Giustizia: la marcia del 25 aprile, una liberazione dai mali che ci somministra lo Stato di Renato Farina Tempi, 20 aprile 2012 L’amnistia non affranca ì criminali dalla necessità di pagare per le loro colpe, è il modo di non commettere noi un crimine continuato e impunito che è oggi la vita nelle nostre prigioni. L’ ultima volta che, travestito da deputato, il sottoscritto Boris Godunov è entrato nel carcere di Monza, mentre salutava una signora latinoamericana che gli ha offerto un pezzetto di cioccolato dell’uovo di Pasqua, si è sentito dire: “Che cosa accade il 25 aprile? C’è la liberazione?”. Ci ho messo cinque lunghi secondi a capire. Un equivoco bello e tremendo. La marcia promossa da Pannella, di cui altrove si parla su Tempi, non è solo per l’amnistia, ma è nella speranza di rendere possibile qualcosa che somiglia a una liberazione: dal male, dall’ingiustizia, dalla cattiveria. In particolare quelle somministrate dallo Stato e che si chiamano giustizia e carcere. Il mio avatar che sta in Parlamento è uno dei pochi deputati (dodici circa) che ha votato un ordine del giorno favorevole all’amnistia. Tutte le volte che ne faccio cenno su Facebook ci sono alcune persone che mi stringono al collo e mi baciano. Altre che meno benevole mi strozzano e maledicono, sostenendo che desidero premiare il male. Balle. L’amnistia non è un modo per affrancare i criminali dalla necessità di pagare per le loro colpe, ma la maniera di non commettere noi stessi un crimine continuato e impunito che è oggi la vita di gran parte dei detenuti nelle nostre prigioni. Le quali sono macchine di tortura, allevamento di piante carnivore. Se tu ora mi stai leggendo, credo sia perché da un bel po’ segui il mio girovagare da Diavolo della Tasmania poi trasmutato in Boris Godunov, o persino da prima. Magari - forse a torto - ti fidi. Ecco: fidati, fidatevi. Le carceri italiane sono troppo piene. Non c’è lavoro o quasi lì dentro, che è l’unica cosa che consente una strada di redenzione e poi l’integrazione. Le strutture sono vecchie. È resa difficile e talvolta impossibile da un sovraffollamento da acciughe sotto sale la comunicazione tra il mondo degli uomini e quella tribù segregata. Anche gli agenti stanno da cani. Non è che questa situazione sia una anomalia. È una conseguenza perfetta (cioè orribile) del nostro sistema della giustizia, basato sulla carcerazione preventiva, intesa come maniera per indurre la gente a parlare. E questa giustizia si integra benissimo con la fabbrica dell’informazione che aggiunge alla pena preventiva la demolizione della reputazione della gente. L’amnistia che cosa c’entra con queste osservazioni? È un rimedio? Intanto impedirebbe il perpetrarsi di una illegalità di Stato. Ci sono regolamenti sanitari e di sicurezza cavillosissimi per quanto riguarda le toilette dei bar, se no li chiudono. Persino i pollai hanno regole di sovraffollamento inderogabili per i pennuti, se no giustamente li si chiude e si sbattono gli schiavisti in galera, dove staranno più stretti delle loro galline ovaiole. Ma lì la Asl non interviene, anzi manda il meno possibile i suoi medici a curare i detenuti. Ma non è solo questo! “Io credo nella potenza spirituale dei segni”, disse una volta papa Wojtyla a Lione, nel 1986. Un segno come l’amnistia sarebbe un’occasione strepitosa per un nuovo inizio di questa Italia. Propongo una scoperta fatta leggendo la storica Marta Sordi. Trasibulo restaura la democrazia ad Atene due volte: nel 411 a. C. dopo un colpo di Stato e nel 403 dopo la tirannide. Nello spirito dei Misteri Eleusini indice un’amnistia, cioè “l’impegno a non vendicarsi (a “non ricordare il male”)”. Non è un premio ai cattivi, né il cedimento a un diritto di manica larga: è l’intimità stessa della democrazia ad affermarsi, la sua essenza religiosa (e qui siamo a Tocqueville e all’America, ma soprattutto al discorso di don Luigi Giussani ad Assago) ad avere a che fare con questa clemenza. Giustizia: Pannella (Radicali); l’amnistia è necessaria per garantire diritti umani in Italia Ansa, 20 aprile 2012 “Quella delle carceri italiane non è che l’appendice dell’atroce situazione della giustizia e noi siamo condannati a