Giustizia: lo scandalo non sono le carceri… ma che ci si scandalizzi senza fare niente di Valeria Centorame Notizie Radicali, 3 aprile 2012 “Le carceri italiane... rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; “noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. (Filippo Turati, Camera dei Deputati, 18 marzo 1904). È passato oltre un secolo dalle affermazioni alla Camera di Turati. Le stesse identiche affermazioni avrebbero ed hanno valore di verità assoluta anche oggi. Perché in Italia si è arrivati all’ abbandono del welfare ed al ricorso alla pena come regolatore delle situazioni critiche del paese? In un sistema sociale nel quale interessa realmente risolvere problemi e disagio delle persone, alle “questioni sociali” si risponde con “interventi sociali”! Invece per la incapacità o più spesso per la precisa volontà di non usare questi interventi, si ricorre al grande “semplificatore”: il carcere, che asporta dal tessuto sociale le aree cosiddette critiche, dando vita alla “detenzione sociale”. Non è la criminalità che aumenta, ma è la criminalizzazione ed in carcere oggi ci sono le nuove fasce sociali più deboli, senza protezione perché si è scelta questa via come risposta al bisogno di sicurezza dei cittadini-(bisogno di sicurezza instillato come vedremo in seguito senza alcun fondamento reale). Proprio come recita il titolo del libro di Loic Wacquant: “Punire i poveri: il nuovo governo della insicurezza sociale”: il nostro Paese non assume un ruolo di prevenzione e di risposta sociale a criticità e precarietà ed alle condotte che ne sono espressione, ma ricorre al grande “semplificatore” ed adotta risposte penali. Si è passati dai 25.000 detenuti dei primi anni 90 agli oltre 68.000 attuali, conseguenza della estensione della penalizzazione per sempre nuove condotte, della inevitabile crescita del contrasto di polizia proprio nelle aree che avrebbero bisogno di attenzione sociale, dell’eccessivo ricorso alla “carcerazione preventiva” ovvero custodia in carcere mentre si è indagati (probabili innocenti) e della poca applicazione delle misure alternative. Gli effetti delle politiche criminogene, adottate anche in Italia, sulla società sono inquietanti e ben descritti dal sociologo americano Garland “hanno un grande potere inquinante sotto vari aspetti, le nuove forme di controllo della criminalità, implicano costi sociali difficilmente sopportabili: inasprimento delle divisioni sociali e razziali; consolidamento dei processi criminogeni; perdita di credibilità della autorità penale; crescita della intolleranza e dell’autoritarismo; accentuazione della pressione sociale sulle minoranze, configurando una sorta di nuova segregazione razziale”. E la cosa più spaventosa è che la “nuova segregazione razziale”, e quelli che noi radicali chiamiamo nuovi nuclei di shoah, ovvero le nostre carceri lager, dove non vengono garantiti e tutelati i più elementari diritti umani e dove sono reclusi e “sequestrati” gli ultimi (oltre anche migliaia di innocenti), sono argomenti sconosciuti alla maggior parte dei cittadini, complici i media che fanno credere agli italiani “brava gente” di essere in un paese criminale e dove non esiste la “certezza della Pena”. Infatti sono interessanti i dati forniti da Fonte Wikipedia per capire ad esempio la cosiddetta paura sociale: “I dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis) riportano che il Tg1 (e parimenti il Tg5) ha dedicato l’11% delle notizie di prima serata ai “fatti criminali”, contro un livello minore (a parità di numero di crimini) dei telegiornali di altri paesi europei: 8% Bbc, 4% Tve (Spagna) e France 2, 2% Ard (Germania). Secondo il sociologo Ilvo Diamanti, l’Italia si caratterizza per il rapporto tra i mezzi di informazione (specialmente la televisione) e i fatti di criminalità comune. Diamanti sottolinea come i media italiani puntino alla “serializzazione” e alla “drammatizzazione” dei casi criminali, mentre in altri paesi l’informazione è “puntuale” e “contestuale”. Ciò avviene soprattutto quando si tratta di casi che coinvolgono persone comuni, o che si sviluppano nell’ambito amicale e familiare, specificando l’intento voyeuristico da comunità ristretta. Ulteriori spinte caratteristiche dei media italiani potrebbero venire, sempre secondo Diamanti, dal rapporto con la politica, che tende a sfruttare i media per condizionare la percezione sociale dei fenomeni, e così spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, ad esempio, dalla disoccupazione alla criminalità. Infine, il costume italiano di sottolineare la nazionalità delle persone coinvolte in fatti criminali, collegato alle caratteristiche di “serializzazione” mediatica, porterebbe a rinforzare i pregiudizi dell’opinione pubblica verso le comunità immigrate, senza aiutare ad avviare una riflessione sui processi di integrazione.” Questo il ruolo dei media, complici a vario titolo della deriva giustizialista e del sentimento forcaiolo italiano, contrario ad indulti ed amnistie spesso per scarsa conoscenza della realtà, per errati credo su luoghi comuni e tutto ciò mentre i dati reali ci dicono che: L’Italia è tra i paesi europei quello dove si espiano le pene quasi per intero e dove le evasioni sono in numero più basso ed è invece il Paese che ha ricevuto la “maglia nera” per la carcerazione preventiva inflitta, collocandosi al primo posto con oltre il 42% di detenuti in attesa di giudizio(di cui la metà sarà statisticamente dichiarata innocente). L’Italia è il Paese al penultimo posto per tasso di criminalità (numero di delitti per 100.000 abitanti) da analisi e da fonte Eurostat rispetto a Germania, Francia, Gran Bretagna Spagna. Ed ha invece il triste primato europeo per il tasso di sovraffollamento carcerario. L’Italia è il Paese dove secondo il resoconto della situazione carceraria pre e post-indulto pubblicato dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, nei primi 5 mesi il tasso di recidiva (ossia la percentuale di persone che commettono un altro reato e tornano in carcere) è stato del solo l’11,9%, (rispetto a circa il 30% di chi sconta un fine pena). Ed invece nello stesso periodo facevano notizia mediaticamente i pochissimi che tornavano ad essere recidivi dando così la sgradevole “certezza” che il provvedimento fosse errato e creando insicurezza sociale. Vieni a marciare con noi a Roma il 25 Aprile, diffondi l’iniziativa, partecipa e fai partecipare. Giustizia: diritti violati nelle carceri… non è argomento solo per buonisti Il Foglio, 3 aprile 2012 La situazione allarmante delle carceri italiane non è questione che merita di essere lasciata nelle mani dei buonisti in servizio permanente. Questi ultimi finiscono spesso per anteporre l’ideologia al pragmatismo (sull’immigrazione vorrebbero vietare a priori quei respingimenti che perfino l’Australia - il paese più accogliente di tutta l’area Ocse - mette in atto), o per curare i propri sensi di colpa con analisi tanto virtuose quanto errate. Il tema delle carceri infatti non può più essere rubricato alla voce (pur disdicevole) dei trattamenti inumani per i detenuti. A dimostrarlo ci sono le parole di Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il quale ieri ha definito “inaccettabile” che nei nostri istituti penitenziari siano rinchiusi 140 detenuti per ogni 100 posti disponibili. Il sovraffollamento carcerario - lo dimostra l’intervento del Dap - non mette a repentaglio le sole vite dei reclusi, ma rende quasi impossibile il lavoro di chi dovrebbe garantire l’ordine e la sicurezza degli istituti. Duemila posti in più nelle carceri sono soltanto un palliativo: non si esce dall’emergenza finché non si ammette che le prigioni scoppiano a causa di una giustizia ingolfata. Non a caso lunghezza dei processi penali e abuso della carcerazione preventiva - ripete il radicale Marco Pannella - ci hanno fatto guadagnare il primo posto tra i paesi europei più condannati dalla giurisdizione internazionale. Più spazio fisico per i carcerati non si guadagna senza maggiore spazio mediatico per un dibattito sulla malagiustizia italiana. È una delle ragioni per cui questo giornale aderisce alla Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà convocata dai Radicali e da un ampio comitato promotore. Robilotta (Psi): aderisco a marcia per amnistia, giustizia e libertà “Aderisco con convinzione alla “II Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà” che si terrà a Roma il prossimo 25 Aprile”. Lo dichiara in una nota Donato Robilotta, membro della Segreteria Nazionale del Nuovo Psi. “Da sempre condivido la battaglia per le libertà, per l’amnistia e per la giustizia dentro le carceri. I nostri istituti penitenziari sono pieni di persone in attesa di giudizio o di stranieri colpevoli di aver commesso alcuni reati previsti dalla Legge Bossi-Fini che potrebbero essere tranquillamente depenalizzati. Tutto ciò è inaccettabile e, cosa peggiore, si tratta di una vergogna tutta italiana”, conclude Robilotta. Giustizia: Balduzzi; chiuderemo tutti gli Opg e rispetteremo i tempi fissati dalla legge di Federico Fiorentini Avvenire, 3 aprile 2012 Entro il 2013 “gli Opg dovranno essere chiusi o riconvertiti: credo che esistano i tempi per il rispetto della norma che è stata fatta”. Il ministro per la Salute Renato Balduzzi ribadisce, da Firenze, l’impegno del governo per il superamento delle strutture di detenzione per persone con problemi psichiatrici. Sul tema, ha spiegato Balduzzi, “è stato stabilito un crono-programma, e proprio in questi giorni andrà all’accordo in conferenza Stato-Regioni il decreto ministeriale sui requisiti delle strutture. Io credo che sia coraggiosa la scelta di porre un termine a questi momenti non di grande dignità del nostro Paese a queste strutture fortemente problematiche - ha aggiunto il ministro - e credo che riusciremo a vincere questa scommessa. Certamente ci vuole da parte di alcune regioni una grande collaborazione, ma penso che ci siano le condizioni per rispettare i tempi della norma”. L’intervento del ministro è arrivato al Palagio di Parte Guelfa di Firenze che ha ospitato il convegno “La città e l’istituzione penitenziaria”. L’obiettivo è stato indicare “proposte di lavoro per riqualificare e rendere più a-derente ai dettami costituzionali” il