Il sole e un po’ di speranza sulla marcia per l’amnistia Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2012 Dopo settimane di pioggia, il sole è tornato anche per le vie di Roma puntuale con la seconda marcia per l’amnistia promossa dai Radicali. Un appuntamento al quale noi di Ristretti non potevamo certo mancare; sosteniamo l’amnistia dai tempi dell’indulto del 2006 per ripartire con i Tribunali meno intasati; chiediamo l’amnistia perché non solo i detenuti, ma anche le istituzioni dovrebbero fare una revisione critica del passato e dare dimostrazione del loro ravvedimento per le condizioni d’illegalità in cui versa il sistema. I radicali avevano indicato come luogo di ritrovo il carcere di Regina Coeli. Poco dopo le dieci, un corteo multi colore è partito sventolando bandiere e cartelloni di vari partiti e associazioni. Contro ogni previsione abbiamo visto l’adesione di tantissime persone, compresi parecchi deputati e senatori, oltre ai radicali irriducibili. il corteo quindi è passato per i luoghi caldi della politica, come Montecitorio, per poi fermarsi in piazza San Silvestro. Al termine della marcia Rita Bernardini ha invitato a parlare alcuni famigliari di persone morte in carcere in circostanze oscure, come Lucia Uva, Ilaria Cucchi, come la madre di Daniele Franceschi, morto misteriosamente in un carcere francese. Oltre a Emma Bonino e a Irene Testa, che hanno raccontato il senso di questa marcia, c’erano i rappresentanti del sindacato che raccoglie molti direttori delle carceri. Significativa l’adesione alla richiesta di amnistia di tanti direttori, che chiaramente si rendono conto di questo urgente bisogno. Si tratta comunque di un dialogo non nuovo. Sono anni che la nostra redazione comunica con direttori come Sbriglia, Cantone, Buffa, Pirruccio, e le organizzazioni sindacali dei dirigenti penitenziari sono diventate interlocutori seri e aperti su questi temi. Da segnalare anche l’intervento di Alfonso Papa che ha confessato di essere stato salvato dai detenuti e degli agenti che ha scoperto vivere in condizioni disumane. Un intervento importante che la dice lunga su quanto i magistrati conoscono le carceri. Sembra assurdo, ma ci sono magistrati che non hanno mai messo piede in un carcere, amministrando la giustizia senza conoscere la realtà dei luoghi di espiazione delle pene. Coincidenza, questo sarà anche il tema di apertura del prossimo numero di Ristretti, in cui abbiamo incontrato nella redazione interna un gruppo di magistrati del Veneto che si sono confrontati direttamente con detenuti sui temi della pena e della rieducazione. Siamo intervenuti anche noi di Ristretti per ricordare ai presenti quanto sarebbe importante che fosse data la possibilità agli stessi detenuti di partecipare a manifestazioni di questa natura. Il pensiero naturalmente va a quei detenuti che con coraggio hanno messo in atto la battitura delle sbarre per salutare la nostra marcia per l’amnistia, rischiando sanzioni disciplinari e nella peggiore delle ipotesi, trasferimenti e denunce. Perché ricordiamo, in carcere protestare non è permesso, ed è quindi impossibile “prendersi davvero in mano” il proprio destino. Un destino che, per ora, è affidato soprattutto al coraggio e alla tenacia di Marco Pannella, che ha chiuso la manifestazione richiamando tutti al dovere di esserci e di non mollare, di continuare una battaglia che non può conoscere soste. La Redazione Anche la sinistra annaspa nell’autoritarismo penale di Luigi Manconi L’Unità, 26 aprile 2012 Nonostante le posizioni di tanti intellettuali antifascisti, che segnarono i primi anni della Repubblica, il tema della “giustizia giusta” resta un tabù. Un filo rosso lega il 25 aprile della Resistenza alla manifestazione promossa ieri dai Radicali contro il sovraffollamento delle carceri. Eppure c’è un filo rosso - robusto e tenace - che unisce il 25 aprile della Resistenza partigiana a questo 25 aprile di mobilitazione per l’amnistia, promossa dai Radicali italiani. Sono numerosi gli elementi che motivano una relazione stretta tra la ricorrenza della Liberazione nazionale, intorno a valori di democrazia e giustizia sociale, e una battaglia per uno stato di diritto che sia veramente tale e per la tutela rigorosa delle garanzie individuai. Non si tratta di una evocazione ideologica o di un artifizio retorico: il rapporto tra i due fatti è davvero profondo. Basti pensare a un importantissimo documento storico, tuttora scarsamente conosciuto. Nel 1949, venne istituita la prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri: ed è difficile dire se colpisca di più il fatto che già allora si avvertisse la necessità di realizzare una simile inchiesta o la constatazione che quella, come le successive, non riuscisse a modificare la drammatica situazione del sistema penitenziario. In quegli stessi mesi venne pubblicato un fascicolo speciale della rivista Il Ponte voluto da Piero Calamandrei e interamente dedicato al tema, che ospitava testimonianze e riflessioni di Carlo Levi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Giancarlo Pajetta, Vittorio Foa, Leone Ginzburg e molti altri. Ovvero il meglio dell’antifascismo e del pensiero democratico e repubblicano, in tutte le sue componenti. Leggere quel fascicolo dà, oggi, una grande emozione. Non solo per la qualità politica e, direi, morale degli interventi, ma anche per lo spessore della riflessione sui temi del diritto e della pena. C’è una ragione per quella acutezza intellettuale ed è talmente nitida da assomigliare a una sorta di rivelazione: quelle persone, l’abiezione del carcere, l’avevano conosciuta sulla propria pelle, e per lunghi, talvolta lunghissimi anni. Scrivevano, cioè, di una sofferenza e di una miseria direttamente patite, mentre discutevano di una riforma seria e razionale dell’amministrazione della giustizia e del sistema penitenziario. Nel merito quella discussione va studiata e approfondita, partendo - mi sembra un ottimo spunto - da un’affermazione di Vittorio Foa per il quale nessuna pena detentiva avrebbe dovuto superare “i tre, al massimo cinque anni”. Avete capito bene: tre, al massimo cinque anni. Eppure non si trattava di un confronto tra utopisti velleitari e filosofi inconcludenti, bensì tra uomini che avevano combattuto la dittatura e che avevano affrontato rischi enormi. Ma credevano nella politica e nel fatto che essa dovesse fondarsi su principi saldi, tali da segnare una discontinuità radicale col precedente regime e da tracciare un’idea di società rispettosa dei diritti individuali e collettivi. Quella discussione è ancora più preziosa perché avveniva in una fase storica appena successiva a un’aspra guerra civile e che conosceva allora una condizione di crisi economica e disordine sociale. Tre anni prima, il ministro della Giustizia Palmiro Togliatti aveva promulgato un’amnistia, che aveva suscitato una diffusissima diffidenza e molte reazioni, in qualche caso violente (è interessante notare che, all’interno del Pci, la maggiore ostilità proveniva dalla componente autoritario-stalinista). E tuttavia, la discussione drammatica che il provvedimento di amnistia determinò non ebbe l’effetto di condizionare quella riflessione sul carcere, proposta dal Ponte. Così che gli interventi di Calamandrei e Pajetta, di Lussu e Salvemini poterono confrontarsi liberamente, senza che i giustizialisti del tempo (ce n’erano, eccome se ce n’erano) li accusassero di essere complici delle Brigate Rosse o di Cosa Nostra (per restare all’epoca: della Volante Rossa o di Salvatore Giuliano). Al di la della suggestione che può suscitare l’associazione mentale ed emotiva tra resistenza e lotta per i diritti delle persone private della libertà, c’è da restare costernati per l’impossibilità di riproporre oggi una simile discussione. Cosa è mai accaduto nella cultura della sinistra per renderla così fiacca e povera quando affronta le questioni del diritto e della pena? Eppure lì, proprio nella elaborazione di un programma per una giustizia giusta, si misura il senso di responsabilità della politica e la sua moralità. Qui non si vuole riproporre, certo, che nessuna pena detentiva superi “i tre, al massimo cinque anni” ma si vuole sperare almeno che la cultura della sinistra si emancipi dall’autoritarismo penale. Ovvero da una concezione profondamente immorale della giustizia, dove il fine “retributivo” della pena costituisce, in realtà, un surrogato miserevole della vendetta. Insomma, si vorrebbe che il grido roco “in galera” resti appannaggio della comicità scellerata di Giorgio Bracardi, e non si ritrovi nel discorso pubblico del centrosinistra. Inutile cincischiare, si deve agire con un atto di emergenza… l’amnistia di Luigi Manconi Il Foglio, 26 aprile 2012 Capita frequentemente che le questioni radicali, e proprio perché radicali (cioè perché vanno al fondo delle cose), anche quando apprezzate, vengano trasferite nella dimensione dell’utopia. E lì abbandonate. È un destino davvero ingrato. Quanto più le prospettive e i mezzi per perseguirle sono ragionevoli tanto più risultano proiettate nel mondo della irrealtà. È ciò che sta capitando al tema dell’amnistia. Oggi, molte donne e molti uomini di buona volontà, chiamati a raccolta da Marco Pannella e dai Radicali italiani, manifesteranno a Roma per chiedere quel provvedimento. Ma tale rivendicazione - tanto saggia da risultare inconfutabile - fatica a prendere corpo, a imporsi sulla scena pubblica, a occupare un adeguato spazio istituzionale, a farsi domanda politica urgente ed esigente. Come i fatti imporrebbero che fosse. Il provvedimento di clemenza, per tanto, rischia di apparire come una sorta di nobile testimonianza, mentre è - all’opposto - la condizione preliminare per qualsiasi concreto progetto di riforma del sistema della giustizia. E ciò risulta vero a tal punto che la misura in questione e la stessa parola che la designa vengono bandite dal dibattito pubblico. Non direi che si tratta del solito dispositivo di censura. Probabilmente c’è anche questo ma ciò che più conta è quanto si diceva prima a proposito delle strategie di manipolazione del linguaggio pubblico: ovvero il trasferimento di una misura di assoluta intelligenza e di massima concretezza verso una dimensione tutta astratta e irrealistica. Mentre si tratta di qualcosa di assai materiale e pragmatico. A produrre questa alterazione ottica, non bastano i convenzionali meccanismi di censura e autocensura. C’è bisogno di qualcosa di più: cioè, di una vera e propria procedura di rimozione. E qui interviene il potere inerziale della classe politica, la sua impotente potestà, la sua aggressiva codardia. In genere, si sottovaluta questo aspetto di quella che viene definita come “la crisi dei partiti”, eppure esso ne è la principale causa. Oggi, la politica - fatte salve rare eccezioni - è innanzitutto vile. È una politica impolitica proprio perché incapace di immaginare il giorno dopo, di inventare una idea, di prevedere mosse future. Ciò riguarda le strategie economiche come quelle della fiscalità e quelle della giustizia. In questo campo, l’ultimo atto lungimirante della classe politica fu l’approvazione dell’indulto del 2006, ma già il giorno dopo quanti si erano assunti la paternità di quel provvedimento, si affannavano a disconoscerla. Mai una legge ebbe così tanti padri e madri, pronti a ripudiarla a poche ore dalla nascita. Un atto di corale pusillanimità, che vide pochissime eccezioni (tra esse, pensate un pò, Altero Matteoli) e il comportamento coerente e dignitoso di Romano Prodi e Giorgio Napolitano. Accadde così che un provvedimento sacrosanto, ancorché limitato (tanto più perché non accompagnato da una contestuale amnistia), venne additato al pubblico ludibrio, nonostante i buoni risultati ottenuti: temporanea e rilevante riduzione della popolazione detenuta, e una recidiva, tra quanti beneficiarono dell’indulto, che non raggiunse la metà di quella registrata tra coloro che scontano interamente la pena in cella. E anche quest’ultimo dato, così inequivocabilmente significativo della mitissima ragionevolezza del provvedimento di clemenza, è stato totalmente ignorato. Anche perché, nel periodo di tempo in cui l’indulto venne discusso, approvato e poi applicato l’informazione sui fatti di cronaca criminale passò, nelle reti televisive nazionali dall’11 per cento al 23 per cento dell’intera programmazione. Ecco, esattamente qui sta la radice di quella codardia (e dell’antipolitica, che ne è una manifestazione). Qui emerge un nodo cruciale. Il rifiuto della razionalità di misure d’eccezione per condizioni d’eccezione, come quelle del sistema penitenziario italiano, e il disprezzo per la stessa categoria di clemenza sono, entrambi, espressione