Giustizia: urgente abolire il carcere… cominciamo con amnistia e cancellazione del 41-bis di Piero Sansonetti Gli Altri, 6 aprile 2012 Il carcere esiste per tre ragioni. La prima è la sicurezza, la seconda è la rieducazione, la terza è la giustizia. Proviamo a esaminare queste ragioni, che corrispondono a tre “funzioni” che l’opinione pubblica (e in alcuni casi la Costituzione) assegna al carcere. La sicurezza: si pensa che rinchiudere nelle celle le persone che hanno violato la legge - e che perciò rappresentano un pericolo per la sicurezza personale, l’incolumità’ e il benessere delle persone che invece non hanno violato la legge - sia un. comportamento necessario da parte dello Stato. Si tratta di isolare gli autori dei delitti, immaginando una loro propensione alla violenza e alla sopraffazione. È così che stanno le cose? Ci sono due obiezioni. La prima è la “discutibilità” delle sentenze e anche delle “non sentenze”. E cioè la domanda: il nostro apparato giudiziario e i nostri codici, e più in generale la macchina della giustizia, sono davvero in grado di individuare con una qualche esattezza la maggior parte delle persone “socialmente pericolose”, o invece si limitano a colpire una piccola minoranza, molto spesso sbagliando, e in genere lo fanno sulla base di idee, leggi, abitudini, pregiudizi che portano in sé un forte carattere persecutorio? E se non fosse vera questa mia obiezione, come si può spiegare che la popolazione carceraria, per il novanta per cento, è costituita da tossicodipendenti, o cittadini stranieri, o autori di delitti minimi, e comunque - mi diceva tempo fa. un dirigente conservatore e molto autorevole del Dap - per il 95 per cento - secondo studi ufficiali - hanno un grado di pericolosità classificato come basso o inesistente? Mi pare che la prima ragione dell’esistenza del carcere, che è la più comprensibile, sia molto debole e funzioni pochissimo. La seconda ragione, la rieducazione, è prevista dalla Costituzione. Però nessuno, in buona fede, può sostenere che le carceri italiane siano in grado di svolgere un ruolo rieducativo. Per mancanza di personale, di strutture, di cultura, di interesse. È una ragione puramente teorica e retorica, senza alcuna consistenza. La terza ragione è quella più collegata alle pulsioni dell’opinione pubblica. Si ispira a questo motto popolare: “Chi sbaglia paga”. E all’idea antica secondo la quale lo Stato debba distinguere tra i suoi sudditi “giusti” e gli “ingiusti” e debba impedire che i giusti e gli ingiusti godano degli stessi diritti. E dunque che la punizione degli ingiusti e la limitazione dei loro diritti e della loro libertà sia un atto essenziale per creare “qualità etica” in una società moderna. Forse ci vuole un volume per smontare questa teoria. Qui mi limito a una domanda: che differenza c’è - in questo ordine di ragionamento - tra giustizia e vendetta? La vendetta è un atto attraverso il quale, con la punizione del reo, si risarcisce la vittima di un reato. E in che cosa consiste la funzione di “giustizia” dì un carcere, se non nell’esercitare una pubblica e adeguata vendetta? Allora mi chiedo: è ragionevole pensare che il superamento dell’idea di vendetta sia un prerequisito per quella grande riforma politica che può permettere effettivamente alle nostre società di entrare nella modernità, cioè di compiere un salto morale e sociale rispetto al secolo scorso? E se questa idea è ragionevole, non viene del tutto a cadere la funzione di “giustizia” del carcere? Ma se il carcere non ha una funzione di sicurezza, né un compito rieducativo, e se il suo ruolo di amministratore di Giustizia è antiquato e da superare, è chiaro che il carcere non ha più ragione di essere. Vorrei essere più preciso: è l’idea di punizione che non ha più ragione di essere. È una idea vecchissima, delle società antiche e che fu ampiamente superata, già duemila anni fa, dal pensiero cristiano (cioè dal pensiero di Cristo; la frase più bella del Vangelo è: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, dove si mettono in discussione sia la giustizia sia la punizione). Perché la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è ancora così fortemente legata all’idea di punizione come “centro motore” della giustizia e della eticità di una nazione? Per una ragione molto semplice: perché la politica non è riuscita ad elaborare una proposta di società libera, dove i diritti civili, e sociali ed economici crescono e si sviluppano non attraverso uno schema di repressione ma attraverso un ammodernamento delle relazioni pubbliche e delle relazioni personali. Il tema dell’abolizione del carcere pone il problema “epocale” dell’abolizione della punizione e della creazione di nuovi meccanismi nel funzionamento della società e nella amministrazione dei poteri dello Stato. E chiaro che è una strada lunga. Però bisogna iniziarla. Cioè non accettare il “veto” che viene dall’opinione pubblica persino a prendere in esame problemi di questo genere. Il rilancio di campagne libertarie, che sono in contro-tendenza e impopolari, è essenziale in questo inizio di secolo, soprattutto è essenziale per impedire quello che sta avvenendo: un salto all’indietro dello “spirito pubblico” sui temi della libertà e delle gerarchie. Come si può condurre questa battaglia? Per esempio - parlando di carceri - ponendosi due obiettivi immediati. L’amnistia, proposta con tanta forza dal Partito Radicale. E l’abolizione del 41 bis, - cioè del carcere duro che oggi viene imposto, in modo incivile, a tanti imputati per mafia - che rappresenta una vera vergogna, una infamità nella vita delle nostre carceri e nei nostri ordinamenti (e che oltretutto viola in maniera plateale l’articolo 13 della costituzione). Giustizia: intervista a Marco Pannella; amnistia negata… è l’Italia ad essere fuori legge di Andrea Colombo Gli Altri, 6 aprile 2012 Dopo decenni di onoratissima carriera Marco Pannella lo conosciamo bene: è uno che non si arrende mai, batte e ribatte fino a che non incrina anche il muro più spesso. I politicanti d’ogni risma continuano a fare spallucce di fronte alla sua proposta di amnistia, e lui organizza a Roma una seconda marcia dopo quella natalizia di sette anni fa. Doveva svolgersi per Pasqua, sarà invece per il 25 aprile e la simbologia è forse anche più azzeccata. Mica male una marcia per l’amnistia il 25 aprile! Sette anni fa la prima marcia, quella a cui vennero Cossiga, Napolitano e persino D’Alema, registrò una adesione quantitativamente e qualitativamente senza precedenti. Nessuno mette in dubbio che da allora la situazione sia atrocemente peggiorata da tutti i punti di vista. Il questore di Roma ci aveva parzialmente vietato il percorso che avevamo comunicato per la marcia di Pasqua, in base al combinato disposto delle norme di Maroni e Alemanno. Così abbiamo scelto il 25 aprile, che va benissimo perché cos’è oggi la Liberazione se non liberazione del diritto