sistema carcerario. Elemento ricorrente delle proposte l’ampliamento del ruolo delle istituzioni locali (l’incontro è stato promosso da Legautonomie, associazione che riunisce gli enti locali): secondo il presidente nazionale Marco Filippeschi “non si può accettare che sul territorio dei nostri comuni vi siano luoghi di detenzione dove si vive e lavora in condizioni di insicurezza e con insostenibili rischi sanitari”. Tutti i relatori hanno auspicato un miglioramento delle condizioni di vita e dei diritti sanitari dei reclusi, stipati in strutture spesso sovraffollate, fatiscenti e “al di sotto dei limiti della tollerabilità”. Il sovraffollamento degli istituti di detenzione viene imputata a una “legislazione che ha inasprito le pene per i cosiddetti reati di strada, introducendone di nuovi in materia di immigrazione e tossicodipendenza, oltre al sempre più disatteso ricorso a misure alternative alla detenzione”. Fra i suggerimenti presentati da Legautonomie per recuperare il ruolo rieducativo dei penitenziari “il riconoscimento, anche per i sindaci, del diritto di visitare le strutture penitenziarie presenti nel territorio comunale, attualmente riservato a consiglieri regionali e parlamentari”, nonché l’attivazione di una “specifica rete di servizi sociali, con l’intervento di fondazioni e del mondo del volontariato, che favorisca l’inclusione del detenuto nel contesto civile”. Il secondo ente patrocinatore del convegno è stata la onlus “Forum per il diritto alla salute in carcere”, il cui presidente Roberto Di Giovan Paolo (senatore Pd) sostiene che “i 203 comuni sede di istituti di detenzione svolgono un servizio per tutto il paese, compresi gli altri 8.000 comuni”; per questo motivo lo Stato “dovrebbe quantomeno permettere a questi comuni di usufruire delle risorse bloccate dal Fondo di Stabilità”. Anche Di Giovan Paolo si dichiara inoltre favorevole a un processo di depenalizzazione dei reati, già oggetto di proposte bipartisan, sottolineando inoltre la necessità del coinvolgimento dell’intera società civile per la normalizzazione della situazione carceraria. Giustizia: 1 anno dalla legge sulle detenute madri, ma ancora troppi bimbi in carcere di Ilaria Sesana Avvenire, 3 aprile 2012 E passato quasi un anno dal promulgamento della legge 62/2011. Una norma che avrebbe dovuto scarcerare tutti i bambini costretti a crescere in una cella accanto alle loro mamme detenute. La legge è rimasta lettera morta: sono ancora 57, infatti, i bambini fino a tre anni che si trovano all’interno delle carceri italiane. Non solo: la mancanza del decreto attuativo, che avrebbe dovuto essere pubblicato 180 giorni dopo l’approvazione della legge, rende estremamente ambigua la norma. Con il risultato che nelle carceri ora è possibile trovare anche bambini di età superiore ai tre anni. “È già capitato. E attualmente c’è almeno un bambino con più di tre anni d’età all’interno del nido di un carcere italiano - sottolinea Lia Sacerdote, presidente dell’associazione “Bambini senza sbarre”. A un anno di distanza, sono troppi gli interrogativi ancora aperti, che lasciano un’ombra sull’efficacia di questa riforma”. L’allarme è stato lanciato da Terres des hommes e dall’associazione “Bambini senza sbarre” che venerdì hanno organizzato a Milano un convegno dal titolo “Bambini in carcere... non luogo a procedere”, per fare il punto sulla situazione. “Questa legge, che era stata pensata per evitare in via definitiva il carcere a tutti i bambini, sancisce il principio che una donna che ha un figlio di età inferiore ai sei anni non può essere ristretta - spiega Lia Sacerdote -. E invece, dicono gli operatori, ci sono casi di bambini di quattro anni d’età. Uno in più di quanto fosse possibile con la legge precedente”. L’allarme non viene solo dalle associazioni. Gli stessi operatori della giustizia sono perplessi: più di uno, nel corso del convegno ha definito la nuova normativa “un pasticcio”, “una legge scritta male”. L’assenza di un decreto attuativo, puntualizzano le associazioni, lascia inoltre ampi margini di discrezionalità ai magistrati. “Una legge scritta male - commenta Federica Giannotta, responsabile Diritti dei minori di Terres des Hommes. Che, peraltro, non garantisce la presenza della madre accanto al figlio nel caso in cui venga ricoverato in ospedale”. E così, in questi casi, tocca appellarsi alla sensibilità del magistrato. “Per superare il problema a Milano si è consolidato l’escamotage di ricoverare anche la mamma, nei casi in cui è necessaria l’ospedalizzazione del figlio”, spiega Giovanna Di Rosa, consigliere del Csm. Ma il “metodo ambrosiano” non trova uniforme applicazione lungo tutta la Penisola. Altro nodo cruciale, l’urgenza di regolamentare le caratteristiche delle Case famiglia protette, una novità introdotta dalla legge 62/11, assieme all’Icam. Strutture d’accoglienza equivalenti alla privata dimora dove le mamme prive di domicilio (prevalentemente straniere) possono scontare la propria pena stando accanto ai figli fino ai 10 anni d’età. La norma però precisa che non è previsto nessun onere a carico dell’amministrazione penitenziaria per tali strutture, mentre per gli Icam si prevede un piano investimenti di 11,7 milioni di euro. E se è vero che gli Istituti a custodia attenuata come quello di Milano rappresentano una buona pratica, quel che è certo è che non possono essere la soluzione del problema. Le case famiglia (più piccole e meglio distribuite sul territorio) permetterebbero di offrire ai bambini un ambiente migliore. Senza per questo pregiudicare la sicurezza. “I requisiti di queste strutture però non sono ancora stati specificati - aggiunge Lia Sacerdote -. Il tempo è prezioso, soprattutto quando un bambino lo trascorre in carcere”. Giustizia: Cesare Curioni, Ispettore generale dei cappellani delle carceri, trattò con i boss mafiosi di Giovanni Fasanella Panorama, 3 aprile 2012 Un presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Un presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi. Un ministro della Giustizia, Giovanni Conso. E soprattutto monsignor Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani delle carceri: un prete amico di Pontefici, custode di molti segreti e tanto potente da poter manovrare governi. Erano tutti in carica fra il 1992 e il 1993, gli anni degli assassinii di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino a Palermo, delle stragi di mafia e degli attentati di Roma, Firenze e Milano. E costituivano con ogni probabilità i canali attraverso i quali si sviluppò in quello stesso periodo la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Quella vera, a livello alto, come sta emergendo con sempre maggior chiarezza dagli atti processuali, e il cui do ut des era la fine del regime carcerario duro per i boss (previsto dal controverso articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario) in cambio della fine degli attentati. La svolta nella trattativa ci fu il 4 giugno 1993. Quel giorno, mentre Cosa nostra minacciava di alzare ulteriormente il livello della strategia delle bombe, il direttore generale degli istituti di pena Nicolò Amato venne rimosso dall’incarico e sostituito da Adalberto Capriotti, ritenuto assai più malleabile del suo predecessore. La decisione, preceduta da una serie di messaggi che avevano accompagnato le bombe, uno dei quali indirizzato proprio al presidente della Repubblica, venne presa al Quirinale nel corso di un incontro riservato fra Scalfaro e monsignor Curioni. I due, del resto, si conoscevano fin dal 1945, quando il primo era un giovane magistrato di corte d’assise a Milano e il secondo era il cappellano di San Vittore. Nei decenni successivi il loro legame si era intensificato fino a trasformarsi in una solida amicizia, cementata anche da un continuo scambio di confidenze. Scalfaro conosceva i rapporti che il sacerdote aveva con detenuti famosi grazie al suo ruolo. E certo non poteva non essere a conoscenza anche della delicatissima missione che nel 1978 Paolo VI aveva affidato a Curioni, incaricandolo di avviare una trattativa con i leader brigatisti in carcere per la liberazione di Aldo Moro. Per questo lo chiamò al Quirinale: per chiedergli di utilizzare ancora una volta i suoi canali carcerari e di suggerirgli il nome di un possibile sostituto di Amato. La scelta cadde su Capriotti, un magistrato cattolico amico di entrambi. Nelle carceri, intanto, i cappellani avrebbero dovuto fare da tramite tra detenuti mafiosi e Stato, esattamente com’era avvenuto nei 55 giorni del sequestro Moro tra i brigatisti reclusi e il Vaticano. Dalla presidenza della Repubblica, che in quella fase di crisi politica esercitava un forte ruolo, partì poi anche l’input per il governo tecnico guidato da Ciampi e per il suo ministro Conso. Nel novembre 1993 il 41 bis fu revocato per molti detenuti di mafia e le stragi cessarono. Ascoltato dai magistrati palermitani nei suoi uffici del Senato, il 15 dicembre 2010, poco più di un anno prima della sua morte, Scalfaro ha negato di avere avuto un qualche ruolo nell’avvicendamento alla direzione del Dap, la Direzione dell’amministrazione penitenziaria, aggiungendo che nessuno lo aveva messo al corrente dei motivi di quel cambio e che addirittura non conosceva neppure Amato. La stessa linea aveva adottato, Ciampi, ascoltato dai pm quello stesso giorno, a Palazzo Giustiniani. Entrambi, però, sono stati clamorosamente smentiti da Gaetano Gifuni, segretario generale del Quirinale sia durante la presidenza Scalfaro sia nei sette anni di Ciampi. Il 20 gennaio 2011, deponendo nel processo palermitano in cui sono imputati l’ex generale dei carabinieri Mario Mori e uno dei suoi migliori ufficiali, Mauro Obinu (entrambi accusati di avere favorito il mancato arresto del boss Bernardo Provenzano), Gifuni ha infatti fornito una versione completamente diversa da quella dei due ex capi di stato. Ha ricordato quanto fossero intensi, all’epoca, i rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi. Che i due più alti palazzi del potere condivisero la decisione di confermare Conso al dicastero della Giustizia dopo la caduta del governo presieduto da Giuliano Amato e la nascita del gabinetto Ciampi. E infine, dato ancora più importante, Gifuni ha confermato che