di profonda immoralità. Quando su tutto prevale la preoccupazione della propria sopravvivenza e la volontà di ridurre la complessità del mondo a meccanismi di coercizione e segregazione, è allora che prevale una concezione della politica ridotta a mero esercizio di potere. Sempre più eroso e incerto. È proprio questo, e non un deficit di pietas (che pure conta, ma non è l’essenziale), che spiega la profonda immoralità della concezione del diritto e della pena, coltivata dal giustizialismo. Qualunque sia l’apparato retorico cui si ricorre, quella concezione resta comunque dipendente da un’idea “retributiva” dell’amministrazione della giustizia e dell’esecuzione della pena. Quest’ultima, o parte dall’obbligo costituzionale di “tendere alla rieducazione del condannato” per andare oltre, oppure risulta essere, in ogni caso, un surrogato della vendetta. In altre parole, se la pena non “rieduca” o se consiste in “trattamenti contrari al senso di umanità” (ancora l’articolo 27 della Carta), si risolve in un danno grave per l’intera società. L’amnistia, va da sé, non può affrontare e tantomeno risolvere questioni di tale portata: ma ne costituisce la premessa ineludibile. Amnistia, ma non solo… di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante (Senatori Pd) Europa, 26 aprile 2012 I numeri delle carceri italiane sono penosamente noti. O almeno dovrebbero esserlo, dato che si parla della vita di decine di migliaia di persone. Della vita che molti, anche per le condizioni indegne di detenzione, si tolgono per disperazione. Le ultime lugubri cifre tratte dal dossier Morire di carcere di Ristretti Orizzonti recitano così: 20 detenuti suicidi da inizio anno, 57 il totale delle morti in cella. Un suicidio ogni 5 giorni, un decesso ogni 2. L’età media dei detenuti che si sono tolti la vita è di 35 anni, 6 erano stranieri e 14 italiani. Altre 23 persone sono morte in cella per “cause naturali” (avevano un’età media di 40 anni), mentre su 14 decessi sono in corso indagini volte ad appurarne le cause. Impressionante la “serie storica”: dal 2000 ad oggi sono 712 i detenuti che si sono suicidati (58 di media l’anno) e 1.990 il totale dei decessi in carcere (160 di media l’anno). Nello stesso periodo nelle carceri della Turchia, dove sono rinchiusi circa 100mila detenuti, i decessi sono stati poco meno di 1.000 (dati del Consiglio d’Europa). Quest’ultimo raffronto la dice lunga sulle condizioni detentive nelle carceri italiane. Ma vi è un altro dato statistico che dice con ancora più eloquenza del modo inaccettabile in cui l’Italia tratta i suoi detenuti: nonostante i recenti, drammatici casi di suicidi causati o favoriti dalla crisi economica, restiamo uno dei paesi europei dove meno persone scelgono il gesto estremo e disperato del suicidio, ma se si limita lo sguardo all’universo carcerario siamo invece il paese dove ci si suicida di più. Di fronte a una situazione così, la cui prima causa è nel sovraffollamento delle strutture carcerarie - quasi 70mila detenuti in luoghi che ne dovrebbero ospitare poco più della metà - la prima condizione perché in Italia si possa parlare di vera giustizia, per dare senso al principio scritto in Costituzione che afferma la funzione riabilitativa della pena, è una immediata e drastica riduzione del numero delle persone detenute, anche attraverso lo strumento dell’amnistia. Perché a una grave emergenza sociale, che provoca così tanti morti, occorre rispondere con misure d’emergenza. In tanti ripetono che l’amnistia farebbe crescere il numero dei reati, ma questo è un luogo comune del tutto infondato, come dimostra l’esiguo numero di recidive che si è registrato a seguito dell’ultimo indulto. Certo, l’amnistia non basta, occorre contemporaneamente cambiare due tra le leggi più odiose che ci ha lasciato in eredità il ventennio berlusconiano: la Bossi-Fini e le altre norme sull’immigrazione irregolare, per le quali le nostre carceri sono affollate anche da chi ha come unica colpa quella di essere venuto in Italia senza permesso di soggiorno; e la Fini-Giovanardi, frutto di un approccio ideologico e punitivo al problema delle tossicodipendenze, che colpisce con il carcere anche tanti che avrebbero bisogno di “cura” e non di “pena”. Nelle carceri italiane vi sono troppi detenuti e troppo pochi agenti, costretti a lavorare in condizioni assai dure. Contro questa vergogna si battono da anni soprattutto i Radicali, che ieri, 25 aprile, hanno tenuto a Roma una marcia per la giustizia, l’amnistia, la libertà alla quale chi scrive ha scelto di aderire. La data scelta per questa bella iniziativa non è ovviamente casuale: gli stessi valori di umanità, di civiltà per i quali 70 anni fa i partigiani diedero il proprio sangue e offrirono il loro coraggio, sono negati e calpestati se si condanna alla disperazione del suicidio chi è stato privato della libertà per la sicurezza di tutti. La cultura patibolare della sinistra (intervista a Massimo Pavarini) di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 aprile 2012 “Nemmeno i padri costituenti seppero trovare un’alternativa al carcere. E alla pena contrapposta al reato”. Di certo non sfuggì, ai padri costituenti della Repubblica italiana, l’importanza della questione giustizia e carcere nella costruzione e nella tenuta di una democrazia. Eppure si accorsero quasi subito che non sarebbero stati capaci di sovvertire completamente quell’abominio che avevano conosciuto e patito nel Ventennio perché non sapevano trovare un’alternativa a quello che Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’università di Bologna, definisce la “cultura patibolare”. Una cultura da cui non è esente nemmeno la sinistra marxista. Professore, nel giorno della Seconda marcia radicale per l’amnistia, la libertà e la giustizia, non a caso legata al 25 aprile, ci spiega perché nella democrazia moderna le carceri non si sono evolute poi così tanto da quelle di regime? Nel marzo 1949 la rivista “Il Ponte” diretta da Pietro Calamandrei dedicò il numero tre alle memorie dei grandi della Resistenza: c’erano Calamandrei, Calo Levi, Riccardo Bauer, Vittorio Foa, e poi Ghisu, Spinelli, Pajetta, Salvemini, Parri, Ernesto Rossi, Adolfo Banfi, insomma una bella compagnia di persone che erano passate per il carcere durante il Ventennio. Rileggendo quel numero si notano un paio di cose: tutti riconoscono che il carcere di allora non era poi così diverso da quello fascista che avevano conosciuto. Tutti ricordano di aver giurato a loro stessi, quando erano detenuti, che semmai un giorno avessero ricoperto ruoli di potere avrebbero fatto qualsiasi cosa per cancellare quella vergogna. E però tutti sono costretti a riconoscere - nel 1949 - di non aver fatto ancora nulla. C’era in quell’élite intellettuale e politica già allora la consapevolezza di non avere idee alternative. È vero, eravamo solo all’inizio della democrazia, anche se l’articolo 27 della Costituzione c’era già, ma tra una sinistra che sognava ancora i campi di lavoro sovietici e i fautori di un riformismo asfittico, molto distante da quello d’ispirazione anglosassone, c’era una totale mancanza di cultura giuridica. In sostanza, si delineava una situazione paradossale: pur considerando quella pena inaccettabile e scandalosa, non riuscivano a uscire dalla cultura della pena. Si poteva migliorare il carcere ma non sovvertirlo... Secondo me questa è una cosa su cui non abbiamo mai riflettuto abbastanza e che segnerà poi definitivamente la nostra storia, il pensiero progressista e in particolar modo quello marxista: proviamo orrore rispetto a una penalità che non recupera, non integra, ma esclude. Però non vogliamo ammettere che non troviamo alternativa a quella che io chiamo una cultura patibolare, che non può avere anticorpi rispetto alla penalità. Il fatto che, come spesso succede, i portatori di questa cultura patibolare vorrebbero far subire la pena ad altri e non ai propri - magari ai padroni e ai capitalisti per le loro ignominie e non al proletariato - non cambia nulla. E il problema è questo: noi non ci muoviamo da questa cultura patibolare che al reato contrappone la pena. Perfino la sinistra l’ha assorbita, perché la cultura marxista l’ha ereditata dall’idealismo. Da cosa dovremmo liberarci? Dall’idea che dare sofferenza possa avere anche una funzione positiva, purificatrice. Dalla coincidenza di significato tra sofferenza e punizione. Certo, è una cultura che ha radici antichissime e che non appartiene solo all’occidente. Ovviamente poi la storia della penalità, che è intessuta dei valori simbolici del sacrificio e dell’espiazione, tipica del capro espiatorio, si trasforma negli anni, ma senza negare quell’origine. Però secondo me l’approdo a questa idea della pena come salario del peccato e della colpa si colloca nella creazione degli Stati. E ora si può dire che siamo fermi al mondo un po’ rischiarato dall’analisi di René Girard. Certo si può fare un carcere più civile, con più luce, più biblioteche, lo si può fare alla svedese - e non si è fatto - ma comunque non ci si allontana dal principio che al delitto e al peccato si risponda con un’azione volta a determinare sofferenza. E lo Stato ha il monopolio di questa sofferenza... Beh, nel mito teomorfico, la Patria, lo Stato, il monarca sono concepiti ad immagine e somiglianza di Dio quindi lo stato ereditando il ruolo della sacralità detiene il regime monopolistico del castigo con finalità di espiazione. L’altro passaggio cruciale è che lo Stato nel suo tentativo di laicizzarsi, di spogliarsi da questo elemento di sacralità, vede la pena in una logica di difesa sociale come strumento di controllo di un problema. Quando si parla di criminalità, di recidiva, eccetera, si fa teoria della prevenzione. Sotto la bandiera della prevenzione, che sembrerebbe la teoria della laicizzazione, io credo che si siano consumati i più terribili delitti. La pena che educa, come prevenzione del reato? Che cos’è la prevenzione? Quello che oggi chiamiamo un approccio geopolitico alla questione: bisogna governare le masse, le moltitudini e per farlo bisogna utilizzare la risorsa repressiva. Non più per adempire alla funzione catartica del sacrale come nel passato ma, perché sia accettabile, per perseguire scopi di utilità. Ecco qual è la seconda grande sconfitta: gli scopi di utilità sociale, che soli legittimano la pena in una democrazia moderna, devono prevenire la criminalità, ridurre la recidiva. E sono tutti scopi fallimentari: la pena non ha mai mostrato di poter perseguire questi scopi, serve invece a creare distanza sociale, a verticalizzare i rapporti. È la “Gazzetta” della moralità media, serve a riaffermare i valori dei consociati: sono queste le funzioni materiali della penalità. Qual è l’alternativa alla cultura della pena? Intanto prendiamo atto che nelle nostre costituzioni non si racconta tutto questo. Non diciamo che la pena serve a creare distanze sociali, a verticalizzare i rapporti, a escludere e non a includere. Né diciamo che il carcere è pratica di inclusione sì, ma non nei confronti del soggetto a cui somministriamo la pena ma nei confronti della società, degli “onesti”. Solo che a questo punto la massa da escludere socialmente si è molto estesa e il carcere è diventata una pattumiera sociale... Perché si è arrivati a questo punto? Perché lo stato moderno utilizza il carcere come strumento di regulation of the poor e non come strumento della penalità. La sua esigenza è distinguere tra povertà colpevoli e incolpevoli, tra povertà meritevole che lo stato sociale aiuta - le donne, i bambini, gli infermi - e una povertà colpevole che è teppaglia da stigmatizzare come diversa. Il carcere adempie a quella funzione, come diceva Focault, di trasformare una illegalità diffusa in una illegalità selezionata che appunto adempie alla funzione di capro espiatorio dell’intero sistema. Eppure adesso sembra si sia adottata un’altra tattica: con l’introduzione di sempre nuove fattispecie di reato diventano illegali alcuni stili di vita diffusi, vedi il caso dell’uso delle droghe… Ha preso proprio la norma più indicata di tutte: la funzione della guerra alla droga reaganiana è proprio quella di stigmatizzare una certa condotta giovanile metropolitana, inizialmente diffusa in strati sociali bassi. Perché è così importante tanto da farne una guerra? Perché la droga veicola un messaggio simbolico di non inclusione: di gente che vive nella cultura dello sballo, dell’edonismo, eversiva perché contraria all’etica del lavoro... è per questa sua forte carica simbolica che la si combatte tanto da diventare il motore di tutte le politiche criminali. Colpire chi fa uso di stupefacenti significa salvaguardare il profitto? È qui che viene riconfermata