umano, dei nuovi diritti, della democrazia, e dei carcerati, certo, ma anche dei funzionari che vogliono servire lo Stato e non essere complici di una patente violazione delle leggi? Non a caso la marcia è per una triade dí obiettivi non disgiungibili: amnistia-diritto-libertà. Perché parli di patente violazione della legge? Da trent’anni noi veniamo condannati ogni anno dalla giurisdizione europea. Le ultime condanne sono anche più tassative di quelle precedenti, perché evocano la violazione dei diritti umani e non più solo di quelli civili e dello Stato diritto, cosa peraltro già gravissima. Quindi l’amnistia di cui parliamo noi non è quella che chiese Giovanni Paolo. II, col quale pure eravamo in forte sintonia. La sua era la richiesta di un atto di clemenza. Noi facciamo un altro ragionamento: siamo o non siamo di fronte alla manifesta flagranza di un reato compiuto? Certamente sì. Ma di fronte a un reato in manifesta flagranza si interviene, lo si interrompe e poi si discute, Questo non solo per obbligo morale ma anche perché lo impone la legge. Se vedo uno che ammazza un altro e non intervengo incorro in una specifica e precisa fattispecie di reato. Bene, ciascuno di noi, nell’arco di un paio d’ore, assiste a quattro o cinque omicidi in una rissa senza poter intervenire, pur avendone l’obbligo, perché le leggi dello Stato ce lo impediscono. Peggio di quel che avveniva nel comunismo, nel fascismo e persino nel nazismo almeno fino al 1938-39. Non sarà un po’ forte come paragone? Per niente. Oggi la distanza del nostro Stato dalla legalità internazionale è qualitativamente dello stesso tipo e quantitativamente maggiore di quanto non fosse fino al 1938 quella degli Stati totalitari rispetto alla giurisdizione internazionale di allora. Quando in un territorio gli abitanti e lo Stato vivono contro il diritto, la legalità e le stesse leggi violandole in modo massiccio, ci si trova di fronte a una metamorfosi dello stesso male che aveva assunto le forme del fascismo, del comunismo, del nazismo e dei vari modelli che ne sono poi discesi. Prima parlavi di funzionari dello Stato che condividono questa sensibilità e questo punto di vista? Sì, e sono moltissimi. Il segretario del Sidipe, il sindacato dei dirigenti penitenziari, Enrico Sbriglia, ha scritto delle pagine splendide in cui dice “Noi vogliamo e dobbiamo comportarci come servitori dello Stato, non come sicari o complici degli assassini e di chi viola le leggi”. Identico ragionamento fanno sempre più spesso gli agenti della polizia penitenziaria, che tra l’altro lavorano per 14 ore al giorno con straordinari non pagati, non ce la fanno a stare dietro a tutto, vedono le loro famiglie saltare... Ormai anche tra loro i suicidi sono molti. Andiamo all’obiezione che vi viene mossa più spesso: l’amnistia non risolve il problema, tra un anno ci si ritrova punto e a capo... E una stupidaggine. L’amnistia è invece una riforma strutturale. Il vero problema che ci pongono oggi la giurisdizione europea e il diritto internazionale è che il fatto carcerario, in Italia come in una parte consistente del mondo, è legato a un altro fatto che in sé non sembrerebbe clamoroso: la non ragionevole durata dei processi. Insisto su questa formula letterale, perché nel diritto romano come in quello canonico traspare con chiarezza ciò che è pacifico nella dottrina, e cioè che tra l’evento preso in considerazione, l’ipotetico reato, e il giudizio deve esserci almeno un minimo di compattezza cronologica. In caso contrario si tratta di un’ipoteca che grava fatalmente sulla sentenza. Una riforma che accelerasse i tempi della giustizia sarebbe senza dubbio strutturale. Ma l’amnistia? Oggi amnistia non significa più solo fare uscire la gente dalle carceri. Con l’amnistia si ritiene che verrebbe a cadere l’80% dei procedimenti e dei processi penali in corso. Quel 20% che rimarrebbe, costituirebbe o no una struttura completamente diversa? Un palazzo di due piani è o non è strutturalmente diverso da uno di 50? Inoltre si affronterebbe finalmente un problema sulla cui urgenza tutti, farisaicamente, dicono di essere d’accordo: la vergogna per cui il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio, e la metà di quel 42% verrà alla fine giudicata innocente. Questo è il discorso, e in trent’anni non è stato possibile una sola volta andare a spiegarlo in una trasmissione televisiva che avesse una massa critica considerevole, con quattro o cinque milioni di spettatori. Cosa ti aspetti sul fronte dell’oscuramento mediatico da questa marcia? Un momento eccezionale di democrazia nel nostro Stato, che non è né democratico né di diritto. Sono trent’anni che chiedo un dibattito pubblico e non relegato in fasce e orari dove non se ne accorge nessuno, su questo tema: cosa si può fare quando uno Stato chiaramente viola non solo la giurisdizione e la legalità superiore ma direttamente la massima espressione della propria stessa legge, la Costituzione, e a scendere tutto il corpo delle leggi. Un dibattito così sarebbe sufficiente: i credenti, cioè i cattolici e i comunisti, plebisciterebbero questa richiesta come fecero con il divorzio, l’aborto e l’obiezione di coscienza. Con chi lo vorresti questo dibattito pubblico? L’importante sarebbe far assistere di nuovo a un dibattito democratico e serio. Per il resto sono todos caballeros: con la stessa Severino, ma anche, al limite, con Rodotà o Zagrebelsky, se per una volta si decidessero a porre il problema. Permettimi una digressione: come giudicate voi radicali questo governo? Come un incidente positivo del sistema partitocratico. Noi andavamo quasi con certezza verso il default e non solo dell’Italia perché avremmo contagiato l’intera Europa. Questa certezza derivava dal fatto che da un lato c’era Berlusconi a sputtanare tutto, ma dall’altro non c’era un solo Stato estero che facesse un’oncia di credito in più ai suoi oppositori. Questo governo è costituito da estranei per formazione e cultura al regime partitocratico e questo rappresenta di per sé un grosso passo avanti. Il default italiano è di conseguenza europeo è ancora probabile ma non più quasi certo. In questa situazione noi ci troviamo a nostro agio, perché la nostra storia si potrebbe sintetizzare proprio così: far sempre giocare il possibile contro il probabile. Sette anni fa l’attuale capo dello Stato marciò con voi. Una volta arrivato al Quirinale non si è fatto sentire molto... Io lo ho detto apertamente al presidente della Repubblica: questo Stato e questa Repubblica sono ormai anti-democratici, direi nemmeno per cattiveria. Violano i diritti umani fondamentali senza nemmeno accorgersene e il tuo dramma è che sei costretto a essere il primo violatore. Con la tua grande esperienza politica, o politicante, hai contribuito a evitare il default, ma al prezzo di fare tu il premier e di intervenire quotidianamente, usando di fatto lo strumento della comunicazione ufficiale di Stato