livello europeo da 30 anni per la situazione delle nostre carceri”. Lo ha detto il presidente del Partito radicale, Marco Pannella, a margine del convegno organizzato dal Comune di Enna, in collaborazione con l’università Kore e con l’Associazione culturale “Pompeo Colajanni”, sotto il patrocinio dell’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti e del Senato, dal titolo “Carceri, carcerati e carcerieri tra sovraffollamento e amnistia”. “Il Consiglio d’Europa - ha aggiunto Pannella - in una valutazione di 6 anni fa dice che un terzo del popolo italiano soffre di questa situazione legata alla giustizia. L’amnistia è l’unico strumento che può interrompere la flagranza di un reato contro i diritti umani. Questo è il terzo motivo per cui il mercato internazionale non investe in Italia. Noi siamo al 150° posto su 183 per quel che riguarda gli investimenti del mercato internazionale. Questo lo ha dichiarato anche il presidente Monti, ma non mi pare che sia successo nulla”. Giustizia: Schifani (Pdl); l’emergenza carceri sia in agenda di questa maggioranza Asca, 20 aprile 2012 “Occorre che il tema dell’emergenza carceraria sia messa all’interno dell’agenda della politica italiana, di questa maggioranza e di questo governo. Nessuno ha la bacchetta magica, ma occorre iniziare un percorso, interrogandosi su procedure e scelte da adottare”. Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani, incontrando i responsabili del carcere minorile Malaspina di Palermo. L’occasione, l’inaugurazione da parte del presidente del Senato, del “Torneo della solidarietà” di calcetto con sei squadre, di cui due formate dai ragazzi dello stesso istituto rieducativo e che si svolgerà nelle strutture sportive del Malaspina. “Dobbiamo interrogarci sulla questione del sovraffollamento e dobbiamo trovare una sintesi tra politica e istituzioni per risolvere gradualmente questo problema - ha aggiunto Schifani. Se il tasso di civiltà si dovesse misurare sulla qualità media dei detenuti il nostro non si potrebbe definire un Paese civile. Purtroppo devo dire con amarezza che spesso l’attuazione della pena come funzione rieducativa non trova attuazione presso il regime della carcerazione ordinaria. La situazione delle nostre carceri è drammatica. - ha concluso Schifani - Non mi stancherò mai di denunziarlo. Coinvolge la coscienza, l’impegno è il senso civico istituzionale di tutti”. Giustizia: Dap; la detenzione domiciliare è un successo, meno dell’1% di fallimenti Adnkronos, 20 aprile 2012 Il capo del Dap, Giovanni Tamburino, è intervenuto in un convegno in cui ha dichiarato che la detenzione domiciliare è un successo che è visibile nelle statistiche e in cui emerge che gli insuccessi sono più bassi dell’1%. “Sulla base delle statistiche i casi di insuccesso della detenzione domiciliare sono inferiori all1’1 per cento”. È il dato riferito dal capo del dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, intervenuto a un convegno sul sovraffollamento delle carceri organizzato dalla sezione romana dell’Anm. Per questo, ha osservato Tamburino riferendosi alle norme previste nel decreto del ministro della giustizia, Paola Severino, il periodo di fine pena che i detenuti possono trascorrere in detenzione domiciliare è stato opportunamente esteso da 12 a 18 mesi. Nonostante questo, ha poi sottolineato il capo del Dap, e nonostante ci sia “un’ampia discrezionalità della magistratura di sorveglianza” l’applicazione delle misure alternative si scontra con “una serie di rigidità” che di fatto ne impediscono l’applicazione. Per cui “su 100 casi che in teoria potrebbero beneficiare dei domiciliari la concessione avviene per 44”. Quanto a un altro aspetto che incide sul sovraffollamento, la custodia cautelare, Tamburino ha osservato che il sistema “non è in sé tale da comportare eccessi”, il problema è “nella durata, ed è lì che lo standard italiano si distanzia da quello di altri Paesi europei”. E la durata “è strettamente connessa alla durata dei processi, anche in ambito penale”. Questo, ha sollecitato Tamburino, “è un settore in cui intervenire”. La depenalizzazione poi, “periodicamente rilanciata” come possibile intervento deflattivo, “riguarda