Giustizia: ha ragione Pannella… la vera Liberazione si chiama Amnistia di Piero Sansonetti Gli Altri, 29 aprile 2012 Quest’anno ci sono stati due venticinque aprile. Uno ha festeggiato la Liberazione e ha chiesto una nuova e moderna Liberazione. Lo ha organizzatò Marco Pannella, che ha guidato la marcia per l’amnistia. È stato un momento di lotta politica. L’altro ha coinciso con una cerimonia, noiosa e stupida come lo sono sempre le cerimonie, e che serviva solo a riaffermare, quasi settant’anni dopo la Resistenza, l’esistenza di un “ceto antifascista”. Cos’è un “ceto antifascista”? La riproposizione - in assenza di valori nuovi e “pensati” - di valori antichi, non più viventi, “scongelati” da una specie di freezer politico. Il “ceto antifascista” non ha età, contiene al suo interno anziani militanti di sinistra, legati ai vecchi miti comunisti o addirittura stalinisti, e giovani, orfani delle ideologie, privi di nuove idee e alla ricerca di una identità qualsiasi, purché netta, purché di squadra, purché sostenuta da una certa quantità di violenza o comunque di diritto alla violenza. Il ceto antifascista quest’anno ha riproposto un corteo dell’Anpi che aveva come obiettivo la lotta al fascismo. Del tutto incurante del fatto che il fascismo non esiste più e ci sono invece, nella società, molti altri avversari da battere: la xenofobia, la tecnocrazia, il classismo, il forcaiolismo, per esempio. Il ceto antifascista ha organizzato un corteo - in contrapposizione con la marcia annunciata da molto tempo dai radicali - che ha avuto come sue caratteristica essenziale l’”esclusione”. Di chi? Dei fascisti, ovviamente. E cioè del sindaco di Roma e della presidente della Regione, che sono due ex esponenti del Msi. In realtà da molto tempo sia Alemanno sia Polverini non si dichiarano più fascisti, come è logico che sia, visto che Mussolini è stato fucilato 67 anni fa. E al momento svolgono il ruolo di legittimi rappresentati della democrazia a Roma e nel Lazio. Evidentemente l’idea che le elezioni siano un aspetto del tutto secondario della democrazia (vedi l’insediamento del governo extra-elettorale Monti-Fornero) è ormai consolidata. La vecchiezza dell’antifascismo di maniera ha dato, credo, un risalto ancora più grande all’antifascismo moderno e politico dei radicali e di Pannella. I quali hanno posto all’ordine del giorno il tema della Liberazione, e hanno messo, su questo piano, i partiti e le forze politiche di fronte a una scelta da fare. Amnistia o no? L’amnistia è uno degli aspetti della Liberazione 2012. Non credo affatto che il tema dell’amnistia sia marginale, rispetto alla sostanza della lotta politica di oggi. E vero che stiamo attraversando una crisi economica devastante. Però mi chiedo: è possibile immaginare una uscita da questa crisi solo sul terreno dell’economia, e cioè senza la definizione di un quadro politico, di un progetto di società? Beh, non ho dubbi sul fatto che il tema dell’amnistia (cioè dell’idea di giustizia, di libertà, di pena e di risarcimento) sia fondamentale per la costruzione di un modello moderno e liberale di società. L’amnistia è una proposta che ha due conseguenze. La prima pratica la seconda ideale. La conseguenza pratica è la soluzione dell’”ingorgo” inutile che sta paralizzando la giustizia italiana. E rendendo le carceri un luogo di tortura di Stato. La conseguenza ideale è l’apertura di un nuovo ciclo, libertario, che inverta lo spirito pubblico che negli ultimi vent’anni ha dominato nel nostro Paese, e cioè quello spirito che si rifà alla necessità di una giustizia intesa nei termini di vendetta e di pena, di divisione della comunità in giusti e reprobi, di affermazione di una superiorità antropologica degli onesti. L’amnistia prevede una società paritaria, che rifiuti il concetto di onesti, di gente perbene, e che sostituisca il sistema delle pene (della vendetta catartica ) con un sistema di diritti e risarcimenti. L’amnistia, oggi, è la Liberazione. È il 25 aprile. Non offre ideologie, non offre identità? Già, è la sua forza. P.S. Nei giorni scorsi i giovani democratici di Roma (cioè i ragazzi del Pd) sono andati in via Rasella a commemorare la Resistenza romana. Il capo dei giovani democratici ha dichiarato all’Unità che la scelta di via Rasella è stata perché via Rasella è il luogo simbolo dei partigiani, e ha detto che loro sono voluti andare lì perché non si disperdano i valori che via Rasella ci ha lasciato. Non so bene come commentare. Ho la speranza che il giovane democratico confondesse via Rasella con le Fosse Ardeatine. Le Fosse Ardeatine (dovei nazisti uccisero e seppellirono 335 partigiani, soldati e cittadini inermi) sono il simbolo della lotta alla barbarie fascista. Via Rasella, dove un’azione partigiana (contestatissima) fece strage di 32 giovani soldati tedeschi e tirolesi, è un’altra cosa. Non c’è bisogno di mettere in discussione la legittimità dell’azione (azione di guerra, tutta interna alla logica guerresca) e dunque la limpidità del comportamento del partigiano Bentivegna, per capire che a via Rasella, comunque, ci fu una strage. Strage giusta? Strage legittima? Strage dolorosamente e tragicamente necessaria? E una discussione che faremo un’altra volta. Però, diciamolo: una strage non possiede nessun valore da tramandare ai posteri, non vi pare? Giustizia: bloccata proposta legge sul lavoro in carcere, detenuti sempre più disoccupati di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2012 “Il carcere dovrebbe essere il tempio della legalità ma continua ad essere, nonostante gli sforzi recenti, il luogo in cui si consuma la più grave delle illegalità, quella costituzionale. Al punto che chi lo dirige, il capo del Dipartimento dell’ Amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, pronuncia parole quasi di resa: “Condizioni di urgenza, come il sovraffollamento nelle carceri, possono richiedere soluzioni d’urgenza, come fu per il 41 bis contro la criminalità organizzata”. Quel che è certo è che la crisi economica sta rendendo ancora più drammatica - e fuorilegge - la situazione carceraria. Basti pensare al lavoro: un diritto dei detenuti (non un privilegio né tanto meno un premio), un obbligo per lo Stato; eppure il lavoro sta scomparendo. I “lavoranti” sono appena il 20% (13.961 su 66.897); gli altri stanno “in ozio”, come si dice in gergo. Ma anche per chi lavora sono tempi durissimi: i drastici tagli di spesa non consentono di pagare “la mercede” a chi lavora alle dipendenze del carcere l’83%), come “scopino”, “spesino”, “porta vitto”, “tabelliere” (le buste paga da 30 euro stanno diventando la norma) né di sostenere le imprese o le cooperative che assumono detenuti (2.261, solo il 16%). La commissione Bilancio della Camera ha bloccato, per mancanza di copertura finanziaria, la proposta di legge che puntava al reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro attraverso sgravi fiscali alle imprese. Molti, quindi, perderanno il lavoro, cioè il principale incentivo a un concreto reinserimento sociale. I numeri del disastro - ormai non è più un’emergenza - si possono leggere nell’ultimo Rapporto sul carcere di Antigone, Associazione da sempre in prima linea. Li c’è anche il primo bilancio del decreto-Severino sul sovraffollamento, quello che secondo la Lega e l’Idv sarebbe stato un indulto mascherato, un pericolo perla sicurezza degli italiani, perché avrebbe rimesso in libertà pericolosi delinquenti. Ebbene, dopo tre mesi e mezzo di vita, la cosiddetta “svuota carceri” ha svuotato poco e niente visto che i detenuti passati dal carcere ai domiciliari sono stati solo 312, non le migliaia che qualcuno paventava, o sperava (a seconda dei punti di vista). È andata un po’ meglio sul fronte degli ingressi, poiché con le nuove norme c’è stata una riduzione di 3mila detenuti che avrebbero scontato una pena breve o brevissima (da 19.212 a 16.663), anche se la tendenza alla riduzione era già in corso. Ben più significativo, su questo fronte, l’apporto dell’Europa con la sentenza della Corte di Giustizia dell’anno scorso: i giudici di Lussemburgo hanno di fatto spazzato via la norma della Bossi-Fini sull’arresto degli extracomunitari non in regola con i documenti, che disobbedivano all’ordine di allontanamento del Questore. E così, rispetto ai 24.954 stranieri detenuti alla fine del 2011, a marzo di quest’anno se ne contavano 24.123, cioè 831 in meno, quasi l’equivalente della decrescita dell’intera popolazione carceraria registrata nell’ultimo anno. Il sovraffollamento aggrava la violazione dei diritti che si consuma in carcere. Secondo i dati ufficiali, i posti regolamentari sarebbero 45.743 (in realtà meno, poiché molti reparti sono chiusi per manutenzione e si usano spazi comuni come celle), quindi 20.952 meno di quelli richiesti dalle presenze (66.695). Il 40,4% dei detenuti (2 su 5) è in custodia cautelare; il 36,2% sono stranieri. In teoria, il tasso di affollamento è del 145% e già questo ci colloca al vertice della lista nera dei Paesi europei. Certo, gli Stati Uniti stanno peggio poiché detengono il poco invidiabile record del 25% della popolazione carceraria del pianeta, con i loro 2,4 milioni di detenuti, nonostante negli ultimi 20 anni il tasso di criminalità sia diminuito di oltre il 40%. Miracoli della “tolleranza zero”! La Corte suprema americana ha definito il sovraffollamento dei penitenziari della California una “punizione crudele e insolita” ordinando allo Stato, l’anno scorso, di tagliare di 30mila detenuti la popolazione carceraria. E chissà se Tamburino, parlando di “soluzioni d’urgenza”, non pensi ad un epilogo analogo a quello. Giustizia: Tamburino; per sovraffollamento soluzione d’urgenza, paese rischia illegalità Ansa, 29 aprile 2012 “Condizioni di urgenza, come il sovraffollamento nelle carceri, possono richiedere soluzioni d’urgenza come è stato per il 41 bis”: lo ha detto Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, parlando a margine di un convegno organizzato a Chiavari dall’Unione delle Camere Penali della Liguria. “Le condizioni di sovraffollamento - ha detto Tamburino - possono portare il Paese fuori da un quadro di legalità costituzionale, Per questo, come fu per il 41 bis contro la criminalità organizzata, anche per il sovraffollamento possono essere previste soluzioni d’urgenza”. Anm Liguria: su sovraffollamento solo pannicelli caldi Tutti gli aggiustamenti della norma in materia di sovraffollamento delle carceri si stanno rivelando solo “pannicelli caldi”. “È necessario voltare pagina ma per farlo ci vuole volontà politica”: lo ha detto stamani Francesco Pinto, presidente dell’Associazione nazionale magistrati della Liguria, in un convegno organizzato a Chiavari dall’Unione Camere Penali. “Ogni aggiustamento è da considerarsi un pannicello caldo - ha detto Pinto. Bisogna metter mano alla norma. Ed è impensabile in un momento di crisi come questo pensare all’ampliamento delle strutture carcerarie. Quindi si può solo pensare di voltare pagina in fretta e per questo ci deve essere una precisa volontà politica”. Giustizia: interrogazione di Rita Bernardini su caso Franceschi, ucciso in carcere francese www.clandestinoweb.it, 29 aprile 2012 La deputata dei Radicali, Rita Bernardini, ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia e al Ministro degli Esteri, per riuscire ad arrivare alla verità sul caso di Daniele Franceschi, che ha trovato la morte in un carcere francese il 25 agosto 2010. A distanza di quasi due anni ancora non c’è giustizia per la madre di Daniele, Cira Antignano, e ancora non è stata fatta luce sulle dinamiche che hanno portato alla morte del ragazzo 36enne. Sul blog di Rita Bernardini è riportato il testo integrale dell’interrogazione in cui sono riassunte in modo cronologico i momenti salienti della drammatica vicenda da parte dell’Avv. Aldo Lasagna, legale della famiglia Franceschi/Antignano. In particolare con questa interrogazione si vuole arrivare a sciogliere importanti nodi della faccenda e chiedere ai ministri della Giustizia e degli Esteri: quale sia, dopo 20 mesi, la ricostruzione che i Ministri interrogati fanno della vicenda; se i Ministri siano tenuti costantemente informati sulla vicenda dalle nostre rappresentanze diplomatiche in Francia che seguono il caso del nostro connazionale deceduto nella prigione di Grasse; come mai, nonostante le rassicurazioni, il corpo del giovane Daniele Franceschi sia rientrato in Italia in pessimo stato di conservazione e privo degli organi interni; cosa è in grado di dire il Ministro degli esteri sulla circostanza per la quale alla fine di ottobre 2010 le autorità francesi affermavano che gli organi interni fossero ancora sotto esame e che sarebbero stati resi disponibili solo a dicembre 2010; quale sia la ragione per la quale gli organi espiantati di Daniele Franceschi non siano stati ancora restituiti alla madre dopo più di venti mesi dal tragico evento; se corrisponda al vero il fatto