a reti unificate. Allo stesso modo il 27 luglio scorso Napolitano aveva posto l’urgenza del problema giustizia, ma dieci giorni dopo, con migliaia di detenuti in sciopero della fame e della sete, da Nisida, ha detto, dopo aver marciato il 27 dicembre del 2005 con noi, che il problema non era maturo. In fondo è una storia che si ripete, è come quando noi, con Silone, eravamo schierati con i dissidenti russi e i refusnik pagando anche il prezzo di qualche arresto e qualche assassinio: Lui riteneva invece, in polemica con Giolitti, che la prospettiva e la moralità della rivoluzione, comportassero il prezzo che si stava pagando a Budapest. La differenza è che oggi i refusnik sono da noi, ma lui non li vede allo stesso modo. Giustizia: un “braccialetto” da 9 milioni di euro per la Telecom di Maurizio Tortorella Panorama, 6 aprile 2012 La buona notizia è che il prezzo cala: fino al 31 dicembre 2011 il ministero dell’Interno spendeva quasi 11 milioni di euro l’anno, mentre da gennaio sono “solo” 9. La cattiva notizia è che sono ancora lì: i braccialetti più costosi e inutili nella storia della giustizia italiana, gli apparecchietti elettronici che dovrebbero servire per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari, sono stati confermati in una nuova convenzione tra il Viminale e la Telecom, presieduta da Franco Bernabè. È dall’aprile 2001, fine del governo Amato, che l’Italia si gingilla con questi carissimi gingilli. In 10 anni lo Stato ha speso 110 milioni. Il problema è che non servono a nulla. I braccialetti sono stati applicati alla caviglia di un numero irrisorio di detenuti: 14 in tutto, sette dei quali fra settembre e ottobre 2011, con una clamorosa, inusitata accelerazione. Eppure il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, ha firmato un nuovo contratto, valido fino al 2018: altri 63 milioni, che porteranno la spesa totale a 173. Interpellata da Panorama, la Telecom rivela, oltre alla durata e alla cifra, alcune caratteristiche della nuova convenzione: nel prezzo di 9 milioni all’anno (ma Rita Bernardini, deputato radicale in commissione Giustizia, dice che a lei “risulta siano ancora 10 milioni”) rientrano il lavoro della centrale operativa di Oriolo Romano e “una serie di servizi elettronici” per il Viminale, come nuove linee di comunicazione, fisse e mobili. Inoltre, i braccialetti aumentano da 400 a 2mila; e 200 saranno dotati della possibilità di controllo satellitare che forse ne permetterà un uso un po’ più ampio, per esempio su quanti siano vincolati a un obbligo di residenza. Proprio le innovazioni contrattuali, però, hanno acceso forti perplessità: al ministero della Giustizia c’è chi oggi ritiene sarebbe stata necessaria una regolare gara d’appalto. Lo stesso guardasigilli, Paola Severino, che in novembre si era espressa contro la prosecuzione della convenzione sui braccialetti (“Non è conveniente e non vorrei fosse rinnovata senza verifica di costi e benefìci”), ha appreso della firma a cose fatte e con grande irritazione. In effetti, la convenzione è di competenza esclusiva del Viminale, che gestisce i braccialetti. Ma questa è un’altra evidente assurdità della vicenda, visto che poi è il ministero della Giustizia che deve occuparsi dei detenuti. Giustizia: Sappe; sedi periferiche sguarnite di poliziotti, per potenziare sede del Dap Comunicato stampa, 6 aprile 2012 “L’Amministrazione Penitenziaria continua a sorprenderci ogni giorno per l’irrazionalità del suo agire, che calpesta impunemente la trasparenza e le regole. Le cose che succedono hanno dell’incredibile e sono di una sfrontatezza inaccettabile: dopo avere annunciato - a parole - di voler mettere mano alle tante cose che non vanno nel Corpo e nell’Amministrazione è notizie di questi giorni, di queste ore, che una decina di poliziotti penitenziari sono stati distaccati dalle carceri che piangono Personale di Polizia nella più comoda sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma dove ci sono già oltre 300 poliziotti distaccati da tempo a non si sa quale titolo. Questa è una vergogna! Certi provvedimenti non possono e non devono passare nel silenzio perché dimostrano la schizofrenia di una Amministrazione che calpesta sfrontatamente regole, trasparenza e democrazia! Mi appello al Ministro della Giustizia Severino perché ripristini regole e diritti al Dap”. Durissimo il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo Sindacato dei Baschi Azzurri, ad alcuni provvedimenti emanati dall’Amministrazione Penitenziaria. “Si sguarniscono le carceri - dove mancano 7mila agenti e dove non si garantiscono le condizioni minime di sicurezza ai pochi agenti che lavorano nelle sezioni detentive, dove (come a Rieti) il nuovo penitenziario è aperto al 30% proprio perché non ci sono agenti, dove ottenere un distacco temporaneo soprattutto dal Nord al Sud è impresa quasi impossibile - e poi si mandano 10 agenti dalla prima linea del carcere alla comoda sede romana del Dipartimento. Sede per la quale da tempo chiediamo di fissare un organico, visto che non c’è e dove ci risultano già distaccati circa 300 poliziotti presi non si sa come dalle varie carceri d’Italia. È una vergogna contro la quale scenderemo ancora una volta in piazza per sbugiardare questa classe dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria che è come il famoso Giano Bifronte; predica bene e razzola male”. Capece ricorda infine che “il 4 aprile scorso il Sappe ha manifestato davanti alla sede dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma contro quella vecchia nomenclatura e quella dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria - di brezneviana memoria - che da vent’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia penitenziaria. Che si ostina a boicottare non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria e l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indispensabile e necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese. Che sguarnisce le carceri per rimpolpare i già affollati corridoi ministeriali. E in piazza il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, tornerà molto presto”. Giustizia: lettera del terrorista Carlos “pronto a dire quello che so su strage Bologna” Adnkronos, 6 aprile 2012 Illich Ramirez Sanchez, soprannominato Carlos ‘lo Sciacallo’, noto terrorista venezuelano, ha inviato la missiva dal carcere di Poissy a Parigi, dove è detenuto, all’avvocato bolognese Bordoni per nominarlo suo difensore. “Sono pronto a dire tutto ciò che so sulla strage del 2 agosto”. Lo scrive Illich Ramirez Sanchez, soprannominato Carlos “Lo Sciacallo”, noto terrorista venezuelano, in una lettera inviata dal carcere di Poissy a Parigi, dove è detenuto, all’avvocato bolognese Gabriele Bordoni per nominarlo suo difensore. La lettera è stata pubblicata oggi su “Il Resto del Carlino”. La procura di Bologna ha recentemente aperto sulla strage un fascicolo bis e indagato