Giustizia: prigioni malate, dove scontare una pena può risultare fatale di Giulia Cosentino Quotidiano di Sicilia, 5 aprile 2012 Sono state soprannominate le “prigioni malate” come per volere evidenziare un luogo in cui scontare una pena diventa pericoloso, infettivo e talvolta letale. Le “prigioni malate” è quindi il titolo emblematico redatto dall’Osservatorio Antigone (Associazione nata alla fine degli anni 80 “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”) nel corso del VIII rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione in Italia. Come ogni anno l’Osservatorio entra in tutti gli istituti di pena nazionali per fotografare la situazione attuale del sistema penitenziario. Il Rapporto mette in luce ancora una volta il grave problema del sovraffollamento e le sue cause, i diritti negati ai detenuti e le condizioni in cui vivono. Come evidenziato dal documento redatto dall’Osservatorio, al 30 settembre 2011 erano 67.428 i detenuti reclusi nei 206 istituti di pena italiani, a fronte di una capienza regolamentare di 45.817 posti. Tenendo in considerazione gli ultimissimi dati aggiornati al 29 febbraio e pubblicati sul sito del Ministero della giustizia, sono 66.632 i detenuti presenti nelle carceri per una capienza regolamentare di 45.742 unità, un dato che continua a preoccupare sempre malgrado le diverse misure apportate recentemente dal Ministero. Tenendo in considerazione la situazione fino al 30 giugno 2011 (come dimostrato dalla relazione dell’osservatorio), tra gli aspetti più rilevanti, vengono analizzati i detenuti in eccesso, la componente femminile e la presenza degli stranieri, ma anche la fascia d’età più rappresentata, ovvero quella compresa tra i 30 e i 35 anni (11.594), seguita da quella compresa tra i 35 e 39 (10.835), 547 gli ultrasettantenni. Inoltre, 1.647 erano i detenuti in possesso di una laurea, 22.117 quelli con la licenza di scuola media inferiore, 789 gli analfabeti. Al 30 giugno 2011, tra gli istituti più sovraffollati spicca al primo posto quello di Lamezia Terme (Cz), mentre al quinto posto troviamo Piazza Armerina (En) con un indice di sovraffollamento pari al 240%, tredicesima Mistretta (Me) con un indice del 219%. Ultime in posizione Castelvetrano (Tp), Termini Imerese (Pa) e Augusta (Sr). Tra le Regioni più sovraffollate spicca la Puglia, mentre la Sicilia si piazza al dodicesimo posto. Altri aspetti importanti su cui si è concentrato il lavoro svolto dall’Osservatorio: le violenze, le inchieste e i decessi negli istituti. Dall’inizio dell’anno alla data del 25 ottobre 2011 si registrano 154 morti in carcere di cui 53 per suicidio. In carcere si suicida circa un detenuto ogni mille. Fuori dal carcere circa una persona ogni ventimila. Un aspetto che riguarda anche agenti di polizia penitenziaria (a Caltagirone si è suicidato un assistente capo impiccandosi da un albero). Emblematiche le pessime condizioni di igiene e di mancanza di risorse finanziarie che danno origine anche a casi di “malasanità”: per citare un esempio locale, a Siracusa, un detenuto non può fare dialisi perché manca carburante per portarlo in ospedale. E ancora, la “dignità ristretta” dei detenuti: ad Agrigento sono 450 i detenuti in 250 posti per celle di 6 mq, manca l’acqua calda per lavarsi e il riscaldamento, i muri sono pieni di crepe e quando fuori piove, piove anche dentro le prigioni dell’ultimo piano. Cattivo uso di risorse. Lo spreco delle cosiddette “carceri fantasma” Anche la carenza dei fondi si fa sempre più preoccupante così come la “Cassa delle ammende” nata per finanziare i progetti di riabilitazione dei detenuti ma di cui oggi si fa un uso diverso. Non mancano i debiti: sono oltre 120 i milioni di euro nei confronti delle aziende e dei fornitori di beni e servizi essenziali all’assistenza delle persone detenute. Nel 2010 sono stati stanziati 30 milioni € per le spese di mantenimento e pulizia, un valore inferiore rispetto a un fabbisogno stimato in circa 90 - 100 milioni €. L’approvazione del “piano carceri” del giugno 2010 ha previsto anche la realizzazione di 9.150 posti di cui 2.400 sorgeranno in Sicilia. In totale si tratta di 11 nuovi istituti e 20 padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti che riguarda anche il carcere di Trapani con altri 600 posti da realizzarsi entro il 2012. Esistono anche “carceri fantasma” ovvero quegli istituti penitenziari che negli ultimi venti anni e più (circa 40) sono stati costruiti, spesso ultimati, a volte anche arredati e vigilati, che però sono inutilizzati o sotto utilizzati o anche in totale stato d’abbandono. Giustizia: ingiusta detenzione non genericamente ricompresa in danno esistenziale di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 5 aprile 2012 Il risarcimento per il danno da ingiusta detenzione è una voce a sé che non può essere genericamente ricompresa nel danno esistenziale in quanto ha una sua dignità autonoma che merita una riconoscibile e indipendente valutazione giudiziaria. È questo il cuore della sentenza della quarta sezione penale della Corte di Cassazione del 20 marzo 2012, la numero 10878. Con questa decisione viene parzialmente modificata l’ordinanza della Corte di Appello di Brescia dello scorso 22 aprile del 2010 che liquidava al ricorrente una somma pari a 473 mila euro a titolo di riparazione per l’errore giudiziario subito. La vittima dell’errore giudiziario era stata in carcere per ben 1130 giorni, ossia per un periodo di oltre tre anni, a causa di una decisione giurisdizionale errata e poi revisionata. La Corte bresciana non aveva conferito valore esclusivo al danno da detenzione. Lo aveva ricompreso nel più generico danno patrimoniale o non patrimoniale, e quindi ne aveva escluso una commisurazione ad hoc. I giudici supremi invece testualmente affermano che “il danno conseguente alla detenzione va liquidato autonomamente anche in ossequio alla dizione letterale dell’art. 643, e nella liquidazione andrà utilizzato un criterio equitativo senza i limiti stabiliti dall’art. 315 del codice di procedura penale per la riparazione del danno da ingiusta detenzione”. In origine, come detto, nulla era stato liquidato per la detenzione subita, sulla base di una asserita inammissibilità della doppia liquidazione. Dice la Cassazione che “in tema di riparazione dell’errore giudiziario, il giudice nel procedimento di liquidazione del danno può utilizzare sia il criterio risarcitorio, con riferimento ai danni patrimoniali e non patrimoniali, sia il criterio equitativo, limitandolo alle voci non esattamente quantificabili”. E il danno subito dall’aver espiato senza colpe la pena della prigione non è esattamente determinabile. Nei prossimi mesi spetterà alla Corte d’Appello rideterminare in via equitativa il danno da detenzione ingiusta. Sarà interessante verificare i criteri che saranno utilizzati per la quantificazione secondo equità del danno. Conterà solo il periodo di carcerazione subita o avrà un peso anche la qualità della detenzione? In quest’ultimo caso i giudici andranno ad accertare il luogo dove la detenzione è avvenuta? Come gli esperti di vicende carcerarie sanno essere reclusi a Milano nell’istituto periferico di Bollate anziché in quello centrale di San Vittore è ben diverso in termini di buono o cattivo trattamento. A Bollate i detenuti possono liberamente girare per le sezioni durante la giornata. Il tasso di violenza è minimo. Le attività organizzate nell’interesse dei detenuti sono tantissime. A San Vittore, in primo luogo a causa del sovraffollamento, ci sono reparti dove le condizioni igienico-sanitarie sono tali da mettere a rischio la salute della persona reclusa. Il danno quindi subito varierà se il detenuto ha avuto la fortuna o la sfortuna di finire in una o nell’altra delle due carceri milanesi. Infine l’accusa che aveva portato in carcere il ricorrente era delle più infamanti ossia violenza sessuale nei confronti della propria figlia di soli cinque anni. Ciò apre un altro capitolo di analisi. Quanto conterà ai fini della determinazione equitativa del danno da detenzione il fatto che le persone accusate di violenza sessuale o pedofilia di solito sono recluse in sezioni protette (e quindi isolate) per evitare aggressioni o che siano più frequentemente sottoposte a vessazioni a causa di una prevalente sub-cultura carceraria? Giustizia: Radicali; domenica marcia per diritti, da Regina Coeli a Piazza San Pietro Dire, 5 aprile 2012 “Il giorno di Pasqua ci ritroveremo alle 10 davanti al carcere di Regina Coeli, luogo simbolo della violazione costante di fondamentali diritti umani, per poi marciare in fila indiana fino a via della Conciliazione e raggiungere piazza San Pietro prima dell’Angelus. Saranno presenti Emma Bonino, Marco Pannella e gli altri dirigenti Radicali”. Lo comunicano, in una nota, i Radicali. “È un omaggio che i Radicali vogliono rendere alla memoria di Papa Giovanni Paolo II, che nella Pasqua del 1979 accolse con parole forti d’amore i marciatori contro lo sterminio per fame nel mondo, che affluivano a migliaia in piazza San Pietro provenienti da Porta Pia - continuano i Radicali. Non mancarono allora le voci scettiche e diffidenti che giudicavano quell’itinerario “offensivo” per la Chiesa cattolica, ma a fronte dell’atteggiamento ostile del quotidiano dei vescovi Avvenire, fu l’Osservatore Romano con un articolo di padre Gino Concetti