che l’ambasciata francese a Roma abbia contattato recentemente la Sig.ra Cira Antignano per comunicarle che gli organi di suo figlio “sono meri reperti” e che quindi non le sarebbero mai stati restituiti; se siano in grado di dire in quale ospedale sia morto il giovane Daniele Franceschi; cosa abbiano intenzione di fare per ottenere dalle autorità francesi spiegazioni convincenti rispetto alle contraddittorie risposte fin qui ottenute; quali iniziative intendano mettere in atto per supportare la madre di Daniele Franceschi nella drammatica ricerca della verità sulle cause della morte del figlio. Giustizia: niente reato… se la sevizia è di Stato di Sergio D’Elia (Presidente di Nessuno Tocchi Caino) Gli Altri, 29 aprile 2012 La pratica della tortura nel nostro Paese-culla-del-diritto non è storia fuori dal tempo, archiviata nel Medioevo insieme agli armamentari dell’afflizione fisica come lo schiaccia pollici, la Vergine di Norimberga e altri orrori oggi custoditi nel Museo di criminologia criminale di Via Giulia a Roma. La tortura è anche storia recente dell’Italia repubblicana. È stata praticata negli Anni di Piombo, e non si è trattato solo di acqua e sale da far ingerire a forza, di sevizie e botte. Al brigatista Cesare Di Lenardo, uno dei carcerieri del generale americano Dozier, sequestrato nel dicembre 1981 e liberato dalla polizia un mese dopo, fu fatto di peggio. I Radicali registrarono alla Rai una tribuna autogestita, con Emma Bonino che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Lenardo. Interrogato sul fatto da Marco Pannella, l’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni rispose: “Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini”. Anche quel poliziotto, soprannominato “professor De Tormentis”, accusato di avere usato regolarmente tecniche di tortura contro i presunti brigatisti. Qualche anno dopo, nell’estate del 1992, alcuni parlamentari radicali si recarono al carcere di Pianosa, nella sezione Agrippa, che era stata improvvisamente riaperta dopo anni di abbandono. Il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa settanta “mafiosi” furono “impacchettati” e trasferiti nell’isola. Ai Radicali i detenuti raccontarono di manganellate, calci e pugni presi per niente, che erano tenuti svegli tutta la notte con colpi sulle porte delle celle o con docce di acqua fredda (di piscio, secondo alcuni), che erano costretti ad alzarsi alle sette e andare all’aria a correre e marciare sul cemento, che alcuni di loro erano stati sottoposti a finte fucilazioni che sarebbero avvenute in una chiesa sconsacrata sull’isola. Il termine “tortura”, secondo il diritto internazionale, indica “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona”. Il “carcere duro” del 41 bis è servito e continua a servire come catena di montaggio di una fabbrica di dolore e pentimento che nessun granello di sabbia di diritto interno e legalità internazionale può permettersi di inceppare. Il 30 gennaio scorso, il tribunale di Asti ha assolto cinque agenti di polizia penitenziaria del carcere di Quarto accusati di aggressione e tortura nei confronti di alcuni detenuti... poiché tale reato non è previsto dal nostro codice penale. Al di là di ogni dibattito filosofico, questa sentenza rende evidente la gravità dell’assenza nel nostro Paese di uno strumento normativo di dissuasione da una pratica che il diritto internazionale classifica tra le violazioni più gravi dei diritti umani. I difensori dello status quo di un vuoto normativo che perdura dall’11febbraio 1989, da quando cioè l’Italia ha depositato alle Nazioni Unite lo strumento di ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura, sostengono che strumenti alternativi per prevenire e combattere la tortura esistono: c’è il reato di lesioni, c’è quello di violenza aggravata dall’aver commesso il fatto abusando della propria autorità di pubblico ufficiale, e così via. Non è così, perché nello spirito e nella lettera della Convenzione Onu del 1984 la specificità del reato di tortura è tutt’altra, ed è atta e volta a proteggere non solo l’integrità fisica ma anche quella psichica delle persone private della libertà, in poche parole, a tutelare la complessità della dignità umana, la sfera sacra e inviolabile del corpo e dell’anima di un individuo. Giustizia: Noury (Amnesty); da Genova a Cucchi, l’Italia “distratta” non vede la tortura Intervista di Valentina Ascione Gli Altri, 29 aprile 2012 Non è soltanto un problema di dittature e altri regimi liberticidi, né una questione da relegare nelle agende di politica estera. I diritti umani, e la loro tutela, dovrebbero essere un tema fondamentale di discussione anche nelle società democratiche come la nostra. Ma il condizionale è d’obbligo, almeno qui in Italia, dove la disattenzione è forte, mentre il diritto internazionale boccia le politiche che negli ultimi anni hanno eroso i diritti dei migranti e non solo. Ne abbiamo parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, alla vigilia della 27a Assemblea generale. Come vanno le cose qui da noi sul fronte dei diritti umani? L’Italia è stata un ospite fisso negli ultimi decenni del rapporto annuale di Amnesty international. È un paese nel quale le istituzioni hanno mostrato una costante disattenzione all’importanza della tutela dei diritti umani, quasi fossero un mero oggetto di politica estera e dunque avessero un senso e un valore al di fuori dei confini nazionali. Ne è l’esempio l’assenza del reato di tortura nel codice penale, un caso eclatante di -disattenzione perché vede l’Italia in ritardo di un quarto di secolo rispetto a un obbligo che ha in tema di diritti umani. Con delle ricadute concrete, come dimostra il processo per le violenze al G8 di Genova, o la sentenza sui maltrattamenti ai danni di alcuni detenuti nel carcere di Asti... Quello della mancanza del reato di tortura è un caso emblematico ma niente affatto simbolico proprio perché la sua presenza o assenza nell’ordinamento penale significa in diversi casi - e cito uno dei più evidenti, cioè la sentenza per i fatti della caserma di Bolzaneto a Genova nel 2001 - pene adeguate alla gravità del reato commesso oppure prescrizione. A cosa si deve questa riluttanza? Sono state fornite ragioni diverse. La prima, infondata, è l’esistenza di fattispecie di reato che già lo contemplavano. Ma la tortura è un reato specifico, eccezionalmente grave e non può essere ricompreso in reati quali lesioni o lesioni gravi, anche perché le pene sono diverse. La seconda è che: siccome in Italia non c’è la tortura non c’è bisogno del reato di tortura, come ha detto qualcuno mostrando una discreta ignoranza in tema di norme internazionali e obblighi di attuazione dei trattati. Poi c’è chi ha pensato che introdurlo avrebbe messo in cattiva luce l’operato delle forze di polizia, ma l’accertamento di singole responsabilità non può che andare a riscatto della parte buona delle forze dell’ordine, che è evidentemente la maggioranza. Intanto l’Italia è stata condannata per violazione, ad esempio nelle nostre carceri, dell’articolo della Convezione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti... Lo stesso articolo, l’articolo 3, è stato richiamato nella recente sentenza della Corte europea riguardo alle politiche di respingimento che sono state una pagina sciagurata e illegale della storia recente, successiva all’accordo tra Berlusconi e Gheddafi. Ci sono poi sentenze importanti anche da parte di organismi interni, come quella del Consiglio di Stato del 16 novembre che ha dichiarato illegittima la cosiddetta emergenza nomadi, stabilendo che lo 0,23 per cento della popolazione italiana non può essere considerato alla stregua di una catastrofe naturale. C’è però un ricorso del governo contro questa sentenza che mira a tenere in piedi credo alcuni aspetti dell’impianto dell’emergenza nomadi, legati soprattutto agli investimenti fatti. Un segnale preoccupante. Così come preoccupa sentire che si rispetterà la sentenza sui respingimenti e poi vedere il ministro Cancellieri firmare in Libia un accordo i cui contenuti non sono pubblici. Noi abbiamo chiesto lo siano, perché non si possono riprendere gli accordi senza introdurre garanzie forti sui diritti umani. Non c’è statti un segnale forte di discontinuità rispetto alle politiche del precedente governo? Queste cose vanno misurate su un periodo più lungo. Ci sono dei segnali che fanno pensare a una possibile inversione di rotta sui diritti umani. Mi pare però che non siamo ancora abbastanza definiti. Del resto, anche nel passato è difficile individuare su questi temi dei comportamenti radicalmente diversi da un governo all’altro. Penso al segreto di Stato sul caso Abu Omar posto dai governi Prodi e Berlusconi per cercare di contrastare le indagini. O ai fatti accaduti a Napoli nel marzo del 2001, che hanno preceduto Genova e per alcuni versi ne sono stati quasi la prova generale, mentre c’era il governo precedente a quello Berlusconi. A volte sono le stesse istituzioni a certificare le violazioni. È di poche settimane fa il rapporto della Commissione straordinaria del Senato sullo stato dei diritti umani nelle carceri e nei centri per immigrati... All’interno delle istituzioni ci sono esempi importanti di organismi che lavorano in maniera coerente con il titolo a loro affidato, come nel caso della Commissione del Senato che ha fatto un ottimo lavoro anche sui rom. E poi ci sono certamente sensibilità individuali. Quando pensó all’89% del Parlamento che ha votato a favore degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi, mi tengo anche stretto quell’i l % che votò contro pensando ai diritti umani. L’Assemblea generale di Amnesty International ospiterà Ilaria Cucchi, Lucia Uva e la mamma di Federico Aldrovandi Patrizia Moretti, donne che si battono per far luce sulla morte dei propri familiari avvenuta nelle mani delle forze dell’ordine. Non dovrebbe essere lo Stato il primo a battersi per la verità e la giustizia? È una risposta che tutti vorremmo dalle istituzioni. Io devo rispondere con un’altra domanda: che senso dei diritti umani c’è in un paese nel quale le istituzioni anziché collaborare cercano di ritardare l’accertamento dei fatti e la giustizia? Lasciare l’onere della lotta per la verità e la giustizia ai singoli familiari è brutto e richiama situazioni molto lontane da noi, come le madri di Plaza de Mayo in Argentina o le madri a lutto in Iran. Paesi con cui dal punto di vista dei diritti umani l’Italia non è comparabile, però è comparabile la solitudine dei parenti delle vittime. Il fatto che da parte delle istituzioni non ci siano parole di scuse lascia aperte molte ferite. Ciò vale in particolare per Genova, che è uno dei primi episodi di un decennio brutto dal punto di vista dei diritti umani e chiama in causa l’operato delle forze di polizia nel loro complesso. In undici anni non l’abbiamo sentita pronunciare questa parola semplice, di sole cinque lettere, che farebbe la differenza. È più facile denunciare e condannare le violazioni dei diritti umani in casa altrui che in casa propria... C’è timore, come se parlare di violazione dei diritti umani portasse uno stigma nei confronti delle istituzioni, quando è invece un elemento di dibattito anche nelle società perfettamente democratiche. Qui invece c’è la sensazione che il tema sia un tabù, specialmente quando sono in causa le forze di polizia. Di contro, l’Italia ha ricoperto un ruolo fondamentale nella mobilitazione che ha portato all’approvazione della moratoria sulla pena capitale. Una battaglia straordinaria e vincente, almeno sul piano dei numeri alle Nazioni Unite, però devo anche dire che quando si fa visita in Cina o in Giappone il tema della pena di morte non viene toccato. La politica estera, non solo italiana, è una politica incoerente, basata su due pesi e due misure. Siamo stati contenti di accompagnare la rivoluzione in Libia ma quando si sente gridare questa parola in Siria o in Bahrein si ha paura pensando a chissà quale esito contagioso possa avere... Si riferisce anche alla recente trasferta asiatica del nostro premier? I governi Prodi e Berlusconi hanno fatto a gara a chi era più solerte a far rimuovere l’embargo introdotto dall’Ue, dopo i fatti di Tienanmen, sulle armi alla Cina che nel frattempo è diventata uno dei principali esportatori di armi del mondo. E un segnale di come con certi paesi grossi il tema dei diritti umani passi in secondo o terzo piano. Capisco che si tenga conto di questioni legate ai rapporti internazionali, alla situazione economica, ma credo che creare un ambiente in cui i diritti umani sono rispettati a livello mondiale, anziché un mondo dominato dalla paura o dall’odio, favorisca anche altri aspetti come quelli economici e commerciali. Non bisogna necessariamente scegliere, insomma... Noi ne parliamo in maniera quasi accademica, ma c’è gente che paga le conseguenze altissime della scelta di non sollevare