la decisione di sostituire Amato con Capriotti “fu sostanzialmente decisa nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro. Quest’ultimo conosceva personalmente il dottor Capriotti, all’epoca procuratore generale a Trento”. Certo, sorprende che le cronache giudiziarie da Palermo non abbiano dato il giusto risalto alle deposizioni dei due ex presidenti della Repubblica e del loro segretario generale. Ma ancora più curioso è il fatto che né Scalfaro (all’epoca ancora in vita) né Ciampi abbiano mai replicato alle dichiarazioni di Gifuni. Vien quasi da chiedersi se vi sia davvero voglia di andare sino in fondo nella ricerca della verità; o se per caso ci si accontenti delle sentenze di colpevolezza già pronunciate sul piano mediatico nei confronti di Mori e Obinu, due comodi capri espiatori. C’è qualcosa di indicibile sulla trattativa Stato-mafia? La chiave per trovare una possibile risposta alla domanda, forse, sta proprio nella figura di monsignor Curioni, morto nel gennaio 1996 all’età di 73 anni. Inquietante il ritratto che ne ha delineato un altro sacerdote, Fabio Fabbri, che era suo vice all’Ispettorato generale delle carceri all’epoca della trattativa. Ascoltato prima dal procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Firenze Gabriele Chelazzi (gennaio 2003), e poi nel processo di Palermo (febbraio 2012), in entrambe le occasioni Fabbri ha affermato di essere stato presente all’incontro al Quirinale in cui venne presa la decisione di destituire Amato. E di monsignor Curioni ha parlato come di “un uomo che aveva in mano anche la politica nazionale”, e che “ha fatto e disfatto governi”. La fonte di tanto potere? “I quarant’anni trascorsi a San Vittore” ha spiegato don Fabbri. “Una miniera di tante cose che oggi è impensabile… Ci sono tante figure a certi livelli, giornalistico, deputati, magistratura eccetera. San Vittore è San Vittore, e don Cesare aveva in mano queste cose”. Insomma, c’era un tempo in cui molti erano a conoscenza dell’equazione “malavita uguale monsignor Curioni… Uno della malavita, don Cesare sapeva sempre come contattarlo”. Giustizia: Osapp; via la Polizia penitenziaria dalle sezioni detentive delle carceri Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2012 “Per affrontare in maniera adeguata la grave emergenza e l’assenza di risultati del sistema penitenziario occorrono interventi sostanziali, da parte del Parlamento con l’approvazione di un provvedimento di amnistia e all’interno dell’Amministrazione penitenziaria mediante l’adozione di un nuovo modello di detenzione”. È quanto afferma l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota a firma del segretario generale Leo Beneduci. “Il Capo del Dap Giovanni Tamburino si è recato quest’oggi a visitare il nuovo istituto penitenziario di Rieti, che a due anni dall’inaugurazione funziona solo al 30% dell’effettiva capacità detentiva, con il probabile intento di portare l’attuale capienza da 186 a 550 detenuti, ma a Rieti, come a Tempio Pausania o a Oristano per i nuovi istituti, ovvero a Piacenza, Cremona, Terni o Bellizzi Irpino per i nuovi Padiglioni, il problema sarà sempre la carenza di personale soprattutto di polizia penitenziaria che continua ad avere un organico fermo al 1992 con 7.000 unità in meno del previsto”. “Visto che l’organico di polizia penitenziaria, approntato per 39.000 presenze nelle carceri rispetto alle attuali 66.500, non sarà mai adeguato alle effettive necessità, mentre per il personale penitenziario dei profili tecnici e amministrativi si assiste ad una progressiva e grave riduzione (dalle 8mila unità del 2009 alle attuali 6.600) tale a costringere gli appartenenti al Corpo a sostituire nelle funzioni il personale mancante - prosegue il leader dell’Osapp - invece che riproporre modelli detentivi obsoleti, almeno nelle strutture di nuova concezione e prendendo spunto da quello che si fa nel resto di Europa, appare ormai inutile e deleterio costringere le poche unità disponibili ad una presenza costante e h24 nelle sezioni detentive con l’unico scopo di aprire e chiudere le celle o di regolare il traffico di detenuti verso le docce o verso il campo sportivo”. Conclude Beneduci: “per risparmiare sulle già scarse risorse e rendere più funzionale il sistema, Indispensabile, quindi, una prova di coraggio e l’assunzione di dirette responsabilità da parte degli attuali vertici dell’Amministrazione penitenziaria, almeno nelle carceri destinate ai detenuti di non particolare pericolosità, facendo in modo che la Polizia Penitenziaria lasci l’interno dei moduli detentivi e permanga solo all’esterno in piccoli gruppi operativi in grado di intervenire soltanto in caso di emergenza o qualora si verifichino problemi per l’ordine e per la sicurezza”. Giustizia: il Sappe manifesta a Roma contro le indifferenze del Dap e della politica Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2012 Stanno affluendo da tutta Italia i poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo Sappe, il primo e più rappresentativo di Categoria, per partecipare al sit-in organizzato davanti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in largo Daga, nel quartiere romano della Pisana. “Sono già presenti le delegazioni sindacali del Sappe di Campania, Abruzzo, Toscana, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria e Calabria, oltre ovviamente a quelle del Lazio e di Roma” informa il segretario generale del Sappe Donato Capece, mentre due enormi casse acustiche diffondono marce militari e l’inno d’Italia. “Ma altre colleghe e colleghi stanno affluendo nella Capitale dalle altre Regioni italiane”. “Siamo in piazza oggi” prosegue “per gridare la nostra rabbia verso una Amministrazione Penitenziaria matrigna verso i suoi poliziotti, lasciati da soli - e con 7mila agenti in meno in organico - nella prima linea delle sezioni detentive a gestire le tante criticità penitenziarie dovute al costante e pericoloso sovraffollamento. Siamo in piazza per denunciare la diffusa indifferenza di buona parte della classe politica del Paese ai nostri problemi, politici che trascurano colpevolmente questa grave emergenza. Bisogna completamente ripensare il sistema dell’esecuzione della pena nel nostro Paese: altro che soluzioni tampone. In un anno la situazione delle carceri è rimasta sostanzialmente invariata: 67.600 erano un anno fa, 66.400 sono oggi. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria non ci sta più ad ascoltare passivamente demagogiche e sterili denunce sull’emergenza penitenziaria. Per rispetto di chi in carcere lavora nella prima linea delle sezioni. Le carceri scoppiano, nelle carceri si muore e i poliziotti sono sempre più stressanti e stanchi di questo stato di cose e di questa inerzia. Per questo oggi siamo in piazza a Roma, davanti alla sede dell’Amministrazione Penitenziaria. Per chiamare alle proprie responsabilità chi guida il Dap, siede al Governo e in Parlamento”. “Il Sappe” prosegue “è oggi in piazza a Roma proprio per denunciare i gravi problemi con i quali quotidianamente si confronta la Polizia penitenziaria. Problemi che alimentano tensione - come i costanti e continui eventi critici , gli straordinari, gli avanzamenti di carriera, gli assegni di funzione e le missioni non pagate e, da ultimo, l’assurda riforma tecnica che farà andare in pensione i poliziotti a 70 anni. Tutto questo nell’indifferenza dell’Amministrazione Penitenziaria e delle Istituzioni. Gridiamo in piazza la nostra rabbia alle promesse a vuoto dei politici ma anche ai provvedimenti tecnici che colpiscono sempre i soliti. E se nulla dovesse cambiare, non è escluso che manifesteremo anche il giorno della Festa del Corpo a Roma, il prossimo 18 maggio, per chiedere attenzione all’unica persona che si è dimostrata attenta e sensibile ai nostri problemi, il Capo dello Stato”. Nel 2011 sventati 1.500 suicidi “Solo l’anno scorso abbiamo sventato 1500 tentativi di suicidio. Dal 1992 invece ne abbiamo evitati oltre sedicimila”. Lo ha detto il segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, Roberto Martinelli, a margine della protesta davanti al ministero della Giustizia a Roma. “Purtroppo questi numeri non hanno visibilità mediatica - ha aggiunto - perché metterebbero ancor più in risalto il problema dell’organico nelle carceri: non ci sono agenti nei posti in cui dovrebbero stare e molto spesso i colleghi sono costretti a fare lavoro doppio, il tutto a discapito della sicurezza”. Risposte dal Dap, o non lasceremo la piazza Il sindacato della Polizia penitenziaria ricevuto stamattina dal vice capo del Dap, Simonetta Matone, al termine di una manifestazione di protesta. Preannunciate altre mobilitazioni. “Alla Festa della Polizia penitenziaria faremo sentire le nostre trombe” “Una cosa è certa: o ci danno delle risposte o non lasceremo la piazza”. Perentoria la posizione di Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria che questa mattina è stato ricevuto insieme ad una delegazione del sindacato da Simonetta Matone, vice capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al termine di una manifestazione di protesta tenutasi ai cancelli del Dap lungo tutta la mattinata. Un centinaio gli agenti provenienti da tutta Italia che, con striscioni e altoparlanti, ha manifestato il disagio della Polizia penitenziaria sotto gli occhi dei dirigenti del Dipartimento in largo Luigi Daga a Roma. “Purtroppo, nella nostra amministrazione le cose non funzionano - ha spiegato Capece - soprattutto per quanto riguarda il problema sovraffollamento e delle gravi carenze di organico che ormai non permettono più di poter garantire la sicurezza almeno al minimo essenziale”. Secondo il sindacato mancano all’appello circa 7mila agenti, mentre dal Dipartimento non sembrano arrivare risposte che possano invertire la tendenza. “L’amministrazione vorrebbe aprire del tutto il carcere di Rieti - ha spiegato Capece - mandandoci altri detenuti ma non sa come fare perché manca il personale. Oggi ci sono 80 detenuti e 40 agenti. Niente rispetto alle capacità ricettive di quella struttura”. Al vice capo Matone, che si è impegnata a riferire al capo del Dap, Giovanni Tamburino, le richieste del Sappe, oltre alle difficoltà raccontate dai territori, il sindacato ha fatto sapere di aver già