a compiacersi della campagna contro la fame nel mondo promossa dai Radicali. Anche oggi laici e cattolici si ritrovano uniti nell’obiettivo di interrompere la flagrante violazione di diritti umani universalmente acquisiti sia per la drammatica situazione delle carceri, sia per il malfunzionamento della giustizia soffocata da dieci milioni di procedimenti penali e civili inevasi. Lo dimostrano gli annunci di partecipazione alla II Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà del 25 aprile, di Don Antonio Mazzi (che già promosse la marcia di Natale del 2005), di Don Luigi Ciotti, di Don Andrea Gallo, di venti cappellani delle carceri, della rivista “Tempi”, del volontariato cattolico e del sostegno dei Vescovi della Basilicata a partire da Monsignor Agostino Superbo. Questo il programma del giorno di Pasqua: ore 10.00 sit-in davanti al Carcere di Regina Coeli (marciapiede lungotevere Gianicolense); ore 11.00 marcia in fila indiana da lungotevere Gianicolense a Lungotevere in Sassia, a Via San Pio X, a via della Conciliazione; ore 11.30 Piazza Pio XII, Piazza San Pietro. Giustizia: seminario dell’Ugl; reati dietro le sbarre, strategie investigative per fermarli Adnkronos, 5 aprile 2012 Aumentano violenza e reati dietro le sbarre. Crescono nelle carceri le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, i tentativi di suicidio, molti dei quali per impiccagione, la circolazione della droga, e si moltiplicano i tentativi di evasione. Fermare questi fenomeni è l’obiettivo dell’Ugl Polizia penitenziaria e Ugl Polizia di Stato, che in collaborazione con l’International Crime Analysis Association, hanno organizzato oggi, presso la Casa Circondariale di Rebibbia, il seminario di aggiornamento tecnico professionale “Reati in ambito penitenziario, strategie investigative” per la risoluzione di crimini commessi dai detenuti all’interno degli istituti. “Nelle carceri sono già 26, dall’inizio dell’anno, le aggressioni ad agenti di polizia penitenziaria, ma sono in aumento anche pestaggi e risse tra detenuti”, spiega all’Adnkronos il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti. La mappa delle criticità è ampia: “si va dall’aumento dei tentativi di suicidio, molti dei quali per impiccagione, alla droga che si cerca di far entrare in carcere. Si moltiplicano anche i tentativi di evasione -sottolinea il sindacalista- secondo i dati che abbiamo elaborato su fonti istituzionali, dall’inizio dell’anno sono 7 i detenuti evasi e 6 i tentativi sventati dalla polizia penitenziaria. Con la carenza di organico e strumentazioni inadeguate per la vigilanza passiva, è più facile per alcuni soggetti tentare di fuggire da strutture che sono carenti sotto il profilo della sicurezza”. “Per affrontare con le migliore strategie i crimini commessi nelle carceri - rimarca Moretti - occorre potenziare l’attività del Nucleo investigativo centrale (Nic), dotandolo di strumenti tecnologici che consentano non solo di prevenire i reati ma di intervenire, attraverso tecniche investigative e strumenti di videosorveglianza, per risalire agli autori dei crimini. La maggior parte dei reati, infatti, avvengono durante il trasferimento dei detenuti o nelle ore di socialità. “Con la promiscuità determinata dal sovraffollamento - aggiunge Moretti - è sempre più difficile per i baschi azzurri tenere sotto controllo la personalità dei soggetti più a rischio. Spesso gli agenti di polizia penitenziaria finiscono in infermeria per la gravità delle ferite riportate”. Per il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, “l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, insieme a circuiti differenziati, che prevedano maggior sorveglianza per detenuti pericolosi e modalità di controllo meno pesante per altri reclusi non problematici, aiuterebbe a non inasprire i rapporti con la vigilanza”. “Con questo seminario di aggiornamento - rimarca Moretti - puntiamo a dare indicazioni agli agenti per intervenire a 360 gradi con strumenti giuridici, tecnologici e psicologia comportamentale. Un percorso che preveda corsi e supplisca alle carenze formative dell’attuale amministrazione penitenziaria che, vivendo tutte le difficoltà dei tagli riservati al mondo delle carceri, non riesce a dare strumenti adeguati al personale”. Per l’Ugl Polizia penitenziaria, inoltre, occorre una risposta anche sul piano normativo: “Chi evade o aggredisce agenti o altri detenuti deve avere un accesso meno favorevole a misure quali la semilibertà o la detenzione domiciliare”. Dopo il saluto del direttore del carcere di Rebibbia, Carmelo Cantone, i lavori del seminario sui reati in ambito penitenziario vedranno gli interventi di Marco Strano, dirigente sindacale della Ugl Polizia di Stato, del commissario Luca Bontempo, responsabile del Nucleo investigativo centrale della Polizia Penitenziaria, che illustrerà ‘l’attività di indagine volta alla ricerca degli evasi”. Al tavolo dei relatori anche l’assistente di Polizia Penitenziaria Marco Campilani, che esporrà le problematiche operative del servizio traduzioni e l’Ispettore superiore di Polizia Penitenziaria, Luigi Giannelli. Giustizia: torture di stato, colloquio con Salvatore Genova di Pier Vittorio Buffa L’Espresso, 5 aprile 2012 Sevizie ai brigatisti. Le denunciò “l’Espresso” trent’anni fa. Fu smentito e il cronista arrestato. Oggi uno dei presenti conferma e dice chi le ordinò. “Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare”. Salvatore Genova è l’uomo il cui nome è da trent’anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l’accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l’acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte. Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici Ecco il suo racconto. “Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. È la squadra messa in campo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier. Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro, Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno. Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell’occasione ci viene presentato. E Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale. Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell’Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima. Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all’ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo “disarticolarlo”, prepararlo per Ciocia e i quattro dell’Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un’altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: “Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male”. Poi il tubo in gola, l’acqua salatissima, il sale in bocca e l’acqua nel tubo. Dopo un quarto d’ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell’Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding. Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier” quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli. Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti. Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice. La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli “stronzi” non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte. Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l’indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l’elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati. Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all’ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. È una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi. Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti. Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria”. Giustizia: processo Cucchi; Consulente Difesa “una morte su cui non si potrà far luce” Ansa, 5 aprile 2012 Quella di Stefano Cucchi, il geometra romano di 31 anni fermato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma (secondo l’accusa dopo essere “pestato” nelle celle di sicurezza del tribunale e poi abbandonato in ospedale), fu “una morte improvvisa avvenuta nel sonno sulla quale non si potrà mai far luce”. Ne è convinto il professore Remo Orsetti, dell’Ospedale San Camillo di Roma, consulente di uno degli imputati. Dichiarazioni rese oggi nel corso del processo che vede imputati, a vario titolo e a seconda delle posizioni, dodici persone (sei medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria) per reati che vanno dalle lesioni, all’abuso di autorità, favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Orsetti ha illustrato la sua consulenza per uno degli imputati segnalando come a suo avviso “gli esiti dell’autopsia e gli esami istologici non hanno dato certezze sulla causa della morte di Cucchi”, che ha definito “assolutamente imprevedibile, che nessun medico avrebbe potuto evitare”. Giustizia: da Poggioreale al Camp Nou… il buon giornalismo sulle ali della libertà di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 5 aprile 2012 La soluzione del caso grazie a un “precario” italiano. E alla perseveranza della redazione. “Se in tutti i miei anni da giornalista avessi anche solo contribuito a liberare un innocente dalla prigione, allora ne sarà valsa la pena”. Michele Catanzaro è un giornalista italiano che vive da 8 anni a Barcellona. Dottorato in fisica, è solo un collaboratore del Periodico de Catalunya, ma la sua è ormai una firma conosciuta, non solo per i sempre precisi articoli