il problema dei diritti umani. Quando si fa una visita in un paese e si trascura la questione per non recare disturbo, poi il disturbo finisce per essere pagato da chi sta in carcere e magari viene torturato o ammazzato. Questo atteggiamento è ancora più incomprensibile nei confronti del Bahrein; minuscolo regno del Golfo persico. Se non si riesce ad avere un po’ di fermezza con i paesi che non hanno potere contrattuale a livello internazionale è veramente la fine. Non si fa nulla per mesi fino a che qualunque soluzione positiva risulta vana e quello che resta è fare la guerra. Che è il segno di questi ultimi anni di incapacità di gestire crisi internazionali. Giustizia: Germani (Nirast); in Italia c’è stata e continua ad esserci la tortura Intervista di Paolo Persichetti Gli Altri, 29 aprile 2012 Parla Massimo Germani, medico e terapeuta del centro di cure per i disturbi da stress post-traumatico dell’ospedale san Giovanni di Roma. Coordinatore nazionale del Nirast, una rete nata nel 2007 e che raccoglie 10 centri ospedalieri universitari diffusi nel territorio e specializzati per i richiedenti asilo che hanno ricevuto torture e traumi estremi. In Italia c’è stata e continua ad esserci la tortura. Non è una novità anche se recentemente sono emerse circostanze nuove che portano a rileggere in modo più compiuto quanto è accaduto. Per esempio nel 1982, quando il governo allora guidato da Giovanni Spadolini decise di ricorrervi per contrastare la lotta armata. Libri, inchieste giornalistiche e televisive, blog, le rivelazioni per la prima volta senza reticenze di Salvatore Genova (un funzionario di polizia in forza alla squadra speciale dell’Ucigos, creata nel dicembre 1981 dal ministro della Giustizia Virginio Rognoni per condurre le indagini sul sequestro Dozier) apparse sull’Espresso del 6 aprile, hanno aperto squarci importanti. Oggi conosciamo i nomi dei torturatori, di chi ha dato gli ordini e di chi li ha coperti. Un film, Diaz, ci reintroduce nell’atmosfera del massacro nella palestra della scuola di Genova e delle sevizie nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Tuttavia siamo portati sempre a soffermarci sugli aspetti politici e giuridici che il ricorso alla tortura implica all’interno della società. Una riflessione che non deve cessare ma anzi va ancora di più approfondita. Questa volta però vogliamo proporvi uno sguardo diverso, quello di un medico-terapeuta che cura i torturati. Questo anche perché esiste un risvolto ancora sconosciuto: nelle carceri Italiane ci sono da più decenni persone che hanno subito torture, non hanno visto riconosciuto questo trattamento violento subito, non sono state curate. È venuto il momento di cominciare a parlarne e soprattutto esigere la loro scarcerazione. Che cosa accade nella psiche di una persona torturata? Negli ultimi dieci anni si è capito che la tortura, come ogni tipo di violenza interpersonale, soprattutto se ripetuta e prolungata nel tempo, provoca degli effetti assolutamente specifici che vanno molto al di là della classica sindrome da stress post-traumatico. Che tipo di effetti? Si assiste ad una frantumazione dell’identità che da luogo a patologie della personalità di tipo dissociativo. La nostra identità è fatta di tante cose messe insieme che vanno a costruire quello che si vede all’esterno e quello che sentiamo dentro. Una composizione complessa di fattori con molte facce: culturale, politica, religiosa, sociale… che ad un certo punto si frammentano e si dissociano dando vita ad una serie di fenomeni clinici, spesso purtroppo non riconosciuti, che se non sono trattati in modo specifico possono divenire cronici aggravandosi nel tempo, anche lontano dall’episodio di tortura e di violenza. Come si scatena questo sfaldamento della personalità? La tortura produce conseguenze che investono la profondità della psiche. Rispetto ai traumi dovuti ad incidenti, catastrofi naturali, qui si tratta dell’incontro con qualcosa di negativo che viene portato da un altro uomo e che dal punto di vista analitico è chiamato il “male incarnato”. È il ritorno ad un’angoscia primitiva che ognuno di noi ha nella fase infantile ma che impariamo ad allontanare con un rapporto genitoriale sufficientemente buono. Quest’angoscia può ricomparire se ci si ritrova completamente inermi nelle mani di qualcuno che vuole distruggerci. L’idea di un io stabile e unitario ci sembra un fatto acquisito. In realtà non è così. Si tratta di un equilibrio fragile. Ce ne accorgiamo solo in determinati momenti della nostra vita, quando subiamo dei lutti, dei contraccolpi, ma in genere si tratta di brevi esperienze. Questa percezione stabile e unitaria dell’io può andare completamente in frantumi proprio nei momenti in cui incontriamo un essere umano che ci tiene in pugno e vuole annientarci. Parli di “fenomeni non riconosciuti”. Soffermiamoci un momento su questo punto. In un contesto dove la tortura è stata praticata ma non riconosciuta, il perdurare di questa menzogna che effetti ha? Siamo abituati a riflettere sugli effetti politici e storici ma sulla singola persona quali conseguenze si ripercuotono? Uno dei problemi nelle persone che hanno subito torture è proprio il dopo. Si è visto nelle ricerche compiute sui sopravvissuti ai campi di concentramento che quanto accade dopo, soprattutto nell’immediato, quando sembra che è finita, si è scampati, fuggiti, è molto importante. Se viene meno il riconoscimento da parte dei riferimenti che c’erano prima si incrementata in modo esponenziale la violenza subita. In questo caso la tortura raggiunge il suo scopo primario, anche se implicito: non solo estorcere informazioni ma distruggere l’identità e indurre al silenzio civile, politico e sociale. L’effetto finale della tortura è far sì che le persone non siano più tali e si trasformino in fantasmi che sopravvivono nel mondo. In modo che attraverso questo silenzio e questa sofferenza siano testimoni del potere, siano monito a tutti di cosa può succedere a chi prende posizioni diverse da quelle possibili o richieste dal potere stesso. Dunque il riconoscimento ha una doppia valenza, storico-politica ma anche clinico-sociale? Certo, se c’è un riconoscimento da parte della collettività, che può essere più o meno allargata, come poter tornare in un gruppo sociale di riferimento, in qualche modo sentire una condivisione e un sostegno da parte del gruppo in cui si è reinseriti, l’effetto è positivo. Aiuta a ritrovare le proprie radici, la possibilità di ritornare a quelle che precedentemente erano le proprie identità. Questo ovviamente è un qualcosa che non prelude automaticamente alla possibilità di un recupero. Fino ad ora mi hai descritto la condizione dell’inerme, quella che per definizione è definita “vittima assoluta”. Tuttavia nei militanti che hanno subito torture si tende a rifiutare questa identità. Esiste una differenza? Questo è un punto molto importante. La ricerca clinica ha dimostrato che la consapevolezza del rischio a cui si va incontro facendo certe cose, sapere che si può essere presi, messi in carcere, subire delle violenze, nella maggioranza dei casi è un fattore di protezione importante. Aiuta rispetto a quello che può essere il risultato finale di una esperienza di tortura o di violenza. Questo è possibile perché si ha la consapevolezza che quello che sta accadendo, la sofferenza subita, è legato ad un significato. Questo significante può svolgere una funzione di protezione, come tutte le credenze condivise che riescono a sopravvivere alla esperienza della tortura: siano esse religiose, sociali o politiche. Naturalmente questo non significa che chi ha una fede politica o religiosa sia esente dalle conseguenze della tortura. Ho in mente tante persone che nonostante questo sono uscite distrutte e hanno dovuto fare percorsi lunghi prima di ritrovare un senso di sè, una certa soddisfazione e fiducia negli altri. In Italia, i militati della lotta armata torturati, e che nel frattempo non sono diventati “collaboratori di giustizia”, sono rimasti in carcere per molti decenni. Ancora oggi ci sono almeno due casi che hanno oltrepassato i 30 anni. Come è definibile questa situazione? Anche questa è un’altra cosa importante dal punto di vista umano e clinico. Le persone che hanno subito trattamenti inumani e degradanti, o di vera e propria tortura, soprattutto se sono in regime carcerario avrebbero dovuto subire accertamenti sulle loro condizioni di salute psico-fisiche in strutture specializzate nel riconoscimento e nella cura di questo tipo di patologie. Le patologie dissociative sono fenomeni ed hanno sintomi che spesso sfuggono anche a psicologi o medici, o anche a psichiatri che non hanno una grossa esperienza di questo tipo. Possono quindi essere facilmente sottovalutati o presi per altri tipi di problematiche e non riconosciuti. Inoltre non siamo di fronte a patologie che volgono spontaneamente verso una guarigione nel tempo. Lasciate a se stesse nella maggior parte dei casi evolvono verso un peggioramento e una cronicizzazione. Farlo sarebbe stato un riconoscimento implicito delle torture. In realtà la macchina giudiziaria e quella carceraria hanno lavorato per seppellire ogni prova. Subito dopo le torture c’è stato l’articolo 90, la sospensione della riforma carcerario e l’ulteriore inasprimento delle condizioni detentive. Spiegaci un’altra cosa: hai riscontrato un uso e degli effetti specifici della tortura sul corpo delle donne? Se pensiamo alle sevizie sessuali, non c’è differenza. Ci siamo resi conto che durante le torture anche la maggior parte degli uomini ha subito forme di abuso sessuale. Se già le donne, soprattutto all’inizio, non raccontano le sevizie perché se ne vergognano, per gli uomini è ancora più difficile. Pensiamo a chi, attraversando il Sahara, è passato per le carceri libiche o in quelle afgane. Esistono invece differenze importanti per quanto riguarda gli effetti. Sono in corso delle ricerche (tra qualche anno ne sapremo di più). Oggi si sa che nelle donne è più alta l’incidenza dei fenomeni dissociativi e l’incidenza delle sindromi depressive gravi, che si presentano come fenomeno secondario. Se oltre l’80% di chi ha subito tortura va incontro a sindromi depressive, insieme a quadri clinici che presentano iperattivazione continua, sensazione di pericolo imminente, stati ansiogeni, tensione interna molto forte che spesso porta ad avere scoppi di rabbia, nelle donne si arriva al 90% con forme ancora più gravi. Il tuo lavoro ti ha messo davanti a tanti racconti di torture che arrivano da Paesi lontani. Che effetto ti hanno fatto le testimonianze delle torture italiane? Sul piano emotivo mi hanno toccato di più. Faccio fatica a dirlo perché in questi anni molte cose che ho sentito mi hanno colpito in un modo incredibile, tuttavia devo sottolineare questa piccola ma significativa differenza. Quando ho letto della caserma di Castro Pretorio, ad esempio, un luogo che conosco, ci passo davanti, sentire questa cosa… Ecco, penso che questo vada colto, vada valorizzato per far capire che queste cose possono succedere veramente vicino a noi. È importante cercare di comunicarle nel modo giusto, che non è quello di far scandalo ma di avere una sensibilità più diffusa su qualcosa che altrimenti può essere sentita come lontana. Poi ovviamente sopravviene la riflessione e allora voglio dire che ogni tanto c’è un dibattito sul ricorso all’uso della tortura da impiegare magari solo in casi eccezionali, “se c’è il terrorista con la bomba che vuol far saltare in aria una scuola”. Questi discorsi che hanno la pretesa di essere realisti sono invece molto pericolosi. Guai a cedere alla tentazione di cominciare a contrattare. Ci deve essere un tabù della tortura. Non deve esistere, non va fatta. Questo ci impone di lottare contro di essa concretamente, al di là delle parole. In Italia è arrivato il momento, perché non è mai troppo tardi, di approvare una legge contro il reato di tortura. Giustizia: strage di Bologna, le due varianti della pista palestinese si negano a vicenda di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 29 aprile 2012 Nella polemica fra me e l’onorevole Raisi, incentrata su cinque punti e sviluppatasi su Internet, ho cercato di evidenziare le contraddizioni antitetiche fra due varianti della “pista palestinese”: l’ipotesi dell’incidente, sostenuta dallo stesso Raisi, e l’ipotesi di una “ritorsione contro il governo italiano” che sarebbe stata causata dall’arresto, avvenuto nel novembre 1979, di Abu Saleh, un membro del’Fplp di George Habash. Adesso gli autori di “Dossier Strage di Bologna”, sostenitori della seconda ipotesi, tentano di nascondere il carattere inconciliabile di quelle due varianti e puntano ad affrontare questioni che non c’entrano letteralmente nulla con il tema in discussione. Tanto per fare un esempio, cercano di dimostrare che le Br furono eterodirette, in ciò ripetendo il teorema del Kgb e di