la funzione geopolitica di lotta alla povertà. La povertà va sempre riprodotta distinguendo ciò che è accettabile allo stato sociale come stato inclusivo e ciò che deve diventare un nemico. Il nemico va creato, riprodotto. Sicuramente la droga è il grande strumento della creazione del nemico interno, colui che non può essere incluso. È per eccellenza la legislazione che qui come in America ha creato un nemico interno. E per produrre handicap nuovi in questi soggetti già segnati da svantaggi, per determinare ancora più distanza sociale, per escluderli, si usa la pena. La cui funzione è proprio questa: la pena è una macchina formidabile di riproduzione enfatizzata di esclusione. Donne in cerca di giustizia, in marcia a Roma per l’amnistia di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 aprile 2012 In prima fila, al fianco dei leader radicali Marco Pannella, Emma Bonino, Rita Bernardini e Irene Testa, animatori principali della “Seconda marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà” che ha sfilato ieri dal carcere di Regina Coeli e per i vicoli del centro storico di Roma, ci sono molti volti di donne. Sono madri, sorelle, figlie e nipoti di uomini morti mentre erano sotto la custodia dello Stato. Donne che, loro malgrado, sono diventate protagoniste e simbolo di una lotta impari; che hanno investito tutte le loro risorse finanziarie e umane per ottenere giustizia e verità. Sono Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Lucia Uva, sorella di Giuseppe, Domenica Ferrulli, figlia di Michele, Grazia Serra, nipote di Francesco Mastrogiovanni, e Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi (il carpentiere toscano di 36 anni morto nell’agosto 2010 nel carcere di Grasse), raggiunta durante la manifestazione dalla notizia del rinvio a giudizio da parte della magistratura francese di un medico e di due infermieri. A loro si rivolge, dal palco improvvisato su un sound system parcheggiato in piazza San Silvetro, Enrico Sbriglia, ex segretario nazionale del Sidipe, il sindacato dei direttori dei carceri, oggi capitanato da Rosario Tortorella, anch’egli presente alla marcia: “Come direttore penitenziario - dice Sbriglia - vorrei dire a Ilaria Cucchi e a tutte le donne che l’hanno preceduta, di perdonarci, perché forse non sapevamo quello che stavamo facendo”. Ma accanto a questi volti dai nomi ormai purtroppo noti ci sono tante altre donne, familiari di detenuti più o meno ignoti. Sono venute da Salerno, da Bologna, dall’Abruzzo, ma soprattutto da Napoli. Dalla città parteneopea sono partiti due autobus pieni, uno organizzato dalla sezione Radicale locale e l’altro “auto - organizzato”, di donne sole che ripongono le loro speranze nell’amnistia per poter riavere i loro uomini attualmente detenuti a Poggioreale o a Secondigliano o, peggio ancora, nelle prigioni del nord Italia. “Le carceri oggi in Italia sono luoghi di inciviltà senza pari e l’amnistia è uno strumento obbligato. Chiediamo giustizia e libertà nel ricordo dell’antifascismo perché deve essere interrotta questa flagrante violazione dei dettami costituzionali”, afferma in polemica Marco Pannella, che ha interrotto lo sciopero della fame. In piazza il suo nome viene scandito alternativamente al grido di “giustizia” e “amnistia”, perché per i carcerati comuni - non tanto per quelli eccellenti come Alfonso Papa o Cesare Pambianchi, pure presenti - Pannella è il simbolo delle lotte radicali per i diritti civili. Per i sindacati penitenziari, però, “l’amnistia da sola non risolve i problemi”. Ne sono consapevoli i tanti sindaci sardi, le rappresentanze della Regione Basilicata, il presidente della provincia di Nuoro, Roberto Deriu, tutti presenti con i gonfaloni, che raccontano di una “giustizia ingiusta” e di “uno Stato che si arrende ogni giorno alla violazione delle leggi”. “Un Paese, questo - conclude Emma Bonino - che è carcerato per intero, senza più alcuna distinzione tra chi è dentro e chi è fuori: tutti prigionieri della mancanza di democrazia e di legalità”. L’altro 25 aprile unisce in nome dei diritti di Annamaria Gravino Secolo d’Italia, 26 aprile 2012 C’è stato un altro 25 aprile, ieri, a Roma. A differenza di quello “ufficiale” ha davvero unito settori della società e anime diverse della politica. Marco Pannella lo ha legato al “ricordo dell’antifascismo”, ma è stata forse solo l’ennesima provocazione del vecchio leone, come provocatorio era apparso lo slogan della vigilia: “Una marcia per la liberazione”. La liberazione evocata qui, però, non è quella del 1945, ma quella attualissima dall’illegalità di Stato” che si registra nelle condizioni delle carceri. L’altro 25 aprile s’è celebrato con un corteo “per l’amnistia, la giustizia e la libertà”, per chiedere “al Parlamento un impegno concreto e solerte, adeguato ad affrontare le drammatiche condizioni in cui versano le carceri e la giustizia”. La manifestazione è stata promossa dal Partito Radicale e da Rita Levi Montalcini, con Rudra Bianzino, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, che hanno avuto tutti parenti morti dopo essere stati arrestati. All’iniziativa hanno aderito centinaia di associazioni e singole personalità del mondo della politica e della cultura. Alla fine, in corteo dal carcere di Regina Coeli a piazza San Silvestro, hanno sfilato in migliaia. “Molti più del previsto”, ha spiegato il segretario dei Radicali, Mario Staderini. A questo 25 aprile non ci sono stati veti. Nessuno ha stilato la lista di chi potesse o non dovesse partecipare. C’erano un po’ tutti, in uno schieramento che altrimenti sarebbe stato difficile vedere: dal deputato del Pd Sandro Gozi ad Alfonso Papa, il deputato del Pdl finito in carcere qualche mese fa; da Flavia Perina di Fli a Francesco Nitto Palma del Pdl, che da Guardasigilli apri alla possibilità di depenalizzare i reati minori e di prevedere misure alternative al carcere, che erano fra le richieste di ieri. E, ancora, fra le adesioni si sono registrate quelle di Margherita Boniver, Stefania Prestigiacomo e Osvaldo Napoli per il Pdl, di Pierluigi Castagnetti, Ignazio Marino, Ugo Sposetti per il Pd e del socialista Bobo Craxi. C’erano anche Adriano Soffi e Francesca Mambro. Non solo partiti, ma anche storie e posizioni diverse. Non tutti in piazza erano per l’amnistia sic et simpliciter, in molti hanno sottolineato che semmai può essere un aspetto della soluzione che, però, passa necessariamente per interventi strutturali. Lo stesso Nitto Palma, a suo tempo, espresse perplessità sul provvedimento di demenza, eppure ieri c’era a dire che così non si può andare avanti. In piazza, insomma, ci si è ritrovati in nome dei diritti e della necessità di un sistema - giustizia più moderno, riuniti intorno a un argomento che non è facile e che spesso provoca polemiche accese, ma che ieri è stato portato all’attenzione degli italiani senza contrapposizioni, acredine, violenza verbale. “L’Italia è un Paese che ha nove milioni di processi pendenti e in cui l’istituto della prescrizione fa saltare 200mila processi l’anno. Tutto questo è insostenibile in un Paese democratico”, ha ricordato Emma Bonino, sottolineando che questa situazione “genera un’amnistia di classe, con i più ricchi che si avvantaggiano delle prescrizioni e le carceri che diventano una discarica sociale”. “La civiltà di un popolo si vede dallo stato delle sue prigioni”, si leggeva su uno degli striscioni, dietro ai quali hanno sfilato, persone arrivate da tutta Italia. “Siamo scesi in piazza perché questa è una battaglia di civiltà trasversale”, hanno spiegato i sindaci di Latronico e Tito, due paesini in provincia di Potenza, Nicola Ponzio e Pasquale Eduardo Scavone. “Nelle carceri italiane languono persone in condizioni di sopravvivenza indegne di animali. La metà di queste non hanno ancora avuto un giudizio di condanna definitivo. Chi oggi si oppone all’amnistia non si oppone solo a questo ma anche a qualunque speranza di poter riformare la giustizia”, è stata poi la testimonianza di Alfonso Papa. “L’amnistia è un caro prezzo, ma in questo caso è il giusto e purtroppo unico prezzo che il nostro Stato può e deve pagare per ripristinare quelle condizioni minime del diritto”, ha detto poi Cesare Pambianchi, l’ex presidente di Confcommercio arrestato per un’inchiesta su una presunta maxievasione da 600 milioni di euro, tornato in libertà il 26 febbraio. Ma a testimoniare che il tema della giustizia giusta riguarda tutti, non solo chi ha avuto esperienza diretta di carcere, c’erano anche avvocati, direttori di istituti penitenziari, esponenti della società civile. È stato Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione camere penali, a sottolineare che ciò che serve “non è tanto un provvedimento di demenza, quanto arrivare a una riforma complessiva del sistema penitenziario, dove la custodia cautelare sia riservata ai casi davvero eccezionali. Senza questo - ha chiarito - nessuna iniziativa porterà a una soluzione”. Una posizione simile è stata espressa anche dal principale sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe. “Non crediamo che l’amnistia, da sola, possa porre soluzione alle criticità del settore. Quel che serve sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena”. Marcia di speranza o di delusione? di Gabriella Monteleone Europa, 26 aprile 2012 È andata bene, forse oltre ogni aspettativa la seconda marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà indetta dai radicali per rispondere a quella “prepotente urgenza” della situazione delle carceri di cui parlò a luglio anche il presidente della Repubblica, che non a caso alla prima, nel 2005, partecipò. Subito dopo, nel 2006, il governo Prodi si assunse l’onere di dare una risposta alla già presente emergenza carceraria con un indulto che pagò poi molto caro in termini di consenso, anche se fu votato dai due terzi del parlamento, Pdl in testa. Ma ora che succede? Difficile dirlo. Perché mai ora, dovremmo vedere apporre lo stesso numero di firme su un provvedimento che cancella anche il reato e non solo la pena? L’instancabile opera di sensibilizzazione di Pannella, Bonino e gli altri, nonostante il silenziatore mediatico, ha raccolto altre adesioni trasversali. Un lavorio continuo e assordante che vorrebbe abbattere il muro innalzato da quei populismi di destra e di sinistra che si erano opposti perfino al decreto legge del ministro Severino che allargava le maglie per la concessione dei domiciliari, figuriamoci all’amnistia. Poi quelle maglie furono ristrette escludendone i recidivi (e infatti gli effetti deflattivi sul sovraffollamento al momento sono irrisori). Grazie a chi? A Idv, Lega e alla fronda Pdl guidata proprio da quell’ex guardasigilli Nitto Palma che ieri, però, marciava per l’amnistia. Eppure, uno sguardo meno distratto o superficiale alle politiche penali condotte nell’ultimo decennio e oltre, dovrebbe costringere tutti a correggere una rotta che ha portato le carceri italiane nello stato in cui si trovano, per cui “il nostro paese è in uno stato criminale di disfunzionamento” come dice Emma Bonino o semplicemente “criminale” per Marco Pannella. Si potrebbero certo correggere leggi inique ma il sistema, comunque, resterebbe ingolfato. Perché non c’è solo un suicidio ogni cinque giorni nei penitenziari italiani, ma oltre trentamila detenuti sui quasi 67mila presenti sono in attesa di giudizio. E abbiamo il “primato” del paese con il maggior numero di sentenze della Corte Ue per i diritti dell’uomo rimaste inapplicate per l’irragionevole durata dei processi: insomma stiamo peggio di Turchia, Russia, Polonia e Ucraina. A questo, prima o poi, occorrerà provvedere senza continuare a girare la testa dall’altra parte. Si può immaginare un’iniziativa di Napolitano? Bobo Craxi, ieri, si è rivolto a lui in vista della conclusione del settennato. I radicali e una rete ampia e trasversale di associazioni, deputati senatori e consiglieri comunali e regionali, e tante personalità la sosterrebbero certi che solo un provvedimento di indulgenza possa far ripartire la macchina della giustizia. Ieri, alla marcia che ha attraversato il centro di Roma, erano in tanti, “migliaia, molti più del previsto” dice soddisfatto Marco Staderini, segretario dei radicali italiani, sottolineando che “l’amnistia non è un atto di clemenza, ma il primo patto per una riforma della giustizia”. Tante bandiere, tante facce più o meno note, alcune tristemente note come Lucia Uva, Domenica Ferrulli o Ilaria Cucchi. È stato “il miglior modo per onorare la Festa della liberazione” per Sandro Gozi che, da responsabile delle politiche Ue del Pd (ma anche altri esponenti dem erano presenti), conosce bene le pluricondanne europee inflitte al nostro paese per