su temi scientifici che scrive. Assieme al collega Antonio Baquero (redattore del giornale), ha seguito fin dall’inizio con passione il “caso Óscar”, usando la sua meticolosità scientifica per districarsi fra fascicoli giudiziari e perizie. “Dopo aver ricevuto la lettera, ci mettemmo al lavoro cercando di capire chi era Óscar. Mettemmo insieme i suoi cedolini dello stipendio, raccogliemmo testimonianze e ci convincemmo che, nei giorni in cui lui secondo l’accusa era in Italia, in realtà era al lavoro”, racconta Catanzaro. “La storia ci piaceva perché se anche Óscar fosse stato colpevole di un crimine tanto importante, sarebbe stato interessante scoprire come aveva ingannato tutti per tanti anni in modo così clamoroso”. Una storia, aggiunge, che dimostra un problema più generale rispetto al mandato di cattura europeo: “È certamente utile per bloccare i crimini di mafia perché automatizza il meccanismo di estradizione. Ma tutti i giuristi che abbiamo sentito ci dicono che dovrebbe essere stabilito un meccanismo altrettanto efficiente per la scarcerazione nei casi di errori come quello di Óscar. È assurdo che lui sia rimasto quasi nove mesi in carcere quando giudice e pubblico ministero erano al corrente di tutte le prove della sua innocenza”. Da Poggioreale al Camp Nou Un evidente scambio di persona e qualche normale leggerezza personale trascinano un comune cittadino nell’inferno delle carceri di Napoli e Roma. Contro le tesi cervellotiche dei periti e il disinteresse dei pm, il semplice lavoro sul campo di un giornale che ha voluto vederci chiaro, restituendo la vita a un uomo. Sorride, Óscar. Una risata innocente e inconfondibile, anche se i periti hanno tardato ad accorgersene. Seicento ventisei giorni di carcere (quasi 20 mesi), torturato e maltrattato dai suoi compagni di cella, vittima di un clamoroso errore giudiziario e della sua ingenuità. Questo lavamacchine di 46 anni, piccolo e dall’aria indifesa negli occhi, è riuscito a non perdere mai la speranza: “Sapevo che prima o poi avrebbero capito che io non avevo fatto nulla”. Tutto inizia il 5 luglio 2010, quando all’autolavaggio dove lavorava Óscar Sánchez Fernández a Montgat, un paese della costa, pochi chilometri a nord di Barcelona, si presenta la Guardia Civil. Dopo l’identificazione, lo arrestano e dopo un paio di giorni lo trasferiscono a Madrid, dove finalmente gli viene spiegato, per sommi capi, di essere ricercato in Italia nell’ambito di una inchiesta internazionale sul narcotraffico. Nonostante le proteste di Óscar, che neppure parlava italiano, dopo un mese viene trasferito a Roma. “Appena arrivato all’aeroporto - racconta - mi diedero in mano un volume enorme con la mia causa, tutto in italiano e senza nessuna traduzione. Il mio nome appariva da tutte le parti. E io non capivo perché”. A Rebibbia, Óscar grazie all’aiuto di un compagno di cella e con la traduzione di un altro compagno venezuelano, riesce a raccapezzarsi: due diverse indagini di Carabinieri e Guardia di Finanza lo identificano come un importante narcotrafficante, nodo di una rete che inviava cocaina dal Sudamerica all’Italia attraverso la Spagna. Óscar è sicuro che si tratti di un equivoco e che presto si sarebbe chiarito tutto. L’intero processo si basa su una perizia vocale firmata da Roberto Porto, lo stesso perito coinvolto nelle controverse intercettazioni telefoniche del processo calciopoli. Secondo Porto, la voce registrata nelle intercettazioni telefoniche del trafficante era quella di Óscar con un 90% di probabilità. Secondo la polizia spagnola, invece, l’uruguayano Marcelo Marín Iannandrea aveva rubato l’identità di Óscar e con il suo nome e la sua carta d’identità si era recato in diverse occasioni in Italia, commettendo i crimini di cui era accusato l’ignaro catalano. La voce, così come l’accento del vero narcotrafficante, che usa espressioni tipicamente sudamericane, è in realtà marcatamente diversa da quella di Óscar. Intanto Óscar veniva trasferito a Poggioreale, dato che era Napoli la sede del processo. E fu lì che ebbe inizio un inferno. “Mi misero in una cella con dieci persone”, racconta. “All’inizio, tutto bene, perché ero la novità. Poi cominciarono a dare la colpa a me ogni volta che c’era una lite in cella. Mi picchiavano, mi facevano violenza con un bastone, mi chiudevano la testa dentro un armadio. Mi costringevano a far loro il caffè, a pulire. Non potevo svegliarli se dovevo andare in bagno. E guai a parlare con le guardie: una volta, uno di loro mi chiese notizie del Barça, e quando se ne accorsero i miei compagni di cella mi minacciarono pensando che li avrei denunciati. Mi hanno persino inciso una N di Napoli sul braccio e ci hanno versato sopra del sale per punirmi di non tifare la loro squadra”, ricorda con le braccia conserte in posizione di difesa. “Avevamo solo due ore d’aria al giorno e potevamo fare la doccia solo il martedì e il mercoledì. A Poggioreale sono stato davvero male: almeno a Roma c’erano delle attività, c’era una biblioteca più fornita. A Rebibbia mi avevano anche fatto fare l’arbitro delle partite di calcio, anche se in verità a me piace di più il basket”. Il processo di Óscar intanto procede, e nel maggio 2011, dieci mesi dopo essere stato arrestato, viene condannato in primo grado a 14 anni per narcotraffico. Probabilmente sarebbe rimasto in carcere ancora per molti anni se non fossero intervenuti due giornalisti di uno dei due più importanti giornali catalani: El Periódico de Catalunya. Pochi giorni prima della condanna del lavamacchine, arrivò in redazione, attraverso una stagista, una delle disperate lettere che Óscar inviava a tutti gli amici e conoscenti cercando di far conoscere il suo caso. Il Periódico prese subito sul serio la storia, e iniziò un’indagine parallela. L’indagine si concentrò sul lavamacchine e sul suo circolo. L’enormità dell’accusa non quadrava con una persona il cui unico contatto con la droga era il consumo sporadico di qualche canna e che non era mai uscito dal suo paesino se non per fare il militare. Inoltre godeva della fama di essere un lavoratore scrupoloso e tutti concordavano che fosse una persona molto semplice. Grazie al lavoro del Periódico, a Montgat si formò una piattaforma d’appoggio che raccolse soldi e adesioni per pagare il processo. I giornalisti arrivarono anche a raccogliere la testimonianza di un altro degli imputati del caso di narcotraffico che dichiarò per iscritto e al giudice che Óscar non c’entrava nulla con la persona che aveva commesso quei crimini. Grazie alla denuncia del giornale, si rimise in moto l’indagine della polizia spagnola che trovò una testimone che aveva condiviso una delle stanze d’albergo con il vero criminale e che confermò che non si trattava di Óscar ma di Marcelo Marín. All’epoca di questa indagine, Marín era già in carcere nelle Canarie per un altro processo, ma è stato scarcerato lo scorso febbraio. Il giornale rese noto anche come era stato possibile che Marín fosse entrato in possesso della carta d’identità di Óscar: lo stesso Óscar, ingannato da una ragazza rumena che pensava essere sua amica, l’aveva ceduta in cambio di un piccolo quantitativo di denaro per aiutare un sinpapeles, secondo quanto gli aveva detto la ragazza. “Mentre ero in carcere, cercavo di capire come potevo essere finito in quell’incubo”, racconta oggi Óscar in un bar vicino al mare a Montgat. “Mi ricordai che una volta avevo perso la mia carta d’identità. Poi pensai che mi fosse stata rubata dalla ragazza che aiutava mia mamma. Solo alla fine capii il mio terribile errore”. Intanto la giustizia faceva il suo corso. Già a luglio del 2011, la procura generale spagnola trasmette con procedura d’urgenza al Tribunale di Napoli le prove raccolte dalla polizia spagnola e dal Periódico. Ma in quella e in una seconda occasione a dicembre, quando ormai anche il pm era convinto dell’innocenza di Óscar, il tribunale della libertà si rifiuta di scarcerare Óscar in attesa del giudizio di secondo grado. Secondo il giudice, non erano state presentate prove che smentissero la perizia iniziale. Alla fine, di perizie se ne aggiunsero ben cinque: una dell’università Pompeu Fabra, una della difesa, una incaricata dalla procura antimafia a Davide Zavattaro, comandante del Racis di Roma, e le due risolutive, una linguistica e una fonetica. Tutte concordi nell’escludere che Óscar, che veniva chiamato proprio Marcelo in molte delle intercettazioni, fosse Marcelo (“Oscar, alias Marcelo”, dicevano gli atti). Óscar intanto dimostra una forza inaspettata: “Calma e pazienza, mi dicevo in questi mesi. Ero certo che ce l’avrei fatta - racconta - Quando finalmente mi venne a visitare il console spagnolo, a settembre, almeno ottenni di poter cambiare di cella”. A settembre scorso arriva l’unica buona notizia per Óscar nel 2011: per un vizio di forma, il tribunale non ha potuto aggiungere altri 15 anni alla condanna iniziale. Ma per decretare il proscioglimento con formula piena per non aver commesso il fatto il giudice ha atteso fino al 21 marzo 2012, giorno dell’appello. “Erano due notti che non riuscivo a dormire. Ero per metà felice e per metà triste: avevo paura”, racconta commosso Óscar. Persino l’ultimo giorno non lo hanno lasciato in pace: “Mi hanno preso tutto, persino lo spazzolino. Tanto dicevano che lo potevo ricomprare in Spagna”. Ora Óscar è libero. È diventato l’eroe