Pecchioli del Pci che, mentre ufficialmente accusavano i settori neoconservatori della Cia, pensavano che all’origine della lotta armata nell’Italia degli anni ‘70 ci fosse qualche vecchio militante della Volante Rossa esiliato in Cecoslovacchia con l’aiuto dello stesso Pci. I russi del Kgb, coscienti già negli anni ‘70 che il blocco dell’est avrebbe fatto una brutta fine, in Europa cercavano a malapena di mantenere la propria sfera di influenza nella parte orientale del continente. Il Pci di Pecchioli invece - fra le varie cose - fece leva su quel teorema per sganciarsi sempre più dal blocco dell’Est e dal proprio passato filorusso per diventare una specie di frazione italica del “partito democratico” statunitense. Le menzogne del Kgb e del Pci di Pecchioli sulle Br erano strumentali ma dettate da divergenti linee politiche. Gli studiosi di storia dovrebbero approfondire l’analisi di tali dinamiche ma, al di là delle loro opinioni, debbono riconoscere che il fenomeno brigatista non ha niente a che vedere né con Carlos (e il signor Bellini, un autonomo creativo tirato in ballo dagli autori di “Dossier Strage di Bologna” come presunto collegamento fra Carlos e le Br) né tantomeno con la strage di Bologna. Torniamo perciò ai cinque punti della controversia fra me e Raisi. Per comodità di esposizione chiamerò variante 1 l’ipotesi di Raisi e variante 2 l’ipotesi degli autori di “Dossier Strage di Bologna”. Punto Primo Secondo Raisi, il signor Carlos avrebbe fatto “scena muta” all’interrogatorio con il pm Cieri nel 2009. I sostenitori della variante 2 dicono invece l’esatto contrario. Chi ha ragione? A me non interessa nulla di quello che fa Carlos. Desidero soltanto sottolineare che delle due l’una: o dice la verità Raisi o dicono la verità i fans della variante 2. La documentazione e la logica ci danno una sola risposta. Non è vero che Carlos fece “scena muta” con il pm Cieri nel 2009. Il presupposto della variante 1 è quindi totalmente falso e smentito da amici dello stesso Raisi come gli autori di “Dossier Strage di Bologna”, cioè dai massimi esponenti della variante 2. Non mi pare il caso di continuare a discutere sul primo punto. I fatti dimostrano che la variante 1 è sbagliata fin dall’inizio. Negli ultimi tempi Raisi ha capito che il movente di cui parlano gli autori di “Dossier Strage di Bologna” è storicamente e politicamente infondato e allora cerca di rielaborare la variante dell’”incidente”. In tale operazione però sbaglia tutto fin dal principio e questa circostanza è davanti agli occhi di ognuno di noi. Punto Due Secondo l’onorevole Raisi non sarebbe stato mai fatto nessun paragone fra il materiale sequestrato alla Frohlich all’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e quello usato nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. A tale proposito, nel precedente scritto di critica al teorema di Raisi, ho citato tre fonti che - lette insieme - smentiscono questa affermazione e negano l’esistenza di una compatibilità fra il primo e il secondo materiale esplosivo: un articolo del Resto del Carlino del 6 aprile 2012, la sentenza del secondo processo di Appello sulla strage di Bologna del 16 maggio 1994 e l’interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664. Ho scelto solo alcune delle fonti che, oltre a non avere nulla a che fare con me, sono considerate attendibili da Raisi e perfino dai teorici della variante 2. Chiarito questo, desidero ricordare un altro dato di fatto: l’interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n.664 è stata pubblicata nell’Appendice 24 del “Dossier Strage di Bologna” e mai messa in discussione nei testi scritti da Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro e François de Quengo de Tonquédec. Se loro l’avessero considerata imprecisa o inesatta l’avrebbero dovuto dire subito per semplice onestà intellettuale. Adesso, arrampicandosi sugli specchi, i tre autori del dossier preannunciano che pubblicheranno qualcosa a tale riguardo sul settimanale Libero Reporter Week. Ad ogni modo, al di là di eventuali ed ulteriori “precisazioni” da parte dei teorici di questa o quella variante della “pista palestinese”, sul terzo punto non si può continuare a discutere. I fatti parlano da soli e di conseguenza nessuno se la può prendere con me se Raisi afferma il contrario di quello che hanno pubblicato nel “Dossier Strage di Bologna” i tre autori di quest’ultimo. La verità, come al solito, è una. Chi dice il vero sulla questione dell’esplosivo? Il signor Raisi o chi, negli ultimi decenni e non da qualche ora, afferma il contrario? Ai posteri, magari fra 100 anni, l’ardua sentenza. Qui non si tratta di stare a discutere della buona fede o meno di Tizio o Caio. Tutti possono sbagliare, ad esempio nei ricordi. Però, sulle questioni più delicate, come quelle relative all’arma di un delitto, non ci si può basare sui ricordi di qualche sgangherato articolo letto ma solo ed esclusivamente su dati scientifici. Esistono esperti che sono pagati dallo Stato, cioè con i nostri soldi, per fare le analisi sulle armi di un crimine. Se poi le hanno eventualmente fatte male nessuno può rompere le scatole per questo a chi non ne ha la benché minima responsabilità. Quelle analisi, per quanto riguarda la strage di Bologna, furono fatte ed escludevano implicitamente la “pista palestinese”. Potevano far capire piuttosto che l’esplosivo stragista conteneva il Compound B, cioè materiale bellico della Nato. Terzo punto Raisi aveva cercato di mettere in connessione una presunta residenza di Carlos nella Francia del 1980 con il biglietto della metro di Parigi che sarebbe stato trovato nelle tasche di Mauro Di Vittorio, una delle vittime della strage di Bologna, come se questo giovane romano, allora ventiquattrenne, fosse stato strumentalizzato da qualcuno e avesse dovuto fare degli spostamenti di materiale esplosivo (innescato!) da Bologna a Parigi per consegnarlo a Carlos stesso. La fantapolitica non ha limiti ma anche in questo caso le due varianti della “pista palestinese” hanno dimostrato di essere inconciliabili. Raisi ha parzialmente modificato la sua già fantasiosa idea. Contraddetto pure dai teorici della variante 2, adesso parla di una possibile presenza di qualcuno del “gruppo operativo” di Carlos nella Francia del 1980. Anche quest’ultima favola non trova adepti ed è smentita dalle numerose indagini delle forze di polizia francesi. Chi cerca di buttare in caciara la discussione sul terzo punto, ad esempio scrivendo la storia palestinese del triennio 1978-1979-1980 in senso opposto a quella effettiva e inventa impossibili rapporti fra le Br e l’Fplp di quel tempo, è quindi pregato di smettere di lanciare delle stupide calunnie e di rispondere definitivamente al terzo punto: c’era o non c’era un “gruppo operativo” di Carlos nella Francia del 1980. Sì o no? La storia reale ci dice di no. Nessuno inventi altre idiozie dietrologiche riferendosi addirittura a qualcosa che sarebbe avvenuto in un anno diverso dal 1980! Quarto punto Il quarto punto è l’idea di Raisi secondo cui ci sarebbe stata una qualche (involontaria) responsabilità di Mauro Di Vittorio rispetto alla strage del 2 agosto. Prendiamo atto che i teorici della variante 2, sapendo per altro di rischiare una querela per diffamazione, hanno preso le distanze da questa idea iperfantapolitica di Raisi: “non intendiamo occuparci della questione sollevata da Raisi, in quanto non abbiamo nessun elemento a riguardo e teniamo a precisare che detta questione non è mai stata citata nel nostro libro” Come ha infine precisato Ugo Maria Tassinari nel suo blog, non esistono prove sul coinvolgimento di Mauro Di Vittorio nella responsabilità della strage di Bologna. Quinto punto Sono certo della totale estraneità di Christa Margot Frohlich rispetto al crimine che il 2 agosto 1980 produsse a Bologna ben 85 vittime e centinaia di feriti. Lei non era la donna che nella Bologna di quel tempo fu vista in un albergo, si definiva madre ed ex ballerina e “parlava in lingua italiana con un forte accento tedesco”. Christa Margot Frohlich, arrestata a giugno del 1982, non aveva figli e non era mai stata una ballerina! Inoltre, perfino nel settembre del 1983, dopo oltre un anno di detenzione nella penisola, ancora non conosceva a sufficienza la lingua italiana, tanto che mi spinse a comprare un dizionario di tedesco per comunicare con lei tramite la posta da carcere a carcere. La situazione cambiò verso la seconda metà degli anni Ottanta: un giorno la sentii per telefono - sempre da carcere a carcere - e ricordo un fatto curioso che mi colpì. Lei, grazie alle amiche detenute e dopo anni (ho detto anni e non mesi) di detenzione nelle carceri speciali italiane, aveva imparato a parlare in modo comprensibile la nostra lingua ma non aveva un “forte accento tedesco”, come poteva essere quello della cantante Nina Hagen. La sua voce era melodiosa e senza un “forte accento tedesco”. In altre parole, se nel 1980 la Frohlich avesse avuto la capacità di parlare la lingua italiana avrebbe avuto un basso accento tedesco, l’esatto contrario di quanto ipotizzano e cercano di dimostrare gli autori di “Dossier Strage di Bologna”. Come se ciò non bastasse, non mi risulta che lei - così come ognuno degli autonomi arrestati ad Ortona nel 1979 - abbia mai avuto una condanna per appartenenza a qualche “banda armata” (capito signori teorici della variante due? Ringraziate il cielo che pochi hanno letto il vostro libro altrimenti vi beccavate decine di querele per diffamazione!) e, senza dubbio, è ontologicamente avversa allo stragismo statuale e interstatuale che provocò numerose vittime nell’Italia dal 1969 al 1980. Anche Kram, da quanto si riesce a capire, è innocente. Non spetta a me scagionarlo. Non faccio il giudice o il poliziotto. Cerco solo di proporre dei ragionamenti di buon senso. Sull’eventuale e cosciente responsabilità di Kram non insiste più di tanto nemmeno l’onorevole Raisi. Una cosa comunque è certa, i “giovani” - “due come tanti altri” - visti da Rolando Mannocci all’interno della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 mentre posavano qualcosa nell’angolo in cui avvenne l’esplosione (rileggasi bene La Stampa del 4 agosto 1980) non avevano nulla a che vedere con l’allora trenduenne, alto e magro Kram e la trentottenne e bassa Frohlich. Fra i due, che non potevano essere definiti “giovani” - “due come tanti altri” - c’era e c’è una notevole differenza di altezza confermata dai loro rispettivi e autentici documenti anagrafici (carte di identità e passaporti). Di conseguenza, si cerchino altrove quei “giovani”, “due come tanti altri”, dalla corporatura media e normale, senza alcun particolare segno in faccia (come può essere una barba per un maschio), che poco prima della strage furono visti da Rolando Mannocci all’interno, e non all’esterno, della stazione di Bologna! Lettere: sono in carcere, aiutatemi a guarire dal linfoma di Hodking www.uscatanzaro.net, 29 aprile 2012 Mi chiamo Cataldo Alessandro, nato il 23.7.1977 a Cetraro (Cs). Sono detenuto da un anno e mezzo, da otto mesi nel carcere di Siano in attesa di processo. In questi otto mesi ho riscontrato un disturbo che mi portava dolore al collo e quindi dopo aver fatto tutti gli esami specifici, il 27 marzo 2012 sono venuto a conoscenza tramite il dirigente sanitario che il disturbo dipendeva da noduli, cioè tumore e quindi io dovrei urgentemente essere sottoposto a chemioterapia ed altre cure specifiche. Però ad oggi, 24 aprile 2012, nessuna di queste terapie essenziali mi è stata applicata. Io, con questa missiva mi appello alle istituzioni competenti o chi di dovere per risolvere il mio drammatico problema che essendo ristretto in carcere non ho nessuna possibilità di curarmi cioè un diritto che in un paese civile mi toccherebbe a livello di umanità e diritto alla vita. Inoltre, per quello che riguarda la mia posizione giuridica sono ancora giudicabile e quindi avendo una custodia cautelare non colpevole fino al terzo grado di giudizio, e pure che io fossi un condannato, sarebbe sempre un mio diritto come essere umano curarmi di un male perché non capisco per quale motivo le istituzioni competenti alla mia posizione giuridica e sanitaria non prendono decisione sul da farsi mandandomi o in un centro per cure specifiche oppure dando a me la possibilità e l’autonomia di andarmi a curare in una clinica o un centro apposito. Con questo mio scritto non voglio esonerarmi da nessuna responsabilità penale che potrebbe esserci su di me. La ringrazio per essere stato ascoltato e spero che al più presto qualcuna delle istituzioni a cui mi sono appellato mi dia risposta. Alessandro Cataldo Casa Circondariale di Siano (Cz) Umbria: Casciari (Vicepresidente Regione) in visita al carcere di Perugia Agi, 29 aprile 2012 “Una vicinanza alle donne, in particolare quelle che vivono momenti delicati della loro vita, che non si esaurisca solo alla giornata