una giustizia che “è ingiusta con i deboli e impotente con i potenti” dice. È dimostrato che un detenuto su tre è dentro per la Fini - Giovanardi; che oltre 24mila detenuti grazie alla Bossi - Fini sono stranieri. Ma di cancellarle o modificarle neppure se ne parla. Marcia per l’amnistia. Pannella: “Le carceri luoghi di inciviltà” Il Messaggero, 26 aprile 2012 Da Adriano Sofri, protagonista di uno dei casi più controversi della storia giudiziaria italiana, a Alfonso Papa, deputato Pdl coinvolto nell’inchiesta sulla P4. Dall’ex ministro della Giustizia sotto il governo Berlusconi, Francesco Nitto Palma, alla sorella di Stefano Cucchi. Sono tanti i protagonisti della marcia per l’amnistia che ieri ha sfilato per le via di Roma. E migliaia i partecipanti secondo il segretario dei Radicali Mario Staderini. “Le carceri oggi in Italia sono luoghi di inciviltà senza pari - dice il leader Marco Pannella L’amnistia è uno strumento obbligato”. Il corteo, promosso dal Partito radicale insieme a centinaia tra personalità, sindacati e associazioni, è partito dal carcere di Regina Coeli diretto a piazza San Silvestro. Hanno sfilato Flavia Penna (Fli), Luigi Nieri (Sel), socialisti, sindaci con il tricolore al petto, Emma Bonino, Rita Bernardini. “Oggi chiediamo giustizia e libertà nel ricordo dell’antifascismo - spiega Pannella - chiediamo che venga interrotta questa flagranza criminale. In moltissime carceri si sta facendo lo sciopero della fame”. Emma Bonino parla dell’Italia: “È insostenibile che in un Paese democratico ci siano nove milioni di processi pendenti e l’istituto della prescrizione faccia saltare 200mila processi l’anno”. Questa situazione “genera un’amnistia di classe, con i più ricchi che si avvantaggiano delle prescrizioni e le carceri che diventano una discarica sociale”. Per il presidente dell’Unione camere penali italiane, Valerio Spigarelli, serve “una riforma complessiva del sistema penitenziario”, che veda la custodia cautelare riservata solo “ai casi davvero eccezionali”. Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi, il giovane detenuto morto, secondo i familiari, a causa di un pestaggio, coglie l’occasione per ribadire il suo appello di sempre: “Una giustizia certa e uguale per tutti”. Detenuti… non fatevi imbrogliare da nessuno, nemmeno da voi stessi di Adriano Sofri Il Foglio, 26 aprile 2012 Che bilancio trarre dalla manifestazione romana di ieri, merito dei radicali, sull’orrore delle carceri e della giustizia e la richiesta dell’amnistia? Prima di tutto la partecipazione: realisticamente, sapevo che c’è ancora una percentuale di cittadini che non ha capito, e un’altra che non vuole capire. Dunque mi aspettavo che partecipassero non più di 41-43 milioni di persone. In verità eravamo in meno, fra i millecento trenta e i millecento cinquanta, direi. Questo quanto ai numeri. Quanto alla qualità, c’erano i nomi più capaci di suscitare la commozione e l’ammirazione degli italiani nel giorno della Liberazione: Cucchi, Uva, Ferrullli, Franceschi... Era un onore esserci, in quel corteo. Ci ho camminato dentro, senza avere niente da dire. È tanto tempo che provo un rigetto per le parole sul carcere e i carcerati. Sono state tutte dette, escono ogni volta di nuovo dalle bocche con un suono di monete false. Una cosa vorrei dirla, a quella moltitudine di persone mie prossime che stanno nelle celle: non fatevi imbrogliare da nessuno, nemmeno da voi stessi; io so quanto vale la vostra vita. Meno repressione, sì all’uso di pene alternative di Emilia Rossi L’Opinione, 26 aprile 2012 In questo 25 aprile non è la Liberazione ma il carcere a mettere in marcia a Roma Marco Pannella e quanti sostengono il suo appello “per l’amnistia, la giustizia e la libertà” con cui si chiede al Parlamento “un impegno concreto e solerte, adeguato ad affrontare le drammatiche condizioni in cui versano la giustizia e le carceri”. All’iniziativa, tra i numerosi altri, hanno aderito deputati e senatori di diversi schieramenti, esprimendo un preciso segnale di volontà politica. Ci si augura che i parlamentari tengano a mente il significato della marcia anche quando si applicano in Aula nella complessa materia della giustizia. Perché l’amnistia e l’indulto sono provvedimenti necessari ad arginare la crisi della situazione carceraria e del sistema giudiziario. Ma non sono sufficienti a risolverla. Intanto occorre intendersi sull’entità dell’amnistia (e dell’indulto): l’inciviltà delle condizioni delle carceri italiane e lo stallo della macchina giudiziaria richiedono provvedimenti che non soffrano delle eccezioni che stanno a cuore al potenziale elettorato delle varie forze politiche. Altrimenti l’effetto svuota-carcere e svuota-armadi non potrà che essere marginale. Insomma, se amnistia deve essere deve trattarsi di amnistia generosa, che non faccia differenze tra ladri di polli e colletti bianchi. Poi, è necessario aver presente che amnistia e indulto servono essenzialmente a creare le condizioni per avviare una riforma organica del nostro sistema penale a partire da quello sanzionatorio e cautelare. Il che innanzitutto comporta interrompere l’attività carcerogena in cui il Parlamento si impegna quando deve affrontare un fenomeno di mala società. Il recente dibattito sulle misure anti-corruzione ne costituisce solo l’ultimo esempio: l’unica risposta che la politica rende ai fatti di allarme sociale, veri o presunti, è più pena, più reati, più carcerazione preventiva. Che si tratti di incidenti stradali, di sicurezza, di violenza sessuale, di droga, di omofobia, di corruzione, di falso in bilancio, non fa differenza. Se non si inverte questa tendenza alla pan - penalizzazione non ci sarà amnistia che possa reggere l’impatto della costante crescita del repertorio repressivo. Una rivoluzione del sistema sanzionatorio che metta in testa pene diverse dal carcere e in coda quella della reclusione, la decriminalizzazione dei comportamenti che non ledono concretamente i beni tutelati, a partire da quelli strettamente personali come il consumo di droghe, la revisione della custodia cautelare che la faccia diventare una vera eccezione alla regola che il processo si fa in stato di libertà. Sono i primi interventi di riforma che dovrebbe promuovere chi oggi assume seriamente l’impegno ad affrontare le condizioni in cui versano le carceri e la giustizia italiane. Ci vuole coraggio. Bisogna accettare il rischio della perdita del consenso alimentato con la promessa “più carcere per tutti” che ogni forza politica ha offerto al proprio elettorato, con le irrilevanti differenze del caso. È necessario che il Parlamento si liberi dalla dislessia legislativa e politica che lo porta a svolgere accorati dibattiti sulla situazione carceraria e nel contempo a infarcire i codici di nuovi reati, di aumenti di pene e di automatismi nell’applicazione della custodia cautelare. Ci vuole coraggio e testa, insomma. Ma è questo che si chiede ai parlamentari. I loro piedi non bastano. Se non si inveite questa pericolosa tendenza alla “panpenalizzazione” non ci saranno provvedimenti in grado di reggere l’impatto della crescita del repertorio repressivo. Abbiamo il peggior regime carcerario d’Europa… di Margherita Boniver Secolo d’Italia, 26 aprile 2012 “Sono convinta di due cose. La prima è che abbiamo il peggior regime carcerario d’Europa e questa è una vergogna senza fine, perché il problema ce lo trasciniamo da quanto? Quaranta, cinquant’anni? L’altra è che abbiamo regolamenti particolarmente complicati e umilianti, sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari. Le due cose si intrecciano, il problema è complesso ed evidentemente non siamo in grado di risolverlo”. Per questo Margherita Boniver ha deciso di aderire alla marcia per l’amnistia promossa dai radicali. Per “motivi contingenti” non ha potuto partecipare, ma questo nulla toglie al sostegno “che è totale e non di oggi”. Oltre che sulla necessità di garantire i diritti in carcere e di rendere più moderno il sistema giustizia, è d’accordo anche con l’amnistia? “Sì”, spiega la parlamentare del Pdl, chiarendo che la misura “non può essere incondizionata”, ma sottolineando anche che di “fronte a questo immondo problema non si può tacere”. “Delle due l’una - aggiunge - o la politica è in grado di dare una risposta forte o si torna all’ipocrisia della Prima Repubblica, quando ogni due anni il Parlamento varava un provvedimento di clemenza. Poi, con la stagione del terrore di tangentopoli, è stata prevista la maggioranza qualificata e questa possibilità è venuta meno. Ora ci ritroviamo in questa situazione indegna di un Paese civile e dobbiamo ci chiedere per quale delle due scelte vogliamo optare”. Pannella: svuotare le carceri è una priorità Intervista di Annalisa Chirico Il Giornale, 26 aprile 2012 Per descrivere Marco Pannella bastano alcune righe scritte di suo pugno nel lontano 1973. Tagliare anche solo una parola sarebbe un delitto. “Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se rivoluzionario”. Oggi il leader radicale ha il codino bianco, e qualche anno in più. Insieme ai Radicali è sceso in piazza per la “Seconda marcia per la giustizia, l’amnistia e la libertà”. Una vita, la sua, consacrata alla battaglia per la vita del diritto. 67mila detenuti vivono stipati in celle che potrebbero ospitarne tutt’al più 45mila. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati 18 detenuti. Contro questo bollettino di guerra e contro la bancarotta giudiziaria (9 milioni di procedimenti pendenti e 180mila prescrizioni l’anno), per Pannella la parola d’ordine è una sola: amnistia. Sono trascorsi sette anni dalla prima edizione di questa marcia. Non è cambiato nulla? “La prima marcia contemplava sia l’indulto che l’amnistia. Alla fine si fece solo l’indulto nel 2006, e in base a sondaggi non smentiti oggi sappiamo che il tasso di recidiva per chi beneficiò di quella misura è stato pari al 33,6%, che è meno della metà della recidiva ordinaria che supera il 68%. Rispetto ad allora è cambiato semplicemente il fatto che oggi chiediamo l’amnistia”. Chi è contro l’amnistia sostiene che senza riforme strutturali si tornerebbe al punto di partenza nel giro di poco tempo. Che cosa risponde? “Rispondo: non dite stronzate. L’amnistia è già una riforma di struttura. Se sul penale avessero 500mila procedimenti pendenti anziché 5 milioni, saremmo già un altro Paese, sarebbe tutta un’altra storia. Con l’amnistia si libererebbero enormi energie finanziarie, logistiche, organizzative, che consentirebbero all’Italia di stare meglio di ogni altro Paese in Europa quanto a potenziale rapidità dei processi”. Veniamo alla riforma della giustizia. Quali sono le priorità radicali? “Le nostre priorità sono quelle obbedienti alla storia radicale, ai nostri referendum: separazione delle carriere, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, riforma del Csm. Noi vogliamo riformare la giustizia attraverso la riattivazione del diritto. Guardi, nell’Italia fascista la legalità era abbastanza infame ma era rispettata. Qui non è rispettata nessuna legalità, né quella antifascista né quella fascista. Senza l’amnistia questo Paese finirà con le cose che aborro, i piazzale Loreto e la caccia alle streghe”. Il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha reso noto che tra la fine di febbraio e la fine di marzo la popolazione carceraria è aumentata di 63 unità. Il decreto Severino non doveva “svuotare” le carceri? “Sa tutto come avvocato ma non capisce nulla di giustizia. La Severino è questo”. C’è poi la questione spinosa degli abusi da parte della magistratura. Il simbolo negli anni Ottanta è stato Enzo Tortora che con voi Radicali ha condotto una campagna per la “giustizia giusta”. Oggi rischiate anche voi di abbassare la guardia su questo? “Non credo. Per noi non ha mai smesso di essere la priorità assoluta della nostra vita da trenta, quarant’anni”. Faccio un esempio. Il deputato del Pdl Alfonso Papa è finito in carcere preventivo, anche col voto favorevole dei radicali, salvo poi scoprire dal Tribunale del riesame che non c’erano gli estremi per l’arresto. Per non parlare poi delle intercettazioni illegali dichiarate inutilizzabili nel processo. I Radicali hanno mollato questo fronte “garantista”? “Certo che no. Quello che accade è il frutto di trent’anni di antidemocrazia dei “democratici” di destra e di sinistra”. I parlamentari radicali sono stati eletti nelle liste del Pd. Bersani, vostro “alleato”, è a favore dell’amnistia? “Se lo chiede a lui, ancora non lo sa”. A proposito di Berlusconi e del sexygate che lo ha travolto Piero Sansonetti, uomo di sinistra, ha parlato di un “golpe” dei magistrati per annientarlo. “Io dico che è perfino vero. Ho accusato