata in onda giovedì sera - e continuare a scontare la pena a casa sua. In televisione (dove lo hanno chiamato “Mario”) ha spiegato di esser stato condannato per una bancarotta fraudolenta tre anni fa. “Ho fatto 14 mesi di carcere preventivo - ha spiegato al microfono della trasmissione di Italia Uno - e dopo due volte che mi sono stati negati gli arresti domiciliari, mi sono stati concessi con l’uso del braccialetto”. Ha poi mostrato la centralina che manda un segnale d’allarme nel caso di comportamenti che siano vietati. Ha spiegato come all’interno della casa possa muoversi in tranquillità e possa accedere anche al giardino fino al cancello d’ingresso. “Potrei andare fino lì - ha spiegato indicando un punto ad un paio di metri dal cancello - ma non mi fido e quindi resto qui”. Poletti ha raccontato anche del periodo passato in carcere: “È stata particolarmente dura - ha detto - si trattava di un carcere molto vecchio (la casa circondariale di via Pilati, ndr) e sovraffollato. La cella era di sette metri quadri ed eravamo in tre persone”. Insomma ora si trova in una situazione molto diversa e come ha sottolineato lo stesso Pelazza, più “umana”. Il servizio voleva evidenziare come l’uso del braccialetto elettronico potrebbe risolvere anche i problemi di sovraffollamento delle carceri italiana ma che in realtà è utilizzato pochissimo. In Italia, è stato spiegato, è in uso solo in tre casi. Il braccialetto elettronico è indossato alla caviglia e un’unità di sorveglianza locale, simile ad una comune radiosveglia, viene installata nell’abitazione del soggetto e riceve i segnali inviati dal braccialetto all’interno di un perimetro ben definito. Il detenuto deve rimanere nel raggio di comunicazione delle due periferiche: in caso contrario scatta immediatamente l’allarme. Se il detenuto si muove al di fuori del perimetro prestabilito - o danneggi in qualche modo il braccialetto o la centralina - viene immediatamente avvertita la centrale operativa delle forze dell’ordine. L’operatore quindi può immediatamente mettersi in contatto telefonico con il soggetto per ottenere spiegazioni in merito al segnale di allarme. In caso di evasione, viene immediatamente inviata sul posto la pattuglia. Stati Uniti: il boia diventato abolizionista “sono un assassino, nessuno mi ha punito” La Stampa, 9 aprile 2012 Sono un assassino, dice Jerry Givens, e nessuno mi ha mai punito. Ho ammazzato 62 persone, e mi hanno pure pagato. Mi ha pagato lo Stato, i contribuenti, perché di mestiere facevo il boia. Nel momento di premere il bottone mi sentivo come un drogato quando si inietta la dose, ma poi mi vergognavo così tanto, che a mia moglie e ai miei figli non ho mai raccontato la verità. Ora sono pentito, ma non ho rimorsi, per una sola ragione: so che Dio mi aveva messo laggiù per un motivo, e per un motivo preciso mi ha fatto uscire. Devo fermare la pena di morte. Storie così non se ne sentono spesso, perché in genere i boia preferiscono restare anonimi. Qualcuno non regge al peso del rimorso e si suicida, come hanno fatto a New York Dow Hover e John Hulbert. “Sono stanco di ammazzare gente”, disse Hulbert, prima di spararsi. Invece Jerry Givens, 59 anni, ne è venuto fuori, e ora vuole raccontarci la sua vita con un libro intitolato “Another day is not a promise”. Era nato in una famiglia povera della Virginia e aveva perso il padre. Da giovane vide l’omicidio della ragazza a cui aveva appena chiesto di ballare: una lite, qualcosa. Le spararono, e si ritrovò il suo sangue tra le mani. Andò a lavorare in una piantagione di tabacco, ma lo licenziarono. Così fece domanda per diventare secondino: il posto giusto - pensò - per un armadio nero come me. Così giusto che gli chiesero di entrare nella squadra delle esecuzioni, straordinario per arrotondare lo stipendio: “Allora credevo che la pena di morte fosse un deterrente: se sai che ti uccidono, non uccidi. E poi in Virginia la pena di morte era sospesa. Accettai”. Ma la pena di morte tornò in vigore, e il 10 agosto del 1982 si trovò davanti al suo primo condannato. Si chiamava Frank Coppola, un ex poliziotto che aveva violentato e ucciso. “C’era