dell’8 marzo, ma che sia costante e attenta nel tempo”. Sintetizza così la vicepresidente della Regione Umbria, Carla Casciari, il senso della sua visita al carcere femminile di Capanne a Perugia. L’appuntamento, che rientra tra le iniziative previste nell’ambito della Giornata internazionale della donna, oltre che dalla vicepresidente Casciari, è stato voluto dal Comune di Perugia, rappresentato all’incontro dall’assessore alle Pari opportunità, Lorena Pesaresi, dalla Provincia di Perugia con l’assessore Ornella Bellini, e dal Centro pari opportunità per il quale era presente la consigliera, Eleonora Pace. “Scopo dell’incontro - ha riferito Casciari - era quello di raccogliere le istanze e le necessità delle detenute e dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto in questo momento caratterizzato da molte difficoltà sul fronte economico. Il carcere di Perugia, in particolare rappresenta una realtà particolarmente complessa, con un alto numero di detenuti e una prevalenza di extracomunitari. E proprio in questo momento, la presenza delle istituzioni all’interno degli istituti penitenziari assume un senso ancora più forte, a dimostrazione che il carcere non è una monade e non vive di vita autonoma, ma al contrario, il legame costante con l’esterno è fondamentale”. A proposito delle necessità e delle richieste espresse dalle detenute la vicepresidente ha riferito che la direttrice del carcere, Bernardina Di Mario, proprio a loro nome ha posto l’accento sulla necessità di continuare le attività di formazione finalizzate all’inserimento lavorativo all’interno dell’istituto penitenziario perché ciò permette di poter apprendere e, nello stesso tempo, di avere sempre un occhio attento verso l’esterno per vivere meglio il presente caratterizzato dal fatto di scontare la pena, e il futuro. “Secondo quanto riferito dal direttore dell’istituto - ha detto Casciari - attualmente sono 5 le detenute recluse nel carcere di Capanne che lavorano all’esterno grazie all’applicazione dell’art 21, ed altre già sarebbero pronte per questa fase resa più complicata anche dalla mancanza di collegamenti in alcuni orari del giorno tra Perugia e la località in cui è ubicato il carcere”. Oltre al problema dei trasporti, le detenute hanno espresso il desiderio, o meglio la necessità, di lavorare e di continuare in modo stabile l’attività formativa. L’assessore Bellini ha quindi proposto di organizzare in tempi brevi un incontro anche con la Regione per affrontare proprio queste tematiche e decidere come meglio utilizzare le risorse. Un aspetto fondamentale questo anche per l’assessore comunale Pesaresi, che ha ricordato che la detenzione trova il suo senso proprio se finalizzata al reinserimento. Ferrara: visita del Sappe; sovraffollamento, carenza di personale e mancanza di risorse www.estense.com, 29 aprile 2012 Sovraffollamento, carenza di personale, mancanza di risorse, inadeguatezza di strutture e mezzi. I mali che affliggono anche l’istituto carcerario ferrarese così come molti penitenziari italiani assumono contorni allarmanti nelle parole e nei racconti di chi all’Arginone lavora. Il segretario generale aggiunto e il segretario provinciale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Giovanni Battista Durante e Roberto Tronca, ne hanno dato conto ieri, al termine della visita che il Sappe sta conducendo nelle strutture dell’Emilia Romagna. Ferrara, dopo Modena e Ravenna. Il quadro è inquietante. In regione il sovraffollamento arriva al 170-180% , i detenuti sono duemila in più dei posti previsti e mancano circa 650 elementi di personale. Nella nostra città la popolazione carceraria conta duecento unità in più rispetto alla capienza, arrivando a 470, con il 60% di stranieri: in linea questi con la media emiliano romagnola. Al reparto di polizia estense mancano almeno 60-70 figure: allo stato il rapporto è di un agente per 70 detenuti, per 140 nelle ore notturne. “Ci dobbiamo rapportare - ha testimoniato Tronca - con detenuti che vivono in tre in una cella di nove metri, per la gran parte stranieri con cui risulta difficoltoso comunicare, per l’ostacolo della lingua, della cultura e anche dei rapporti etnici, e a volte affetti da patologie e tossicodipendenze. Gli strumenti sono soltanto la nostra divisa e la nostra parola (ndr. non possono essere armati). Le condizioni in cui siamo chiamati a svolgere il nostro compito sono pessime: siamo rappresentanti dello Stato, ma ci sentiamo abbandonati”. Parole che trovano riscontro in tre casi di suicidio fra gli agenti di polizia penitenziaria ferrarese negli ultimi anni: 70 i casi in Italia nel decennio. Tanti, tantissimi sono i temi sul tavolo. “A partire dai carichi di lavoro - ha spiegato Durante -. Spesso non vengono rispettati gli orari e accade pure che non vi sia una giusta retribuzione. Anche a Ferrara stiamo infatti avviando un ricorso al Tar di Bologna per ottenere il pagamento dello straordinario nel settimo giorno lavorativo, in relazione agli ultimi cinque anni: questo sulla scorta dell’appello al Tar di Parma che ha già avuto buon esito per 117 lavoratori”. Poche le assunzioni. “I poco più di duemila agenti riusciranno a coprire a malapena chi andrà in pensione - ha specificato il segretario generale. Di più. Dal 2010 sono bloccati i rinnovi contrattuali e gli scatti di anzianità. Anche la riforma delle pensioni peserà”. L’età media del personale della casa circondariale di via Arginone è di 44 anni. “Come si potrà a oltre sessant’anni - ha aggiunto il referente provinciale - relazionarsi e gestire dei giovani poco più che maggiorenni”. Dagli istituti di pena su cui “si scaricano le inefficienze del sistema” si guarda con una certa aspettativa alla fattiva attuazione della riforma del ministro Severino. Nello specifico all’attesa della convalida di giudizio nelle camere di sicurezza o ai domiciliari, tranne che determinati reati: solo in via residuale, dunque, in carcere. Sono circa ventiduemila ogni anno le persone che finiscono in prigione per qualche giorno, salvo essere rilasciate dopo il giudizio: persone peraltro da condurre davanti al giudice in tribunale, con tutto ciò che comporta, tenendo conto delle scarse risorse per veicoli, manutenzione e persino gasolio. Numerosi gli episodi frustranti che emergono dai discorsi di sindacalisti e agenti, chiamati a svolgere quotidianamente “un lavoro già difficile, che oggi risulta impossibile”. Messina: vietati i colloqui tra parenti detenuti in carceri differenti, costano troppo di Riccardo D’Andrea Gazzetta del Sud, 29 aprile 2012 Costa troppo trasferire i detenuti da un carcere all’altro e farli colloquiare, secondo il ministero della Giustizia. Stop ai viaggi, evitando così che i blindati sprechino carburante. La disposizione penalizza molti reclusi, che, ad esempio, vorrebbero fosse soddisfatto il diritto di avere un dialogo con un parente, ristretto altrove. È il caso di Carmelo Porto, rinchiuso nella casa circondariale di Catania Bicocca. Ha invocato di essere trasportato con un blindato a Messina per un faccia a faccia con la figlia Francesca, dietro le sbarre nella prigione di Gazzi. Ma il direttore dell’ufficio Detenuti e trattamento, del dipartimento Amministrazione penitenziaria, ha risposto picche: “Ostano ragioni che impongono il mantenimento delle rispettive sedi di assegnazione”. D’altra parte, “l’attuale situazione finanziaria, che già comporta sforzi al fine di assicurare le traduzioni, non consente di dare seguito alla richiesta, che imporrebbe rilevanti e non sostenibili oneri, in termini di risorse umane e logistiche”. I difensori di Carmelo Porto, gli avvocati Salvatore Silvestro (del foro di Messina) ed Ernesto Pino (del foro di Catania), hanno già presentato ricorso al Ministero. Padre e figlia vennero arrestati al culmine dell’operazione “Grease” del 12 febbraio 2010, condotta dalla Direzione investigativa antimafia di Catania. E il cui processo è in corso di celebrazione nella V Sezione del Tribunale del capoluogo etneo. In tutto 36 le persone coinvolte a vario titolo, molte delle quali ritenute affiliate al clan Cintorino, che da Calatabiano estende il suo raggio d’azione anche in altri centri della fascia jonica. Francesca Porto si rese irreperibile e fu ammanettata una decina di giorni dopo il blitz, all’aeroporto di Fontanarossa, al rientro dalla Germania. Sassari: detenuto nigeriano si dichiara “vittima del voodoo” e tenta il suicidio La Nuova Sardegna, 29 aprile 2012 “Sono vittima del voodoo”. Lo aveva raccontato come se volesse avvisare del suo malessere, e chiedere aiuto. Un detenuto, cittadino nigeriano, forse in preda al panico, per liberarsi da quel sortilegio tribale è arrivato, mercoledì sera, a cercare la morte, nel carcere di San Sebastiano. Gli agenti di polizia penitenziaria gli hanno salvato la vita: dallo spioncino della serratura del bagno hanno visto il suo corpo penzolare. Hanno sfondato la porta e afferrato il corpo prima dell’ultimo respiro, liberandogli il collo dal cappio, creato con le lenzuola della branda. I medici che l’hanno soccorso hanno parlato di intervento in extremis: qualche istante di ritardo, e sarebbe spirato per sempre. Il detenuto era stato arrestato lo scorso 6 aprile perché sospettato di essere un corriere della droga. Da subito si era presentato in infermeria per dolori al ventre. Col passare dei giorni e nonostante le cure del Centro clinico del penitenziario, i suoi mali non erano passati, anzi si erano aggiunti problemi allo stomaco e poi al cuore. In effetti, gli avevano riscontrato una forte tachicardia. Nel frattempo, aveva avviato la richiesta per effettuare una telefonata alla madre in Nigeria: solo lei aveva il potere di “togliere il malocchio”, liberarlo dalla morsa della “stregoneria”, convinzione che è quasi religione in alcune aree nel più popoloso paese africano. Ma le norme dell’ordinamento penitenziario impongono una lunga trafila burocratica per autorizzare un detenuto ancora indagato (non definitivo, dunque) ad effettuare telefonate. Ci vuole il consenso del magistrato inquirente, indispensabile perché la comunicazione potrebbe inquinare le indagini, o consentire al soggetto di inviare messaggi a complici. Nel frattempo, però, i dolori per il detenuto sembravano aumentare. Fino alla disperazione. Mercoledì sera ha preso le corde precedentemente realizzate intrecciando le lenzuola della branda. Si è appartato in bagno (in alcune celle è separato), ha chiuso la porta. Ma subito i compagni hanno capito che qualcosa non andava e hanno avvisato gli agenti. A loro è bastato guardare dallo spioncino della serratura per capire: il corpo del detenuto era penzoloni, appeso al cappio collegato alle sbarre di una finestra. In un salto i poliziotti hanno rotto la serratura e spalancato la porta per alzarlo, in modo da allentare la stretta. Era ancora cosciente quando è stato visitato dal medico, che ha definito buone le sue condizioni nonostante il grande rischio corso. Qualche minuto di indecisione, e forse non ce l’avrebbe fatta. Pochi mesi fa, subito dopo l’arresto, anche Sebastiano Foe, accusato del delitto di Ardara, aveva provato ad uccidersi. Anche in quella occasione un agente lo aveva scoperto e fatto tornare sui suoi passi Ussassai (Og): un centro Asl per ex detenuti degli ospedali giudiziari La Nuova Sardegna, 29 aprile 2012 La Rsa (Residenza sanitaria assistenziale) dell’Asl 4 d’Ogliastra, terminata e non ancora entrata in funzione, così come venne annunciato a fine estate dello scorso anno dal direttore generale della stessa Azienda sanitaria locale, Francesco Pintus, potrebbe ospitare parte degli attuali 33 sardi detenuti negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) della Penisola. Come sottolineato dall’assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, i 33 detenuti potrebbero tornare in Sardegna a scontare la propria pena in due strutture dell’isola. “Stiamo individuando due strutture per ospitare questi detenuti a Cagliari e in Ogliastra - ha spiegato De Francisci - si tratta solo di definire quali saranno le misure di sicurezza appropriate da adottare”. Il sindaco ussassese Giannino Deplano è favorevole: “Stavamo lavorando a quest’ipotesi, con la direzione dell’Asl 4, da tanto tempo. Oltre a creare posti di lavoro in loco, si darà la possibilità ai sardi detenuti negli Opg italiani, di scontare la pena nell’isola, puntando anche al loro recupero”. Lecce: “Genitori sempre”, anche in carcere… firmato accordo tra carcere ed enti locali www.quotidianoitaliano.it, 29 aprile 2012 È stato presentato ieri a Palazzo Adorno il servizio, sperimentale e innovativo, “Genitori sempre”, che si propone di promuovere e mantenere le relazioni familiari “nonostante il muro”, cioè fornire un sostegno concreto per recuperare il ruolo genitoriale dei detenuti nella Casa Circondariale di Lecce. L’Accordo per la sua realizzazione è stato sottoscritto da Provincia di Lecce, Casa Circondariale