in programma altre manifestazioni, due regionali e una il 18 maggio, giorno in cui si festeggia proprio la Polizia penitenziaria. “Non abbiamo nessuna festa da fare in queste condizioni - ha detto Capece, quel giorno faremo sentire le nostre trombe”. Per il sindacato, occorre al più presto un piano di riorganizzazione del personale. “Va recuperato quello utilizzato in compiti non istituzionali e restituiti ai propri compiti - ha dichiarato Capece. La carenza di organico nuoce su tutto il sistema”. Eppure, ha aggiunto il segretario del sindacato, dal Dap continuano ad arrivare decisioni ambigue proprio su questo tema. “In questi giorni il Dipartimento ha assegnato, con un provvedimento anomalo, dieci unità togliendole dalle carceri e passandoli al Dap - ha affermato Capece, andando a rimpinguare questo dipartimento che oggi conta circa 900 agenti, il cui impiego è molto discutibile, con grave disagio per coloro che negli istituti dovranno farsi carico anche del lavoro che queste persone avrebbero dovuto fare”. La riorganizzazione del personale sul territorio e sua carenza, però, sono solo una parte delle questioni sollevate dal sindacato. Tra le altre problematiche, i mancati pagamenti degli straordinari e delle missioni, una formazione “inesistente” e mezzi per il trasporto dei detenuti a volte in pessime condizioni. “Abbiamo mezzi con 500mila chilometri alle spalle - ha puntualizzato Capece, una cosa veramente vergognosa. Qualche soldo sul piano carceri c’è, per questo chiediamo di poter utilizzare parte dei fondi per rimettere in piedi i mezzi per i servizi di traduzione”. Fanno discutere anche le scelte pensionistiche attuate dal governo Monti. “I tecnici ci vogliono in pensione a 70 anni”, scrive il sindacato sul volantino di protesta distribuito questa mattina all’ingresso del Dap. “Il ministro Fornero dovrebbe convocarci in questi giorni - ha detto Capece. Secondo noi, a 67 anni non è possibile continuare a fare servizio”. Calabria: Uil-Pa in protesta contro la “pericolosa involuzione del sistema penitenziario” Agi, 3 aprile 2012 “Attesa la strisciante e pericolosa involuzione del sistema penitenziario calabrese e la disarmonica gestione del personale da parte del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ancora guidato da un Dirigente di fatto “part-time” perché Provveditore anche in Sardegna, la Uil-Pa Penitenziari Calabria ha proclamato lo stato di agitazione degli appartenenti alla Polizia penitenziaria e preannunciato una forte mobilitazione per richiamare l’attenzione del Ministro della Giustizia, del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e degli altri vertici dipartimentali, anche attraverso la sensibilizzazione delle forze politiche e dell’opinione pubblica, su una serie di questioni”. A darne notizia è Gennarino De Fazio, della direzione nazionale del sindacato, che dichiara: “In un momento in cui l’emergenza penitenziaria italiana, a cui non sfugge la Calabria, è stata riconosciuta dalle massime istituzioni civili e religiose ed in un frangente di congiuntura come quello attuale con i prezzi dei carburanti che ogni giorno fanno segnare record al rialzo, troviamo inconcepibile che con motivazioni che appaiono strumentali si siano disapplicati accordi negoziali che consentivano agli operatori di avvicinarsi ai luoghi di residenza ed alla collettività di risparmiare sui costi per gli alloggi collettivi di servizio”. Roma: detenuto 36enne ritrovato morto in cella nel carcere di Rebibbia Il Velino, 3 aprile 2012 Un detenuto italiano di 36 anni, A.C., nato a Napoli, è stato trovato morto questa mattina nella sua cella a Rebibbia. Minorato psichico, era in carcere per i reati di tentato omicidio e rapina ed aveva un fine pena nel gennaio 2027. Sono in corso accertamenti per capire le cause del decesso: probabili le cause naturali. A darne notizia Donato Capece, segretario generale del Sappe. "La notizia della morte del detenuto intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità - dice Capece. Non a caso proprio questa mattina abbiamo tenuto a Roma una manifestazione di protesta davanti alla sede dell'Amministrazione Penitenziaria, alla quale ha partecipato una folta delegazione di Baschi Azzurri provenienti dai penitenziari romani di Rebibbia, per denunciare l'assenza di provvedimenti concreti sui problemi penitenziari e verso i nostri agenti, lasciati da soli a gestire all'interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno. Questa ennesima morte di un detenuto testimonia ancora una volta la drammaticità della vita nelle carceri italiane" rilancia il Sappe, che rinnova l'appello alla classe politica del Paese. "A poco o nulla è servita ad oggi la legge approvata sulla detenzione domiciliare, la legge 199 del novembre 2010 (improvvidamente definita svuota carceri), che consente di scontare ai domiciliari pene detentive non superiori a un anno, oggi elevati a diciotto mesi dal recente provvedimento del Governo in materia penitenziaria. Ma rispetto all'indulto che fece uscire complessivamente e quasi subito circa 35mila persone detenute, ad oggi con la legge sulla detenzione domiciliare sono uscite poco più di cinquemila persone dalle oltre 200 carceri italiane. Rinnoviamo allora l'auspicio che la classe politica ed istituzionale del Paese faccia proprie le importanti e pesanti parole dette dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri 'terribilmente sovraffollatè e ci si dia dunque da fare - concretamente e urgentemente - per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che 'ripensì organicamente il carcere e l'Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso ed un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale con contestuale impiego in lavori di pubblica utilità per il recupero ambientale del territorio". San Gimignano (Si): il Comune di istituisce il Garante dei diritti dei detenuti www.sienafree.it, 3 aprile 2012 Nei giorni scorsi approvati un ordine del giorno della maggioranza ed una delibera a difesa dei diritti dell’uomo all’interno degli istituti di reclusione. A sostegno dei diritti fondamentali dell’uomo all’interno degli istituti di reclusione, sia per i detenuti sia per gli agenti di sicurezza. L’amministrazione comunale di San Gimignano si batte per il rispetto dei principi di vivibilità all’interno del carcere di Ranza afflitto ormai da anni da gravi problemi di sovraffollamento dei detenuti e carenza di organico di sorveglianza. Nei giorni scorsi il Consiglio Comunale ha approvato un ordine del giorno presentato dalla maggioranza ed una delibera che prevede l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti e, al contempo, la richiesta al Governo del rispetto degli impegni assunti per ripristinare le necessarie adeguate dotazioni d’organico della polizia penitenziaria e attivare gli interventi urgenti di carattere strutturale, a partire dall’emergenza idrica. “Prosegue il nostro impegno per la risoluzione di un problema che si trascina ormai da anni con ripercussioni gravi sulla sicurezza dei detenuti, degli agenti e anche di tutto il territorio circostante all’istituto di reclusione - ha sottolineato il sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi. Due provvedimenti che vanno in questa direzione e si inseriscono a pieno titolo in un impegno preso nella volontà comune di guardare alla dignità dell’uomo come un valore che va ben oltre i confini di una cella di detenzione. Un impegno condiviso fin da subito con l’Onorevole Susanna Cenni e con l’attuale Governo dopo il decreto legge “svuota-carceri”. Un obiettivo riconosciuto in occasione dell’ultimo consiglio comunale anche dall’ex magistrato di sorveglianza e attuale garante regionale dei detenuti Alessandro Margara intervenuto nella seduta consiliare”. All’interno della struttura di Ranza si trovano infatti 410 detenuti di cui oltre 100 in regime di alta sicurezza a fronte di una capienza “tollerabile” indicata dal Dap (Dipartimento della Polizia Penitenziaria) di 217 posti. A questo si aggiunge la mancanza cronica di organico della polizia penitenziaria di circa il 40% dal momento che sono operative circa 130 unità a fronte delle 233 previste da apposito decreto ministeriale del 2001. La nuova figura sarà nominata dal sindaco scegliendo tra persone di indiscusso prestigio o comprovata professionalità nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale so in altri enti o organismi similari. Il Garante rimane in carica per cinque anni e l’incarico è rinnovabile non più di una volta. Tra i compiti ci sono quelli di promozione, con contestuali funzioni d’osservazione e vigilanza indiretta, dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali; la promozione di iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e dell’umanizzazione della pena detentiva; la segnalazione del mancato o inadeguato rispetto dei diritti dei detenuti. Il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità un ordine del giorno che richiede al Governo il rispetto degli impegni assunti per migliorare le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria e le condizioni di detenzione delle persone recluse, ripristinando le necessarie adeguate dotazioni d’organico, ed attivando gli interventi urgenti di carattere strutturale, a partire dall’emergenza idrica. Il documento approvato impegna il sindaco e la Giunta a trasmettere lo stesso ordine del giorno alla Presidenza del Consiglio ed al Ministero della Giustizia per l’ottemperanza degli impegni assunti in materia. Siracusa: attivato call-center al carcere Cavadonna, consente ai familiari di prenotare i colloqui La Sicilia, 3 aprile 2012 Da ieri i colloqui dei familiari con i detenuti al carcere di Cavadonna non sono più un’odissea. È stato avviato un nuovo servizio di call-center a cui i parenti possono rivolgersi per prenotare le visite. E già ieri, per il primo giorno, le linee telefoniche del nuovo servizio sono state bollenti. “Sapevamo che così avremmo aiutato sia i detenuti sia i loro parenti, ma non immaginavamo tanto successo sin dal primo giorno”, commenta il direttore della casa circondariale di Cavadonna Angela Gianì, promotrice del progetto. “Da tempo ci lavoravo, vedendo le difficoltà delle persone - racconta la dirigente -. Ma le difficoltà