due terroristi di sinistra Christa Margot Frolich e Thomas Kram, tedeschi entrambi ex membri del gruppo di Carlos. Si tratta della cosiddetta pista palestinese. “Egregio signore, ho appena ricevuto la sua lettera del 12 marzo scorso - scrive nella lettera. Vorrei aiutarla ad eliminare gli ostacoli al fine di trovare i veri responsabili dell’attacco terroristico di Bologna”. “Tuttavia - continua Sanchez - dovremo incontrarci qui di persona non appena possibile al fine di preparare il miglior approccio tecnico per smantellare il muro di bugie che hanno bloccato la verità degli anni di sanguinari massacri di civili innocenti avvenuti in Italia”. “Ci faccia sapere con largo anticipo - conclude Carlos - la data della sua visita”, e firma “Vostro nella Rivoluzione, Carlos”. Liguria: legge sul Garante delle carceri approda in Commissione regionale Ansa, 6 aprile 2012 È approdato in Commissione regionale la legge sul Garante delle carceri presentata da Sel e Italia del valori. Ieri, in fase di audizione, sono stati ascoltati i Sindacati di polizia penitenziaria e il responsabile della Conferenza regionale Volontariato e Giustizia. Il primo firmatario è stato Matteo Rossi, capogruppo regionale di Sel che dichiara: “È un organismo di garanzia per le persone in stato di privazione o limitazione di libertà ma bisogna essere chiari: non va intesa come una figura sostitutiva delle autorità competenti, piuttosto come figura di mediazione”. Padova: infarto scambiato per gastrite… medico carcere a processo, dopo morte detenuto Il Mattino, 6 aprile 2012 Sarà processata l’11 ottobre per omicidio colposo la dottoressa Orizia D’Agnese, quarantunenne medico in servizio nel carcere Due Palazzi, la struttura penitenziaria per i detenuti giudicati in via definitiva. Lo ha deciso ieri il gup Paola Cameran, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Orietta Canova che ha coordinato l’inchiesta sulla morte di Federico Rigolon, 37 anni, originario di Montecchio Vicentino. L’uomo stava scontando la pena nel carcere padovano quando venne stato colpito da un infarto scambiato per una banale gastrite. Un infarto che gli aveva procurato un dolore lancinante durato quasi ventiquattr’ore. Tuttavia il medico di guardia, Orizia D’Agnese, non aveva creduto alle lamentele del detenuto che avrebbe potuto essere salvato secondo le conclusioni degli esperti nominati dalla procura, il professor Gaetano Thiene e il medico legale Claudio Terranova. Il 16 aprile dell’anno scorso Rigolon chiede di essere visitato nell’infermeria del Due Palazzi: avverte un dolore molto forte nella parte superiore dell’addome, la cosiddetta regione epigastrica. La dottoressa D’Agnese lo visita e diagnostica una gastrite, prescrivendo dei farmaci gastroprotettori. Inutile: quel dolore non passa. Anzi, è sempre più violento. Rigolon torna di nuovo in infermeria il 17 aprile alle 7,45. Inutile: la diagnosi non cambia. E, nonostante la sua richiesta di essere trasferito in ospedale, la dottoressa si limita a prescrivere ranitidina per curare la gastrite acuta e Buscopan per contrastare il dolore. Infine, quando Rigolon si presenta per la terza volta davanti al medico intorno alle 11,40 e, con irruenza più che comprensibile, grida esasperato di non farcela più e di sentire un male insopportabile, la dottoressa si risente. Tanto che nel diario clinico riferito al paziente-detenuto segnala il suo comportamento arrogante, aggressivo e privo di rispetto nei suoi confronti. Al vicentino non resta che tenersi quella fitta e assumere altre compresse contro la gastrite, fino a quel momento prive di qualunque effetto. Il medico, piuttosto spazientita, lo invita anche a smettere di fumare. Poche ore più tardi, nel pomeriggio, durante il consueto controllo la polizia penitenziaria si accorge che l’uomo, steso nel letto della sua cella, non si muove. Troppo tardi: Federico Rigolon è già morto, ucciso da un infarto miocardico acuto. Per salvargli la vita sarebbero stati sufficienti una coronarografia con angioplastica coronarica e l’applicazione di uno stent. Ma il paziente avrebbe dovuto essere trasferito d’urgenza in ospedale, come lui stesso aveva reclamato con insistenza. Invece non era stato creduto. Genova: Sappe; nuovo direttore al carcere di Pontedecimo, 96 posti, 190 detenuti Ristretti Orizzonti, 6 aprile 2012 Cambio tutto “in rosa” alla guida del carcere genovese di Pontedecimo, dove è in cella anche una bimba di 2 anni con la mamma detenuta. “Da qualche giorno è Maria Isabella De Gennaro la nuova direttrice del carcere di Pontedecimo, che ha sostituto Maria Milano destinata agli Uffici del Provveditorato regionale della Liguria” conferma Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). Il sindacato sottolinea ancora una volta le criticità del carcere genovese: “Pontedecimo è un carcere nel quale i posti letto regolamentari sono 96 ma i detenuti stabilmente presenti sono circa 190 (equamente ripartiti tra uomini e donne), più del 50% dei quali stranieri. Al Reparto di Polizia Penitenziaria mancano in organico 46 poliziotti e poliziotte (ce n’è in forza 115 e dovrebbero essere 161). Oggi a Genova Pontedecimo, unico istituto di pena della Liguria con sezioni detentive femminili e con un asilo nido proprio per i bimbi delle detenute, c’è anche una bimba di 2 anni in carcere con la mamma detenuta”. Va però messo in luce, su questa particolare situazione penitenziaria, l’impegno delle donne con il Basco Azzurro del Corpo, a Pontedecimo e negli altri 16 asili nido delle carceri italiane “ed è grave che la Liguria - conclude Martinelli - e la città di Genova in particolare siano a tutt’oggi inadempienti rispetto alla individuazione di un Istituto a custodia attenuata per madri detenute con bimbi fino a sei anni di età. Argomento, questo e quello delle criticità penitenziarie genovesi, rispetto ai quali sarebbe interessante che anche i candidati alla guida della città si esprimessero con possibili soluzioni e proposte”. Pisa: sopralluogo al carcere Don Bosco dalla conferenza dei capigruppo consiliari Il Tirreno, 6 aprile 2012 Il sopralluogo effettuato ieri mattina dalla conferenza dei capigruppo consiliari al carcere Don Bosco ha ribadito le criticità della casa circondariale riguardo allo stato dei detenuti, alle condizioni di lavoro del personale e alla struttura dello stabile. Prosegue così l’impegno del consiglio comunale nei confronti del penitenziario cittadino, protagonista di un susseguirsi di recenti accadimenti che si sono imposti all’attenzione generale: dall’evasione di due detenuti al cambio del direttore, fino alle manifestazioni di protesta del personale interno. “Con la visita di ieri abbiamo voluto dare un segnale politico di impegno e attenzione volto a migliorare l’attività del carcere”, ha sottolineato Titina Maccioni, presidente del consiglio comunale. Tutte le forze politiche concordano sulla necessità urgente di intervenire sulla