di Lecce, Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), Asl di Lecce ed Ambiti Territoriali Sociali. “L’obiettivo di mettere insieme istituzioni diverse è fondamentale in un momento in cui le situazioni finanziarie sono esigue e questo è un esempio classico di come si possa fare sinergia”, ha detto il presidente della Provincia Antonio Gabellone. “Al centro dei nostri obiettivi strategici c’è la famiglia, cellula solida, perno della convivenza civile e che caratterizza la nostra comunità. Anche quando i legami si indeboliscono non può e non deve spezzarsi. La famiglia resta il bersaglio di azioni amministrative per migliorarne la coesione, anche quando un componente è costretto alla restrizione della propria libertà. La nostra azione, insieme agli altri protagonisti di questo percorso, contribuisce affinché, anche in situazioni difficili, la famiglia possa ricevere supporto per non perdere qualità e ruolo”. Il servizio, autorizzato dal Ministero della Giustizia, è stato fortemente voluto dalla Provincia di Lecce, in particolare dall’assessorato alle Politiche sociali e Pari opportunità, guidato da Filomena D’Antini Solero, che lo attuerà attraverso lo staff dei professionisti del Centro Risorse perla Famiglia (ubicato in Piazzetta Duca D’Enghien a Lecce). “Si tratta di un progetto pilota, unico in Italia, a sostegno delle famiglie dei detenuti. Prevede interventi specialistici per recuperare e favorire le relazioni, spesso interrotte, tra i reclusi della Casa Circondariale di Lecce, i loro figli, soprattutto se minori e, complessivamente, la rete familiare, concorrendo così al loro benessere”, spiega l’assessore alle Politiche sociali e Pari opportunità Filomena D’Antini Solero. “Verrà utilizzato uno “spazio neutro”, individuato all’interno del carcere, per favorire il ripristino delle relazioni tra detenuti o detenute e figli, che non è altro che un setting protetto e gradevole dove si favorisce il contatto e la relazione tra i membri della famiglia, con il supporto “nascosto” delle operatrici; verranno realizzate azioni per la riconnessione delle relazioni familiari, soprattutto con i figli minori; verrà fornita, in spazi appositi messi a disposizione dalla Casa Circondariale, la consulenza specialistica; grande attenzione sarà data alla mediazione familiare e penale”. “Tutto questo è possibile grazie allo staff specialistico del Centro Risore della Famiglia della Provincia di Lecce, in rete con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), con i servizi territoriali dei Comuni, degli Ambiti sociali e della Asl, firmatari dell’accordo odierno. Oggi questo è un servizio concreto, che si aggiunge ai tanti già resi dal Centro Risorse perla Famiglia, che restituisce piena cittadinanza alle famiglie dei detenuti, vittime incolpevoli della reclusione”, conclude l’assessore. “Modalità intelligente di prendersi cura dei detenuti e dei minori che incolpevolmente vivono una situazione negativa”, l’ha definito il direttore della Casa Circondariale di Lecce Antonio Fullone, mentre per il direttore del Distretto Socio-sanitario Asl Lecce Rodolfo Rollo il servizio è una “buona pratica” che le istituzioni stanno realizzando insieme, per il quale “c’è grande attesa”, come ha dichiarato il direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Lecce Patrizia Calabrese. A firmare l’Accordo “Genitori sempre”, il presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone, l’assessore provinciale alle Politiche sociali e Pari opportunità Filomena D’Antini Solero, il direttore della Casa Circondariale di Lecce Antonio Fullone, il direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Lecce Patrizia Calabrese, il direttore del Distretto Socio-sanitario Asl Lecce Rodolfo Rollo, e i presidenti degli Ambiti territoriali sociali: Lecce, Campi Salentina, Casarano, Gagliano del Capo, Galatina, Gallipoli, Maglie, Martano, Nardò, Poggiardo. Roma: entrare in carcere... per insegnare ai detenuti di Giovanni Iacomini Il Fatto, 29 aprile 2012 “Articolo?” La guardia sprofondata dietro la scrivania ha l’aria annoiata. “Che articolo?” rispondo. “Come entri? Sei n’articolo 17, ‘n volontario… o che?”. “No, no, sono un insegnante: entro per la scuola” dico, quasi sentendo di dover discolparmi chissà per che cosa. E invece: “ ‘A scola? Pure la scola glie fate a questi?”. Certo, pure la scuola. Come amava ripetere Materazzi, storico coordinatore del nostro gruppo di insegnanti, i detenuti vogliono andare in chiesa, lavorare, stare con la famiglia e, appunto, studiare. Quattro cose che, quando erano in libertà, neanche prendevano in considerazione. O le aborrivano del tutto. Dentro, invece … Bisogna considerare che l’evasione e la latitanza, così diffuse in film e romanzi (quasi tutti piuttosto inverosimili), sono molto improbabili nella realtà. Soprattutto oggi, con i mezzi di controllo che ci sono. Ricordate Papillon che contava le onde o Clint Eastwood che preparava la fuga da Alcatraz spargendo nel cortile l’intonaco che grattava facendo un buco nella sua cella? Ebbene, anche oggi chi è recluso non può che aspirare al ritorno in libertà, naturalmente. Ma impiega tutto il proprio ingegno non tanto nell’annodare le lenzuola, quanto nel trovare il modo di usufruire dei benefici della legge. Si parte dai permessi, per giungere al lavoro esterno, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà, la condizionale, i domiciliari. Tutto pur di uscire, giustamente. E allora anche frequentare la scuola può essere una nota di merito che va ad arricchire la “sintesi”, cioè la relazione che l’educatore di riferimento istruisce e redige con l’equipe: Direzione, Polizia penitenziaria, psicologo, medico, assistente sociale. Tutti a monitorare l’evoluzione della personalità del detenuto, che poi il Magistrato di Sorveglianza deve considerare per decidere sull’ammissione ai benefici. Certo, non si può generalizzare: c’è chi va a scuola solo per uscire dalla cella (soprattutto nelle carceri dove si sta chiusi 22 ore su 24, tanti in spazi angusti). Da noi, al Penale, i detenuti sono liberi di girare per le sezioni e nel grande giardino dell’”aria verde”. In gran maggioranza preferiscono starsene per conto loro a parlare di rapine e criminalità. Chi viene nell’area delle scuole, lo fa per scelta. Qualcuno si limita a un fugace passaggio solo per avere la presenza, che viene retribuita con qualche spicciolo. In classe, non tutti sono attentissimi: c’è chi dorme sul banco, dopo aver passato la notte arrovellato da chissà quale pensiero. Eppure c’è anche qualcun altro, sparuta minoranza di enorme valore, che scopre un’inedita, imprevedibile passione per lo studio, la cultura, i libri. Sono quei pochi che ce la possono fare, possono cambiare vita, non ricadere nella recidiva, smettere di far reati e avviarsi a una vita nuova, piena di stimoli e di opportunità. È la lettera del dettato costituzionale sul reinserimento sociale del condannato. Catanzaro: l’Università “Magna Grecia” organizza visita di studio al penitenziario www.giornaledicalabria.it, 29 aprile 2012 Nell’ambito delle iniziative didattico-scientifiche promosse dalla Cattedra di Diritto Processuale Penale e dalla Cattedra di Diritto Penitenziario dirette dal prof. Giuseppe Bellantoni, Ordinario di Diritto Processuale Penale e di Diritto Penitenziario nell’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro, in coordinamento con la magistratura di sorveglianza e le autorità penitenziarie, è stata espletata una visita di studio dell’Istituto penitenziario di Siano. L’iniziativa cade in un momento storico particolarmente delicato e cruciale per il sistema carcerario italiano, gravato ed attraversato da rilevanti ed acute problematiche, in specie connesse ad una oramai insostenibile situazione di sovraffollamento (il numero dei detenuti è di circa 68.795 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 45.000 unità e di una capienza c.d. tollerabile di 64.800 unità). Con consequenziale restrizione degli spazi assolutamente necessari per una benché minima dignità alloggiativa. Non potendosi di contro sottacere come, invece, adeguati edifici carcerari in grado di garantire strutture destinate al lavoro, allo studio, allo sport e alle altre attività ricreative, rappresentano quella base necessaria e indispensabile senza la quale non è possibile intraprendere alcun recupero sociale del detenuto. Le attuali problematiche carcerarie nazionali risultano peraltro ulteriormente acuite a causa della pesante carenza degli organici della polizia penitenziaria. E gli scenari di fondo appaiono davvero inquietanti anche a fronte dei numerosi suicidi, non solo di detenuti, ma anche di soggetti della polizia penitenziaria, perpetrati all’interno di strutture carcerarie. Insomma, è da ritenersi che l’iniziativa didattica svolta ben possa contribuire ad ampliare il bagaglio culturale degli studenti. Più in specifico, la visita dell’Istituto Penitenziario di Siano ha avuto inizio con una presentazione tenuta dalla Direttrice dell’Istituto, la dott.ssa Angela Paravati e dallo stesso prof. Giuseppe Bellantoni, durante la quale si è dettagliatamente dato conto dei vari momenti caratterizzanti la fase dell’esecuzione penitenziaria. Ci si è soffermati sull’importanza di rieducare il condannato mediante un adeguato trattamento penitenziario, di riservare un trattamento differenziato agli imputati che, invece, non sono soggetti a programmi rieducativi, nonché sul ruolo dei vari soggetti che si rapportano con il detenuto durante la sua permanenza nell’Istituto. Si è parlato, inoltre, dell’articolazione della struttura carceraria di Siano, illustrando, in particolare, la suddivisione dell’Istituto in circuiti e sezioni, gli spazi entro i quali i detenuti svolgono le attività in comune, i laboratori che i detenuti hanno a disposizione per lo svolgimento dell’attività lavorativa intramuraria, etc. Gli studenti, poi, sono stati guidati in un percorso all’interno dell’Istituto, volto a riproporre l’itinerario compiuto dal condannato, o dall’imputato, che fa per la prima volta ingresso nella struttura. Partendo dall’ufficio matricole, si è passati per l’ufficio conti correnti, l’area riservata ai controlli sanitari, l’ufficio del Comandante della Polizia penitenziaria, in cui si decide l’assegnazione del detenuto alla singola cella, per giungere, infine, alla cella nella quale alloggia in specifico il detenuto. Un momento ulteriore è stato riservato alla visita dell’area sanitaria di cui è dotato l’Istituto di Siano. Si tratta di un’area degna di particolare menzione, considerando la notevole attrezzatura di cui dispone, nonché l’apprezzabile numero di laboratori per analisi specialistiche ivi presente, da quello radiologico a quello a quello odontoiatrico. Gli studenti, infine, sono stati accolti nei locali in cui i familiari sostano in attesa dei colloqui con i detenuti: locali recentemente ristrutturati dagli stessi detenuti, grazie ad una pregevole iniziativa della Direttrice dell’Istituto, che, dando loro piena libertà di espressione, ha permesso la realizzazione di un luogo particolarmente accogliente, in specie per i bambini. La più che lodevole iniziativa scientifico-didattica, oltre che risultare di certo fortemente formativa per il giovane giurista, rivela, altresì, la straordinaria passione civile, la grande attenzione e la grande sensibilità rivolte da sempre, dall’illustre cattedratico catanzarese, verso la popolazione carceraria, coltivata sul piano del recupero sociale e fondamentale dal punto di vista umano ed anche cristiano. Augusta (Sr): progetto “Tutte le direzioni”, sostegno al reinserimento per 45 detenuti Gazzetta del Sud, 29 aprile 2012 Si è tenuto a Palazzo Zuppello, al cospetto di una rappresentanza di studenti liceali, il convegno finale del progetto “Tutte le direzioni”, finanziato dall’assessorato regionale dell’Istruzione e Formazione Professionale. Il progetto è stato promosso e realizzato dall’Istituto Superiore “Ruiz” in partnership con la Cooperativa “Passwork” di Canicattini, specializzata in progettazione sociale, e in collaborazione con la casa di reclusione di Brucoli. Hanno presenziato al convegno l’assessore comunale Michele Accolla, Carmelo Gulino, dirigente scolastico Istituto “Ruiz”; Salvo Roggio, coordinatore del progetto; Cesira Rinaldi, vice direttore della casa circondariale; Sebino Scaglione, amministratore unico di “Passwork onlus” e un detenuto in rappresentanza della popolazione carceraria della struttura di contrada Piano Ippolito. Il progetto ha visto impegnati 45 detenuti che sono stati impegnati, in tre percorsi formativi di 120 ore ciascuno, per aumentare sin dalla fase detentiva, la propensione delle persone alla costruzione di un bagaglio di competenze utile per conseguire un pieno reinserimento sociale. Il primo progetto ha interessato detenuti immigrati extracomunitari e comunitari, aiutandoli ad acquisire le