reati di modesta gravità che non comportano la detenzione”. Giustizia: Di Giovan Paolo (Pd); contro sovraffollamento, meno tossicodipendenti in carcere Agenparl, 20 aprile 2012 “Ci sono migliaia di detenuti tossicodipendenti in carcere, evitando il loro ingresso nei penitenziari si contribuisce a diminuire l’affollamento degli istituti di pena”. Lo ha affermato il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria al convegno “Carceri, carcerati e carcerieri tra sovraffollamento e amnistia” in corso a Enna. “La carenza dei fondi significa pochi soldi come budget per gli inserimenti in comunità, pagamenti in ritardo per le comunità - continua Di Giovan Paolo - Sembrerebbe che sempre di più il budget a disposizione dei Sert faccia la differenza tra gli ingressi in comunità e non. Più in generale bisognerebbe dare un vero impulso alla riforma della sanità penitenziaria, ad oggi applicata ancora a macchia di leopardo”. Giustizia: Radicali; l’Agcom richiama la Rai per mancanza di informazione sulle carceri Agenparl, 20 aprile 2012 L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha nuovamente richiamato la Rai per non aver fornito agli italiani adeguata informazione e approfondimento sul tema delle condizioni carcerarie e della giustizia. È la quarta volta in meno di un anno che la condotta della Rai viene censurata per gli stessi motivi dall’Agcom: la prima volta il 20 luglio 2011, la seconda il 29 dicembre 2011, la terza il 21 febbraio 2012. Alla Concessionaria di servizio pubblico viene contestata l’inottemperanza all’obbligo di informare rispetto a un tema definito dall’Autorità di “rilevante interesse politico e sociale”. In particolare l’Agcom chiede alla Rai di “incrementare nei telegiornali e nei programmi di approfondimento l’informazione relativa alle iniziative intraprese dai Radicali e dal loro leader Marco Pannella”, anche alla luce dell’imminente “II Marcia per l’amnistia del 25 aprile”. Nel provvedimento notificato alla Rai, l’Agcom sottolinea l’importanza che il tema venga trattato nei programmi di approfondimento, che “costituiscono la sede più idonea per l’esposizione di iniziative che richiedono un adeguato tempo di trattazione all’esiguità del tempo che contraddistingue le notizie sui telegiornali”. Non dei programmi di approfondimento qualsiasi, bensì quelli che “per congrua durata e orario di programmazione, risultano maggiormente idonei a concorrere adeguatamente alla formazione di un’opinione pubblica consapevole”. Programmi di grande ascolto come Ballarò e Che tempo che fa, ad esempio, non hanno mai trattato il tema, oltre a non aver mai avuto ospiti esponenti Radicali. Giustizia: progetto “Soft- Sex Offenders Full Treatment”, per 400 detenuti autori reati sessuali Il Velino, 16 aprile 2012 I casi di recidiva potrebbero ridursi dal 17% al 3,2%. Coinvolti 400 detenuti in tutta Italia. Con i più recenti programmi di trattamento applicati ai detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, i casi di recidiva potrebbero ridursi dal 17% al 3,2%. I dati sono emersi nel corso della presentazione del progetto “Soft- Sex Offenders Full Treatment”, che per la prima volta applicherà, su scala nazionale, un innovativo modello teoretico per il trattamento dei detenuti autori di reati sessuali elaborato dal Centro di Rockwood, in Ontario. L’iniziativa ha come capofila il Garante dei detenuti del Lazio e coinvolge i provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Campania, Lombardia e Marche; la seconda municipalità di Napoli; i centri per la promozione della mediazione (Cipm) di Milano e Napoli; l’Università La Sapienza di Roma e l’Università di Liegi (Belgio). È di durata biennale, interesserà otto carceri e oltre 400 detenuti e nasce dalla necessità di differenziare il percorso detentivo dei responsabili di reati sessuali sulla base della specificità del reato e della personalità degli autori, con lo scopo di ridurre la recidiva. Secondo la casistica internazionale, la recidiva per i reati sessuali su detenuti non trattati è del 17,3% a quattro anni, del 17,5% a cinque anni e del 20-30% a dieci anni. La percezione pubblica del rischio di ricaduta, complice anche