economiche note a tutti, le restrizioni finanziarie non mi permettevano di poter avviare il servizio. Così ho iniziato a bussare a varie porte, ma senza ottenere i fondi necessari”. Gli ostacoli però non hanno fermato la direttrice del carcere. “Non si poteva essere indifferenti ai disagi dei detenuti e delle loro famiglie, era come aggiungere sofferenza a sofferenza. pensavamo di essere arrivati al punto di svolta con il Comune che si era reso disponibile a cofinanziare il progetto, ma una parte doveva essere a carico dell’Amministrazione penitenziaria. E siccome le nostre risorse sono irrisorie abbiamo dovuto rinunciare”. E poi è comparso il Lions club Eurialo, che si è offerto di farsi carico delle spese. “Ho saputo da un’operatrice della struttura del progetto e delle difficoltà economiche - racconta il presidente del club service Umberto Rubera. Ne ho parlato con i soci e tutti hanno dato l’assenso. E così mi sono messo in contatto la Angela Gianì ed è stato dato il via”. Il call-center, che conta su operatori volontari, offre la possibilità di prenotazione e i familiari non sono più costretti a file di ore e con qualsiasi condizione meteo, ma devono presentarsi a Cavadonna solo 3/4 d’ora prima dell’orario fissato telefonicamente per l’incontro, per la registrazione d’obbligo. Quello del call-center non è l’unico sostegno che il Lions Eurialo intende offrire alla struttura penitenziaria. “Abbiamo aperto una finestra sul carcere - conclude l’avv. Rubera -. Ci sono storie umane bellissime che vogliamo far uscire dalle mura di Cavadonna. Vogliamo essere vicini, compatibilmente alle nostre possibilità”. Dal suo canto Angela Gianì ha in serbo altri servizi a comfort dei familiari: “A breve contiamo di aprire anche un chiosco. Insomma volgiamo fare quanto possibile per alleviare la sofferenza”. Attese lunghe e inutili… lo sfogo di un padre Esordisce così un padre anziano, che fino a non molto tempo fa doveva fronteggiare settimanalmente una sorte di tour-de-force per riuscire a vedere il figlio, detenuto nella casa circondariale di Cavadonna. Vincenzo Cavaleri ricorda oggi l’esperienza vissuta, traendo un profondo sospiro di sollievo. Suo figlio ora è a casa, ma non è un uomo libero: tra le mura domestiche sconta la misura restrittiva. Ma quando era all’interno della struttura penitenziaria, Vincenzo non si sottraeva alle difficoltà che imponeva la possibilità di visita, affrontandole con lo spirito che solo un padre può avere. E con lui la moglie, anziana anche lei, ma determinata come il marito a incontrare il figlio, per stargli vicino, per rincuorarlo, per dargli qualche carezza. “Era una corsa contro il tempo. Dovevamo arrivare entro le 11, altrimenti non ce l’avremmo fatta con i tempi a registrarci per ottenere il colloquio. E la nostra stessa condizione era vissuta dagli altri familiari”. È così che i parenti, pur di riuscire a ottenere il colloquio, si affollavano già all’alba davanti la cancellata d’ingresso. Con qualsiasi condizione climatica. “Che ci fossero 40 gradi all’ombra o piovesse a dirotto, nessuno di noi rinunciava all’interminabile coda. Anche se eravamo sotto un riparo, piuttosto grande, si trattava di una tettoia che riparava dalla pioggia ma non dal caldo o dal freddo”. E non sempre le ore di coda venivano premiate: per carenza dell’organico di polizia penitenziaria poteva anche accadere che saltasse il turno d’incontro, obbligando a un triste rientro a casa, chi con la macchina, chi con il bus messo a disposizione dei parenti (una corsa ogni ora dalle 7 fino alle 16). “Anche questo non bastava a scoraggiarci. Chi desisterebbe dal vedere il proprio caro? Lì non c’eravamo solo genitori, ma anche mogli incinte e bambini, tutti aspettando che arrivasse il nostro turno. C’era chi si organizzava con conoscenti, affidando i propri documenti d’identità (per la registrazione propedeutica al colloquio) piuttosto che mettersi in coda e fare ancora più massa sotto il riparo”. Tutto questo entro le 16. Poi battenti chiusi. Rieti: Dap; a breve attivazione carcere con apertura cinque nuove sezioni Agenparl, 3 aprile 2012 Tra qualche settimana l’Amministrazione Penitenziaria procederà alla completa attivazione del carcere di Rieti, con l’apertura delle cinque sezioni detentive sino ad oggi mai aperte. Lo ha comunicato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, durante un incontro con le Organizzazioni Sindacali della polizia penitenziaria tenutosi questa mattina nella struttura di località Vazia. Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, accompagnato dal Provveditore Regionale Maria Claudia Di paolo e dal direttore Vera Poggetti, ha anche comunicato che il carcere reatino rappresenterà un modello innovativo per trattamento intramurario e per le modalità di custodia. Ai 186 detenuti attualmente presenti, nel giro di qualche settimana, se ne aggiungeranno altri 120, debitamente selezionati ai quali sarà chiesto di aderire ad una sorta di “patto di responsabilità”. In sintesi ad un regime detentivo a basso impatto di sicurezza dovranno corrispondere atteggiamenti adeguati. La novità sostanziale è nella modalità di custodia cui saranno chiamati i poliziotti penitenziari: non più impiegati nelle sezioni detentive con relativo posto fisso ma una presenza mobile nei reparti ad intervalli ed orari indefiniti. La delegazione Uil Penitenziari presente all’incontro era costituita dal Segretario Provinciale Fabrizio Faraci, dal Segretario Regionale Daniele Nicastrini e dal Segretario Generale Eugenio Sarno. E proprio il Segretario Generale Sarno ha consegnato al massimo responsabile del sistema penitenziar io italiano l’interesse del proprio sindacato alla sperimentazione della nuova tipologia di servizio. “Abbiamo ascoltato con molto interesse le comunicazioni del Presidente Tamburino - dichiara il leader della Uil Penitenziari - e ne condividiamo l’analisi. Le prospettive future ci consegnano una popolazione detenuta attestata intorno alle 68mila unità ed un organico di polizia penitenziaria al di sotto delle 40mila unità. Può anche non piacere ma questa è la realtà e occorre fare di necessità virtù. Per questo se si riesce a contemperare gli obiettivi dell’Amministrazione Penitenziaria con i diritti del personale non bisogna tirarsi indietro. Noi responsabilmente consegniamo la nostra disponibilità a verificare il progetto di sorveglianza dinamica, in un quadro di garanzie che l’Amministrazione dovrà fornirci. Ho molto apprezzato - conclude Sarno - la chiarezza del Capo del Dap. Sia in ordine alla deresponsabilizzazione del personale operativo che in ragione della necessaria implementazione degli organici. La nostra è una apertura ragionata, certi che la competenza, la professionalità e l’entusiasmo della polizia penitenziaria di Rieti farà affermare un modello che potrebbe essere rilanciato in molte strutture penitenziarie. D’altro canto l’esperienza di Milano Bollate ci fa essere molto più che ottimisti, anche se per raggiungere quei risultati serve che tra territorio, enti e carcere nasca una operosa sinergia ed è per questo che lanciamo un sentito appello alle istituzioni, Comune - Provincia - Regione in primis, a mettere in campo ogni utile confronto e soluzione. A partire dall’adeguamento del personale sanitario e parasanitario, già oggi inadeguato, in servizio al carcere di Rieti”. Messina: Sindacati di Polizia penitenziaria proclamano stato di agitazione nel carcere di Gazzi Ansa, 3 aprile 2012 “Il disagio in funzione del sovraffollamento di detenuti - scrivono i sindacati - si è ulteriormente aggravato negli ultimi periodi a causa di provvedimenti unilaterali adottati dall’amministrazione Penitenziaria”. I rappresentanti di Sappe, Cgil, Cisl e Uil in una nota denunciano le precarie condizioni della casa circondariale di Gazzi a Messina e proclamano lo stato di agitazione. “Il disagio in funzione del sovraffollamento di detenuti - scrivono i sindacati - si è ulteriormente aggravato negli ultimi periodi a causa di provvedimenti unilaterali adottati dall’amministrazione Penitenziaria, avallati dal provveditorato regionale di Palermo, che vedono gli agenti penitenziari aumentato il carico di lavoro dovendosi occupare, senza un adeguato incremento di almeno 20 unità anche della gestione del repartino per detenuti recentemente messo a disposizione dall’Ospedale Papardo”. I sindacati annunciano dunque forme di protesta eclatanti se anche questa volta al loro appello non seguirà un impegno da parte delle istituzioni. Roma: da Cgil e Antigone servizio di consulenza previdenziale, fiscale, contributiva per i detenuti Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2012 Firmato oggi, nell’ambito delle attività dello “Sportello per i diritti” promosso dal Difensore civico di Antigone nell’istituto romano di Rebibbia nuovo complesso, il Protocollo d’intesa che sigla l’ingresso nella Casa Circondariale - a tutela dei detenuti - della Camera del Lavoro Cgil di Roma Est. L’accordo introduce servizi di consulenza e assistenza per i detenuti su questioni di natura contrattuale, fiscale, contributiva, pregressa e attuale, a partire dal lavoro in carcere, che di recente lo stesso ministro della Giustizia ha riconosciuto essere questione cruciale, ma che viene retribuito secondo parametri fermi al 1993. Con la sottoscrizione del Protocollo, la Direzione del carcere di Rebibbia consentirà ad Antigone e alla Camera del Lavoro la prestazione di consulenza e assistenza da parte del patronato Inca-Cgil e la costituzione di rappresentanze sindacali per i detenuti che richiedano tutela per vertenze lavoristiche di qualsiasi tipo. Avellino: Sappe; detenuto sferra pugno ad agente e gli rompe il setto nasale Otto Pagine, 3 aprile 2012 "Un agente della Polizia Penitenziaria del carcere di Bellizzi Irpino è stato aggredito da un detenuto. A denunciare quanto accaduto il sindacato autonomo polizia penitenziaria. Stando a quanto si apprende dal sindacalista Donato Capece «un cittadino ghanese ha improvvisamente colpito il poliziotto sferrandogli contro, dalla fessura dello spioncino, un violento pugno al volto, procurandogli la frattura del setto nasale ed una prognosi di 20 giorni". Un'aggressione che preoccupa il sindacato, che questa mattina ha tenuto a Roma una