competenze linguistiche necessarie per dare e chiedere informazioni, spiegare, descrivere, narrare, comprendere terminologia e concetti prettamente giuridici. Non solo, ma il progetto è servito anche a fare conoscere a questi cittadini stranieri la legislazione italiana in tema di immigrazione, i diritti, doveri e le procedure specifiche che riguardano la loro condizione di migranti in terra straniera. Sono state così fornite informazioni anche sugli enti territoriali di competenza, i documenti richiesti nei contatti con gli enti pubblici, il mercato del lavoro locale, i diritti e i doveri dei lavoratori. Tutti quegli strumenti per individuare e valorizzare le proprie risorse, saper affrontare un colloquio ed elaborare un proprio progetto di lavoro. Un secondo progetto ha invece riguardato la formazione a nuove professionalità che oggi sempre più trovano spazio nel mercato del lavoro. Barletta: dibattito “Carcere è società?”, promosso da “Vivi Barletta” www.barlettalife.it, 29 aprile 2012 In un periodo storico come il nostro, in cui l’economia sembra non smettere mai di toccare i suoi picchi più bassi, di qualsiasi cosa si parli il problema è sempre lo stesso: la mancanza di risorse. Risorse finanziarie e risorse umane. Senza dimenticare che più ci si imbatte in contesti delicati e ai margini della società, più la criticità di tale situazione degenera, come accade nelle carceri italiane, argomento di cui si è discusso presso il Circolo Unione di Barletta, venerdì 27 aprile. Il dibattito portava il nome di “Carcere e società?”, in quanto ruotava tutto intorno alla questione della vivibilità delle carceri in Italia e sulla loro funzionalità come centri di recupero e reintegrazione nella società del detenuto, dove il recupero e la reintegrazione rappresentano i fini ultimi della reclusione, poiché lo scopo della pena non può essere la sua semplice espiazione in una società evoluta. L’iniziativa è stata promossa da Raffaella Porreca Salerno, la quale ha mostrato una particolare sensibilità nei confronti dei detenuti italiani che, da questo punto di vista, sono vittime di una cattiva gestione amministrativa ed economica da parte del Ministero della Giustizia italiana, che in questo modo viola i loro diritti umani e costituzionali a causa di una pessima gestione manageriale dell’organigramma ministeriale, oltre che per la mancanza di risorse monetarie, adesso ai minimi storici. Il dibattito è stato moderato dalla giornalista Marta Palombella, che ha mediato tra i diversi partecipanti, quali la dr.ssa Bruna Piarulli, Direttore Istituti Penali di Trani, il dr. Pompeo Camero, Assessore Provinciale BT, la prof.ssa Rosa Del Giudice, presidente del Centro Orientamento Don Bosco di Andria, l’ing. Vito Leonetti, Responsabile Presidio Libera di Andria, Vincenzo Paccione, Comandante di Reparto Istituti Penali di Trani, il dr. Michele Ruggiero, Magistrato Procura di Trani, Don Raffaele Sarno, Cappellano della Casa Circondariale di Trani, il prof. Roberto Tarantino, Dirigente Scolastico dell’Istituto Professionale “Colasanto” di Andria, Franco Daddi, Coordinatore Bottega del Cinema Ostia Lido e Ottaviano Dell’Acqua e maestro d’armi. I punti nodali della questione sono stati essenzialmente tre: l’aspetto strutturale delle carceri, la loro gestione amministrativa e la dignità umana del detenuto. Analizzando questi aspetti sono venute fuori diverse denunce al Ministero della Giustizia, prima fra tutte quella che riguarda le disumane caratteristiche edilizie delle celle: spazi ristrettissimi (si è parlato di 3 metri quadri a detenuto, letti arrugginiti o senza materasso, paresti scrostate, bagni alla turca, cucine inesistenti. Insomma gli edifici di detenzione in Italia sono stati descritti come strutture fatiscenti, nella maggior parte dei casi, tanto da non risultare affatto idonei alla loro funzione. Senza dimenticare che vige anche una disparità tra carceri, tanto da poter stilare due diverse classifiche: quella delle carceri efficienti (come il carcere di Bollate, di Orvieto e di Padova) e quella delle carceri in rovina (come il carcere di Marassi, Regina Coeli e Catania). Dal punto di vista amministrativo, invece, i numeri parlano chiaro: dai Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria sono stati sottratti ben 1200 agenti, una riduzione dell’organico che ha conseguito una netta disparità tra il numero della polizia penitenziaria e il numero dei detenuti. Morale della favola: le carceri o diventano sovraffollate oppure sottoutilizzate, e questo è già un importante indice dell’inadeguata gestione delle risorse. Infine, il problema più spinoso riguarda l’individuo, che anche se è un cittadino che ha perso determinate libertà per espiare la pena di un reato commesso, è un pur sempre una persona dotata di altri diritti: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” recita l’art. 27 della Costituzione Italiana e “ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica”, dice l’art. 3 della Carta Europea dei Diritti Umani. Purtroppo lo Stato Italiano ha già subito una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per non aver sempre rispettato le norme stabilite dalla Carta, come conferma Vincenzo Paccione, il quale ci tiene anche molto a sottolineare quanto sia dispendioso mantenere ogni giorno un detenuto in cella e di come sia difficoltoso pretendere un aumento delle risorse in questo insidioso momento storico. Rimane sempre e comunque il fatto che il carcere non è da considerare solo come la pena da scontare, ma anche come luogo di recupero e reintegrazione dell’individuo, affinché tale pena possa essere anche uno strumento funzionale di rinnovamento tanto per il reo quanto per la società intera. A tal riguardo è intervenuto l’Assessore Pompeo Camero, che ha infuso un po’ di fiducia parlando di progetti di scuole e di piani di formazione professionale nelle carceri, con lo scopo di ristrutturare il rapporto carceri/società in un’ottica più democratica (dove per democrazia si intende un sistema in cui tutti i cittadini, rei e non, godono di determinati diritti umani, da salvaguardare imprescindibilmente). Torino: rassegna di Prison Photography… l’universo della detenzione incontra l’arte www.universy.it, 29 aprile 2012 A partire dal 4 maggio 2012 si apre al pubblico “Art. 17”, la prima rassegna italiana dedicata ai servizi fotografici realizzati all’interno delle carceri. Promossa dall’associazione culturale Interno4, questa manifestazione raccoglie l’adesione di numerosi e differenziati spazi culturali sparsi sul territorio cittadino. È un mondo sconosciuto ai più, quello del carcere. Un mondo difficile da penetrare e comprendere. Davide Dutto, uno dei fotografi partecipanti alla rassegna, ci accompagna dentro, portando fuori, nel mondo di tutti i giorni, la sua esperienza fatta “tra le sbarre”, raccontando con parole e immagini il suo laboratorio gastronomico all’interno della Casa di Reclusione S. Michele di Alessandria. Davide è il fondatore di Sapori Reclusi, associazione fossanese che, partendo dal comune bisogno dell’uomo di nutrirsi, vuole riunire con il resto della società uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più, basandosi sulla comune umanità, sui comuni bisogni, desideri, problemi. Nata con lo scopo di rendere accessibile (e quindi raccontare al largo pubblico) le realtà più nascoste e di valorizzare e diffondere le qualità delle storie di umanità che ci circondano, Sapori Reclusi usa il cibo e la cucina come pretesto per entrare laddove solitamente si trovano barriere fisiche o mentali, porte chiuse, ovvero nell’intimità delle persone, per ascoltarle e capirle al di là di stereotipi e preconcetti. “Dal Gambero Nero a Sapori Reclusi” è la mostra che sarà ospitata presso lo spazio La via Lattea di via Peyron 17f, dal 4 al 20 Maggio 2012. Davide Dutto ci racconta la sua personalissima visione del carcere, l’incontro con i piatti inaspettati di chi quotidianamente cucina “dentro” alla ricerca spasmodica e struggente dell’unico sapore che noi distrattamente mastichiamo ogni giorno, quello della libertà. Storie di uomini, storie con diversi gusti e odori espresse con scatti fotografici e ricette multietniche. Fotografie di una quotidianità a noi sconosciuta, in un allestimento appositamente pensato per ricreare un ambiente simile ad una cella, per vivere realmente una condizione di limitazione della propria libertà personale. Inoltre la presenza di due ex detenuti con la loro testimonianza diretta rendono questa esperienza ancora più vera e immediata, immergendoci con maggiore intensità nell’universo carcere. La fotografia è la vera testimonianza della realtà interna ad un istituto e Art.17 è un progetto di alto valore sociale e culturale proprio in quanto permette di accedere a luoghi proibiti per un viaggio toccante e coinvolgente. Per informazioni: associazione@saporireclusi.org. Roma: Uil-Pa; detenute aggrediscono una agente, indetta agitazione contro silenzio Dap Dire, 29 aprile 2012 “Per l’ennesima volta, dobbiamo denunciare la grave condizione in cui la Polizia penitenziaria e altri operatori, sono costretti a subire aggressioni con lesioni curate presso il Pronto soccorso, da detenute che stamani stavano dando vita ad una rissa nel piano detentivo cellulare della casa circondariale di Rebibbia femminile”. Ne dà comunicazione, in una nota, Daniele Nicastrini, segretario regionale Uilpa penitenziari. “Un fatto che si assomma ad altri fatti accaduti in questo mese presso gli istituti di Rebibbia e Casal Del Marmo - aggiunge - che pone un problema non indifferente su quale sia la tensione all’interno delle mura carcerarie della nostra Regione”. La casa circondariale di Rebibbia femminile, attualmente ospita circa 370 detenute, di cui circa 80 presso il reparto cellulare con la presenza di sole 4 agenti penitenziarie in quel reparto. “L’agente penitenziaria - continua il sindacalista - andando a tentare di separare le detenute in rissa, ha subito un aggressione dalle stesse sulla quale è stata fortunatamente aiutata dall’infermiere in quel momento presente, che ha subito anche lui lesioni curabili in pochi giorni”. “La Uil-pa penitenziari per questi motivi - fa sapere Nicastrini - indice lo stato di agitazione contro il silenzio del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) e solidale con gli agenti penitenziarie della casa circondariale femminile. Solamente alcuni giorni fa - conclude - abbiamo scritto al Dap, perché si attivassero a inviare unità femminili necessarie, sulla quale ad oggi attendiamo ancora una risposta, nel frattempo le nostre agenti sono costrette a subire gravi ripercussioni in ambito operativo”. Prato: Uil-Pa; 3 agenti aggrediti da un detenuto extracomunitario Ansa, 29 aprile 2012 Due sovrintendenti e un agente della polizia penitenziaria, in servizio al carcere La Dogaia di Prato, “hanno subito una aggressione da un detenuto extracomunitario ristretto nel reparto di media sicurezza”. Lo rivela il sindacato Uil-Pa penitenziari di Prato, spiegando che i tre, ricorsi alle cure mediche, hanno avuto dai 5 ai 15 giorni di prognosi. Nella nota il sindacato, attraverso il segretario provinciale di Prato Massimo Lavermicocca, afferma che “il vile attacco si connota all’interno di un piano di insostenibilità della struttura che non riesce a far fronte al continuo aumento della popolazione detenuta. Allo stato sono presenti circa 700 detenuti per una capienza tollerabile di 480. Di contro assistiamo a una costante riduzione del personale di polizia penitenziaria: rispetto a un organico di 345 agenti ne sono presenti circa 200. Da tempo la Uil denuncia le gravi condizioni di difficoltà lavorativa del personale di polizia penitenziaria all’interno delle carceri, tra cui quella di Prato che ha raggiunto i livelli massimi di insostenibilità”. Libri: “Detenuti. Incontri e parole dalle carceri italiane”, di Melania Rizzoli Il Giornale, 29 aprile 2012 Melania Rizzoli è un medico, politica e giornalista: cura il blog de Il Giornale.it. Sposata con Angelo Rizzoli, conosciuto nel 1989, ha due figli e vive a Roma. Nel 2011, Sperling & Kupfer pubblica “Perché proprio a me? Come ho vinto la mia battaglia per la vita” dove Melania mette a nudo la sua battaglia di donna e di medico contro il tumore al sangue che l’aveva aggredita nel 2001. Oggi, aprile 2012, la Rizzoli torna nuovamente in libreria con un nuovo testo dal titolo “Detenuti. Incontri e parole dalle carceri italiane”. Grazie alla sua doppia veste di medico e di deputato è entrata in carcere per raccontare senza filtri e preconcetti - l’umanità che vi si trova “ospitata”. Con questo libro invita anche noi a metterci in ascolto delle storie di chi vi è stato o è tuttora rinchiuso, per capire che cosa significhi oggi, in Italia, vivere in prigione. Il suo viaggio è introdotto dalle parole di ex detenuti celebri (da Adriano Sofri a Franco Califano, da Francesca Mambro a Sergio