del paese. E sabato il Barça lo ha invitato sulla tribuna d’onore per la partita con l’Athletic di Bilbao. “È stato il giorno più bello dal mio ritorno - dice ancora Óscar - Dopo la partita, con mio cugino siamo andati in una discoteca. Mi riconoscevano tutti, non riuscivo neppure ad andare al bagno. “Tu sei quello della tele”, e tutti a parlare con me. Sono molte emozioni, ma io non vedo l’ora di tornare a lavorare e a fare la mia vita di prima”. Dell’Italia non ha un bel ricordo. “Dovete fare qualcosa per le vostre carceri. Quello che ho visto pensavo succedesse solo in paesi remoti, non qui accanto - dice - certo, non ho incontrato belle persone. Mi insultavano, mi chiamavano mongoloide, immondizia. Ma sono certo che anche in Italia ci saranno brave persone, come dappertutto. In fondo tutte le esperienze portano del bene e del male. E ho imparato a dire anche di no”. Lettere: una donna medico racconta la Pasqua dei detenuti di Benedetta Cosmi Affari Italiani, 5 aprile 2012 Sandra ha 50 anni: dopo essersi lasciata con il marito ha ripreso in mano la sua laurea e fa la guardia medica nel carcere di Favignana. A seguire il suo racconto. “Ed eccomi di nuovo nella mia stanza - celletta, per il mio turno prefestivo, il sabato e la domenica il clima in carcere è più disteso, chissà perché, avvertono pure loro, la sindrome da “sabato nel Villaggio” di Leopardiana memoria. Mattinata travagliata per raggiungere l’isola, l’aliscafo si guasta durante il tragitto, un inconveniente che, rende ancora, più malinconico il mio ingresso in carcere, i detenuti sono in fibrillazione emotiva ,alcuni riabbracceranno i propri cari con permessi speciali... questa loro gioia la palpi è nell’aria! Pasqua è alle porte! A me invece la visione delle uova di Pasqua e degli agnellini di frutta martorana che occhieggiano dalle vetrine al mio passaggio, mettono una profonda tristezza, Pasqua in guardia medica, Pasquetta in carcere, bel programmino, dico a me stessa; preferisco lavorare durante le feste, è l’unico modo per non pensare, aiutare chi ha bisogno è una grande gratificazione per la mia anima. La mia professione è un’arte, resa nobile dall’impegno dedicato a chi soffre, la medicina penitenziaria a sua volta è resa nobile due volte perché è rivolta a chi soffre per una doppia afflizione: la perdita di libertà, la perdita della salute. Sento la gravità e la grandezza delle mie responsabilità umane e professionali e questo mi fa stare bene psicologicamente, qui c’è qualcuno che mi fa sentire utile e nello stesso tempo importante, alimentando il mio Ego. In carcere, il medico diventa sempre più specialista in “umanità”, si ha a che fare con le sofferenze di ammalati, la cui malattia è anche spesso la paura delle malattie, la paura di morire senza sapere di chi fidarsi, a chi affidarsi. Medicina Penitenziaria: un sostantivo che significa mali da curare, un aggettivo che richiama una quotidianità intrisa di angoscia. L’abbinamento dell’aggettivo al sostantivo, evidenzia sul piano della concreta oggettività, una situazione di duplice sofferenza che viene a risultare ben più che raddoppiata a causa dell’ulteriore aggravamento che ciascuna delle due condizioni subisce nel trovarsi accompagnata dall’altra. Ne consegue che il compito di chi è chiamato a curare i detenuti ammalati porta con sé responsabilità e difficoltà senz’altro maggiori di quelle del consueto operare medico. La medicina Penitenziaria è una sorta di Croce Rossa in perpetua emergenza. Lettere: a Gorizia un carcere indegno di un Paese civile di Anna Cicigoi (Classe IV D Liceo Scientifico Duca degli Abruzzi) Il Piccolo, 5 aprile 2012 I detenuti del carcere di Gorizia vivono in una struttura obsoleta e fatiscente: c’è bisogno di una ristrutturazione urgente; finora si è fatto poco o nulla. La struttura dovrebbe contenere al massimo 55 detenuti, invece ne contiene il 30 per cento in più. Le celle sono sovraffollate, i servizi igienici sono insufficienti, l’organico degli agenti della Polizia giudiziaria è carente. Il maggior numero di detenuti sconta una pena per reati minori, il furto e lo spaccio di droga, molto spesso legati a condizioni di vita disagiata e a situazioni difficili e precarie. Unici - ma non irrilevanti - emergono due dati positivi: l’ottimo rapporto che intercorre tra il personale e i detenuti (il clima è positivo e stimolante e permette un continuo relazionarsi) e la presenza di un gruppo di volontari, attivi già da diversi anni, che con la parola, l’ascolto e iniziative di vario genere cercano di aiutare i detenuti a crearsi aspettative di vita per il futuro che li attende una volta fuori. È di questi giorni il dibattito politico sulla proposta di legge - ancora in corso di definizione - di svuotare parzialmente le carceri varando una forma di amnistia per i detenuti che hanno commesso reati minori. La proposta vorrebbe che i detenuti per reati minori fossero scarcerati e aiutati a reinserirsi nella società attraverso un percorso riabilitativo e formativo. Il minor numero di detenuti garantirebbe un saldo positivo nel bilancio del ministero della Giustizia, con la conseguenza che tale risparmio sarebbe investito per migliorare sia la qualità dei servizi erogati che le condizioni di vita, senza trascurare i miglioramenti strutturali previsti per tutti gli istituti di pena. Questa proposta di legge ha già sollevato un vespaio. Molta gente, per paura o ignoranza, non gradisce che i detenuti per reati minori vengano posti in libertà. Ritengono infatti che la detenzione rimanga la pena migliore e più efficace per garantire la sicurezza sociale. Altri invece sostengono che il colpevole deve avere la possibilità di redimersi seguendo un percorso riabilitativo, al di fuori della struttura penitenziaria perché la pena deve avere un aspetto rieducativo e non vendicativo. In ogni caso appare indispensabile ristrutturare gli istituti di pena. Il progresso di uno stato democratico è valutato anche dalle condizioni di vita delle sue carceri: non è umano né decoroso pensare che in una cella predisposta per tre persone ne vivano sei. In attesa di proposte da parte del governo, le forze politiche locali dovrebbero focalizzare la loro attenzione sulle condizione dei detenuti nel carcere di Gorizia, cercando di trovare soluzioni urgenti per ristrutturare tale struttura, che appare ormai in condizioni di degrado e che non garantisce più gli standard minimi di vita. Sardegna: vertenza carceri, è sul personale la nuova battaglia La Nuova Sardegna, 5 aprile 2012 Restano ancora senza risposta gli interrogativi sul trasferimento in Sardegna di detenuti condannati per reati di mafia e sull’idea di ritrasformare l’Asinara in un penitenziario di massima sicurezza. Il confronto Stato-Regione sulla vertenza carceri è ripartito ieri in consiglio regionale su temi meno drammatici ma ugualmente di grande attualità: il sovraffollamento delle celle, le nuove strutture, il personale. Sentito dalla commissione guidata da Tore Amadu (Pdl), il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu ha riconosciuto la fondatezza delle rivendicazioni. Soprattutto di quella sul personale: nelle carceri sarde mancano 500 agenti e questa lacuna rischia di compromettere la partenza delle nuove strutture. Prendiamo Tempio: alla Rotonda ci sono 25 agenti, nei nuovi locali di Nuchis, già consegnati e in fase di arredo anche grazie al lavoro di un gruppo di detenuti, di agenti ne occorreranno 125. Delle nuove carceri è in fase di completamento anche quella di Oristano (la consegna potrebbe avvenire entro la fine di aprile), mentre per Uta (Cagliari) e Bancali (Sassari) bisognerà attendere la fine dell’anno, se tutto procederà senza altri intoppi. Rispondendo alle domande del presidente Amadu e di Pietro Pittalis e Michelina Lunesu (Pdl), Giuseppe Luigi Cucca (Pd), Claudia Zuncheddu (Indipendentistas) e Ben Amara (Pdci), il provveditore regionale non si è sbilanciato sul caso dell’arrivo dei detenuti sotto regime di 41 bis né su quello dell’Asinara, spiegando che sono valutazioni fatte dal ministro e che spettano al governo. Alla fine della riunione, il presidente della commissione si è detto soddisfatto per “questo primo contatto”. Ma ha detto che la Sardegna farà sentire la propria voce sia su 41 bis sia sull’Asinara, ma anche sulla questione del personale. Mentre il caso del sovraffollamento si è ridimensionato: le carceri sarde possono sono fatte per 2.037 detenuti, attualmente ne sono ospitati 2.186, ma l’emergenza scatterebbe solo a 2.760. Napoli: la Garante dei detenuti Adriana Tocco; a Poggioreale situazione esplosiva www.campanianotizie.com, 5 aprile 2012 La Garante campana dei detenuti Adriana Tocco, che nei giorni scorsi insieme all’Assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli Sergio D’Angelo, ha visitato la casa circondariale napoletana, in una nota afferma di aver riscontrato lo “stato di grave disagio in cui versano i detenuti, stipati in alcuni casi in nove nella stessa cella per ventidue ore al giorno senza alcuna attività di lavoro o formazione”. “Per questo - ricorda la Tocco - il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta valutando la possibilità di costruire un nuovo carcere in Campania, che consentirebbe di alleviare le condizioni di disagio estreme presenti attualmente nelle carceri campane e di ridurre il gap esistente tra il numero