l’impatto mediatico che questi casi hanno, è però molto più alta (62%). Quello delle violenze sessuali è un tema di grande attualità di cui manca - anche su scala europea - una statistica in grado di rilevare la portata. In Italia, secondo l’Istat (2005), si stima che oltre un milione di donne, tra i 16 e i 70 anni, abbiano subito violenza sessuale; un dato che non tiene conto dell’alta percentuale di quante non denunciano la violenza. Per lo stesso reato, nello stesso periodo, sono stati celebrati oltre quattromila processi. Lo stesso fenomeno di sottostima riguarda la pedofilia; si calcola che ne sia vittime l’11% dei minori, per oltre il 70% dei quali l’abuso avviene fra le mura domestiche. “Oggi chi si trova in carcere per aver commesso reati sessuali - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - sconta la pena in un clima di isolamento e di emarginazione. La mancanza di interventi psicologici o educativi mirati rende queste persone dei “detenuti ibernati”, secondo la definizione data da autorevoli studiosi che, al termine della pena, sono ancor più a rischio in quanto la solitudine fisica ed emotiva permette l’instaurarsi di un circolo vizioso in cui disagio, rancori e violenze fisiche e verbali contribuiscono ad aggravare situazioni difficili che spesso sfociano in gravi patologie. Questa condizione, inoltre, favorisce dei meccanismi difensivi di negazione e minimizzazione del reato che, come dimostrato in letteratura, impediscono una presa di coscienza critica di quanto fatto e agevolano la recidiva”. “Abbiamo riflettuto a lungo su tutte le possibili implicazioni - ha detto il provveditore regionale del Lazio Maria Claudia Di Paolo - ma poi abbiamo aderito senza riserve al progetto, che è un atto di grande civiltà giuridica ed è in linea con i principi di recupero della dignità delle persone detenute più volte richiamati in questi ultimi mesi”. Il rischio di recidiva non è uguale per tutti: i soggetti a basso rischio hanno una probabilità di ricaduta pari a meno di un decimo di quelli ad alto rischio (2% contro il 29,4% a quattro anni). I trattamenti incidono molto sulla recidiva. Quello più diffuso a livello internazionale (Relapse Prevention) riduce della metà i reati (dal 17,8% al 9,9%). I protocolli più attenti alla relazione terapeutica tra operatori ed utenti, come quello del Centro di Rockwood (Ontario), ottengono risultati ancora migliori (3,2% di recidive). Il progetto Soft si colloca nell’ottica della prevenzione più che della riparazione del danno causato dall’aggressione sessuale ed investe diversi ambiti. Il trattamento dei sex offenders risponde ad una logica di riduzione dei costi sociali. Il programma mira al rafforzamento dei fattori protettivi rispetto al rischio di recidiva, al recupero di una adeguata autostima e di migliori capacità relazionali. Spesso, infatti, il comportamento aggressivo non è legato solo ad aspetti compulsivi ma a problemi di personalità con caratteri comuni come deficit relazionali, distorsioni cognitive, difficoltà nel gestire le emozioni. Gli interventi - finalizzati alla tutela dell’individuo e della collettività - sono realizzati da un’equipe. La presenza di uno psichiatra garantisce la possibilità di un supporto farmacologico mirato (se necessario) e favorisce il contatto con i servizi psichiatrici del territorio (Cim, comunità alloggio). La particolarità del metodo è la presa in carico trattamentale sia in carcere sia sul territorio, per i soggetti in affidamento all’Uepe o per chi ha finito la pena ma sente la necessità di continuare il percorso, attraverso il presidio criminologico esterno appositamente attivato. Il progetto Soft coinvolge 400 soggetti di diverse nazionalità, età, cultura e classe sociale e si svilupperà in cinque diversi momenti: a) Formazione degli operatori (durata 3 mesi); b) Realizzazione di un Programma pre-trattamentale (17 mesi), da realizzarsi nei reparti precauzionali delle carceri del Lazio (Rebibbia N.C. e Cassino), della Campania (Secondigliano e Poggioreale), della Lombardia (Bollate, Opera e San Vittore) e delle Marche (Pesaro), mirato alla motivazione al trattamento intensificato, al rafforzamento