manifestazione di protesta davanti alla sede dell’Amministrazione Penitenziaria, alla quale ha partecipato una folta delegazione di Baschi Azzurri provenienti dalla Campania, "per denunciare l’assenza di provvedimenti concreti sui problemi penitenziari e verso i nostri agenti". "Le tensioni in carcere, come ad Avellino, - aggiunge Capece - crescono in maniera rapida e preoccupante: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza». Il segretario generale del Sappe sottolinea la necessità di «provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse, ad esempio un efficace isolamento giudiziario. In una situazione di emergenza, come è quella attuale, servono provvedimenti straordinari". Lodi: “sono solo e malato”, evade dai domiciliari per tornare in carcere Il Cittadino, 3 aprile 2012 Per ben tre volte, tra l’estate del 2009 e quella del 2010, era evaso dagli arresti domiciliari a Lodi, e negli ultimi tre episodi che gli vengono contestati aveva addirittura chiamato lui stesso la polizia, facendosi trovare dagli agenti davanti al pianerottolo e con le chiavi della porta in mano: per legge avrebbe potuto varcare la soglia solo negli orari prescritti dal giudice per fare la spesa, e così anche in quelle occasioni il reato di evasione era, tecnicamente, compiuto. Ogni volta che era stato sorpreso, e denunciato a piede libero, aveva pregato le forze dell’ordine: “Non ce la faccio più, riportatemi in carcere”. E alla fine, vista la raffica di denunce, la magistratura l’aveva anche “accontentato”, ed era stato rintracciato a sorpresa (ma non più di tanto) e portato in cella. M.U., queste le iniziali, classe 1942, salernitano, ha un curriculum criminale di tutto rispetto, soprattutto al sud. A Lodi non si è mai fatto notare. Ma, a dispetto dell’età, il “fine pena” è lontano. Con quattro by-pass nel petto, aveva ottenuto gli arresti domiciliari. “La volontà di tornare in carcere non è una bizzarria e purtroppo non c’è nulla che può far sorridere in questa vicenda - chiarisce il suo avvocato di fiducia Andrea Ruggiero di Roma -: si è trovato solo, con un reddito minimo, senza nessuno che potesse assisterlo e con crescenti problemi di salute. Ha spiegato che per lui la vita in quelle condizioni era diventata impossibile: per questo ha scelto il carcere”. Ieri, all’esito della collezione “lodigiana” di denunce, è stato condannato ad altri quattro mesi di reclusione, appunto per evasione, anche se non è stato ritenuto colpevole di tutti gli episodi per i quali era stato denunciato. Nel corso del processo è emerso che gli sarebbe piaciuto tornare in un carcere nei pressi di Aosta, dove aveva trascorso un periodo della sua vita. Forse lì si era trovato meglio che in altre carceri. “Questa vicenda dovrebbe farci riflettere sulla realtà dell’esecuzione della pena in Italia - conclude l’avvocato Ruggiero -, ritengo che tante persone si trovino nelle stesse situazioni di quest’uomo, o anche peggiori. Oltre alla questione del reinserimento nella società, ci sono anche questi problemi”. Milano: “La svolta”, il ristorante dello scultore carcerato… che ha rubato l’arcobaleno www.ilsussidiario.net, 3 aprile 2012 Una storia di doppio riscatto. È quella di Massimiliano, trentacinquenne che dopo aver conosciuto per quattro anni le celle del carcere di Bollate, ha aperto un ristorante a Milano (non a caso nominato “La Svolta”) e a giugno si sposerà con l’assistente sociale che l’ha seguito in quel periodo difficile. Ora, Massimiliano, aiuta persone che, come lui hanno sbagliano ma che lentamente stanno riprendendo la strada giusta. Il suo locale ospiterà, infatti, la mostra di Santo, un detenuto del carcere di Bollate che esegue manufatti lavorando il vetro. Veri e propri oggetti d’arte, fragilissimi, proprio come il destino che a volte spinge a sbagliare direzione. Come succede a molti. Come è successo a Massimiliano “Stavamo facendo una festa a casa di amici a un certo punto è arrivata la polizia e sono stato arrestato: detenzione di stupefacenti. Il risultato: quattro anni a Bollate”. “Una vita parallela”, come la chiama Massimiliano, un periodo buio in cui, però, è riuscito a reagire grazie ai volontari dell’ “Associazione Incontro e Presenza”. Un team di volontari, psicologi ed educatori che aiuta a superare il periodo della permanenza fra le sbarre e poi segue i detenuti anche per la permanenza in comunità e successivamente durante l’affidamento. “È stato uno scivolone in un brutto periodo della mia vita che nella sfortuna, mi ha comunque, permesso di incontrare la mia futura moglie”. Massimiliano oltre ad aver avuto dalla vita una seconda possibilità, ha incontrato la sua compagna in carcere: lei era infatti la psicologa che l’ha seguito in quegli anni. “È una storia da film - scherza. Sono stato fortunato: mi è andata quasi bene!”. Ma come è nata la passione per la ristorazione? “Prima di entrare a Bollate - dice Massimiliano - gestivo un ristorante ad Ibiza. Durante la detenzione l’ho dovuto, a malincuore, lasciare nelle mani di una socia, trascurando la mia passione. Quando sono uscito, grazie in primis all’aiuto dei miei genitori ho aperto “La svolta”. La riconoscenza per l’associazione che oltre ad averlo aiutato tanto, gli ha permesso di incontrare la sua compagna, l’ha spinto ad assumere dipendenti, cuochi e camerieri, fra ragazzi detenuti. “Incontro e presenza mi segnala - racconta Massimilano - persone che sono a fine pena o a chi è destinato a misure alternative, quindi con permessi particolari, e io sono felicissimo di dare una seconda possibilità a chi ha vissuto la mia stessa esperienza”. Il ristorante acquista anche materie prime prodotte nelle case circondariali: vino, dolci o pane. “Molte persone hanno creduto in me - dice ancora Massimiliano - e ora che posso aiuto chi ha voglia di ricominciare”. Non a caso, “La svolta” ospiterà dal 13 aprile la mostra di Santo Tucci “Lo scultore dell’arcobaleno”. Santo classe 1956, da 18 anni lavora il vetro in carcere creando lampade e oggetti coloratissimi e ha aperto una cooperativa “Il passo” per insegnare ai ragazzi più giovani a lavorare il vetro. Santo crea piccole opere d’arte che come lui stesso dice “Hanno rubato i colori dell’arcobaleno”. Cosa che, per ora, non è ancora un reato. Verona: Gherardo Colombo; far incontrare detenuto e vittima, un nuovo modo di fare giustizia di Giampaolo Chavan L’Arena, 3 aprile 2012 Far incontrare vittima e imputato per trovare i rimedi ai danni provocati dal reato. E questa “mediazione” rientra nel concetto di giustizia riparativa. Ed è l’altra giustizia. Che supera quella del male (il reato) che risponde con altro male (la detenzione). E alle mediazione, si aggiunge il perdono: “Che fa più bene a chi lo fa rispetto a chi lo riceve”, ha detto Colombo. Due ricette per cambiare il sistema punitivo. Le ha scodellate ieri l’ex pm di Mani Pulite, Gherardo Colombo nell’incontro con i detenuti nel carcere di Montorio, durato un’ora e mezza alla presenza del direttore Mariagrazia Bregoli e del garante dei detenuti, Margherita Forestan. Nell’aula a piano terra del carcere di Montorio, accesa solo da 10 lampade al neon con le finestre coperte da due tende scure, ha tentato di mettere insieme gli ingredienti per una ricetta dal sapore meno amaro per chi ha sbagliato e sta pagando tra le sbarre le sue colpe. Trentasei carcerati tra uomini e donne, sono rimasti per un’ora e mezza a discutere di pena e giustizia. Quella vera. Quella vissuta sulla loro pelle, fatta anche di tanta rabbia. Per chi si sente accusato ingiustamente da un testimone. O per chi non capisce le condanne, inflitte dal giudice. “L’Italia è uno dei pochi paesi nei quali le decisioni devono essere sempre motivate”, ha replicato l’ex pm e scrittore, Gherardo Colombo. Un incontro per nulla didattico, fatto di continue interruzioni con le domande dei detenuti rivolte all’ex pm di Mani pulite sempre disponibile a spiegare e con il chiodo fisso di trovare un altro modo di punire le trasgressioni. “Perché il sentimento della vendetta è negativo”, ha detto Colombo. Ha lasciato la toga per questa sua nuova missione. “L’ho fatto nel 2007”, ha spiegato ieri. Avrebbe potuto rimanere in magistratura altri 14 anni. Ma a lui non bastava aver fatto solo il giudice. E ora scrive libri e fa conferenze. “Faccio 400 dibattiti all’anno”, rivela ai carcerati. “La pena è sempre stata un supplizio fin nel 1800 quando si adottava la tortura”, ha spiegato l’ex pm di mani pulite. Ora c’è la detenzione in carcere. Ma non va bene: “È in contraddizione con il senso della dignità delle persone, previsto dalla Costituzione”, dice. E si fa capire subito dai detenuti: “Quante ore state in cella al giorno?”, ha chiesto ieri ai detenuti. “Venti ore”, è stata la risposta. “E vi pare dignitoso far trascorrere così tanto tempo in una cella che non rispetta nemmeno gli spazi minimi per una persona?” è stato il commento di Colombo. Viviamo in un mondo costellato da luoghi comuni. Li hanno anche i detenuti. La prova l’ha fatta emergere ieri lo stesso ex pm di mani pulite. Ha introdotto il sistema dei sex offender, gli autori dei reati a sfondo sessuale. Per loro, nel carcere di Verona c’è una sezione ad hoc. Non si contavano i commenti irriferibili dei detenuti. Facile per Colombo rilevare subito che queste reazioni non fanno altro che discriminare chi lo è già di suo una volta finito tra le sbarre. E, alla fine, resta in sospeso la domanda di un detenuto: “Se mi sono reso conto del male che ho fatto, sono pronte le persone fuori ad accogliere il mio percorso di recupero?”