situazione di degrado in cui versa la struttura, che non dispone di una sala d’attesa per i familiari dei detenuti, costretti ad attendere per ore all’aperto, né di un’area di accoglienza adeguata per permettere incontri e colloqui. “Anche il centralino, il controllo carcerario e l’impianto di telecamere interne - è stato sottolineato - sono carenti e inadeguati, così come gli spazi riservati a detenuti e personale, che sottolineano la vetustà della struttura”. Il contributo più concreto che l’amministrazione comunale intende offrire, insieme all’investimento di risorse economiche, è anche quello di un intervento diretto su soggetti che gestiscono attività interne al carcere. Un esempio è la possibile revisione dell’impianto idrico, gestito da Acque Spa, che con le sue perdite di acqua costa 600mila euro all’anno di consumi. Anche la fornitura di arredi e materiale sanitario per l’ospedale interno, a cura della Asl, può essere sollecitato dal mondo politico, che si dice disposto alla adozione di convenzioni atte a risolvere alcuni problemi specifici. È ferma, dunque, la volontà da parte del Comune di non considerare il Don Bosco un corpo estraneo alla città, ma una parte importante e integrante di essa, da sostenere nelle difficoltà con un monitoraggio periodico e da aiutare con azioni concrete. Bolzano: i Sindacati di Polizia penitenziaria; nel nuovo carcere pochi alloggi per gli agenti Alto Adige, 6 aprile 2012 Il sindacato “Sappe” e il consigliere di Unitalia Luigi Schiatti hanno convocato una conferenza stampa per denunciare il fatto che il progetto del nuovo carcere prevede alloggi insufficienti per il personale. Il nuovo carcere, previsto a Bolzano Sud, prevede un considerevole aumento della capacità ricettiva delle popolazione penitenziaria rispetto alla casa circondariale di Via Dante, indicata fino alla misura di 250 posti nel Piano carceri del Ministero. Questo nuovo insediamento comporterà un vigoroso rafforzamento anche del personale di servizio e amministrativo che fa riferimento direttamente alla struttura. “Nel nuovo piano di attuazione adottato dal Consiglio comunale di Bolzano - scrive Schiatti - si scorge la previsione per la costruzione nel compendio dai 12 ai 22 alloggi per il personale nonché 150 di casermaggio. Si tratta di misure che il personale impiegato e in particolare il sindacato maggiormente rappresentativo, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), reputa insufficienti e non rispondenti all’effettiva consistenza della domanda. Dinanzi a questa prospettiva si intende chiedere delle soluzioni più aderenti alle esigenze operative”. Civitavecchia (Rm): sventato un tentativo di evasione al carcere di borgata Aurelia Asca, 6 aprile 2012 Una barra di ferro come rampino e una corda fatta con lembi di lenzuola intrecciati per scavalcare il muro. Così quattro detenuti del carcere di Borgata Aurelia avevano pensato di poter evadere. I reclusi, però, non avevano fatto i conti con il personale della Polizia Penitenziaria e con il livello massimo di sicurezza nella struttura, innalzato da circa due anni, considerando che dalle disposizioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il carcere cittadino contiene anche soggetti che sono detenuti per reati gravi come quelli di mafia, terrorismo e spaccio internazionale di stupefacenti. Il tentativo di evasione è stato scoperto mercoledì scorso. La sera, nel corso dei normali controlli, gli agenti hanno trovato la corda e la barra nascoste nelle due celle occupate dai quattro detenuti, tutti dell’est europeo. Le celle non erano confinanti, ma il piano era comune. Immediatamente il comandante del reparto della Polizia Penitenziaria, il commissario Egidio Giramma, ha fatto scattare perquisizioni a tappeto a vasto raggio, che hanno interessato l’intero penitenziario. L’Ufficio Comando, coordinato dal commissario Giramma e dal commissario Giovanna Calenzo, al momento sta svolgendo le indagini sul caso. I quattro detenuti sono stati perseguiti in via disciplinare per alcune infrazioni amministrative che saranno risolte in sede disciplinare dal direttore del carcere di Borgata Aurelia, Silvana Sergi, che intanto annuncia il loro trasferimento in un altro penitenziario, dove saranno sottoposti ad un regime carcerario più duro. L’intervento tempestivo ed efficace degli agenti, che hanno sventato il tentativo di evasione, è anche l’occasione però per sottolineare ancora una volta la situazione difficile in cui è costretta ad operare la Polizia Penitenziaria. In una nota, si sottolinea infatti che il personale in servizio risulta carente ormai da diversi anni e non è mai stato integrato da altre unità. Il tutto, mentre il carcere di Borgata Aurelia è arrivato ad avere circa 600 reclusi, gran parte in attesa di giudizio. Una situazione difficile, che sarebbe potuta degenerare in un’evasione. Enna: martedì prossimo delegazione Fli in visita al carcere La Sicilia, 6 aprile 2012 Martedì prossimo l’onorevole Fabio Granata, uno dei più rappresentativi personaggi di Futuro e Libertà sarà a Enna per visitare il carcere. Sarà accompagnato da una delegazione del Fli, formata dal segretario provinciale Alessandro Gravina, il vice Sinue Curcuraci, il capogruppo al consiglio comunale Dante Ferrari, e il componente della segreteria provinciale Luca Di Salvo. Il carcere ennese in questo periodo è sotto osservazione per tanti motivi a cominciare da una struttura fatiscente e con un’ala rammodernata, ma ancora non utilizzata per ostacoli burocratici. La struttura carceraria è sovraffollata e di contro ha un personale penitenziario insufficiente per il 30 per cento. La struttura del carcere ha bisogno di urgente interventi per eliminare le infiltrazioni di acqua nelle giornata di pioggia che obbligano i poliziotti penitenziari a non utilizzare alcuni locali e quel che è di più spostare in altre celle dei detenuti. Il carcere di Enna è stato attenzionata da deputati del Partito radicale e dal senatore Salvo Fleres, garante dei detenuti. Tutti hanno condiviso il fatto che la struttura abbisogna di lavori urgenti per eliminare le infiltrazioni, per rendere più agibili alcuni locali, celle comprese. Si è anche parlato della possibilità di costruire un nuovo carcere, magari fuori Enna, mentre l’attuale struttura potrebbe essere abbattuta per realizzare un parcheggio multipiano che ad Enna manca e di cui si sente la necessità visto che mancano dei parcheggi. Qualche passo avanti è stato fatto, e la visita dell’onorevole Granata potrebbe essere, in questo senso, molto positiva in quanto potrebbe accelerare le procedure per ottenere il via libera dal ministero competente. Oristano: i parenti lo rifiutano, carabinieri aiutano ex detenuto La Nuova Sardegna, 6 aprile 2012 Triste vicenda a Ghilarza, nell’Oristanese, che ha visto protagonista un rumeno di 44 anni appena uscito dal carcere. L’uomo, ieri notte, dopo aver lasciato la casa circondariale