pubblicamente una parte della magistratura lombarda con base a Milano di un disegno ignobilmente piccolo per accelerare i tempi del passaggio al potere da Berlusconi non tanto ad Alfano - che nessuno sapeva che c’era - quanto al vergine Formigoni. Per cui la magistratura ha dispiegato tutte le sue forze contro il puttaniere, passando magari giorno e notte con le puttane, mentre dinanzi al vergine Formigoni, dinanzi allo spergiuro e traditore della propria parola, si è limitata ad assegnare un solo magistrato. Così l’emersione della truffa elettorale da noi documentata è stata ostacolata in tutti i modi”. Pannella, lei si avvia a diventare il “padre nobile” dei radicali? “Io per ora continuo a essere il figlio discolo e di “una mignotta” della baracca, da quello non possono dimettermi. Non ho mai avuto poteri formali né statutari”. È quello il segreto, o sbaglio? “Se è così però mi chiedo: perché non lo fanno anche gli altri? Perché non lo fa anche Bersani? E invece lui non lo fa, poveretto...” Pannella, voliamo con la fantasia. Se lei fosse eletto democraticamente “Presidente”, quale sarebbe il primo provvedimento che adotterebbe? “Come ho scritto, la prima cosa che farei sarebbe dimettermi perché, se il Paese mi eleggesse democraticamente, vorrebbe dire che non ha più bisogno di me”. Nicolò Amato: la riforma della giustizia non è più rimandabile Intervista di Lanfranco Palazzolo La Voce Repubblicana, 26 aprile 2012 “Situazione delle nostre carceri: un tema gravissimo che rimane nella più totale indifferenza dell’opinione pubblica, interessata ad altro”. Riformare la giustizia italiana è un’urgenza improcrastinabile. Lo ha detto alla “Voce” il magistrato Nicolò Amato, già direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Nicolò Amato, cosa pensa di un’amnistia per risolvere il problema delle carceri italiane? “Io sostengo la battaglia a favore di un’amnistia. Il livello di crisi del nostro sistema di giustizia ha raggiunto il limite della bancarotta totale. Apprezzo l’iniziativa di quanti si battono a favore di un provvedimento di clemenza. Questi temi sembrano scorrere nella totale indifferenza dell’opinione pubblica italiana. Non riesco a comprendere come la classe politica italiana possa essere spasmodicamente impegnata in questioni di potere, in polemiche interne. Nessuno si cura minimamente dello stato del paese. C’è un vecchio detto secondo il quale la civiltà di un paese si misura dalla civiltà dei suoi tribunali e da quella delle proprie carceri. Ecco perché l’Italia si può considerare un paese peggiore del Terzo Mondo. L’Italia era la culla del diritto, ma ha smarrito un minimo di senso della legalità. I nostri procedimenti penali e civili sono lentissimi. Ci vogliono anni per una sentenza”. Quali altri limiti vede nel nostro sistema? “Manca una forma di responsabilità da parte dei giudici. Nel 1987 venne presentato un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, il cui esito è disatteso da una legge attuativa che ne ha svuotato ì contenuti. Da allora abbiamo il vuoto. Non può esistere un sistema democratico e una divisione di poteri che non contemplino una responsabilità civile. Mi auguro che ci sia un inizio di svolta anche per questo. Se non lo facciamo ci sarà una grossa crisi morale di questo paese. Altrimenti saremmo travolti da tutto”. Come ha trovato l’azione del ministro della Giustizia Paola Severino? “Comprendo che questo ministro, come quelli precedenti, hanno avuto degli enormi problemi di fondo rispetto ai problemi strutturali della giustizia. La politica ha lasciato pochi spazi per affrontare certe questioni. Le corporazioni sono troppo forti. Ecco perché è quasi impossibile fare qualcosa di buono. Ecco perché serve una profonda riforma del sistema giustizia. La lentezza dei procedimenti, svuota ogni senso di giustizia. Ecco perché è necessario scandire, nell’ambito del processo, i tempi di accusa e difesa. Il rinvio ad ogni udienza è di mesi ed anni. Ecco perché non ha senso stabilire il giusto processo in Costituzione senza dare spazi all’attuazione reale di questo principio”. Riaprirebbe il carcere dell’Asinara e quello di Pianosa esclusivamente per il 41 bis? “Quando ci furono le stragi del 1992 fui proprio io a riaprirli. Ma quello era un caso di eccezionale emergenza. E l’emergenza non può essere la regola per il sistema penitenziario italiano”. Giustizia: Alfonso Papa: ecco perché concordo con Pannella sull’amnistia di Dimitri Buffa L’Opinione, 26 aprile 2012 Marcio per l’amnistia e per la riforma della giustizia insieme a Marco Pannella perché in questo paese non si potranno mai fare riforme liberali se non si comincia proprio da lì, dalla condizione carceraria e da quella di tanti cittadini, magistrati compresi, intrappolati da un sistema giudiziario, penale e civile, che non funziona più e che opera anche da deterrente per chi volesse investire in Italia. Inoltre spero che i deputati e i senatori del Pdl che riuscirò a convincere a svolgere questa testimonianza di civiltà insieme a me aiutino il nuovo corso di Alfano che deve tornare ai valori liberali e libertari che furono quelli della fondazione di Forza Italia da parte di Berlusconi. E ad abbandonare quelli forcaioli di facciata di alleati che ormai sono fuori gioco come la Lega Nord”. Alfonso Papa, deputato Pdl, incarcerato - “perché bisognava dare un segnale alla magistratura, come mi disse Roberto Maroni” - ora che le accuse contro di lui si stanno sciogliendo come neve al sole parla senza ipocrisie di quello che per lui è il problema dei problemi in Italia: la giustizia. Il Pdl non sembra entusiasta di questa marcia per l’amnistia. Lei che ne pensa? Intanto Francesco Nitto Palma sembra avere cambiato idea, e parteciperà. Poi ci sono significative adesioni da parte del mondo cattolico, penso a Renato Farina o a Luigi Amicone, direttore di Tempi. Inoltre credo che la mia adesione aiuterà la riflessione interna al Pdl sui veri valori liberali per cui la stessa Forza Italia nacque ormai quasi venti anni fa. Noi non possiamo essere neanche lontanamente confusi con il partito che portò un cappio in Parlamento. Che rapporto ha oggi con quei deputati che la abbandonarono al suo destino, in primis i leghisti, ora che le accuse si sono decisamente ridimensionate? Sono cristiano e cattolico, e coltivo la virtù del perdono. Tuttavia non posso dimenticare il cinismo di quella frase di Maroni che dopo il voto si scusò con me e mi disse che questo era il segnale da dare ai giudici, il prezzo da pagare all’opinione pubblica, cioè la consegna di un ostaggio in manette alla magistratura. Mi pare che il tempo sia stato galantuomo, e che oggi i moralizzatori abbiano problemi seri in casa propria. Perché sì all’amnistia e alla marcia per promuoverla? Chi parla di colpo di spugna in realtà è contro le riforme. Come quella della custodia cautelare: il presidente delle Camere penali italiane Valerio Spigarelli fa notare che la metà delle persone sta dentro in attesa di giudizio. O quella della responsabilità civile del magistrato e altre ancora. L’amnistia è ormai indispensabile per tre motivi: il primo è porre fine a una specie di sequestro di persona che lo stato opera sui singoli detenuti costretti a vivere come bestie in strutture da terzo mondo; il secondo perché è l’unico strumento per ripristinare la legalità e smaltire un arretrato imbarazzante sulle scrivanie dei giudici; infine, sotto il profilo tecnico, l’amnistia chiama le riforme e viceversa. E oggi chi è contrario all’una, lo è anche alle altre. I direttori delle carceri alla marcia per la tutela dei diritti nelle carceri Somunicato stampa, 26 aprile 2012 Il Si.Di.Pe. (Sindacato Direttori Penitenziari), sindacato che raccoglie il maggior numero dei dirigenti penitenziari, ha preso parte alla II marcia per l’Amnistia, la giustizia e la libertà svoltasi oggi a Roma, con partenza dalla Casa Circondariale di Regina Coeli, per esprimere la posizione dei direttori, di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna, a favore di un sistema penitenziario che sia coerente con i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena, rispetto alla grave situazione di disagio che esiste negli istituti penitenziari della Repubblica. Alla marcia, che ha visto la presenza di personaggi di altissimo profilo, non solo della politica - di centro destra e di centro sinistra, senza distinzione di colore - ma anche della cultura, del mondo universitario, dell’avvocatura, dell’associazionismo, impegnati tutti sui grandi temi della legalità e della giustizia, non potevano mancare i dirigenti penitenziari, numerosissimi, perché essi sono i primi garanti dei principi di legalità nell’esecuzione penale e ritengono che occorra dare concretezza a quei principi di legalità e di giustizia spesso solo affermati in vuote formule di stile da coloro che del carcere vogliono occuparsi, per gli interessi più vari, indossando i guanti della retorica, ma che non vivono, non conoscono, né comprendono il mondo penitenziario, le difficoltà ed i disagi degli operatori penitenziari e le spesso più che disperate condizioni di vita delle persone detenute. I dirigenti penitenziari, infatti, vivono quotidianamente e con sofferenza l’impossibilità di garantire quei diritti che l’ordinamento penitenziario proclama, nonostante siano anch’essi privati dei loro diritti e, primo tra tutti, quello ad avere il loro primo contratto di categoria, pur previsto dalla legge. Intervento del segretario nazionale del Si.Di.Pe. alla II Marcia per l’amnistia Il Si.Di.Pe. - Sindacato Direttori Penitenziari - che raccoglie il maggior numero dei dirigenti penitenziari, dopo aver preso parte al sit-in di annuncio tenutosi a Pasqua, ha ritenuto di partecipare all’odiena II Marcia per l’Amnistia, la giustizia e la libertà, per esprimere la posizione dei direttori, di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna, a favore di un sistema penitenziario che sia coerente con i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena, rispetto alla grave situazione di disagio che si registra nelle carceri italiane. I dirigenti penitenziari, infatti, sono i primi garanti dei principi di legalità nell’esecuzione penale e ritengono il rispetto dei diritti della persona una condizione essenziale senza la quale non può esistere vera giustizia ma solo una forma di arcaica vendetta, che non è compatibile con uno Stato che si vuole definire di diritto. I dirigenti penitenziari, che vivono quotidianamente e con sofferenza l’impossibilità di garantire quei diritti che l’ordinamento penitenziario proclama, sono oggi qui nonostante siano anch’essi derubati dei loro diritti e, primo tra tutti, quello di avere il loro primo contratto di categoria, pur previsto dalla legge. Essi sono qui ad affermare i diritti degli ultimi, aggiungendo la loro indignazione a quella di quanti sono privati dei loro diritti ad un trattamento umano e rispettoso della dignità della persona, e comprendono i disagi degli ultimi perché essi stessi subiscono l’arroganza di quanti non vogliono vedere e capire: i dirigenti penitenziari sono gli unici dirigenti pubblici senza contratto, senza uno status giuridico ed economico che pure la legge gli riconosce ma che la colpevole inerzia di chi ha occupato i palazzi del potere ancora gli nega. Il Si.Di.Pe., che ha sempre inteso promuovere una cultura sociale e penitenziaria, intende con la partecipazione alla marcia, manifestare civilmente ma rigorosamente, per prendere le distanze da un modo di fare esecuzione penale che non appartiene alla cultura dei dirigenti penitenziari e del quale essi non sono responsabili ma capri espiatori. Il Si.Di.Pe., pertanto, intende promuovere una cultura del carcere e sul carcere, per una reale affermazione dei principi di legalità e di giustizia, spesso solo affermati in vuote formule di stile da coloro che del penitenziario vogliono occuparsi, per gli interessi più vari, indossando i guanti della retorica, ma che non vivono, non conoscono, né comprendono il mondo penitenziario, le difficoltà ed i disagi degli operatori penitenziari e le spesso più che disperate condizioni di vita delle persone detenute, I dirigenti penitenziari, infatti, vivono ogni giorno il risultato di una schizofrenica e incoerente azione politica, partita ieri ma non arrestata oggi, che dichiara lo stato di emergenza delle carceri, prevede l’apertura di nuove strutture penitenziarie e l’ampliamento di alcune di quelle già esistenti ma che, nel contempo, riduce le dotazioni organiche del personale penitenziario e della stessa dirigenza penitenziaria: è come mettere in mare nuove navi senza marinai e senza comandanti, destinate alla collisione o al naufragio. Il penitenziario resterà un’emergenza sino a quando non si avrà la volontà effettiva di mettere mano all’intero sistema della giustizia, perché il carcere non è che il terminale ultimo di un sistema sul quale si scaricano le disfunzioni del sistema stesso, serve allora intervenire sull’intero sistema e, pertanto: occorre una depenalizzazione importante. Non si possono assecondare gli umori di un’opinione pubblica spaventata perché dolosamente disorientata da gruppi di interesse. Il carcere è troppo costoso, per la vita degli uomini e per le casse dello Stato e deve costituire l’extrema ratio, deve essere il rimedio riservato solamente a reati molto gravi, e non il farmaco venefico spacciato come curativo di malattie sociali che imporrebbero ben altri interventi di carattere sociale e sistemico; occorre che la custodia cautelare in carcere, il carcere preventivo, sia applicata solo quando indispensabile e non per accrescere le statistiche da conferenza stampa o per rispondere agli umori del momento. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, alla fine di marzo le persone detenute nelle carceri italiane erano oltre 66 mila e di queste 27 mila senza una sentenza di condanna definitiva (43,8 per cento del totale) e ben 13.493 sono quelle in attesa del giudizio di primo grado. occorre una riforma del processo penale, perché la percentuale dei detenuti ancora imputati e, quindi, teoricamente ancora innocenti, è, come già detto, pari a circa il 43%. Un’amministrazione della giustizia efficiente è il perno sul quale si regge uno Stato libero e democratico, che ha il dovere di garantire ad ogni cittadino il riconoscimento dei suoi diritti attraverso un processo equo e che si svolga in tempi ragionevoli, ancor più nel processo penale, laddove la ragionevole durata del processo è un rimedio contro il rischio che una persona resti troppo a lungo sotto la spada di Damocle di un’accusa, con tutto quello che ciò comporta sotto il profilo morale e materiale, soprattutto, ma non solo, quando l’accusato sia detenuto. Peraltro l’Italia vanta il più alto numero di condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo per violazioni dell’articolo 6§1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, divenute più frequenti dopo l’introduzione nell’art. 111 della Costituzione il principio della “ragionevole durata” del processo; occorre non solo ampliare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, prevedendo norme che ne favoriscano l’applicazione, ma anche pensare alle misure alternative come alla forma ordinaria di pena, riservando il carcere solo ai reati di particolare gravità. È con il potenziamento dei controlli sull’esecuzione delle misure alternative che si garantisce la sicurezza dei cittadini e per far questo è necessario che tali attività siano effettuate da personale competente che conosce la materia dell’esecuzione della pena, cioè dalla polizia penitenziaria, l’unico corpo di polizia del Ministero della Giustizia. Peraltro la recidiva nel caso delle misure alternative è assolutamente minima, come confermano anche le statistiche dei casi di insuccesso della detenzione domiciliare di cui alle norme contenute nel “decreto salva carceri” del Ministro Severino per i fine pena sino a 18 mesi che risultano inferiori all’1 per cento. Occorre un modello nuovo di esecuzione della pena in carcere, un modello che vada nella direzione della responsabilizzazione del detenuto e non solo del suo contenimento, un modello nel quale il trattamento trovi la principale risorsa nel lavoro penitenziario, sganciandolo dal modello teorico che lo ha voluto assimilare al lavoro fuori dal carcere anche per la retribuzione e che per questo ne ha determinato l’inevitabile fallimento perché non più competitivo rispetto ad esso. Il Segretario Nazionale Rosario Tortorella Amnistia è liberazione… di Simona Bonfante www.libertiamo.it, 26 aprile 2012 La gente non sa che è l’amnistia e non gliene frega di quelli che stanno dentro - i “criminali”. Poi gli chiedi delle bestie negli allevamenti intensivi, nei canili e quelli ti si levano in intemerate chilometriche contro la barbarie della reclusione animale. I detenuti nelle patrie galere stanno peggio dei polli dopati di antibiotici, gonfiati fino a scoppiare e costretti all’immobilità. Stanno peggio e, spesso, ci stanno senza motivo; ci stanno addirittura da innocenti. Criminale è lo Stato che di questo non si cura. Fa leggi e stabilisce pene avendo però ormai del tutto perduto la misura, e smarrito il senso assiomatico della sanzione detentiva che non è mai stato la tortura. Eppure è tortura quella che lo Stato - cioè noi - oggi infligge. E la giustizia? Negata: dalla prescrizione di classe, dalla insostenibile durata dei procedimenti, dalla ideologia sanzionatoria dei comportamenti individuali che non scalfisce in nulla i comportamenti ma intanto mostrifica la dignità. Abbiamo marciato in tanti oggi a Roma per chiedere, insieme ai Radicali, l’amnistia non per i detenuti ma per la Repubblica. Uno scarto logico che appare incommensurabile a chi non è mai entrato in un carcere, a chi non ha mai avuto a che fare con la in - giustizia italiana o a chi ha rinunciato a ricorrervi. Sapete quanti sono i furti dei quali viene individuato il colpevole? Il 2% - e di quelli denunciati che sono meno di quelli praticati. Non c’è giustizia nel nostro paese; quello che c’è è una inutile, vergognoso, intollerabile accanimento repressivo comminato in suo nome. Ecco, non occorre essere de - e nemmeno simpatizzare per - i Radicali per sentire l’urgenza di recuperare al Diritto primario - il rispetto dei Diritti Umani - il sistema giustizia italiano. L’urgenza di farlo come atto primario, come rinnovato atto di liberazione. Ché se no, ma che senso ha tenere il 25 aprile come data rossa del calendario repubblicano? Contributi al dibattito attuale sulle problematiche penitenziarie di Daniela Teresi Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2012 “Il 25 aprile ho partecipato alla marcia che è partita a Roma da Regina Coeli per giungere a Piazza San Silvestro, organizzata dai Radicali per l’amnistia, la giustizia e la libertà. Non ho aderito in modo ufficiale, in veste cioè di psicologa esperto ex art.80, ma ho voluto partecipare per sentire la testimonianza di altri, in diretta e per vedere quale faro viene acceso sulle carceri italiane, sempre più affollate, per sentire cosa viene detto e cosa viene chiesto, per le carceri sicuramente incapaci di rieducare, in verità. Ho visto unita tanta gente comune, politici e persone cariche di entusiasmo, ho sentito tante belle parole di speranza, come si suole dire, in questi casi. Ma soprattutto come sempre, da più voci al Parlamento è stato chiesto e senza troppa enfasi, per carità, di porre un freno al collasso del sistema carcerario italiano. L’amnistia dalla piazza è stata invocata, come sempre, come una delle soluzioni, anzi come una precondizione imprescindibile in questa situazione emergenziale delle carceri, informando dei rischi suicidari che i detenuti di tutte le carceri italiane potrebbero correre perché sono ammassati nelle celle, come in un pollaio fuori legge. Ho sentito piacevolmente invocare il rispetto delle leggi con processi rapidi e giusti, ed il piacere di sentire invocare la tutela di tutti i diritti ignorati per l’umanità. Poco in verità sulla questione è stata posta circa le conseguenze del mancato diritto alla rieducazione del detenuto condannato, diritto previsto dalla normativa vigente, dimenticando che rendendolo nullo e non ricordarlo con la stessa forza, significherebbe aumentare il rischio delle recidive, cosa forse che tanto più interessa alla collettività. Per cui se di diritti vogliamo parlare, se il reinserimento lo vogliamo veramente realizzare, che non sia basato solo sullo sfollamento delle carceri in nome della disgrazia umana del suicidio. Non si dimentichi, per carità, il significato esatto di questo diritto alla rieducazione del reo per consentire alla persona condannata in carcere di uscire dal carcere della mente deviante e non rientrare nella mentalità del carcere. Il diritto della persona detenuta condannata - soprattutto di fronte al dilagare della violenza e al rischio che lo stesso autore corra di perdere il senso di umanità e la stessa dignità di fronte a se stesso e all’esistenza - è questo diritto è quello di essere aiutato a recuperare il suo essere umano e a liberarsi della parte malvagia della sua personalità, per essere veramente libero. La rieducazione non ha alternative, né scorciatoie ed il peso della carenza di figure atte a questo scopo (psicologi, innanzitutto) non deve più essere sottaciuto, per evitare costi altissimi per la collettività. Il piano attuale del governo non sembra prevedere molto per la rieducazione in senso criminologico ed è quello che continua a fare tagli sulle risorse atte a realizzare questo difficilissimo compito. Ed è persino assurdo che con il passaggio del servizio sanitario, già del Ministero della Giustizia alla Sanità, gli psicologi ex art. 80 operanti da oltre 35 anni nel penitenziario , eccetto quelli che si sono occupati di detenuti tossicodipendenti, sono stati lasciati fuori dalle nuove norme, malgrado la maggioranza è psicoterapeuta. Per cui, per chi non lo sapesse ancora, questi professionisti in carcere sono stati ridotti al minimo dal Ministero della Giustizia, e con il rischio di diventare una razza in estinzione, mentre in un momento come questo andrebbero presi come risorse e veri esperti del trattamento del criminale ed ancora di salvezza per una società civile. Per cui, se anche per questi motivi, la situazione del carcere non viene cambiata, il carcere diventerà veramente una discarica sociale, perché chi non viene rieducato non può ricominciare ad essere mai trattato come uomo, ma sarà sempre considerato una feccia della società, anche se sarà il garante per chi vive di un’economia fondata sulle disgrazie. Se il rispetto della legge non sarà preponderante, ci resterà solo la fede, ed allora in questo caso non rimane che pregare! Ne vogliamo discutere? Dr.ssa Daniela Teresi Psicologa psicoterapeuta specializzata in diritto penale e criminologia Esperto ex art. 80 Giustizia: noi detenuti, senza sapone e senza lavoro costretti a vivere sdraiati su una branda Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2012 Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Domenica Ferrulli insieme con Francesca Mambro, Alfonso Papa e Francesco Nitto Palma: la marcia dei Radicali per l’amnistia si è snodata così per le vie di Roma, fianco a fianco, vittime e carnefici, indagati ed ex ministri, guardie e ladri. “Il carcere è diventato una cloaca sociale”, dice Emma Bonino, con la consapevolezza che se non mettono mano alle leggi che riempiono le patrie galere di poveracci il problema del sovraffollamento non si risolverà mai. Ecco come si vive oggi in un penitenziario, nella testimonianza dei detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti - Casa di reclusione di Padova. L’impatto con il carcere di oggi è drammatico, e lo è in particolare per le persone giovani o al primo reato. Forse gli spazi ridotti non hanno un effetto diretto su chi decide di togliersi la vita, ma se in celle dove dovrebbero stare uno o due detenuti, ne vengono invece parcheggiati tre, quattro, cinque, la mancanza di una prospettiva, l’impossibilità perfino di immaginare un progetto di vita, forse qualcosa c’entrano. Il vero problema non sono i metri quadrati della cella che si riducono, ma il regime di vita che tiene le persone stese in branda per più di 20 ore al giorno, la monotonia della quotidianità che abbrutisce e la mancanza di attività. Sembra paradossale, ma all’aumento del numero dei detenuti sono seguiti, ogni anno, ripetuti tagli ai fondi destinati al carcere. Oggi l’amministrazione non passa quasi più nulla dei prodotti per l’igiene, come stracci, secchi, scope, che adesso vengono forniti per lo più solo a pagamento. Mentre prodotti come saponette, dentifrici, rasoi e shampoo, sono ormai forniti quasi sempre dai volontari ai detenuti poveri. La carenza d’igiene viene aggravata dal fatto che le persone devono trascorrere gran parte del tempo in cella. Le Regole europee chiamano le celle “camere di pernottamento”, poiché dovrebbero essere usate, appunto, per dormire alla sera. In realtà, nella maggior parte delle carceri italiane, si può uscire dalla cella alla mattina per andare all’aria, per due ore, e lo stesso si può fare dopo pranzo, sempre per due ore. Per il resto si deve rimanere in cella, dove ormai dappertutto hanno installato, in celle da uno o da due, la terza, e magari la quarta e la quinta branda. Per molti le uniche uscite dalla cella sono quelle per i passeggi, ma ormai “l’aria” assomiglia sempre più a un mercato affollato, i cortili sono progettati per contenere le 25 persone di una sezione, se invece ci va tutta la sezione, che ormai è fatta di 75 persone, dovrebbero stare tutti immobili perché camminare sarebbe impossibile. Tre persone che dividono circa undici metri quadri di cella producono sicuramente conseguenze psicologiche pesanti. In quello spazio sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno con water e lavabo, il che significa che se uno si muove, gli altri devono stare fermi. Il dover trascorre intere giornate in una situazione del genere fa saltare i nervi, e uno dei problemi principali che la promiscuità causa è l’aumento del disagio mentale e della depressione. Un disagio che trova la sua diretta manifestazione nell’enorme abuso di psicofarmaci, il “contenimento chimico”, come lo ha definito un sindacato della Polizia penitenziaria. Anche lavarsi sta diventando un incubo. Mediamente sono funzionanti tre - quattro docce per sezione: concepite inizialmente per 25 detenuti, ora dovrebbero far fronte alle necessità di 75. Ma il sovraffollamento influisce soprattutto sul lavoro. Nel senso che, mentre il numero dei detenuti cresce, i posti di lavoro sono sempre gli stessi. Quando spesso sentiamo dire dei detenuti “che almeno lavorino!”, noi rispondiamo “magari!”