dell’autostima, allo sviluppo di migliori capacità sociali. I destinatari sono tutti i detenuti per reati sessuali; c) Realizzazione di una Unità di trattamento intensificato (durata 24 mesi) per aggressori sessuali condannati in via definitiva, mirato al contenimento degli impulsi sessuali devianti ed alla riduzione delle condotte lesive, da realizzarsi negli Istituti Penitenziari citati; d) Controllo di qualità dell’intervento (10 mesi); e) Diffusione dei risultati (9 mesi). Giustizia: nelle carceri mancano migliaia di agenti, ma il ministero indice concorsi per calciatori di Francesco Borgonovo Libero, 20 aprile 2012 Finché la Polizia penitenziaria assume poliziotti, tutto normale. I problemi cominciano quando le Fiamme azzurre si mettono a prendere terzini. E pure centrocampisti e attaccanti, tutti pagati con i soldi dei contribuenti. La storia l’ha raccontata, in un servizio per “Le Iene”, il bravo Paolo Calabresi, il quale ha indagato sull’A.S. “Astrea Calcio”, squadra di Roma fondata nel 1948 che milita nel campionato di serie D, girone G. Nata come passatempo per i dipendenti del ministero di Grazia e Giustizia, nel 1990 ha ottenuto a norma di legge l’autorizzazione a partecipare al campionato di serie C2, dove ha disputato sei stagioni. Poi la situazione è peggiorata e qualche anno fa la compagine con maglia bianca e azzurra si è trovata in difficoltà. Viaggiava sul fondo della classifica della serie D, rischiava la retrocessione. Un rinforzo si rendeva necessario. Ed ecco la brillante idea: nel 2010 è stato bandito dal ministero della Giustizia un primo concorso per cinque posti da calciatore. Il 16 novembre del 2011, altro concorso per sette posti in squadra disponibili. Si cercavano ragazzi tra i 18 e i 28 anni che se la cavassero con i piedi. Per ottenere punti nel concorso, più che un titolo di studio, contava la competenza sul campo di gioco. Per dire: possedere una laurea valeva un punto; con un master si guadagnavano 0,5 punti. La militanza in serie C, invece, garantiva 8 punti. Per la serie B se ne prendevano 12 e l’aver militato in serie A ne garantiva addirittura 20 (25 se si era indossata anche la maglia della Nazionale). Detto, fatto. Tra i vincitori si segnalano due ex giocatori di C, uno di B e uno che ha militato nella Lazio. In effetti, gli innesti sono serviti: adesso il posizionamento in classifica è decisamente migliore. Va notato un particolare, tuttavia. I signori in questione ottengono un bel contratto a tempo indeterminato con il ministero. E, una volta conclusa la carriera sportiva, saranno riciclati in qualche ufficio. Le Iene hanno strappato anche qualche informazione in più, grazie a un colloquio con uno dei giocatori ripreso da una telecamera nascosta. I componenti della squadra guadagnano dai 1.300 ai 1.800-1.900 euro al mese, a seconda del grado. Dopo tutto, sono dipendenti della Polizia penitenziaria. Sapete in che cosa consiste il loro impegno? Lo spiega il ragazzo sentito da Calabresi e dai suoi colleghi: “Io lavoro praticamente due ore al giorno. Il tempo degli allenamenti e basta”. Poi ci sono le partite, e le trasferte. Quando si spostano, i baldi giovani dell’Astrea intascano anche qualche soldino in più, poiché lo spostamento è considerato come una “missione”. Tutti i costi, ovviamente, sono a carico dei contribuenti. Dunque gli aerei per recarsi in Sardegna a giocare contro il Porto Torres; gli alberghi per calciatori e dirigenti; i pullman della Polizia penitenziaria che trasportano il team... Anche perché, dipendendo dal ministero, i biancoazzurri non si danno troppa pena a cercare sponsor. Come hanno documentato Le Iene, non solo sulle maglie non hanno nessun logo, ma il loro stadio (il Casal del Marmo), non esibisce nemmeno un cartellone pubblicitario. Quanto agli incassi tramite vendita di biglietti, immaginiamo che non siano granché: in una delle partite più importanti, quella contro la capolista Salerno, secondo Paolo Calabresi c’erano “una cinquantina di persone”. Mantenere una squadra di serie D costa più o meno tra i 300mila e i 500mila euro all’anno. Può anche darsi che l’Astrea spenda meno, anche perché gli stipendi non sono poi elevatissimi, ma non si