di detenuti residente in Campania (circa 12.000) e quelli ospitati negli istituti della regione (non oltre 7.000). Ben 5000 detenuti, infatti, risiedono in istituti penitenziari di altre regioni e perciò lontani dalle famiglie. “Occorre perciò - prosegue - un grande sforzo di collaborazione istituzionale tra Regione Campania e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. A tale riguardo Tocco ritiene indispensabile un incontro tra il Presidente della Regione Campania Stefano Caldoro e i vertici del Dap che, afferma l’assessore D’Angelo, “é necessario anche per far sì che in tempi brevissimi, si possa accelerare la procedura per lo sblocco di 11 milioni di euro, già destinati al reinserimento dei detenuti. Fondi che andrebbero utilizzati per i corsi di formazione e progetti di lavoro, fermi ormai dal 2010, richiesti con insistenza dai Comuni e dalle Direzioni degli Istituti penitenziari. Ciò consentirebbe di rendere più sopportabili le condizioni dei detenuti ed offrire loro opportunità di lavoro esterno, e conseguentemente di bloccare l’effetto “porta girevole” per cui, chi pur avendo scontato la pena, nel 70% dei casi rientra nel circuito penale”. Cagliari: Sdr; detenuto malato aids rischia di trascorrere feste pasquali a Buoncammino Comunicato stampa, 5 aprile 2012 “Le condizioni di salute non gli permettono neppure di camminare autonomamente costringendolo a muoversi su una sedia a rotelle. Lo stato di prostrazione gli rende intollerabile la permanenza in un Istituto di detenzione ma, se non arriverà una risposta in tempi brevi dal Tribunale di Sorveglianza, un cittadino privato della libertà affetto da Aids trascorrerà a Buoncammino anche le festività pasquali”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha raccolto l’appello di un detenuto cagliaritano S.I., 40 anni, ristretto nella Casa Circondariale cittadina. “Si tratta di una persona - sottolinea Caligaris - non più in grado di badare a se stessa che manifesta un gravissimo stato di malessere non alleviabile con l’impegno dei medici, degli infermieri e con la manifesta umanità degli Agenti di Polizia Penitenziaria. “Non ce la faccio più” ha dichiarato nel corso di un intenso colloquio manifestando profondo disagio”. “Sono palesi - evidenzia la presidente di Sdr - l’assenza di speranza che traspare dall’atteggiamento, dai gesti e dalle parole e il dolore fisico che si manifesta non appena compie un movimento. La permanenza dentro il carcere appare come una tortura aggiuntiva e immotivata verso una persona che peraltro ha una patologia che mette a serio pericolo la sua prospettiva di vita”. Il detenuto, assistito dall’avvocato Anna Maria Busia, ha presentato istanza di differimento pena lo scorso febbraio. Sciacca (Ag): comunicazione del ministero “non ci risulta la costruzione di alcun carcere” La Sicilia, 5 aprile 2012 Ora c’è un atto ufficiale a dichiarare per il momento chiusa qualsiasi strada che porta alla realizzazione della nuova Casa circondariale. Il ministero della Giustizia, nella persona del provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, in risposta ad una nota della Cgil che alcune settimane fa chiedevi delucidazioni sulla nuova struttura penitenziaria, ha testualmente scritto che “allo stato attuale, non risulta allo scrivente la costruzione di alcuna nuova struttura penitenziaria a Sciacca”. Poche e significative parole per dare una conferma ufficiale alle voci che da mesi si rincorrono e che danno per sospeso il piano carceri voluto dal governo Berlusconi, con il nuovo carcere saccense inserito tra le priorità siciliane. La condizione di sovraffollamento degli istituti di pena italiani nel 2010 indusse il governo a dichiara lo stato di emergenza nazionale delle carceri italiane. Nacque la necessità di fronteggiare il problema con poteri straordinari e da esso il cosiddetto “piano carceri” con progetti di ammodernamento ed investimenti. Lo stato di emergenza venne prorogato fino al 31 dicembre 2011, ma il cambio di guida del governo e le sopraggiunte necessità di rivedere le spese, hanno sospeso la programmazione, anche se nel sito istituzionale della programmazione, il nuovo carcere di Sciacca figura tra i progetti previsti in Sicilia, con un investimento di quaranta milioni di euro per un carcere di quattrocentocinquanta posti. Ma è oggi la comunicazione del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria a far fede, il che significa un duro colpo per il territorio, con risvolti gravi anche sull’eventuale ristrutturazione dell’attuale sede penitenziaria, un intervento altrettanto costoso. Il nuovo governo avrebbe ridotto drasticamente i fondi annullando due delle quattro strutture penitenziarie previste in Sicilia e, cioè Marsala e Sciacca. L’allarme, confermato dai fatti, era stato lanciato dalla Cgil. A pagare il prezzo e le conseguenze di una situazione deficitaria, oggi è il personale che lavora in un immobile inadeguato e gli stessi detenuti. Ma non ci si potrà fare affidamento in eterno sulle indubbie capacità degli operatori. Servono tanti mezzi e risorse, ovvero dotazioni organiche e disponibilità economiche. Ma era già tutto previsto: il ministro della Giustizia Paola Severino poche settimane fa ha detto nel corso di alcuni interventi istituzionali che il nuovo governo intende rivedere il progetto di investimenti nel settore penitenziario. Foggia: Osapp; detenuto tenta il suicidio, salvato dagli agenti Comunicato stampa, 5 aprile 2012 “Altro tentativo di suicidio nelle carceri pugliesi salvato solo grazie alla diligenza tempestività e professionalità della Polizia Penitenziaria di Foggia. Per il sindacato di Polizia Osapp: “dopo il buco dei giorni scorsi scavato da parte di un detenuto straniero, siamo nuovamente subito passati all’uso della corda per tentata impiccagione.” Mentre a Bari Prap i dirigenti giocano alla scacchiera con il proprio personale di polizia a disposizione circa 55 agenti e 50 personale civile per un totale di 105 unità per come e quando occupare le caselle di uffici e scrivanie libere, nelle carceri i pochi poliziotti rimasti di Vigilanza salvano la vita alle persone detenute anche sotto criticità detentiva sovraffollamento storico e carenza di polizia penitenziaria atteso che un solo agente ne sorveglia volte anche 150 con più reparti detentivi da controllare. Ma la notizia sarebbe giunta pochi minuti fa da Foggia circa il salvataggio dal suicidio di un detenuto D.C. nato il 26 giugno 1966 a Foggia appellante per reati concorso in rapina aggravata, violazione della sorveglianza speciale dedito alle aggressioni contro la polizia penitenziaria nel recente passato, un atto inconsulto per disperazione messo in atto con l’utilizzo della cintura del proprio accappatoio, allacciata alle sbarre della propria cella si è lasciato andare in attesa che la morte lo raggiungesse. L’unico e solo agente di Vigilanza nel reparto, in un consueto ennesimo giro d’ispezione, affacciatosi dallo spioncino esterno della cella ha notato già appeso il detenuto, immediatamente ha dato l’allarme ed aperto la cella con l’ausilio dell’Ispettore di Sorveglianza generale, un Sovrintendente ed altri due agenti, lo hanno sostenuto, tagliato la corda e steso per terra. Il detenuto dopo i primi urgenti soccorsi di rianimazione lo hanno trasportato all’infermeria del carcere per le cure mediche evitando il peggio. A Foggia Carcere un istituto nato per ospitare 320 reclusi alla data odierna sarebbero circa 720 persone di cui 35 donne, una drammatica situazione di invivibilità per mancanza di spazi, risorse economiche. A Foggia i poliziotti previsti da decreto ministeriale, datato 8 febbraio 2011, sarebbero 311, sono realmente 298 unità, quando ne dovrebbero essere almeno 400 poliziotti come indicato dalla stessa Amministrazione periferica e dal Sindacato di polizia. Domenico Mastrulli Vicesegretario Generale Nazionale Osapp Rieti: Petrangeli, Gonnella e Nieri in visita al carcere “non resti luogo isolato dalla città” Dire, 5 aprile 2012 Il candidato sindaco al Comune di Rieti per il centrosinistra, Simone Petrangeli, il capogruppo di Sinistra ecologia libertà nel Consiglio regionale del Lazio, Luigi Nieri, e il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, si sono recati, questo pomeriggio, in visita all’istituto penitenziario di Rieti. “L’auspicio è che il personale di polizia, quello sanitario ed educativo sia sufficiente a gestire una struttura nuova e complessa, che Rieti non ha mai avuto prima - ha dichiarato, in una nota, Simone Petrangeli. Bisogna evitare che questo carcere diventi l’ennesima cattedrale nel deserto. Rieti si candida ad accettare la sfida di farlo diventare un luogo di sperimentazione nel Lazio. La sinergia delle realtà sociali ed economiche del territorio può contribuire a far funzionare il carcere come luogo rieducativo, nel quale i detenuti siano impegnati in attività lavorative e sociali di pubblica utilità“. “Il modello da replicare - prosegue Petrangeli - è quello del carcere di Bollate a Milano. Mi candido a far sì che quell’esperienza possa ripetersi anche qui. Voglio impegnarmi, inoltre, a far sì che il carcere non sia un luogo isolato dal resto della città. A tal proposito mi impegnerò a realizzare una fermata del trasporto locale nei pressi dell’istituto penitenziario, per consentire ai parenti dei detenuti di raggiungere agevolmente