. Milano: l’arcivescovo Scola alla via crucis nel carcere di Opera con i detenuti La Repubblica, 3 aprile 2012 Nella sua prima domenica delle Palme a Milano, ieri, l’arcivescovo Angelo Scola ha voluto la comunità latino americana accanto a sé nella tradizionale processione con gli ulivi dalla chiesa di Santa Maria Annunciata in Camposanto verso il Duomo. Nell’omelia ha invitato i fedeli a scuotersi dalla “gaia rassegnazione in cui spesso, quasi senza accorgercene, scivoliamo, incapaci o semplicemente stanchi di cercare il senso pieno della nostra esistenza”. Nel pomeriggio ha incontrato centinaia di adolescenti riuniti per la veglia a Cinisello Balsamo e con loro ha parlato di affetti e del futuro, così come la sera prima in Duomo, durante la veglia In Traditione Symboli, aveva parlato di famiglia e amore. “Tu vali - ha detto il cardinale rivolto ai ragazzi. Vali perché tanti ti vogliono bene. Nessuno ti può sostituire, sei unico. Non temere, hai davanti il futuro, la tua fragilità è pungolo per aprire il futuro”. Parte la settimana del Triduo pasquale. L’arcivescovo, la sera del giovedì santo, farà la lavanda dei piedi in Duomo: quest’anno il simbolico rito sarà rivolto ai bambini. Venerdì mattina sarà in carcere a Opera per fare la Via Crucis con i carcerati, poi dalle 17.25 celebrerà la Passione nella cattedrale, con diretta dell’omelia dalle 19 su Telenova. Sabato dalle 20.55 veglia in Duomo, dove domenica alle 10.55 verrà celebrato il solenne pontificale di Pasqua. Libri: “Creative evasioni. Manifatture di moda in carcere”, di Carla Lunghi, ed. Franco Angeli www.prodottinliberta.it, 3 aprile 2012 Parte come una ricerca tra i responsabili di tre cooperative sociali che operano in carcere nel campo della moda (Made in carcere a Lecce, Ecolab e Sartoria San Vittore a Milano). Arriva come una serie di piccole storie di donne e uomini. E addirittura nella specificità delle produzioni carcerarie fashion “eccentriche perché cariche di contenuto semantico”. Particolari per via del lavoratore coinvolto, dei materiali scelti e nella carica creativa che vuole esprimere. Una moda solidale che riassume forse meglio di altre esperienze la produzione fra main stream e marginalità, fra novità e tendenza e relativa e immediata caducità della stessa. Le interviste ai lavoratori vertono sugli oggetti creati. Perché parlano delle giornate più o meno buone, della volontà personale di ‘raddrizzare le cuciture storte della vita, rinforzando i punti deboli. Gli oggetti parlano al posto delle persone. L’ultimo capitolo esplora l’approccio del singolo carcerato al lavoro artigianale, fonte di un futuro diverso che declina una nuova professionalità con l’onesta e la fatica. Televisione: domani sera su Rai 2 la quarta puntata di “Presunto colpevole” Il Velino, 3 aprile 2012 Quarta puntata per “Presunto colpevole”, in onda domani mercoledì 4 aprile, in seconda serata, su Rai 2, che denuncia altri casi di malagiustizia. La prima storia, dal titolo “Muro di gomma”, vede protagoniste Anna Maria Manna e Anastasia Montariello, incensurate, incarcerate con un’accusa infamante: pedofilia. Distrutta una reputazione per il nulla. Perché le due donne, quei bambini, non li conoscevano nemmeno. La seconda storia, dal titolo emblematico “Mi hanno rubato i figli”, racconta di Joy Idugboe: il suo calvario dura oltre due anni. L’accusano di sfruttamento della prostituzione. Prima cosa, le portano via i figli. Ma lei non c’entra niente e rischia di morire di dolore. “Identità rubata” è la terza storia. Fabrizio Bottaro è vittima di un errore, un errore che lo porterà in carcere come rapinatore. Ma Fabrizio era innocente. “Presunto colpevole” è un programma scritto da Sergio Bertolini, Paola Bulbarelli, Giuseppe Ciulla, Andrea Ruggieri. Regia di Daniela Vismara. In studio Fabio Massimo Bonini. Droghe leggere, errori pesanti… una canna fa molto meno male di un giorno di prigione di Alfonso Papa Notizie Radicali, 3 aprile 2012 Andare in galera sapendo che la P4 non esisteva, specie adesso che scopro che esiste un giudice non solo a Berlino ma anche a Napoli e che finalmente i giudici napoletani hanno messo la parola fine alla P4, mi ha roso un po’. Sapere che la P4 continuerà a vivere per sempre nei concitati sonni del vecchio amico e uditore Henry John Woodcock mi rattrista, anche perché conosco le arcane motivazioni del suo agire. Ma la galera mi ha donato qualcosa da ricordare per sempre e per cui combattere: la vergogna per la generazione di ragazzini tra i 18 e i 25 anni sbattuti in galera perché trasformati per legge da fumatori di canne in criminali. Della P4 non posso vergognarmi perché non so cosa sia (forse HJW sì, e magari conosce anche la P5). Di non aver osteggiato adeguatamente il capolavoro normativo “Bossi - Fini & Giovanardi “ sì, mi vergogno. Vedete, nel tanfo delle celle del carcere di Poggioreale capita di capire che si può essere antiproibizionisti o proibizionisti, ma solo una mente perversa può pensare di risolvere il problema della droga scaraventando in galera i ragazzini che si fanno le canne o si calano qualche droga. Anche perché per sopravvivere al carcere italiano il 75 per cento dei detenuti fa uso di psicofarmaci (che fanno più male dell’erba o del fumo). E allora? Allora provate ad andare nelle discoteche dove è proibito fumare ma la legge non riesce ad impedire la cessione di pasticche sintetiche spesso non inserite in alcuna tabella. Provate ad andare fuori dalle scuole dove l’erba non si spaccia solo perché è più pericolosa e meno remunerativa da spacciare, ma si trovano popper, droghe da tre euro a pasticca e cocaina. Provate a darmi il senso di una legge che arresta il ragazzino con la busta di fumo ma non consente al poliziotto di entrare nell’appartamento dello spacciatore. Vi sarò grato. Allora mi chiedo se non sia arrivato il momento di fare qualche distinguo che parta dalla constatazione che le droghe leggere hanno ormai il solo allarme sociale di costringere i giovani al contatto con il sottobosco del crimine per trasformarli in delinquenti senza averli mai educati. Mi chiedo poi se sia ancora corretto fingere che i cocainomani siano una sparuta minoranza e criminalizzare l’idea di assumere cocaina senza invece imporre a chi lo fa, ad esempio, di non mettersi al volante proprio perché si è drogati. Lo Stato italiano oggi finge di fare la lotta alle droghe. Di fatto riesce al più a mettere in galera chi si droga. In conclusione siamo tutti impotenti rispetto ai veri effetti di un fenomeno di massa che in assenza di controlli non ha argine nei suoi effetti sociali negativi ma vede tutti noi paghi nel mettere in galera chi si droga. Legalizzare significa regolare. Reprimere ciò che è di fatto già liberalizzato significa semplicemente rimuovere il problema e scaricarlo su chi lo vive nella solitudine di una società che si ricorda di te solo per sbatterti in galera e distruggerti la fedina penale a 18 anni. Insomma, droghe leggere ed errori pesanti. Credetemi: una canna fa molto meno male di un giorno di prigione, e mentre qualcuno pensa che il problema dei giovani sia ancora l’eroina (in ritardo di vent’anni), nessuno si preoccupa dei giovani che comprano le pasticche su Internet perché è meno pericoloso che comprare l’erba per strada. Se davvero vogliamo limitare, educare, circoscrivere, legalizziamo e discipliniamo. Ecco perché non rimpiangeremo né Fini (che la canna ha ammesso di averla fumata, ma senza progressi apprezzabili), né Bossi (che non ne aveva bisogno), né Giovanardi (che non credo ne avrebbe mai avuto opportunità). La galera al ragazzino che fuma è una sciocchezza davvero pesante. Persino più della P4, sulla quale almeno qualcuno ci voleva costruire una carriera. Germania: inefficienze, strutture fatiscenti e scarsi controlli… così “insicure” sono le prigioni di Kristian Frigelj (traduzione a cura di Davide Delaiti) Notizie Radicali, 3 aprile 2012 Ammutinamenti, evasioni e istituti fatiscenti: l’istituto penitenziario di Bochum continua a rimanere al centro del dibattito a causa delle pessime condizioni di sicurezza in cui versano le carceri del Nordhein Westfalen. Finalmente il ministro della giustizia della regione del Nordhein Westfalen, Thomas Kutschaty, ha deciso di occuparsi del caso. Ha da poco inviato dei suoi collaboratori all’istituto penitenziario di Bochum per analizzare e riportare le condizioni dell’istituto circa le norme di sicurezza e i nuovi tentativi di evasione. I parlamentari della commissione di Giustizia del Landtag, ovvero il parlamento della regione, si erano già in precedenza recati sul luogo: una parete di mattoni era stata parzialmente compromessa da una breccia piuttosto larga sul muro. I problemi storici e attuali delle carceri di Bochum Dopo l’ennesima conferma della precarietà strutturale e materiale dell’istituto, il ministro della giustizia ha voluto contenere le eventuali critiche rivolte dall’opposizione ma soprattutto dai media. “Non si tratta ancora di un tentativo effettivo di fuga, ma di atti preparatori” ha precisato il Socialdemocratico, tentando così di contenere le preoccupazioni. Probabilmente questo mancato allarmismo può sembrare convincente, dal momento che anche il Direttore in pectore dell’istituto, Uwe Nelle-Cornelsen, non ha mai esplicitamente parlato di “Tentativi di Evasione” - nemmeno dopo i precedenti casi che aveva incautamente ridicolizzato. A questi problemi si aggiungono strutture fatiscenti e poco sicure, condizioni di detenzione ai limiti della decenza umana e mancanza di personale addetto. Costruito nel 1987, l’istituto penitenziario di Bochum continua a preoccupare a causa delle sue inadeguatezze strutturali e alle negligenze del personale di sorveglianza. Il ministro della giustizia, di fronte alla commissione competente, si limita a elencare quelli che sono stati gli incidenti più gravi avvenuti fino al gennaio 2012: un tentativo di evasione e due avvenute, dal carcere e dall’ospedale psichiatrico, un direttore sospeso, preparazioni a future evasioni e false informazioni fornite al Landtag e alla stampa. Le evasioni, i casi di omicidio e i maltrattamenti negli anni precedenti continuano a rimanere al centro dell’attenzione dei media. I casi più gravi Novembre 2006: nella prigione di Siegburg tre giovani detenuti hanno picchiato e violentato un loro compagno di cella per diverse ore, a totale insaputa del personale di sorveglianza. Per farlo sembrare un suicidio i tre lo avevano appeso con una corda alla porta del bagno. Il principale colpevole è stato condannato ad altri quindici anni di reclusione. Il soggetto è ora in isolamento. Novembre 2009 : Due pericolosi criminali, Michael Heckhoff e Peter Paul Michalski, hanno tentato la fuga con successo dall’istituto penitenziario di Aachen (altra città del Nordhein Westfalen). La guardia che li ha aiutati a evadere si trova ora in detenzione preventiva. Heckhoff è stato catturato a Mülheim, nella Ruhr, mentre Michalski è stato fermato due