capisce perché dovremmo pagarla noi. Tra l’altro, grazie al concorso pubblico, sono state assunte a tempo indeterminato persone che finiranno a ricoprire incarichi per cui probabilmente non hanno alcuna competenza. Forse le carceri italiane, perennemente in situazione d’emergenza, meritano qualche secondino in più e qualche sportivo in meno. Specie se lo sportivo gode di stipendio fisso per lavorare due ore al giorno e ha la pensione assicurata. L’inviato delle Iene ha chiesto spiegazioni a un dirigente della società, il quale prima ha bofonchiato qualche giustificazione esibendo lo statuto dell’Astrea, poi ha concluso: “Se c’è una legge che consente questo”. Sacrosanto. Peccato che anche il ministero della Giustizia guidato da Paola Severino abbia preferito non fornire risposte al cronista del programma Mediaset. Su internet c’è chi ha lanciato una petizione per chiedere che non vengano più pubblicati bandi di concorso di tal genere. Intanto però, c’era bisogno di agenti per le carceri e noi ci siamo portati a casa qualche terzino. Buono al massimo per vivacizzare un po’ gli incontri amichevoli fra guardie e carcerati. Interrogazione parlamentare in arrivo L’inchiesta delle Iene sull’Astrea calcio, ramo della Polizia Penitenziaria, ha determinato un’interrogazione parlamentare presentata dal Ministro di Giustizia Severino. L’indagine deve verificare in che termini siano stati effettuati degli illeciti nei confronti di tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria. Dopo l’inchiesta delle “Iene” andata in onda lo scorso mese, arriva ora un’interrogazione parlamentare sull’Astrea calcio, la squadra dilettantistica della Polizia Penitenziaria che gioca in serie D. L’ha presentata al Ministro della Giustizia, Paola Severino, il deputato democratico Roberto Morassut. Nel settembre 2010 e nel novembre 2011 vengono banditi due concorsi pubblici per assumere atleti che militino nell’Astrea. Morassut chiede al Ministro di verificare i requisiti nei vincitori dei due concorsi banditi. Requisito indispensabile infatti, secondo il decreto di riferimento, era “l’avvenuto riconoscimento da parte del Comitato Olimpico nazionale o delle Federazioni sportive nazionali, che il candidato sia atleta di interesse nazionale e che abbia fatto parte, nel biennio precedente alla data di pubblicazione del bando che indice il concorso, di rappresentative nazionali in una delle discipline previste dallo statuto del Coni”. Il deputato del Pd chiede anche “se non ritenga inopportuno che l’Astrea Calcio utilizzi mezzi e risorse economiche del Corpo di Polizia Penitenziaria in un momento di crisi che investe i cittadini e le forze armate, che negli anni hanno subito consistenti tagli e versano spesso in situazioni di emergenza e di impossibilità a svolgere le loro funzioni”. Le spese di trasferta dell’Astrea Calcio, comprendenti spostamento, vitto e alloggio, erano infatti totalmente a carico del Corpo di Polizia Penitenziaria, compreso un pullman di servizio. Giustizia: Dap; calciatori dell'Astrea assunti con regolare concorso per atleti Forze dell’Ordine Agenparl, 20 aprile 2012 Calciatori semiprofessionisti arruolati come guardie penitenziarie? Nessuna irregolarità. Sono stati reclutati con regolari concorsi pubblici nel 2010 e nel 2011; c’è stato un giro di vite sulle spese di gestione relative all’anno in corso e, per il futuro, è previsto il ricorso a sponsor. Il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) replica così al servizio trasmesso dalle Iene e riportato oggi dal quotidiano Libero secondo il quale il ministero della Giustizia, che controlla una squadra di calcio di serie D, la romana Astrea, per dare una spinta vigorosa alla squadra avrebbe arruolato giocatori di categoria, semiprofessionisti, a tempo indeterminato, con la qualifica di agenti penitenziari. Su richiesta del ministro della Giustizia, Paola Severino, il Capo del Dap ha già disposto approfondimenti sul caso. Premettendo che così come altre forze armate e di polizia, anche la Polizia Penitenziaria è dotata di una squadra sportiva e che le procedure di selezione del personale sportivo sono disciplinate dalla legge (Dpr n. 132/2002), il