ancora la sedia elettrica. Faceva caldo, nel sotterraneo. Frank era l’unica persona tranquilla in quella stanza. Alzò i pollici per dire che era pronto, e io feci partire la scossa. Potevi vedere il fumo e sentire l’odore della carne bruciata. Quell’odore si era piantato nelle mie narici, anche quando ero tornato a casa. Pensavo fossero i vestiti. Li lavai: niente. Era ancora là. E poi, quando mia moglie cucinava qualcosa, tornava”. Jerry è rimasto per 17 anni a capo dell’execution team della Virginia. Ha ucciso in totale 62 condannati, fra cui casi celebri come quello di Joseph ÒDell, che si professava innocente e ricevette una richiesta di grazia anche dal Papa. È passato dalla sedia elettrica all’iniezione letale: “Mi mandarono in Texas a imparare, perché nessun medico voleva partecipare”. Dall’istante in cui la condanna diventava esecutiva, i detenuti erano con lui: “Li accompagnavo a vedere per l’ultima volta la madre, la moglie, il figlio. Terribile. Li portavo a fare la doccia. Alcuni piangevano sotto l’acqua, altri scherzavano: meglio andare in Paradiso pulito. Poi pregavo per loro, anche se non volevano”. Ogni volta provava la stessa sensazione: “La chiamavo “executioner high”, come uno stato adrenalizzato che mi consentiva di uscire dalla realtà, mentre abbassavo la leva o rilasciavo il cocktail letale di farmaci. Dovevo trasformarmi per riuscirci, dovevo eliminarmi. Quella trasformazione poi restava li, poteva durare per settimane. Credo che mia moglie la notasse, ma non potevo spiegarla”. Nel 2000 arrivò la liberazione. Jerry comprò un’auto per uno spacciatore di droga, che conosceva da quando erano bambini. Dice che era innocente, ma lo condannarono per riciclaggio e perse il posto di secondino. Da, allora guida camion e si batte contro la pena di morte: “Dio mi ha detto: non ti preoccupare, vai fuori a salvare anime. Hai preso 62 vite, ma ne puoi salvare a milioni”. Libia: Saif Al-Islam Gheddafi non sarà consegnato a Corte Penale Internazionale dell’Aja Ansa, 9 aprile 2012 La Libia non consegnerà Saif al-Islam Gheddafi, il figlio più carismatico del rais libico Muammar (linciato lo scorso ottobre), alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. Lo ha ribadito oggi il ministro della Giustizia, Ali Ashour, dopo un incontro con una delegazione della Cpi giunta oggi a Tripoli proprio per discutere la questione. Ashour ha aggiunto che Saif al-Islam verrà processato nel suo Paese. Attualmente il figlio di Muammar Gheddafi è imprigionato in un carcere segreto degli ex rivoltosi di Zintan, quegli stessi che lo catturarono l’anno scorso. Il ministro della Giustizia ha spiegato che i giudici libici lo processeranno per corruzione, omicidio e stupro. Secondo Ashour poi, non è vero che Saif al-Islam sia stato picchiato e che non sia stato curato in modo adeguato. “Mangia con i suoi carcerieri ed è in buone condizioni”, ha detto il ministro, confermando che il suo ministero sta preparando un luogo di carcerazione per Saif al-Islam a Tripoli. Nel contempo sono in corso trattative con i leader di Zintan per trasferirlo nella capitale. Bahrein: no all’estradizione del militante sciita in sciopero fame in carcere Ansa, 9 aprile 2012 Il Bahrein ha rifiutato l’estradizione in Danimarca di un militante sciita - che ha anche passaporto danese - condannato all’ergastolo e che da due mesi sta compiendo uno sciopero della fame in carcere. “Le procedure penali sul trasferimento all’estero del condannato non si applicano al caso di Abdel al-Khawaja”, ha dichiarato l’Alto consiglio di giustizia, che si pronuncia sui casi di estradizione, citata dall’agenzia ufficiale del regno del Golfo, la Bda. Al-Khawaja è stato condannato per “cospirazione contro la monarchia sunnita” durante le proteste e gli scontri di piazza degli sciiti, che si sentono cittadini di serie B. La Danimarca ha chiesto la sua estradizione in quanto l’uomo ha un passaporto danese. Le condizioni di salute di al-Khawaja, dopo due mesi di sciopero della fame, sono entrate in una “fase pericolosa”, secondo quanto sostiene il partito di riferimento dell’opposizione sciita nel Bahrein, il Wafaq.