la struttura”. “Si tratta di carcere di recente realizzazione, che versa in buone condizione e nel quale, al momento, sono presenti 188 detenuti - aggiunge Patrizio Gonnella. Presto arriveranno altri detenuti e a breve il carcere funzionerà a pieno regime”. “Proseguiamo il nostro viaggio nelle carceri laziali per verificare le condizioni in cui si trovano i detenuti - dichiara Nieri. Le notizie che sempre più spesso arrivano dalla carceri ci parlano di un mondo dove aumentano le criticità e dove peggiorano le condizioni di vita. Continueremo a vigilare affinché non si verifichino episodi degradanti e lesivi della dignità della persona e per far sì che l’opinione pubblica e gli organismi preposti possano occuparsi sempre più spesso di un tema importante che richiede interventi urgenti e iniziative adeguate, specie in materia di sanità”. Bologna: il Garante regionale Desi Bruno; all’Ipm del Pratello stallo organizzativo Redattore Sociale, 5 aprile 2012 A 3 mesi dalla rimozione dei vertici dell’Istituto penale minorile di Bologna, la situazione è bloccata dalle dimissioni del capo del Dipartimento di giustizia minorile. Per la garante Desi Bruno, “un’incertezza che non fa bene a nessuno”. A 3 mesi dalla bufera giudiziaria che ha portato alla rimozione dei vertici dell’Istituto penale minorile di Bologna, il carcere del Pratello è tornato a vivere il consueto paradosso: quello di essere un luogo di reclusione situato nel cuore della città, ma ignorato o dimenticato da gran parte dei bolognesi. Ma com’è oggi la situazione dell’istituto e dei ragazzi che ci vivono? A livello organizzativo “c’è stato un ulteriore stallo”, spiega la garante regionale dei detenuti Desi Bruno, che ha visitato la struttura nel gennaio scorso. Tutto è rallentato dalle dimissioni di Manuela Romei Pasetti da capo del Dipartimento di giustizia minorile, presentate a fine marzo dopo meno di 2 mesi dalla sua nomina. Nessuna scadenza si intravede quindi per l’interim del nuovo direttore del Pratello (Francesco Pellegrino) e del nuovo direttore del Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna (Paolo Attardo). “La mancanza di riferimenti crea una situazione di incertezza che non fa bene a nessuno”, commenta la garante, che annuncia comunque una nuova visita al Pratello dopo Pasqua. All’interno dell’istituto la situazione sembra essere tranquilla. Merito anche dei lavori di ristrutturazione che hanno ampliato a 48 i posti disponibili. “Oggi i minori presenti sono 22, tra detenuti in custodia cautelare e definitivi - spiega Desi Bruno. Il nuovo complesso ha risolto il problema del sovraffollamento, anche se forse sarebbe stato più opportuna la previsione di stanze per l’accoglienza di 2 minori, e non di 4, come è attualmente. Il trasferimento ha migliorato in parte la qualità dei servizi e la condizione lavorativa di tutti gli operatori, anche se la ristrutturazione non è ancora del tutto terminata e resta ancora fatiscente la struttura che ospita la procura e il tribunale dei minori”. Per i volontari di Uva Passa, che ogni sabato e domenica pomeriggio entrano al Pratello per offrire attività e momenti di svago ai ragazzi, il succedersi dei direttori non ha avuto particolari ripercussioni. “Noi non abbiamo mai smesso di entrare”, spiega il vicepresidente dell’associazione, Marco Mazzotti. Anche nel periodo natalizio, che coincideva con la rimozione dei vecchi vertici dell’istituto, “le nostre attività sono andate avanti, lo interpretiamo come un segno di fiducia nei nostri confronti”. I volontari di Uva Passa sono una quarantina, ed entreranno al Pratello anche nel weekend di Pasqua. Fra le loro nuove iniziative ci sono gli incontri di sensibilizzazione con i ragazzi delle scuole superiori (coetanei dei detenuti) ma anche la registrazioni di canzoni hip-hop scritte dai ragazzi detenuti al Pratello. “Anche se collaboriamo con educatori e agenti, non abbiamo sentito tanta differenza fra le varie direzioni - conclude Mazzotti. Le questioni giudiziarie devono essere chiarite, ma a noi interessa soprattutto creare un rapporto con i ragazzi”. Bologna: Sappe; cani antidroga alla Dozza, trovati 5 grammi di hashish Dire, 5 aprile 2012 Cani antidroga al carcere della Dozza. Una perquisizione straordinaria, quella fatta stamattina, che ha fatto saltar fuori cinque grammi di hashish dal bagno della sala colloqui. Lo rende noto il sindacato Sappe in una nota: “Considerato che il luogo è frequentato anche dai famigliari dei detenuti non è stato possibile individuare chi ha occultato la sostanza stupefacente, molto probabilmente destinata a qualche detenuto”, afferma il segretario aggiunto Giovanni Battista Durante. Per il Sappe l’impiego dei cani antidroga è molto importante nelle carceri, soprattutto alla luce del fatto che c’è un alto numero di detenuti tossicodipendenti e dunque “è frequente il tentativo di cessione ed uso di sostanze stupefacenti”, afferma Durante. Nelle carceri italiane il 25% dei detenuti è tossicodipendente, ricorda il segretario aggiunto del Sappe. A Bologna ce ne sono “circa 300”. Nonostante questo, “sono solo sei le regioni dotate delle unità cinofile tra queste non c’è l’Emilia-Romagna”. Secondo il Sappe, “sarebbe opportuno che il nuovo capo del Dipartimento, Giovanni Tamburino, disponesse al più presto la costituzione di tale servizio nelle regioni in cui non è operante”. Aosta: ex cappellano a processo; favori sessuali dai detenuti in cambio di sigari e liquori www.aostasera.it, 5 aprile 2012 È accusato di corruzione fratel Renato Tallone, 61 anni, sacerdote della Diocesi di Aosta e all’epoca dei fatti cappellano presso la casa circondariale di Aosta. La vicenda - riportata dall’Agenzia Ansa - risale al maggio del 2010 quando don Tallone, perquisito dagli agenti di Polizia Penitenziaria, è stato sorpreso in carcere con una chiavetta Usb per navigare in internet vietata dai regolamenti carcerari. La chiavetta, secondo gli inquirenti, era destinata ad un collaboratore di giustizia, Marco Messina, di 29 anni, ora recluso al carcere di Vicenza ed era intestata alla madre del giovane. Al centro dello scambio, secondo il Procuratore capo di Aosta, Marilinda Mineccia, ci sarebbero “prestazioni sessuali” promesse dal pentito al sacerdote in cambio della chiavetta internet. Nel mese di gennaio Fratel Renato Tallone ha patteggiato davanti al gip, decidendo poi di fare ricorso in Cassazione. Oggi, mercoledì 3 aprile, si è svolto invece il primo atto del processo a carico di Marco Messina che è comparso davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Aosta. Secondo l’avvocato di Messina Carlo Laganà “dalle dichiarazioni rese in udienza oggi non emergono prove circa lo scambio di favori sessuali a carico del mio assistito”. Due collaboratori di giustizia, sentiti oggi come testimoni, hanno invece raccontato di sigari e liquori che Don Renato Tallone portava loro in carcere. La prossima udienza è stata fissata il prossimo 9 maggio. Varese: “un viaggio che ci ha portato qui”, le storie di detenuti stranieri www3.varesenews.it, 5 aprile 2012 Sabrina Gaiera, Agente di rete in carcere e operatrice del Consorzio SolCo Varese, ci racconta l’incontro avvenuto pochi giorni fa nell’istituto varesino con gli studenti. Giovedì 29 marzo, ore 14.00: appuntamento in Carcere a Varese tra i ragazzi delle scuole che aderiscono al progetto legalità e le persone ristrette, quelle del gruppo della legalità e gli stranieri. Ci siamo preparati negli ultimi mesi per incontrarci e per provare a raccontare con le nostre storie di viaggio, di rapporti nelle nostre famiglie, di fatiche trascorse su un treno e chissà dove, di come siamo finiti qui in Italia e in questo posto in particolare. Il gruppo stranieri è variamente rappresentato: c’è chi arriva dall’Albania, dal Marocco, dal Pakistan, da Capoverde, dal Perù. Chi è cresciuto qui, chi è arrivato più grande inseguendo un sogno: quello di stare meglio in un Paese che tutti immaginano ricco, pieno di possibilità, libero. Rompe il ghiaccio Leon, con la sua voce forte, si presenta. E poi legge la sua storia fin dal primo giorno, quella volta che scese dal treno alla stazione Centrale… poi Mustapha, Mohamed, Dongo, Fernando, Butt…. Tutti hanno da raccontare. Chi si è ritrovato a camminare solo in autostrada perché il passaggio dalla Spagna era troppo controllato, chi ricorda il suo paese e le sue tradizioni, i cambiamenti della primavera araba e immagina che ora non si potrà che stare meglio, chi ha un ricordo preciso della sua storia con un padre severo e testardo, chi ha rivisto la mamma dopo tanti anni proprio qui, in carcere. Raccontarsi: quanta fatica a ritrovare le parole giuste, a decidere che alcune cose di sé si possono dire in pubblico, a ricostruire un pezzo di storia importante della propria vita. Come educatori Abbiamo deciso ori che le storie dei ristretti e in questo caso delle persone straniere potevano essere uno strumento di conoscenza, un modo per entrare e conoscere con rispetto la storia di chi sta in carcere. raccontarsi è anche un modo per ricostruire parti di sé, ritrovarsi, e forse riuscire a darsi una prospettiva possibile per il futuro. Dopo i racconti c’è spazio per lavorare in gruppo: ci chiediamo cos è l’integrazione, come saremo tra vent’anni, qual è l’immagine dei nostri Paesi agli occhi degli altri… le parole che risuonano quando ci ritroviamo