dove è rimasto detenuto per qualche mese si è rivolto ai suoi familiari che pero’ lo hanno respinto senza fornirgli alcuna assistenza. Dopo aver vagato per qualche ora senza meta per il paese il poveretto ha chiesto aiuto ai carabinieri della compagnia di Ghilarza, gli stessi che lo avevano arrestato qualche mese prima. I militari, dopo averlo rifocillato lo hanno fatto visitare dai medici del pronto soccorso dell’ospedale locale. I carabinieri hanno anche trovato una sistemazione provvisoria all’uomo che oggi dovrebbe raggiungere le campagne del Nuorese dove ha trovato un lavoro. Bari: Cgil; il 6 aprile a iniziativa “Restituire diritti e dignità, oltre le sbarre” Corriere del Mezzogiorno, 6 aprile 2012 L’iniziativa si inserisce nell’ambito del programma “prerogative sindacali” che la Cgil di Bari sta realizzando in vista della festa dei lavoratori del primo maggio, per essere sul territorio, a fianco del cittadino e dei suoi bisogni. Contrastare il sovraffollamento delle carceri restituendo dignità a detenuti e lavoratori e chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, veri e propri luoghi di tortura. Questi gli argomenti al centro dell’iniziativa dal titolo “Restituire diritti e dignità, oltre le sbarre” organizzata dalla Cgil di Bari il prossimo 6 aprile alle ore 10 nell’auditorium della Casa Circondariale, in corso Alcide De Gasperi a Bari. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del programma “prerogative sindacali” che la Cgil di Bari sta realizzando in vista della festa dei lavoratori del primo maggio, per essere sul territorio, a fianco del cittadino e dei suoi bisogni. Il dibattito del 6 aprile aprirà alla riflessione non solo sul decreto svuota carceri del senatore Alberto Maritati, ma anche sul primo grande passo avanti, verso il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, veri e propri luoghi di tortura. Il voto in Senato infatti, a gennaio scorso, è un fatto importante perché prevede la chiusura dei 6 Opg attualmente esistenti, ma soprattutto perché avvalla la proposta del sindacato fermamente convinto che la soluzione possa essere la creazione di una struttura detentiva per ogni Regione. Il fatto che dentro queste strutture possa operare solo il personale del Sistema Sanitario Nazionale e che quello di Polizia Penitenziaria sia solo di supporto è una garanzia che da sola non basta. Anche la CGIL di Bari, afferma il Segretario Generale della Cgil Bari, Giuseppe Gesmundo “concorda con la linea del sindacato nazionale secondo cui è necessaria una svolta risolutiva che preveda la presa in carico degli internati da parte del Sistema Sanitario Nazionale in sinergia con gli enti locali. Indispensabile dunque quanto prioritario, investire su di un solido sistema di assistenza indirizzato al reinserimento sociale”. Sul superamento del modello detentivo e sul prezioso lavoro del comitato “Stop Opg” chiuderà i lavori Serena Sorrentino, Segretario Confederale della Cgil. Genova: il 6 aprile incontro per parlare dei problemi della popolazione carceraria www.viveregenova.it, 6 aprile 2012 Venerdì 6 aprile alle ore 17, alla Biblioteca Berio, un incontro per guardare oltre i muri che circondano le carceri per incontrare l’umanità che contengono, con le loro storie, i loro problemi, le loro speranze. Nell’incontro in programma alla Biblioteca Berio, per parlare dei problemi della popolazione carceraria italiana, si partirà dalla presentazione del numero monografico della rivista “Varchi, Tracce per la psicoanalisi”, dedicata alle carceri. Nell’editoriale è spiegato che “La scelta di Varchi di parlare di carcere e città non è casuale. Abbiamo scelto di dedicare questo numero della rivista alle disumane condizioni in cui versa la popolazione carceraria italiana raccogliendo l’appello fatto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel Convegno “Giustizia! In nome della Legge e del Popolo sovrano”, tenuto a Roma il 28.07.2011, ha messo in guardia l’Italia tutta dalla deriva morale e politica, dovuta dalla mancanza di un adeguato dibattito politico, istituzionale e civile sulla realtà penitenziaria e sulla giustizia ritardata e negata”. Interverranno in qualità di relatori Andrea Ranieri, Milò Bertolotto, assessore alle carceri della Provincia di Genova, Rita Sciorato, direttore della scuola di psicoterapia psicoanalitica ed editore della rivista Varchi, il criminologo Enzo Paradiso, lo scrittore Silvio Ferrari, Massimo Di Bisceglie, comandante della polizia penitenziaria, Hamo Bathyaregic, rappresentante della comunità di San Benedetto ed Emanuele Canepa, responsabile dei servizi multimediali e del progetto carceri della biblioteca Berio. Dove: Biblioteca Berio, Sala Chierici, Via del Seminario 16 - Genova. Quando: venerdì 6 aprile 2012 ore 17. Ingresso libero. Info: 010.5576010. Udine: Ascanio Celestini, con “Pro Patria”, narra come si vive in carcere Il Piccolo, 6 aprile 2012 Transita anche per la nostra regione per due repliche - mercoledì 11 aprile, alle 21, al Teatro Pasolini di Cervignano e giovedì 12 al Palamostre di Udine, per la serata di chiusura della stagione di Akrópolis 12 - il capillare tour italiano del nuovo spettacolo “Pro Patria” di Ascanio Celestini, il narratore teatrale più poetico, con più seguito fra le platee teatrali e dalla presenza mediatica trasversale, su carta stampata, al cinema e in televisione. Dando seguito al suo interesse per i temi e i momenti storici più emblematici nel nostro Paese - dalla Resistenza al Dopoguerra, dal tema del lavoro alla diversità mentale - Celestini in “Pro Patria” si concentra sul tema della privazione della libertà personale e getta uno sguardo libero da stereotipi sulla detenzione e la situazione di chi vive in carcere. Con gli agganci temporali fra epoche diverse tipici della sua arte affabulatoria, l’ironia e il gusto per il racconto fantastico e l’approfondimento storico, Celestini mette in corto circuito la storia di un detenuto di oggi e una figura storica e ancora discussa come quella di Giuseppe Mazzini e della gloriosa avventura della Repubblica Romana (1849). Un racconto serrato e avvincente, su un palco che si trasforma in un piccolo prato artificiale. E un banchetto su cui un ergastolano sta scrivendo un discorso importante che gli permetta di rimettere insieme i pezzi della propria storia, ma anche di una formazione politica avvenuta in cella attraverso i libri che l’istituzione carceraria gli consente di consultare. E allora, per farlo, chiede aiuto a Mazzini… Immigrazione: Garante detenuti del Lazio Marroni; emergenza tunisini al Cie di Ponte Galeria Comunicato stampa, 6 aprile 2012 È emergenza tunisini al Cie di Ponte Galeria. Attratti dalla falsa notizia di una imminente sanatoria in Italia per l’ottenimento del permesso di soggiorno, in centinaia sono tornati nel nostro Paese dalla Francia che, ora, impedisce loro il rientro. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo cui “queste persone vivono, ora, una situazione paradossale dal momento che sono state truffate da chi ha fatto loro intendere una imminente sanatoria e non possono tornare da parenti ed amici che fino a pochi giorni fa li avevano ospitati in Francia”. Sono centinaia i tunisini transitati negli ultimi 10 giorni dalla Francia in Italia. La stragrande maggioranza arrivata giunta in Italia, a Lampedusa, durante la “Primavera araba” del 2011. In quella occasione - visto l’alto numero di ingressi - il governo italiano emanò un decreto che attribuiva agli immigrati un permesso di soggiorno provvisorio di sei mesi per motivi umanitari. Approfittando del permesso temporaneo, in molti si erano trasferiti in Francia, per motivi di carattere culturale e linguistico e per la presenza di familiari e conoscenti da tempo residenti in territorio francese. A quanto appreso dal Garante, nelle scorse settimane una sedicente associazione umanitaria ha sparso fra i tunisini la finta notizia di una sanatoria in Italia legata al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari vendendo a costoro, a € 20,00, anche la ricevuta per la richiesta del nuovo documento di soggiorno. Giunti in Italia spinti dalla speranza, in centinaia hanno sostato per giorni davanti all’Ufficio Immigrazione di Roma, in attesa di vedere invano rinnovato il loro titolo di soggiorno. La burocrazia ha, però, fatto il proprio corso e, in presenza dei permessi di soggiorno scaduti, molti tunisini hanno ricevuto l’ordine di allontanamento dal territorio italiano mentre altri sono stati trattenuti nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, che per far posto ai nuovi arrivi, ha dovuto organizzare in tutta fretta il trasferimento degli ospiti o in altri Cie o direttamente nei proprio Paesi d’origine mediante rimpatrio. “Una situazione difficile quella che si sta vivendo in questi giorni al Cie - ha commentato il Garante Angiolo Marroni - perché molte persone allontanate da Ponte Galeria per far spazio ai nuovi arrivati avevano problematiche burocratiche e sanitarie aperte e ancora da chiarire e che adesso dovranno ricominciare nei luoghi dove sono state trasferite. Per questi motivi abbiamo chiesto alla Prefettura e all’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma di valutare caso per caso, pur nella situazione di emergenza che si è creata, trasferimenti e rimpatri accelerati. Auspico, inoltre, che il Governo italiano intervenga presso quello francese affinché termini questo blocco alle frontiere per consentire a centinaia di tunisini di poter tornare in quelle abitazioni che avevano lasciato con la falsa speranza di un permesso di soggiorno definitivo”. Marocco: testimonianza dalle carceri; sopravvivere tra intimidazioni e torture a cura di Jacopo Granci www.osservatorioiraq.it, 6 aprile 2012 Ezedine Erroussi, studente all’università di Taza, è in carcere dal 1° dicembre scorso. Da oltre tre mesi ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro la sentenza di condanna (5 mesi per appartenenza ad un gruppo illegale) e per denunciare gli abusi subiti al momento dell’arresto. “Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte”, fa sapere il ragazzo nel corso di una lettera-choc in cui testimonia le violenze della “nuova era democratica”. In Marocco la detenzione arbitraria e la tortura non sono solo un brutto ricordo legato ad un periodo ritenuto (da alcuni) concluso e lontano, gli “anni di piombo”. Sono molte infatti le testimonianze, raccolte nell’ultimo decennio, sugli abusi e le sevizie commesse dalle forze di sicurezza (e dalla polizia politica) a carico di attivisti, presunti terroristi, “separatisti” saharawi o semplici cittadini. I casi di Zahra Boudkour, Ilham Hasnouni, Rida Benotmane, Kassim Britel e Younes Zarli, o più in generale dei detenuti islamici transitati nell’oscuro centro di Temara dopo gli attentati del 2003 (Casablanca), sono solo alcuni degli esempi recensiti da Amnesty International, Human Rights Watch e dall’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh). Praticato forse in modo meno sistematico rispetto all’epoca della dura repressione e dei bagni penali di Hassan II, il ricorso alla tortura resta pertanto di attualità nel regno maghrebino, come ha ricordato recentemente il quotidiano francese L’Humanité nell’articolo “De Hassan II à Mohammed VI, les rois passent, la torture reste”. Una delle tante “anomalie”, troppo spesso taciute dall’opinione pubblica, di un paese che difende - in principio - il rispetto dei diritti umani e che bandisce l’uso della tortura (art. 22), ma che nei fatti rimane lontano dai buoni propositi consacrati recentemente dalla nuova costituzione. Un’anomalia che il detenuto n. 7000096 della prigione di Taza, Ezedine Erroussi, non manca di sottolineare nel corso della sua lunga lettera (scritta dal carcere il 20 febbraio scorso), di cui pubblichiamo di seguito alcuni dei passaggi più significativi. Appartenente all’organizzazione della gioventù marxista (basistes o qaidistes) e attivista del sindacato studentesco (Unem), Ezedine è stato fermato dalla polizia ad inizio dicembre durante un sit-in. Il ventenne stava manifestando assieme ad altri compagni per denunciare le precarie condizioni di vita patite all’interno del campus universitario. Il giovane, da oltre cento giorni ormai in sciopero della fame, dovrebbe lasciare la sua cella il prossimo 1° maggio. Ma intanto continua a portare avanti dalla prigione la battaglia per la giustizia e la dignità, mentre la sua vita “è appesa più che mai ai tubi dell’alimentazione artificiale”, come ricorda Mouha Oukriz, coordinatore del comitato di sostegno. Il “quaderno della tortura” Sono stato bloccato da una trentina di agenti, che si sono accaniti su di me con i manganelli fino a farmi perdere conoscenza. Mi hanno legato e trascinato per i piedi su un veicolo blindato parcheggiato davanti alla facoltà. […] Lì mi hanno spogliato, insultato e picchiato con violenza, calpestandomi più volte sulla pancia e sulla testa. Poi un agente mi ha infilato una pistola in bocca, dicendomi: ‘un solo colpo e per te è finita, gli anni di piombo non sono ancora terminati e subirai gli orrori che non hai mai visto durante tutta la tua vità. Trasportato in commissariato, la sequenza non cambia. Appena arrivati mi hanno spinto dentro, sono caduto per terra e ho sbattuto il viso. Mani e piedi legati, sono stato preso a calci. In seguito mi hanno bendato gli occhi […], mi hanno fatto entrare in una stanza per l’interrogatorio. Non ho reagito alle loro domande. Allora un poliziotto mi ha puntato di nuovo la pistola in bocca e poi alla tempia, insultandomi e minacciandomi: “Se non parli ti farò esplodere la testa”. Di fronte al mio silenzio prolungato hanno iniziato a strapparmi i capelli, con un tale rabbia che in alcuni punti hanno asportato perfino il cuoio capelluto. Le loro domande insistevano sui particolari