. Tutti qui dentro vorrebbero lavorare, perché avere un reddito, anche se minimo, ti fa vivere in modo un po’ più dignitoso in un luogo dove di dignitoso c’è rimasto davvero poco. E però il lavoro non c’ è, e di conseguenza sono pochi i detenuti che hanno la possibilità di acquistare dei prodotti alimentari extra, quindi le persone nella stragrande maggioranza aspettano che passi il carrello per consumare i loro pasti. Ma l’amministrazione spende poco più di tre curo al giorno per i tre pasti giornalieri che spettano a ogni detenuto e, con i numeri triplicati, il cibo scarseggia sempre, e l’unico lavoro che non vuol fare quasi più nessuno è il porta vitto. Qualsiasi ragionamento sul miglioramento delle condizioni di vita in carcere dovrebbe partire dal concetto di “riduzione del danno da carcere”. E per ridurlo bisogna pensare a una galera che dia speranze concrete e offra le possibilità di progettare un futuro migliore. Perché non avere una prospettiva, non vedere nella tua vita niente che ti possa aprire uno spiraglio di speranza, si traduce in un forte rischio per le persone, ma anche per la società che prima o poi dovrà riaccoglierle. Giustizia: patriegalere.eu… per guardare con altri occhi la tragedia delle morti in carcere di Federico Guerrini La Stampa, 26 aprile 2012 Aveva solo 33 anni, Davor Brletic, il prigioniero croato che si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo, nel carcere bresciano di Canton Mombello, ed è morto dopo cinque giorni di agonia. È l’ultima vittima dell’ondata di suicidi nelle carceri, un’epidemia da un morto ogni cinque giorni, cifra a cui vanno poi aggiunti i decessi per altre causa, dalle malattie contratte anche a causa delle difficili condizioni di vita, ai decessi tutti da chiarire. Da inizio anno i morti, nelle prigioni italiane, sono già 57. E dal 2000 a oggi i detenuti che si sono tolti la vita sono ben 712. Scriverne però non rende l’idea; la tragedia quando è ricorrente, diventa facilmente statistica. Per questo sono particolarmente benvenuti progetti che aiutano a uscire dai soliti schemi e a vedere con occhi nuovi il dipanarsi di un problema. Progetti di data journalism come quello proposto dal freelance Jacopo Ottaviani, che, mescolando e organizzando dati forniti dal Ministero della Giustizia e dal Centro di documentazione Due Palazzi ha messo online Patrie Galere, un database visivo e navigabile che comprende tutti i decessi avvenuti nei penitenziari italiani dal 2002 ad aprile 2012. sullo sfondo di una mappa di Google, dei cerchi, di dimensioni variabili, evidenziano l’entità del fenomeno nelle singole località. I cerchi sono, a loro volta, suddivisi in spicchi di diverso colore a seconda delle ragione delle morti: oltre a suicidio e malattia, figurano cause come overdose, omicidio e le morti misteriose. Tale tipo di visualizzazione permette di vedere a colpo d’occhio quali sono le ragioni di morte più frequenti e quali le zone d’Italia dove si muore più facilmente in cella. Le carceri del milanese, della zona di Roma e del napoletano sono quelle dove si rischia più facilmente di fare una brutta fine (anche per la maggiore numerosità della popolazione carceraria, i dati perciò vanno tarati tenuto conto di questo fattore). A fronte di un numero pressappoco uguale di morti, nelle carceri lombarde sono però più frequenti i suicidi. Ovunque, desta impressione la percentuale di morti con cause da accertare: in media sono circa un quinto del totale, ma nel bolognese, se i dati forniti dal Centro Due Palazzi di Padova sono corretti, si arriva quasi alla metà. L’overdose è meno diffusa, ma diventa un fattore rilevante a Civitavecchia e a Piacenza. Purtroppo non è facilissimo scendere nel dettaglio perché zoomando internamente sui grafici, le icone tendono ad accavallarsi e a confondersi. Il progetto di Ottaviani rappresenta comunque senz’altro un esempio molto interessante di uso delle nuove tecnologie al servizio dell’informazione e di quello che si potrà realizzare una volta che la politica dei dati aperti, che in Italia ha già iniziato in alcuni enti e istituzioni a prendere piede, sarà diventata la regola e non più l’eccezione. Giustizia: Sdr; ripristinare fondi per esecuzione penale esterna Agenparl, 26 aprile 2012 “Azzerare i fondi per l’esecuzione penale esterna significa aggiungere una condanna a chi sta scontando con serietà gli errori commessi. Non solo. Vuol dire distruggere la cooperazione sociale e i valori della solidarietà generando nuova disoccupazione”, è quanto ha affermato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alla denuncia fatta da diverse cooperative tra cui quella di “San Lorenzo” che opera a Villamassargia. “Anche in periodi di ristrettezze economiche - sottolinea Caligaris - alcuni settori ad alto impatto sociale non possono subire tagli indiscriminati. Nel caso specifico dell’esecuzione penale esterna è in gioco il reinserimento nella società di cittadini che ne sono rimasti esclusi per avere commesso degli errori. Senza questi strumenti, che sono utili alla comunità perché creano la prevenzione e rafforzano la sicurezza, cresce il pericolo di recidiva. L’esecuzione penale esterna, così come le comunità di recupero e il sistema delle case famiglia sono indispensabili strutture che riducono il disagio attraverso la riabilitazione di soggetti in difficoltà e creano lavoro per giovani professionisti (assistenti sociali, psicologi, educatori) che - conclude la presidente di Sdr - hanno investito il loro futuro non solo sul guadagno ma anche sul sogno di una società più equa. C’è infine da non dimenticare che risponde al principio costituzionale, alla legge sull’ordinamento penitenziario e alla legge Smuraglia. C’è una sola strada da percorrere: intervenga il Presidente della Regione, lo faccia con decisione nelle sedi opportune. Siamo certi che qualcosa potrà cambiare”. Sardegna: approvate le “Linee guida per l’ordinamento della sanità penitenziaria” Agenparl, 26 aprile 2012 Garantire una sanità di qualità anche a chi è detenuto e allo stesso tempo salvaguardare le professionalità del personale sanitario che opera nelle carceri della Sardegna (in tutto 238 lavoratori) sono stati i principi ispiratori delle “Linee guida per l’ordinamento della sanità penitenziaria” approvate nella seconda delibera, proposta sempre dall’assessore De Francisci. “Abbiamo utilizzato una metodologia innovativa - ha spiegato - perché si tratta di un percorso, nel passaggio dallo Stato alla Regione, che abbiamo voluto condividere il più possibile con i sindacati, le Asl, il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e con il dipartimento per la Giustizia minorile. Novità anche sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Novità anche sul fronte degli attuali Ospedali psichiatrici giudiziari: “Stiamo lavorando - ha anticipato l’assessore - assieme alle Regioni che afferiscono all’Opg di Montelupo (Toscana, Sardegna, Liguria, Umbria) per favorire le dimissioni e diminuire gli ingressi dei pazienti, in modo tale da inserirci in un percorso di appropriatezza sui detenuti che possono essere così assistiti in nostre strutture sanitarie. L’obiettivo è garantire un percorso riabilitativo valido e condiviso con i responsabili psichiatrici delle Asl e con la magistratura di sorveglianza. Stiamo valutando dunque, per chi ha necessità di misure particolari, di attrezzare strutture idonee secondo quelle che saranno le disposizioni ministeriali come previsto dalla legge nazionale 9/2012” La Regione richiama 33 detenuti sardi che scontano la pena negli Opg Presto i 33 sardi detenuti negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) della Penisola potrebbero tornare in Sardegna a scontare la propria pena in due strutture isolane. Lo ha annunciato l’assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci, a margine di una conferenza stampa sulle linee guida per l’ordinamento della sanità penitenziaria: “Stiamo individuando due strutture per ospitare questi detenuti a Cagliari e in Ogliastra - ha spiegato - si tratta solo di definire quali saranno le misure di sicurezza appropriate da adottare”. Nel frattempo la Giunta ha predisposto, in collaborazione con le organizzazioni sindacali, le Asl e i dipartimenti dell’Amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile, delle linee guida per garantire la tutela della salute dei detenuti e dei minorenni, senza disperdere le professionalità del personale che già opera negli istituti di pena. Dallo scorso anno, infatti, la Sardegna ha compiuto l’ultimo atto per il trasferimento delle competenze in materia di sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia. La Regione avrà a disposizione 800 mila euro a favore delle Asl per razionalizzare i servizi prevedendo fra le sei e le 38 ore di assistenza, a seconda della dimensione dell’istituto di pena. Inoltre l’assessore ha annunciato che i 238 medici e infermieri potranno scegliere un solo contratto di lavoro e non potranno più accumularne diversi come accaduto sinora. Sicilia: una scommessa sui “cattivi ragazzi”, da detenuti a volontari internazionali di Alessandra Turrisi Avvenire, 26 aprile 2012 Quando un ragazzo non è mai uscito dalla sua città, se non per essere trasferito in un carcere, un viaggio all’estero a svolgere attività di volontariato con altri giovani può essere la svolta capace di cambiargli la vita. Ci credono e ne hanno anche le prove gli operatori del terzo settore che, assieme a quelli della giustizia minorile, in Sicilia portano avanti progetti di volontariato internazionale con una buona fetta destinata ai ragazzi provenienti dall’area penale. L’ultima scommessa si chiama “Rainbow: Multicolour youth volunteering bridging continents”, un progetto che coinvolge 40 ragazzi italiani fra i 18 e i 25 anni, di cui quindici con problemi con la giustizia, che saranno messi in relazione con altrettanti coetanei di tre Paesi stranieri partner, Spagna, Messico e Cina, impegnati sui temi della legalità e della devianza. Ente capofila è Informagiovani Palermo, con dieci anni di esperienza in questo settore, che ha come partner il Centro di giustizia minorile attraverso il suo braccio operativo che è l’Ufficio servizi sociali per i minorenni. Questi ragazzi, assieme ad altri selezionati con un bando pubblico privilegiando chi ha difficoltà economiche, la prossima estate faranno esperienze di job-shadowing, ovvero attività di formazione di tipo informale, scambi giovanili. L’iniziativa rientra tra i progetti dell’Accordo di programma quadro “Giovani protagonisti di sé e del territorio”, nato nel 2008, attraverso il quale la Regione Siciliana, con l’assessorato alla Famiglia e alle Politiche sociali, pone al centro dell’attenzione il mondo giovanile. L’obiettivo è quello di poter eliminare dal futuro dei giovani tutti i disagi connessi all’insularità della Sicilia e poter dimostrare che la Sicilia può diventare un motore trainante per la costruzione dell’Europa. “I dati di studi internazionali ci dicono che il 70% dei minori in area penale tornano a delinquere, ma la percentuale si inverte se i ragazzi vengono coinvolti in attività di volontariato sociale - spiega Pietro Galluccio, responsabile di Informagiovani Palermo. Da dieci anni facciamo questo tipo di attività in Sicilia e i risultati sono buoni. I giovani