insieme sono “parole buone”, positive. Si parla di rispetto, di multi etnicità, di possibilità di incontro, di desiderio di conoscere gli altri per non essere vittime di pregiudizi. Sergio però ci provoca: osa dividerci in due gruppi, distinti, lontani: italiani da una parte, “il resto del mondo” dall’altra. Questa divisione irrita, non appartiene a nessuno, non siamo abituati alle divisioni, non hanno senso. Tra vent’anni saremo certamente più uniti, meticci, meno legati a immagini convenzionali rispetto agli stranieri. Seduto nella divisione nessuno vuole stare, non si vede l’ora che la provocazione finisca. E così è finalmente. E come spesso accade negli incontri tra “nuovi amici” c’è anche il momento per bere e mangiare qualcosa insieme: thè alla menta e corni di gazzella (dolci maghrebini preparati in cucina da Mustapha). Ecco tre ore sono già finite: abbiamo condiviso parole ed emozioni, anche quelle più forti. Ora i detenuti lasceranno per primi la sala, per recarsi a trascorrere la solita serata preparando qualcosa per cena e guardando la TV. I ragazzi usciranno un attimo dopo. Nel loro ricordo le storie e l’importanza di un incontro. E poi un bel venerdì sera. Ci salutiamo, operatori e insegnanti. È stato un bell’incontro, positivo, come lo sono stati tutti quelli vissuti quest’anno all’interno del progetto di educazione alla legalità. Un ringraziamento a chi c’era: alla direzione dell’Istituto e agli agenti di Polizia Penitenziaria presenti per tutto il tempo dell’incontro, alla Responsabile dell’area educativa che sempre ci sprona alla migliore preparazione delle attività, agli educatori che si sono dedicati con professionalità e costanza alla riuscita dell’incontro, al consorzio SolCo Varese e a Enaip che nonostante la fatica di progetti che stentano a essere confermati sempre ci permettono di partecipare in qualità di agenti di rete alle iniziative più importanti. Grazie agli studenti, alla loro rispettosa curiosità e al loro interesse. E poi un grazie alle persone che sono ritornate in cella dopo le cinque: grazie per aver deciso di mettersi in gioco, di raccontarsi, di volersi esporre per dire una volta in più che quando saranno di nuovo liberi, liberamente potranno scegliere di vivere diversamente e di stare bene. Sono le diciassette. Nelle celle c è musica. Ci si prepara alla sera, al film della tv, al passaggio di un altro giorno. Sono le diciassette: fuori c’è ancora tanto sole. Milano: Casa di Reclusione di Bollate … una città da scoprire www.marketpress.info, 5 aprile 2012 Un giorno in carcere, un percorso guidato tra attività produttive e artistiche per scoprire dove nascono progetti e iniziative di speranza e di futuro. Della realtà carceraria della Seconda Casa di Reclusione di Milano - più nota come Carcere di Bollate - si è parlato molto. Forse, però, non si conosce proprio tutto di questo istituto definito “a trattamento avanzato”, nel quale storie, relazioni umane, leggi e burocrazia convivono in modo costruttivo. Una realtà dove lavoro e formazione sono l’impegno quotidiano, esattamente come fuori. Si lavora nelle serre e negli impianti florovivaistici ricchi di piante perenni, a fioritura, di graminacee; si studia in una biblioteca che contiene sedicimila volumi, collegata con la rete di biblioteche del territorio; si accede ai corsi della compagnia teatrale che alle serate benefiche alterna spettacoli aperitivo, contando sull’aiuto del catering interno in cui prestano la loro opera cuochi esperti. Oppure si lavora in un maneggio, che grazie a un progetto specifico forma artieri e predispone un percorso riabilitativo nella devianza sociale mediato dal cavallo. C’è anche lo sportello anagrafe interno, appena inaugurato. Questo e molti di più c’è nella “città da scoprire”. La Settimana fra le Groane ha previsto una fermata alla casa penitenziaria di Bollate, sabato 21 aprile 2012 a partire dalle ore 17. Ritrovo all’ingresso del carcere e visita alle attività dell’Istituto: serre florovivaistiche, area cavalli, area industriale e laboratori. Ore 18.30 pizza per tutti preparata dal catering interno (€ 8). Termine visita. Per chi lo desideri il percorso può continuare visitando la mostra filatelica a cura del Circolo Filatelico interno in collaborazione con il Centro Italiano Filatelia Resistenza e Storia Contemporanea di Novate Milanese. Alle 20.30, spettacolo teatrale allestito nel teatro dell’Istituto. È anche possibile accedere alle 19.00 per seguire solo la seconda parte della giornata o dalle 20.00 per assistere allo spettacolo teatrale. Iscrizione obbligatoria entro martedì 17 aprile all’Ufficio Cultura di Bollate tel. 02 35005501 o via mail cultura@comune.Bollate.mi.it L’ingresso non è consentito ai minorenni. È necessario presentarsi almeno 30 minuti prima dell’inizio dell’attività scelta muniti di documento d’identità valido. Non è consentito introdurre telefoni cellulari, macchine fotografiche o apparecchiature elettroniche. Afghanistan: Hrw; dagli abusi in famiglia al carcere, storie di donne senza diritti di Elisa Zanetti www.linkiesta.it, 5 aprile 2012 Scappano da mariti che sono state costrette a sposare e che le picchiano e proprio per questo vengono arrestate. Sono 400 le donne e le ragazze detenute nelle prigioni afghane per avere tentato la fuga da situazioni di violenza o accusate di avere tradito i propri mariti. L’Ong Human Rights Watch ha raccolto le testimonianze di 58 di loro. Eccole. A dodici anni sono stata data in sposa a un uomo per rimediare al danno causato da mio fratello, che era scappato con una delle sue sorelle. Non sono state nozze felici. Mio marito mi picchiava e mi violentava e dopo nove anni e tre figli, il primo dei quali l’ho avuto a 13 anni, mi ha accusata di aver tentato la fuga con un uomo con il quale aveva una disputa e che io nemmeno conoscevo. Sono sicura che si è inventato tutto soltanto per vendicarsi di un nemico e liberarsi di me, il giorno dopo il mio arresto ha sposato un’altra donna (Souriya, 21 anni, condannata a 5 anni e mezzo per avere tradito il marito e tentato la fuga) Quella di Souriya è solo una delle 58 storie di ingiustizia, soprusi e disperazione raccolte dall’ong Human Rights Watch in tre prigioni e in tre centri di detenzione per minori in Afghanistan. Storie di donne, a volte di ragazzine poco più che bambine, arrestate e imprigionate semplicemente per aver cercato di scappare da una vita di violenze e soprusi. I had to run away: women and girls imprisoned for “Moral crimes” in Afghanistan, è questo il titolo del rapporto stilato dall’organizzazione a difesa dei diritti umani che denuncia la presenza nelle carceri afghane di oltre 400 donne e bambine arrestate per aver commesso crimini contro la morale. Crimini che in realtà molto spesso altro non sono se non il disperato tentativo di sottrarsi a matrimoni forzati o a situazioni di violenza fra le mura di casa. “È sorprendente che, dieci anni dopo la fine del governo talebano, continuino a esserci donne e bambine arrestate per essere scappate da abusi domestici o unioni imposte contro la loro volontà - commenta Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch -. Non bisognerebbe arrestare nessuno perché fugge da una situazione di pericolo, anche se questo avviene all’interno della propria casa”. Pur non essendo la fuga un delitto contemplato dal codice penale, i giudici considerano alla stregua di delinquenti le donne che tentano di allontanarsi da casa. E per le afghane, rivolgersi alla polizia per sporgere denuncia o chiedere aiuto, spesso non rappresenta una valida alternativa. Sono molte infatti le donne che hanno raccontato di essersi recate dalle forze dell’ordine sperando di ottenere protezione e che invece sono state portate in carcere. Dopo un mese dal nostro matrimonio ha iniziato a picchiarmi. Anche mia suocera mi picchiava. Sono andata dalla polizia, sapevo che mi avrebbero arrestata per essere scappata. Ho detto al poliziotto: “Portatemi in prigione”. Quando uscirò da qui tornerò dai miei genitori, credo mi aiuteranno, e proverò a divorziare da “lui”. Non voglio usare la parola “marito”, la odio. Il mio fegato è diventato nero per colpa di mio “marito”… Se avessi immaginato cosa avrei dovuto sopportare mi sarei buttata in un fiume e mi sarei suicidata. (Parwana, 19 anni, condannata a 6 mesi di carcere) Il divorzio che Parwana si augura di ottenere, non è certo un obiettivo facile da raggiungere, soprattutto per la forte influenza che le leggi arcaiche continuano a esercitare nel Paese. Secondo tali norme a un uomo basta semplicemente dichiararsi divorziato per essere ritenuto tale, mentre per una donna ottenere la separazione risulta quasi impossibile. Troppo spesso, se non tollerata, la violenza sulle donne è considerata come parte della normalità. “Devi essere paziente”, così risponde il padre di una delle ragazze intervistate da Hrw, dopo che la figlia gli aveva chiesto aiuto per le angherie subite dal marito. E sebbene la legge del 2009 per l’eliminazione della violenza contro la donna affermi che picchiare una donna costituisca reato, molto spesso gli uomini non vengono nemmeno indagati per i crimini che commettono ai danni delle loro compagne, mentre queste ultime vengono arrestate per aver semplicemente tentato di mettersi in salvo. Nonostante nel 2007 il governo si sia impegnato nella redazione di un piano di azione