giorni più tardi su un sentiero nei pressi della città di Niederheiin. Michalski era in prigione dal 1992 per un caso di rapina e omicidio nella città di Wein. Gennaio 2010: A Münster due prigionieri sono fuggiti attraverso il condotto di aereazione di una toilette, raggiungendo così il tetto della prigione. Da lì si sono fatti scivolare a terra tramite una grondaia, scappando. Dopo due settimane i due sono stati catturati nel bacino della Ruhr. In seguito l’ex ministro della giustizia della regione, Roswitha Mülller-Piepenkötter, ha controllato personalmente che gli istituti penitenziari fossero tutti a norma. Gennaio 2010: Un diciassettenne riferisce di essere stato seviziato e maltrattato da tre compagni di prigione. Gli accertamenti del procuratore sono ancora in corso. La violenza nelle carceri è tuttavia diminuita da anni nel Nrw. I casi, riferisce il ministro della giustizia, sono diminuiti da 53 a 27. Aprile 2010 : un detenuto, cinquantenne accusato di pedofilia e violenze sessuali, ha ucciso la sua compagna di cella di 46 anni. Il colpevole era in possesso di due coltelli e di una chiave inglese. Anno 2011- 2012: sono fuggiti altri tre prigionieri dall’istituto penitenziario di Bochum, tra cui un pericoloso criminale cinquantenne, condannato all’ergastolo per rapina e omicidio. La Cdu ha presentato al Landtag una lista ancora più lunga di scandali: nel gennaio riuscì a fuggire un detenuto così come nell’agosto del 2008 (durante una visita “sorvegliata” alla moglie). Il ministro ha perso il controllo della situazione” ha detto il deputato della Cdu Peter Biesenbach: “l’istituto penitenziario di Bochum è bucato come un formaggio svizzero”. Il deputato del Cdu parla di “evasioni a catena”. Ammissioni di colpa Il ministro della giustizia ha dapprima evitato l’incontro con la commissione di giustizia (giovedì scorso) e successivamente, dopo un’ora, ha dovuto ammettere in una conferenza stampa che di fronte al parlamento regionale non era stato sincero “Mi dispiace, fin dall’inizio mi erano state fornite delle informazioni erronee, e per questo io mi scuso”. Fino ad oggi il ministro Kutschaty aveva fatto affidamento sui rapporti dell’ex direttore dell’istituto M. “sono terribilmente deluso” ha dichiarato il ministro accusando M. di avergli fornito “erronei e falsi rapporti circa le situazioni della prigione”. Le altre carceri del Nordhein Westfalen Dopo l’ultima evasione del 29 gennaio si è scoperto che altre prigioni regione versano in condizioni simili. Il ministro della giustizia afferma che le strutture in questione hanno subito “una ricognizione strutturale, e i punti più a rischio sono stati immediatamente riparati”. Sulla base di questi casi, il gruppo della Cdu ha chiesto le dimissioni dei dirigenti dell’istituto penitenziario della città di Aachen. Negli scorsi anni la commissione di giustizia si era personalmente recata sul luogo per informarsi al riguardo. L’opposizione ha raccolto una lunga lista di casi che delineano un quadro agghiacciante: ammutinamenti da parte dei detenuti nella città di Gelsenkirche, Kleve e Wuppertal, celle sporche e malmesse a Munzer e Köln e oltre 430.000 ore di straordinario da parte del personale di giustizia per far fronte alla situazione. Il ministro della giustizia conosce i problemi fin troppo bene. Lui stesso ha stanziato due miliardi per la ristrutturazione delle carceri. Nelle prossime settimane presenterà un nuovo documento con le linee generali per regolamentare la situazione penitenziaria. Stati Uniti: Amnesty; nelle carceri di massima sicurezza detenuti privati di cure fisiche e mentali Vita, 3 aprile 2012 In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato che più di 2.000 prigionieri sono tenuti per mesi o anni in condizioni d’isolamento estremo e deprivazione sensoriale nelle carceri di massima sicurezza dello stato dell’Arizona, Usa. Il regime d’isolamento priva di umanità i detenuti e le autorità penitenziarie vengono meno al dovere di curare la loro salute fisica e mentale. In Arizona, oltre un detenuto su 20 è tenuto in isolamento, un rapporto sproporzionatamente alto in un paese che è ritenuto avere la massima popolazione carceraria mondiale in isolamento. In isolamento si trova più di una decina di ragazzi tra i 14 e i 17 anni in un’unità speciale per minorenni che tuttavia sono stati giudicati e condannati alla stregua di imputati adulti. “L’isolamento in Arizona è una pratica disumana. Qualunque cosa, dalle celle fino alla mancanza di cure mediche e di opportunità riabilitative, sembra essere stata espressamente progettata per privare di umanità i detenuti” - ha dichiarato Angela Wright, ricercatrice di Amnesty International sugli Usa. “L’isolamento dovrebbe essere usato solo come estrema risorsa e per brevi periodi di tempo e mai nei confronti di minorenni o di persone con problemi di salute mentale” - ha aggiunto Wright. La maggior parte dei prigionieri in isolamento si trova nelle Unità a gestione speciale del complesso penitenziario statale di Eyman. I detenuti passano quasi 24 ore in una cella piccola, senza finestre e con scarsa ventilazione o luce naturale. Non possono lavorare né seguire programmi educativi o riabilitativi. È loro concesso di lasciare le loro celle al massimo tre volte alla settimana, per non più di due ore ogni volta, per lavarsi e svolgere attività fisica da soli, in un piccolo cortile nel quale raramente arriva la luce solare. Le visite con familiari e avvocati avvengono attraverso un vetro, senza alcun contatto fisico. In una lettera inviata ad Amnesty International, un prigioniero detenuto da anni in isolamento descrive le condizioni insopportabili, con pezzi di cibo, urina e feci sulle pareti della cella. Molti prigionieri hanno contratto lo stafilococco e hanno infezioni cutanee. Le autorità considerano i detenuti in isolamento come soggetti a massimo rischio per il pubblico e per il personale penitenziario. Tuttavia, non tutti i prigionieri sembrerebbero rientrare in questa categoria: alcuni sono stati posti in isolamento per ripetute, piccole infrazioni ai regolamenti. Molti prigionieri hanno malattie mentali e disturbi del comportamento, una condizione destinata a peggiorare a causa dell’isolamento. Secondo gli esperti sanitari, forme d’isolamento come quelle in vigore in Arizona possono causare gravi danni psicologici tra cui ansia e depressione, distorsioni della percezione e psicosi, anche in soggetti che non ne avevano sofferto in passato. Ricerche e raccolte di dati provenienti da diverse fonti sottolineano come i suicidi siano più frequenti tra i detenuti in isolamento che nel resto della popolazione carceraria. Tra l’ottobre 2005 e l’aprile 2011, nelle prigioni per adulti dell’Arizona si sono verificati almeno 43 suicidi: 22 dei 37 casi su cui Amnesty International ha ottenuto informazioni, hanno avuto luogo nei reparti d’isolamento. Alcuni stati degli Usa hanno recentemente ridotto o chiuso i reparti d’isolamento, a seguito di sentenze di tribunale o per ridurre i costi di gestione. Nel 2007, ad esempio, il Mississippi ha limitato i criteri per porre i detenuti al regime d’isolamento e ha avviato programmi di attività ricreative e comuni fino a quando, nel 2010, ha posto fine all’isolamento trasferendo i detenuti negli altri reparti. Secondo le autorità il cambiamento ha prodotto un migliore comportamento dei prigionieri, meno violenza e minore uso della forza. “Siamo consapevoli che i prigionieri possano, qualche volta, essere isolati per ragioni di sicurezza o a seguito di misure disciplinari. Ma nessuno di loro dovrebbe essere privato di cose fondamentali, come un adeguato esercizio fisico, l’accesso alla luce e alla ventilazione naturale e una significativa interazione con gli altri detenuti” - ha concluso Wright. Per svolgere la sua ricerca, Amnesty International ha chiesto di visitare i reparti d’isolamento di Eyman, ma la sua richiesta è stata negata. La direzione di Eyman ha rifiutato d’incontrare i delegati di Amnesty International che si trovavano in Arizona nel luglio 2011, impedendo loro d’ispezionare il complesso penitenziario e le sue strutture. La ricerca di Amnesty International si è pertanto basata su una serie di fonti, come i prigionieri e i loro avvocati, attuali ed ex dipendenti del carcere e i regolamenti e le procedure del dipartimento delle carceri dell’Arizona. Israele: prigionieri palestinesi annunciano nuovo sciopero della fame = Adnkronos, 3 aprile 2012 Nuovo sciopero della fame dei palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane. I detenuti hanno annunciato che intendono protestare contro le condizioni di reclusione e la denunciata intensificazione delle pratiche di isolamento con una giornata di sciopero della fame. Le autorità israeliane, riferisce il sito web del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, non sono a conoscenza di scioperi in atto nelle carceri del Paese. Secondo dati di fine marzo di Amnesty International, oltre 30 palestinesi sono già in sciopero della fame, alcuni da oltre quattro settimane, per protestare contro l’istituto della detenzione amministrativa, che prevede il carcere a tempo indeterminato per i palestinesi della Cisgiordania che, stando a Israele, costituirebbero una “minaccia alla sicurezza”. I detenuti palestinesi nelle carceri israeliane protestano spesso contro le condizioni di detenzione. Lo scorso settembre una cinquantina di detenuti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), rinchiusi nelle prigioni di Rimon e Nafha, avviarono uno sciopero a cui aderirono poi più di 200 prigionieri di altre fazioni. Più recente è il caso della 30enne Hana Shalabi che per oltre 40 giorni è stata in sciopero della fame per protestare contro la “detenzione amministrativa” e il trattamento subito durante l’arresto, a febbraio in Cisgiordania, con l’accusa di far parte della Jihad Islamica. Durante lo sciopero della fame, come verificato dall’organizzazione Medici per i diritti umani Israele, la Salabi ha subito danni alla tiroide ed è caduta in uno stato di prostrazione. La protesta della donna, mai formalmente incriminata, è finita con un ‘accordò con le autorità israeliane in base al quale è stata trasferita nella Striscia di Gaza, dove dovrà rimanere per tre anni.