coinvolti nel progetto Arcobaleno svolgeranno attività di volontariato di tipo ambientale. All’estero, per 15 giorni, coltiveranno campi e conosceranno le comunità locali, in Sicilia soggiorneranno insieme con i loro coetanei stranieri a Casa Badalamenti a Cinisi, l’immobile confiscato alla mafia che apparteneva al boss Tano Badalamenti, e puliranno le spiagge delle bellissime coste di Magaggiari e Isola delle Femmine”. Un modo concreto per rompere gli stereotipi prodotti dalla vita in un mondo chiuso e culturalmente deviante. Le esperienze degli anni passati parlano da sole. Come quel ragazzo di Partinico, detenuto per piccoli reati, che tre estati fa si impegnò in un campo di volontariato a Bagheria. “Finito il percorso penale ci chiese di andare un mese da solo in Spagna - racconta Galluccio. Al suo ritorno cominciò a lavorare come panettiere e adesso ha una vita nuova”. E un ragazzo figlio di un mafioso palermitano, dentro per il furto di una motocicletta, seppe che era stato confermato l’ergastolo al padre mentre era in Irlanda con un progetto di volontariato internazionale. Uno shock che lo convinse per sempre che la sua vita non poteva essere quella. “L’anno scorso a marzo ci telefonò - ricorda Galluccio - per raccontarci che era uscito dal percorso penale e che aveva deciso di fare la domanda per entrare in polizia. Non so come finirà questo sogno, ma di certo la sua vita è cambiata per sempre”. Siracusa: l’arcivescovo Pappalardo tra i detenuti di Cavadonna La Sicilia, 26 aprile 2012 “È necessario portare il messaggio di salvezza della Pasqua in tutti i luoghi. Sono trascorsi già alcuni giorni da quando abbiamo l’abbiamo celebrata. Ma la Pasqua del Signore deve essere Pasqua di rinascita e di resurrezione ogni giorno nella vita di ognuno di noi”: dopo aver visitato, un mese fa, il carcere di Brucoli, nell’ambito della visita pastorale, il pastore della Chiesa siracusana, monsignor Salvatore Pappalardo, ha voluto bissare il gesto di vicinanza con i detenuti all’interno degli istituti di pena, giungendo a sorpresa, martedì, al carcere di Cavadonna. Il cuore della visita è stato proprio il momento in cui l’arcivescovo ha attraversato i diversi cortili che accolgono i detenuti in base al blocco di appartenenza: era l’ora d’aria, il momento per loro di uscire da quella piccola cella dove spesso sono rinchiusi in quattro in uno spazio che ne potrebbe accogliere la metà. Qualcuno passeggiava e qualcun altro giocava a pallone. Altri erano seduti. L’arcivescovo Pappalardo li ha salutati: “Vi regalo questa immagine di Cristo che abbraccia la croce che mi è molto cara - ha detto monsignor Pappalardo parlando con loro: un particolare del quadro che si trova nella chiesa di Santa Maria in via Roma. “Gesù ha abbracciato la croce della nostra umanità per donarci la certezza della vita eterna” è la frase che ho scritto e sintetizza il messaggio di accoglienza e di condivisione della nostra condizione umana da parte di Gesù”. Anche detenuti stranieri, che abbracciano religioni diverse da quella cattolica, si sono avvicinati all’arcivescovo e hanno ricevuto una parola di conforto: a questi, come a qualche altro detenuto in regime più severo, monsignor Pappalardo ha regalato una coroncina del rosario. Ad accogliere l’arcivescovo, accompagnato dal cappellano del carcere don Angelo Lipari e dal diacono Salvatore Malfitano, era stata in precedenza la direttrice del carcere, Angela Gianì, insieme con la vice, Linda Favi, e al comandante delle guardie carcerarie. Un saluto, prima della visita dei cortili, monsignor Pappalardo lo ha riservato anche agli agenti di polizia penitenziaria. Il carcere di Cavadonna soffre, come la maggior parte degli istituti di pena, il problema del sovraffollamento e della scarsità di organico degli agenti. In realtà una nuova ala, con altre celle, potrebbe essere disponibile, essendo già stata realizzata, ma ancora si attende l’assegnazione del personale di polizia penitenziaria necessario. L’arcivescovo ha avuto la possibilità di visitare l’intera struttura, dalla lavanderia alla biblioteca, dalle aule studio, fino alla cappella. Ha salutato anche ai soci della cooperativa L’Arcolaio, detenuti e non, che producono, nel laboratorio all’interno del carcere, prodotti biologici alle mandorle che vengono distribuiti in tutta Italia ed in diverse parti del mondo. “È un posto segnato dalla sofferenza - ha detto don Angelo - . Come Chiesa interveniamo come possiamo, con l’ascolto e la preghiera, ma anche con i fondi che ci arrivano dall’8 per mille, grazie ai quali cerchiamo di rispondere ad esigenze primarie, come un paio di scarpe, indumenti, un paio di occhiali, ma anche un semplice pallone per giocare in cortile”. Massimiliano Torneo Francia: caso Franceschi; la madre: bugie anche sul luogo della morte Tm News, 26 aprile 2012 “Ci hanno mentito sul luogo della morte di mio figlio: è avvenuta nell’ospedale di Grasse, quando ci hanno sempre detto che era avvenuta a Nizza”. È la grave accusa di Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, il detenuto del carcere di Grasse, in Francia, morto a 26 anni, il 25 agosto 2010. “Ci devono spiegare perché finora ci avevano nascosto il vero luogo della sua morte - continua la donna, raggiunta da Tm News - questo dettaglio dovrebbe essere sufficiente a far capire quante cose strane devono esserci dietro la fine di mio figlio”. Cira Antignano ha appreso questa ulteriore novità dall’avvocato Maria Grazia Menozzi, che segue il caso sul versante francese. Lo stesso legale conferma che sarebbero accusati di omicidio volontario un medico e due infermieri del carcere di Grasse. “È stato il nostro legale a scoprire che sotto inchiesta è finito l’ospedale di Grasse e non quello di Nizza”, precisa Antignano, che il 2 maggio sarà di nuovo a protestare davanti all’Eliseo. “Farà lo sciopero della fame, anche perché devono ancora rendermi gli organi di mio figlio, prelevati per l’autopsia e trattenuti in Francia”. Marocco: continua lo sciopero della fame dei detenuti di Ika Dano www.globalist.it, 26 aprile 2012 Lo studente Ezedine Errousi diventa simbolo della protesta dei 27 prigionieri politici in sciopero della fame. E della speranza che il Movimento 20 febbraio rimanga vivo. Ventisette prigionieri politici in sciopero della fame da settimane, alcuni da mesi. Tra loro, uno studente in pericolo di vita, in sciopero dallo scorso dicembre: la lotta per la libertà e il rispetto dei diritti umani nelle carceri marocchine continua. E l’ennesima lettera - questa volta sottoscritta da 17 organizzazioni per i diritti dell’uomo - denuncia i soprusi e chiede l’intervento del primo ministro marocchino. Che, per ora, tace. Ezedine Errousi è diventato il simbolo del Movimento 20 febbraio e della lotta dei prigionieri politici marocchini. Studente all’università di Taza, arrestato il primo dicembre 2011 perché appartenente al movimento - illegale - d’ispirazione socialista (Union Nationale des Étudiants Marocains) e attivo nelle proteste iniziate il 20 febbraio dello scorso, è in sciopero della fame dal 19 dicembre 2011. Condannato prima a tre, poi a cinque mesi di prigione, ha fatto della sua condanna la voce di una protesta indomita. “Sono stato arrestato all’università da agenti in borghese, torturato fino allo svenimento [...]. Mi hanno interrogato lungamente sul movimento di protesta, e di fronte al mio silenzio mi hanno messo una canna di pistola in bocca: “Un solo proiettile e sei finito, gli anni di piombo [gli anni della repressione sotto il re Hassan II, ndr] non sono ancora finiti” - scrive nella sua “Lettera sulla tortura” dal carcere di Taza, riportata dal giornale francese Humanitè. Offerta di borsa di studio permanente, visita del procuratore in persona per chiedere la fine dello sciopero della fame in cambio del ripudio del movimento di protesta e di un posto fisso. Ma dall’ospedale in cui è ricoverato in condizioni critiche, alimentato forzatamente con flebo, Ezzedine fa sapere che non si fermerà “fino al soddisfacimento delle nostre rivendicazioni di studenti e alla liberazione di tutti i prigionieri politici”. Dal carcere di Ain Kaddous gli fanno eco quattro studenti dell’Università di Fez - Mohamed Ghaloud, Mohamed Fetal, Mohaled Zeghdidi, Ibrahim Saîdi: in carcere perché attivi nel Movimento di contestazione del 20 Febbraio, sono entrati in sciopero della fame il 23 gennaio, chiedendo un miglioramento delle loro condizioni di detenzione, la fine delle torture fisiche e psichiche, il diritto a ricevere visite e libri. Dopo i ripetuti appelli dell’Associazione marocchina per i Diritti dell’Uomo (Amdh), vicina al partito socialista Usfp, un collettivo di 17 Ong chiede ora l’intervento di Abdelilah Benkirane, eletto a capo del Partito islamista di Giustizia e Sviluppo (Pjd) nelle elezioni dello scorso novembre. Obiettivo: allarmare il governo sulle possibili tragiche consequenze di uno sciopero che va avanti da mesi. Per ora, Benkirane tace. Riportando al centro dell’attenzione il ruolo del Movimento 20 Febbraio nel nuovo paesaggio politico. E lasciando intuire che in quanto a repressione, non ci saranno tante novità rispetto ai governi precedenti. La “sicurezza nazionale” rimane in mano al Makhzen, il cordone di partiti cooptati o creati a puntino dalla monarchia chérifienne di Mohammed VI. Il partito PJD è stato parte del movimento di protesta del 20 febbraio, ed ha saputo trarne leggittimità sufficiente da diventare partito di maggioranza. “Il nostro partito ha vinto le elezioni in parte proprio grazie al Movimento del 20 febbraio (M20)” - viene riportato il portavoce del Comitato di pianificazione urbana del partito PJD sul portale marocchino Mamfakinch - “e resta convinto che la pressione della strada sia necessaria per il cambiamento”. Ma il futuro e l’incisività del Movimento 20 febbraio sembra dipendere proprio dalla capacità di costituirsi come alternativa progressista distante dai partiti dell’establishment. Intanto, il partito islamico Giustizia e Benevolenza (Al Adl wa al Ihsan) del defunto sceicco Yassine ha annunciato di abbandonare il Movimento. Secondo l’analista del magazine progressista Tel Quel Karim Boukhari, è una buona notizia per “un riposizionamento più a sinistra e più progressista del M20. In un Paese che appena votato islamista, l’M20 ha la possibilità di diventare un rifugio, un alternativa”. Ucraina: ombudsman su visita alla Timoshenko “ho visto i lividi” Ansa, 26 aprile 2012 Il commissario ucraino per i diritti umani, Nina Karpachova, sostiene di aver visto con i propri occhi i lividi sul corpo di Iulia Timoshenko, che confermerebbero l’aggressione in carcere denunciata due giorni fa dalla leader dell’opposizione. Lo rende noto la stessa Karpachova, citata dall’agenzia Interfax. Secondo Karpachova l’ex premier ha lividi “sul lato destro dello stomaco, sulle braccia, sulle spalle e sul gomito”. “La Timoshenko - ha aggiunto l’ombudsman - mi ha raccontato personalmente ogni dettaglio dell’aggressione, che è stata terribile: la Convenzione europea sui diritti umani è stata violata”. L’ex premier ha raccontato che nella notte tra il 20 e il 21 aprile, per portarla in ospedale contro la sua volontà, “tre uomini robusti si sono avvicinati” al suo letto, le “hanno gettato un lenzuolo di sopra” e “hanno cominciato” a strattonarla per tirarla giù. “Mi sono difesa come ho potuto - spiega - e ho ricevuto un pugno violento allo stomaco”. Ue “profondamente preoccupata” da situazione Tymoshenko L’Unione europea è “profondamente preoccupata” dalla situazione in cui si trova Yulia Tymoshenko, l’ex premier ucraina che ha avviato uno sciopero della fame in carcere, per protestare contro “la repressione politica” e i maltrattamenti subiti. La preoccupazione europea è stata ribadita oggi dal capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton. Ashton ha chiesto alle autorità ucraine di permettere all’ambasciatore Ue a Kiev di vedere Tymoshenko, accompagnato da medici specializzati indipendenti, informa un comunicato. Ed ha ricordato all’Ucraina l’obbligo di esaminare “immediatamente e in modo imparziale tutti i reclami che riguardino casi di tortura o altre forme di trattamento crudele, disumano o degradante”. Il capo della diplomazia europea ha anche chiesto di garantire il rispetto del diritti dell’ex premier a un’assistenza medica “adeguata e presso istituzioni appropriate”, oltre al diritti di poter vedere i propri legali “senza restrizioni”. In carcere da agosto 2011, l’ex eroina della rivoluzione filo - occidentale del 2004 è stata condannata lo scorso ottobre a sette anni di prigione per abuso d’ufficio. Il caso ha creato forti tensioni con l’Ue e rallentato il processo di integrazione di Kiev.