nazionale a favore della donna e nella stesura di una nuova legge sulla famiglia, la situazione nel Paese non è migliorata e la legge, bloccata dal 2010, è tutt’altro che vicina alla sua approvazione. Le donne accusate di crimini contro la morale, riporta Hrw, vanno incontro a un sistema giuridico che le ostacola in ogni modo: vengono arrestate su semplice denuncia dello sposo o di un familiare, i pubblici ministeri ignorano le prove di innocenza che queste provano a presentare, le condanne spesso vengono imposte basandosi su confessioni ottenute in assenza di avvocati e firmate da donne che non sanno né leggere né scrivere. Oltre alla fuga da casa, un altro dei principali reati di cui vengono accusate le afghane è la zina, ovvero l’avere avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Per questo crimine le donne possono essere punite con ben 15 anni di reclusione. Nel 2011 sono andata a trovare i miei familiari che vivono in un’altra città, mentre mio marito è rimasto a casa. Una volta arrivata, sono entrata in una stanza e ho salutato il fratello di mia cognata. Mio fratello si è arrabbiato molto, mi ha gridato che non avevo il permesso di parlargli e ha detto che mi avrebbe uccisa per questo. Sia io che il fratello di mia cognata avevamo paura che ci uccidesse, così anche se fra noi non c’era niente abbiamo deciso di fuggire insieme. Dopo qualche settimana mio fratello l’ha trovato e l’ha fatto arrestare. Ero terrorizzata, temevo che presto avrebbe preso anche me e che mi avrebbe ammazzata, così sono andata alla polizia. Mi hanno arrestata, ma se non altro qui sono al sicuro. (Rabia, 20 anni, condannata a sette anni per zina). Secondo il rapporto di Human Rights Watch sono molte le donne e le ragazzine che vengono accusate di zina pur essendo state violentate o costrette a prostituirsi. Stavo andando a trovare mia madre in ospedale e ho preso un taxi. In Afghanistan spesso i taxi portano più passeggeri, così quando sono salita sull’auto c’era già un altro uomo. I due mi hanno portata nella casa di una loro sorella e mi hanno violentata. Quando il giorno dopo mi hanno liberata non stavo bene, i miei familiari hanno scoperto tutto e mi hanno accompagnata alla polizia. Ho detto agli agenti dove si trovava la casa dove mi avevano condotta. I due uomini sono stati arrestati, ma mi hanno accusata dicendo che ero stata io a volere andare con loro. So che uno di loro dovrà restare in carcere per due anni, dell’altro non so nulla, così come non so perché la corte abbia deciso di condannare anche me (Marya, 15 anni, condannata a un anno di reclusione in un centro di detenzione giovanile). Nel 2009 La legge EVAW ha introdotto per la prima volta il reato di stupro, stabilendo dai cinque anni alla pena di morte per il colpevole, nel caso la vittima sia deceduta a causa della violenza. Prima del 2009, il codice penale del 1976 prevedeva l’esistenza di crimini contro l’onore e fra questi anche casi legati alla violenza sessuale. Non è chiaro se il reato di stupro, nonostante la sua introduzione, sia già stato processato. Alcuni dati governativi riguardanti persone incarcerate per diverse ragioni da ottobre 2011 rivelano che su 20.901 detenuti maschi e femmine, 993 erano in carcere per zina, 414 per pederastia, mentre lo stupro non era nemmeno registrato come categoria, così come la violazione dell’onore. È quindi probabile che nella misura in cui lo stupro sia stato processato, esso sia stato perseguito in base alle disposizioni del codice penale in materia di zina e non secondo la legge del 2009 che criminalizza specificamente lo stupro. “I tribunali mandano le donne in carcere per dubbi delitti, mentre i veri criminali, i loro aguzzini, restano in libertà - racconta Roth - Persino gli abusi più terribili non sembrano provocare più che uno scrollamento di spalle da parte dei pubblici ministeri, a discapito delle leggi che condannano la violenza contro le donne”. L’Onu ha invitato l’ Afghanistan ad abolire le leggi come quelle legate al reato di zina, che discriminano le donne e le condannano a pene ingiuste e degradanti. “Per Karzai, gli Stati Uniti e gli altri soggetti interessati - aggiunge Roth - è arrivato il momento di far valere le promesse che sono state fatte dieci anni fa alle donne afghane: mettere fine ai crimini contro la morale e portare avanti realmente la promozione dei diritti delle donne”. Stati Uniti: per presunti responsabili attentati 11 settembre sarà chiesta pena di morte Ansa, 5 aprile 2012 Gli Usa chiederanno la pena di morte di coloro che sono accusati di essere responsabili dell’11 settembre. Lo afferma un rappresentate del Pentagono, sottolineando che gli Usa sono pronti a riprendere il processo dei cinque detenuti a Guantanamo ritenuti colpevoli di aver pianificato e aiutato a realizzare gli attacchi. I cinque, fra i quali Khalid Sheik Mohammed, sono stati accusati nel 2008 ma il caso era stato sospeso quando il presidente americano Barack Obama si era insediato alla Casa Bianca. Le accuse erano state formalmente ritirate nel 2010 nell’ambito degli sforzi dell’amministrazione Obama di spostare i cinque accusati a New York per un processo civile e non militare. Sforzi che sono però naufragati con l’opposizione del Congresso. Fra le accuse mosse nei confronti dei cinque uomini ci sono terrorismo, dirottamento aereo, attacco nei confronti di civili e di obiettivi civili oltre che l’omicidio. A essere accusati oltre a Mohammed sono Ali Abdul Aziz Ali, Ramzi Binalshibh, Walid bin Attash, Mustafa al-Hawsawi. La lettura dei capi di imputazione avverrà a Guantanamo il prossimo mese. Libia: Amnesty; consegnare Saif al-Islam Gheddafi al Tribunale penale internazionale Asca, 5 aprile 2012 Il Tribunale penale internazionale (Icc) e le autorità libiche “prendano misure urgenti per assicurare che i diritti di Saif al-Islam Gheddafi siano protetti”. È la richiesta di Amnesty International che ha giudicato positivamente la decisione presa il 4 aprile dal’Icc che ha chiesto alla Libia di consegnare Saif al-Islam Gheddafi. “Questa decisione dovrebbe porre davvero fine alla lunga saga riguardante il destino di Saif al-Islam Gheddafi. La Libia deve rispettarla e darvi seguito senza ritardo - ha dichiarato Marek Marczynski, direttore del gruppo Giustizia internazionale presso il Segretariato Internazionale di Amnesty International. Un processo di fronte a un tribunale libico, dove l’imputato rischierebbe la pena di morte, non servirebbe in alcun modo la giustizia. Fino a quando il sistema giudiziario libico sarà debole e non saranno in vigore norme sulla procedura penale, il ruolo dell’Icc resterà fondamentale nell’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani in Libia”. Il sistema giudiziario libico, infatti, continua a essere praticamente paralizzato e i procedimenti contro migliaia di detenuti, per lo più indiziati di crimini di guerra, devono ancora avere inizio: nel frattempo, la maggior parte di essi è trattenuta in strutture che si collocano al fuori del contesto legale e non ha accesso agli avvocati. Amnesty International teme che i detenuti siano stati costretti a confermare, firmandole o timbrandole col pollice, confessioni estorte sotto tortura o coercizione. Saif al-Islam Gheddafi è ricercato dall’Icc per crimini contro l’umanità in relazione alla brutale soppressione delle manifestazioni dello scorso anno, sotto il governo del padre. Dal novembre scorso, quando è stato catturato, Saif al-Islam Gheddafi è stato tenuto in isolamento in un luogo segreto di Zintan, senza accesso a un avvocato né mezzi per comunicare coi suoi familiari. La decisione dell’Icc conferma che i diritti delle persone sospettate di aver commesso crimini devono essere tutelati. Birmania: ministro Terzi; governo liberi i prigionieri politici e l’Ue revochi le sanzioni Tm News, 5 aprile 2012 L’Europa deve superare le sanzioni economiche, “incoraggiando il governo birmano all’ulteriore liberazione di 150 prigionieri politici e a intraprendere la via delle riforme”. È quanto ha dichiarato in un’intervista a La Stampa il ministro degli Esteri Giulio Terzi, che il prossimo 25 aprile sarà in Birmania. Il ministro sarà accompagnato nella sua missione dall’inviato speciale dell’Unione europea, Piero Fassino, e da un gruppo di imprenditori “dei tipici settori del manifatturiero italiano, a cominciare dalle aziende che si occupano di infrastrutture e dell’energia naturalmente, essendo la Birmania ricchissima di materie prime”. A sottolineare l’apertura di credito di Roma al processo di apertura alla democrazia avviato dal regime: “I risultati delle elezioni suppletive di pochi giorni fa, andati oltre ogni aspettativa, si iscrivono in un quadro in cui il governo birmano ha assicurato la correttezza di quelle stesse elezioni, come confermato dagli osservatori internazionali - ha evidenziato Terzi - sono stati liberati gran parte dei prigionieri politici e il governo, come mi ha riferito qui a Roma anche il viceministro degli Esteri Myo Mint, è favorevole a riforme anche economiche”. “La Birmania ha risorse energetiche enormi, una posizione strategica nel Sud-Est asiatico e sta maturando la volontà di regolare pacificamente anche i rapporti, finora spesso sanguinosi, con le etnie ai confini con Tailandia e India”, ha aggiunto. Per questo “crediamo che l’Europa debba superare le sanzioni economiche”.