D’Elia) e prosegue con le testimonianze di condannati in via definitiva o in attesa di giudizio nei vari penitenziari italiani, da nord a sud. L’autrice ha incontrato chi è passato in maniera spesso traumatica da una vita di agi e privilegi alla privazione totale e immediata della propria indipendenza, come Salvatore Cuffaro, Ottaviano Del Turco, Lele Mora. Chi, come Provenzano, è sotto il regime del 41 bis, la nota sigla dietro la quale si cela il carcere duro. Chi è stato protagonista di casi di cronaca nera, come Michele e Sabrina Misseri, Olindo Romano, Salvatore Paralisi e Roberto Savi. E dietro ogni volto noto ci sono le storie dei “poveri cristi”, l’infinita schiera di detenuti che non fa notizia, ma che vive ogni giorno, sulla propria pelle, gli immensi problemi dei centri di detenzione e della giustizia. Se non vogliamo vedere la vergogna delle carceri, recensione di Vittorio Feltri Sono stato in galera spesso. Alt! Come visitatore. E, ogni volta che vi ho messo piede, mi sono ripromesso di scrivere ciò che avevo visto e provato trascorrendo alcune ore in quel mondo tanto vicino e tanto lontano dal nostro. Poi, tornato alle mie quotidiane occupazioni, non dico di aver dimenticato, ma ho perso ogni suggestione e non ho mai vergato un rigo. Non so perché. O forse lo so benissimo. Quando esci dal carcere, hai voglia di fuggire. Ti basta entrare in un bar, salire sul tram, osservare la gente per strada (indaffarata e frettolosa, presa da impegni che ignori, ma che immagini) per non sentire più il bisogno di raccontare i travagli della prigione. Ti lasci inghiottire dalle tue vicende, anche le peggiori, pur di non pensare più a quanto succede dietro le sbarre. Scordare gli orrori è un’esigenza dello spirito. Lo è anche per gli ex carcerati. I quali, non appena riavuta la libertà, inconsapevolmente cercano nell’oblio la volontà di ricominciare, benché avessero giurato, quando erano rinchiusi, che avrebbero dedicato il resto dei loro giorni ai compagni di sventura carceraria. La memoria tende a scartare col tempo le brutte esperienze. Le evita di giorno, aiutata in questo dalla fatica di campare; ma la notte no: riemergono sotto forma di sogni, che poi sono incubi. Chi è stato recluso, anche solo una settimana, è segnato per sempre. Se viene svegliato da un rumore sospetto - il cigolio di un cancello, un portone sbattuto, un grido che lacera il silenzio - ha un tuffo al cuore, e nella mente gli riaffiora l’angoscia di quel tempo interminabile in cui la sua vita in cattività era scandita dallo stridore delle serrature e dal tramestio degli agenti di custodia. Il problema è che nessuno, perfino un delinquente abituale, mette in conto di finire dentro, e non si preoccupa di ciò che, invece, a tutti può capitare: finirci davvero. Le galere sono piene zeppe di gente. Due le categorie prevalenti: gli ultimi della società - i poveracci, gli immigrati e i tossicodipendenti - e gli innocenti, alcuni dei quali - pochi - borghesi, colletti bianchi. Poi ci sono i politici. Questi sono i più sensibili, durante la detenzione, alla questione carceraria. Avvezzi agli agi del Palazzo, illusi di godere dell’impunità e dell’immunità, quando sono trascinati in prigione, per una qualsivoglia ipotesi di reato, scoprono con raccapriccio che il Paese da loro amministrato è crudele e ingiusto. Già. Le galere italiane sono indegne di una nazione non dico civile, ma decente. Quattro o cinque persone, ammassate in celle che al massimo ne potrebbero contenere due. Strutture fatiscenti. Sciatteria. Mancanza totale di igiene. Cessi alla turca. Di bidet non se ne parla neanche. Docce considerate un privilegio concesso col contagocce. Scarse possibilità di lavoro. Suicidi a iosa nonostante una sorveglianza asfissiante. Privazione della dignità. Gran parte dei reclusori sono caserme o conventi vetusti, riadattati malamente. Tutti che discettano di Costituzione, e ce ne fosse uno che rammenti un concetto elementare espresso dalla Carta: la pena ha fini emendativi, rieducativi. Nossignori. I luoghi di espiazione sono attrezzati solo per la tortura. E la maggioranza dei cittadini è convinta che vada bene così: massi, schiaffate in gattabuia i criminali e gettate via la chiave. Altro che offrire loro la televisione e un pasto caldo: due calci nel sedere e pane e acqua. Il politico recluso, sgomento per ciò che gli sta accadendo, giura: quando rientro a casa, mi batterò fino alla morte affinché le carceri diventino come quelle dei Paesi nordici, la Norvegia e la Svezia, per esempio, dove gli uomini e le donne sono trattati come tali anche se non sono liberi. Chiacchiere. Negli anni di Tangentopoli decine di partitanti hanno assaggiato le delizie di San Vittore e similari, ma, ottenuta la scarcerazione, nonostante le solenni promesse, si sono ben guardati dal provvedere a mantenerne una. Cosicché è rimasto solo Marco Pannella, con qualche prete di contorno, a predicare che bisogna fare qualcosa per i sepolti vivi, i derelitti, gli appestati. Ma da oggi c’è un’altra persona non indifferente a chi, disprezzato dallo Stato e dal popolo, soffre non soltanto per il rimorso di aver commesso reati, ma anche per l’abbandono nella disperazione: è Melania Rizzoli, deputato del Pdl, che firma un saggio, in libreria da domani: “Detenuti. Incontri e parole dalle carceri italiane”. Leggerlo comporta un rischio, quello di commuoversi. Vi si narra di un’umanità reietta eppure non sempre colpevole. L’autrice, nella semplicità di un linguaggio scevro di enfasi e artifici retorici, si fa portavoce di vari detenuti - noti al pubblico - dei quali riferisce sentimenti, pulsioni, nostalgie, drammi personali e familiari. Un’operazione elementare, ma originale per una ragione: mai nessuno aveva osato realizzarla in questo modo, cioè varcando la soglia di numerosi penitenziari allo scopo di incontrare, conversare, ascoltare tanti reclusi. Le cui testimonianze, inedite nella forma e nella sostanza, trafiggono il cuore e agitano la mente, sono un invito a riflettere, un viatico alla comprensione di ciò che quasi tutti noi abbiamo sempre rifiutato di comprendere. Melania Rizzoli ha l’occhio clinico. È medico da quando aveva 23 anni, ha percorso chilometri lungo le corsie degli ospedali dove si guarisce o si muore di cancro, e vede anche quello che a noi sfuggirebbe, a cominciare dalle condizioni igieniche delle case di pena, e coglie nei reclusi il dolore del corpo e lo strazio dell’anima. Sissignori, chi entra in galera conserva l’anima, e almeno questa dovremmo rispettarla. Non è neppure il caso di sottolineare la sensibilità dell’autrice, la sua capacità di sintonizzarsi con i prigionieri e di farsi confidare le loro ambasce. Cito qualche nome, preso fra quelli che figurano in copertina: Bernardo Provenzano, Salvatore Parolisi, Roberto Savi, Salvatore Cuffaro, Wanna Marchi. Chiunque abbia dei pregiudizi, chiunque non si sia mai avvicinato, per paura o disgusto, al pianeta carcere, ha un’occasione: farsi prendere per mano da Melania Rizzoli e lasciarsi condurre nell’esplorazione dell’inferno. Con l’augurio di evitarlo. Immigrazione: dai Cie ai rimpatri, ecco i costi delle espulsioni Redattore Sociale, 29 aprile 2012 L’Italia ha speso negli ultimi cinque anni oltre cento milioni di euro per rimpatriare poche migliaia di cittadini stranieri. E ancora di più si prevede di spenderne nei prossimi tre anni. Non ci sono solo i costi sostenuti, anche con fondi europei, per organizzare i voli di espulsione forzata, come quelli che hanno fatto scalpore per le foto su Facebook dei migranti imbavagliati con il nastro adesivo. Per ogni cittadino straniero rimpatriato, lo Stato italiano paga 5 biglietti aerei, quello dello straniero e quelli di andata e ritorno per i due agenti che lo scortano. Il dato è contenuto nel rapporto della Commissione diritti umani del Senato su carceri e centri di trattenimento per migranti senza permesso di soggiorno. Vanno aggiunte le somme impiegate per costruire, riparare e gestire i Centri di identificazione e di espulsione, dove vengono reclusi i migranti fino al momento di imbarcarli sull’aereo. Da una relazione tecnica del servizio studi della Camera del 2008 viene fuori che costruire un posto letto nel Cie di Torino è costato in media 78mila euro. Quell’anno la legge 186 stanziò in totale 78 milioni di euro su tre anni (fino al 2010) per la costruzione di nuovi Cie. A queste cifre bisogna sommare i costi di gestione dei servizi all’interno dei centri. Solo nell’ultimo anno abbiamo speso 18 milioni e 607mila euro. Il dato (aggiornato al primo febbraio) ci è stato fornito da Angela Pria, capo dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del ministero dell’Interno. Altri 18 milioni di euro sono stati stanziati a gennaio dal governo Monti per ricostruire e riaprire due vecchi centri, quello di Santa Maria Capua Vetere (Ce) e quello di Palazzo San Gervasio (Pz). Infine, bisogna considerare che un anno fa è stato triplicato il tempo massimo di detenzione amministrativa nei centri di identificazione e di espulsione: da sei mesi a un anno e mezzo. Questo comporta un aggravio di spese, previsto dalla copertura finanziaria della legge 129 del 2011 con quasi 17 milioni per l’anno 2011, e 120 milioni di euro ripartiti in tre anni, dal 2012 al 2014. I costi, già enormi, continuano a salire. Ma il sistema delle espulsioni non sembra molto efficace. Le stime parlano di circa 500mila migranti irregolari in Italia. Secondo il dossier 2011 Caritas Migrantes, nel 2010 sono state trattenute nei Cie circa 7mila persone e poco meno della metà (48,3%) è stata effettivamente rimpatriata, cioè 3.399. Gli altri hanno ricevuto un invito a ‘autoespellersì dopo mesi di reclusione. Il paradosso è che si costruiscono altri centri di detenzione per immigrati, quando i fondi non bastano nemmeno per gestire quelli esistenti. “Indubbiamente il prolungamento fino al limite massimo ha richiesto la realizzazione di altre strutture. Se la permanenza è più lunga, servono più posti”, ci ha spiegato il prefetto Pria. E ha aggiunto: “spendiamo milioni di euro solo per risistemarli dopo i danneggiamenti causati dalle rivolte”. Le gare d’appalto per la gestione dei centri di identificazione e di espulsione vengono effettuate dalle prefetture in parziale deroga alla disciplina sugli appalti, grazie all’emergenza immigrazione che è stata dichiarata nel 2002 e da allora prorogata di anno in anno da tutti i governi. I bandi si basano un capitolato d’appalto unico, ma fino all’anno scorso i budget variavano. Ad esempio a Modena e Bologna si superavano i 70 euro giornalieri a trattenuto. Soldi che ovviamente non vanno ai migranti reclusi, ma agli enti che gestiscono i servizi nei centri. La novità di quest’anno è che tutte le gare si stanno facendo a 30 euro più Iva (siamo intorno ai 36 euro).”Questa scelta è stata determinata dai tagli lineari di bilancio al Ministero, pari a 70 milioni di euro - ci ha detto il prefetto Nadia Minati, direttore centrale dei servizi per l’Immigrazione e l’Asilo - e dalla necessità di copertura finanziaria dei contratti pubblici. Solo in tal modo siamo riusciti a mantenere in piedi tutti i centri”. È già successo che gli enti gestori non siano riusciti a pagare gli stipendi di chi lavora nei Cie. “Per carenza di risorse, abbiamo avuto situazioni di dipendenti di gestori che protestavano per i mancati pagamenti” conclude Minati. A Bologna, il nuovo appalto triennale è stato vinto dal consorzio Oasi di Siracusa, già vincitore del bando per il cie Milo di Trapani, con un ribasso a 28 euro. Lo stesso centro, dovrebbe essere gestito con meno della metà dei soldi. Se lo straniero senza documenti viene identificato nel Cie e il suo paese accetta di riprenderlo, viene organizzato il volo di rimpatrio coatto. La scorta sugli aerei è molto numerosa e rappresenta un costo perché gli agenti si sottopongono a una formazione specifica e a continui aggiornamenti. Abbiamo in Italia circa 600 operatori delle forze dell’ordine abilitati. Per farsi un’idea della spesa complessiva, si può ricorrere all’ultimo dato disponibile. Con quasi dieci milioni di euro arrivati nel 2008 dal Fondo Rimpatri dell’Unione europea sono state espulse con la forza meno di 4mila persone e solo alcune centinaia hanno beneficiato del rimpatrio volontario assistito. Alla presentazione dei risultati, nell’estate 2011 all’Istituto superiore antincendi di Roma, Michelangelo Latella, della direzione centrale Immigrazione e polizia delle frontiere, spiegava che “il rapporto è di 2 agenti per ogni straniero e se riusciamo, ne mettiamo qualcuno in più, ad esempio 70 poliziotti per 30 persone, perché ci sono state spesso delle intemperanze e il dispositivo di scorta è fondamentale per la sicurezza di tutti sul volo”. Si usano aerei di linea oppure charter appositamente organizzati dall’Italia, o con altri paesi membri dell’Unione attraverso l’agenzia delle frontiere, Frontex.