dell’organizzazione a cui appartengo. Non ho ceduto […] così, impotenti di fronte al mio mutismo, hanno ripreso la tortura. Mi hanno messo uno straccio inzuppato di fango e olio di motore nella bocca, continuando a pestarmi su tutto il corpo, specialmente nei punti più sensibili. Ho rischiato il soffocamento. Ricoperto di insulti e provocazioni, sono stato trasferito nei sotterranei, dove sono riprese le sevizie. Mi hanno immerso la testa in un secchio pieno d’acqua […] per sei ore ininterrottamente, senza che io pronunciassi una parola. A questo punto sono stato rinchiuso in cella, nudo, senza lenzuola né coperte, con il freddo glaciale che c’era in quel periodo dell’anno”. Le “sedute” di tortura, ricorda Ezedine, sono andate avanti a cadenza quotidiana per tutto il tempo trascorso in commissariato. Il mio corpo era divorato dai dolori e dalle piaghe. Avevo mani e piedi fratturati. Non capivo cosa stesse succedendo e soprattutto perché non mi avessero trasportato in ospedale. Non riuscivo a muovermi per le fitte di dolore. […]. Mi sono rifiutato di firmare il verbale dell’interrogatorio, consegnatomi in bianco. Non so se l’abbiano firmato al mio posto”. È questo lo spirito della nuova costituzione? - si domanda Ezedine nella missiva - È questa la costituzione dei diritti e delle libertà che ci è stata promessa, la costituzione che garantisce il rispetto dei diritti umani e di quelli del detenuto? Un grido di dignità Dopo la condanna, i maltrattamenti e le torture, Ezedine Erroussi ha deciso di entrare in sciopero della fame (fine dicembre scorso). All’iniziativa si sono poi uniti altri compagni di lotta, rinchiusi nelle prigioni di Taza, Fès, Errachidia e tuttora in attesa di giudizio. L’azione congiunta è servita a far conoscere la storia del giovane ed a sollecitare la solidarietà degli attivisti marocchini e non, che hanno avviato una campagna mediatica per chiedere la sua liberazione. Il clamore attorno alla vicenda ed il deterioramento delle condizioni di salute del detenuto hanno spinto i rappresentanti del regime a cercare una mediazione, un compromesso per uscire dall’impasse ed evitare una tragedia quanto mai inopportuna. Ho ricevuto la visita del Procuratore [nel mese di febbraio, ndr] in presenza di mio padre. Lo hanno convocato per ricattarmi. In quell’occasione mi hanno promesso una borsa di studio permanente, […] un diritto di visita aperto a tutti i miei amici e parenti. Il Procuratore ha detto che era sua intenzione prendersi cura di me. Il “ricatto” è andato avanti e le autorità hanno promesso ad Ezedine un posto di lavoro, a condizione di interrompere lo sciopero e di rinnegare la lotta portata avanti assieme agli altri compagni in prigione. Non ho ceduto - continua il racconto dello studente - ed ho ribadito che l’unica condizione per mettere fine alla protesta è il soddisfacimento delle nostre rivendicazioni e la liberazione dei detenuti politici. [Il Procuratore] ha risposto, rivolgendosi a mio padre: “Guardi suo figlio, a cui ho voluto bene, rovina tutto e rende vani i miei sforzi”. Mio padre ha replicato: “Peferisco che mio figlio muoia piuttosto che viva umiliandosi. Sa quello che fa, e se anche io fossi uno studente, starei al suo fianco qui in prigione”. È la dignità, oltre alla determinazione, ad aver spinto Ezedine a rifiutarsi di scrivere la domanda di grazia reale, unica possibilità per sperare in una scarcerazione immediata. La dignità di chi non è disposto al pentimento e a chiedere perdono per aver osato reclamare diritti e giustizia sociale. “Non tornerò sui miei passi. Non sono una pecora e non rientrerò all’ovile”. Dal febbraio scorso, tuttavia, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate. Svenimenti continui e uno stato al limite del coma, come ha denunciato in un recente comunicato l’Amdh. Da allora le autorità carcerarie hanno deciso di alimentare forzatamente il giovane detenuto, tenuto in vita dalle flebo che periodicamente gli vengono somministrate durante i trasferimenti all’ospedale Ibn Bayah. La sua morte, infatti, potrebbe sollevare una nuova ondata di indignazione e critiche alla gestione delle “politiche di sicurezza” da parte del governo in carica, al centro delle polemiche fin dal suo insediamento all’inizio del gennaio scorso. Finché le forze e la capacità di autocontrollo me lo hanno permesso - spiega la lettera di Ezedine - ho rifiutato il ricovero e l’alimentazione forzata. Per potermi infilare l’ago nel braccio mi hanno legato al letto dell’ospedale. In 72 ore mi hanno iniettato trenta flaconi di sostanze nutritive e anti-coagulanti. Sei agenti si alternavano per sorvegliarmi, insultarmi e provocarmi. Sembravano in estasi e ripetevano tra loro: “Questo qui non vuole ancora morire!” Pur di eludere il mio sciopero della fame illimitato ed evitare la mia morte programmata - continua il ventenne ormai ridotto ad uno scheletro (ha perso più di 20 kg) incapace di sollevarsi o di muovere autonomamente gli arti - il regime si è accanito su di me. Ma fino a quando il sérum riuscirà a tenermi in vita? Fino a quando avrò vene e vasi sanguigni in grado di sopportare tutto questo? Non per molto, ancora. […] Sono poco più di un cadavere disteso giorno e notte. Libia: avvocati denunciano; Saif al-Islam Gheddafi picchiato in carcere Adnkronos, 6 aprile 2012 I difensori di Saif al-Islam Gheddafi presso il Tribunale penale internazionale denunciano maltrattamenti ai danni del figlio dell’ex rais, detenuto attualmente in un carcere libico. In un comunicato, riferisce la Bbc, gli avvocati sostengono che Saif al-Islam Gheddafi è tenuto in quasi totale isolamento e che sarebbe stato picchiato dai suoi carcerieri. Seyf al-Islam, uno dei figli dell’ex dittatore libico Muammar Gheddafi, è stato picchiato nel carcere in cui è detenuto. Come hanno affermato gli avvocati della Corte Internazionale dell’Aia è tenuto in completo isolamento, picchiato e non gli vengono fornite le cure mediche necessarie. In precedenza il rappresentante del Consiglio Nazionale di Transizione della Libia, Nasser al-Mani, aveva dichiarato che a breve Seyf al-Islam, che ora è in un carcere per gli ex miliziani di Gheddafi a Zintan, sarebbe stato trasferito a Tripoli, dove sono stati creati appositamente per lui una prigione e un tribunale. Ha chiarito che le autorità libiche non hanno intenzione di far giudicare il figlio di Gheddafi alla Corte Internazionale dell’Aia. Iran: concessa grazia a mille detenuti, in occasione Festa della Repubblica Islamica Ansa, 6 aprile 2012 Il capo supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha concesso la grazia a 1.002 detenuti condannati dai tribunali generali. L’amnistia è stata concessa in occasione della festa della Repubblica Islamica, celebrata il 31 marzo. Il grande indulto era stato proposto dal segretario generale della magistratura, Sadeq Amoli Larijani. L’amnistia è stata concessa in base all’articolo 110 della Costituzione.