Dipartimento precisa che per la Astrea Calcio il reclutamento del personale (12 unità) è avvenuto attraverso due regolari concorsi pubblici (uno nel settembre 2010 e l’altro nel novembre 2011). In ogni caso, sempre su richiesta del ministro, è stata avviata una verifica dei costi dalla quale è emerso che le spese di gestione relative all’anno in corso sono già state dimezzate rispetto al precedente. E il Dap si impegna a proseguire nella politica del contenimento dei costi, con l’obiettivo del loro totale abbattimento anche attraverso il ricorso a sponsorizzazioni. Giustizia: intervista a don Fabio Fabbri; Stato e mafia… “Scalfaro intervenne sulle carceri” Panorama, 20 aprile 2012 I sorprendenti ricordi di un cappellano di San Vittore che partecipò anche alle trattative con le Br per Moro. Il direttore generale degli istituti di pena era un personaggio poco malleabile, E silurato lui… Ma lo levò lui da lì! E poi è venuto a dire di avere saputo la notizia dai giornali... Scalfaro ha mentito, fu lui a volere la testa di Nicolò Amato. La ricostruzione che avete pubblicato voi di Panorama sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia è precisa al millimetro”. Era fine primavera 1993, quando don Fabio Fabbri salì al Quirinale insieme a Cesare Curioni, all’epoca ispettore generale dei cappellani delle carceri. Fu proprio quel giorno die un presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, disse che non voleva più tra i piedi un personaggio scomodo come il direttore generale degli istituti di pena, Amato, e chiese ai due cappellani di indicare al ministro della Giustizia Giovanni Conso il nome di un sostituto più malleabile, Era il segnale atteso dai boss mafiosi? La disponibilità dello Stato ad abolire il regime carcerario duro? Tutti smentiscono, ma pochi giorni dopo Amato venne rimosso e sostituito con Alberto Capriotti, l’articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario fu revocato e Cosa nostra pose fine alla stagione delle bombe. Monsignor Fabbri, racconti di quell’incontro al Quirinale… Io c’ero perché ero il vice di don Cesare, ero al suo fianco da quasi 30 anni. Quell’incontro l’avevamo chiesto noi per discutere la sistemazione logistica dei nostri uffici. E perché discutere con Scalfaro un problema di stretta competenza del ministero della Giustizia? Beh, sa... don Cesare e Scalfaro erano molto amici, si conoscevano dal 1945. Parlaste anche del 41 bis? No. Ma la posizione dei cappellani carcerari sul 41 bis era nota: eravamo contrari perché aveva contribuito a peggiorare le condizioni dei detenuti. Eravamo vicini a loro ogni giorno, ascoltavamo i loro problemi, spesso li aiutavamo anche economicamente. Il rapporto fra noi e loro era, come dire?, tutto un chiedere e tutto un dare. E come fu, allora, che si parlò di Nicolò Amato? Fu Scalfaro a porre subito il problema. Disse che era finito il tempo di Amato e che andava sostituito. “Ho tre nomi nel cassetto, ma nessuno di loro prenderà il posto di Amato finché sarò io presidente: aiutate voi il ministro Conso a trovare un sostituto”. Ci disse proprio così. Perché era finito il tempo di Amato? Non ce lo spiegò. Ma cominciò a urlare dicendo che Amato era “troppo esuberante”, “troppo protagonista”, una “primadonna”. E poi venne fuori che, quando Scalfaro non era ancora presidente della Repubblica, aveva dovuto fare una lunga anticamera per parlare al telefono con lui. A voi sembrò un motivo credibile? Mah, che vuole che le dica? Comunque facemmo come ci aveva chiesto e suggerimmo a Conso il nome di Capriotti. Perché proprio Capriotti? In quel momento ci sembrava la persona giusta. Era procuratore a Trento, aveva già lavorato al Dipartimento amministrazione della giustizia. E poi era un cattolico, il che non guastava. Quindi molto più sensibile alle istanze dei detenuti e di voi cappellani? Non che Amato non lo fosse, anzi, con lui avevamo lavorato benissimo. Ma, visto die Scalfaro non lo voleva, e anche Conso voleva sostituirlo, un cattolico come Capriotti, non del tutto convinto della bontà del 41 bis, ci sembrava proprio la persona giusta: in passato era stato disponibile con noi, molto disponibile. Monsignor Fabbri, perché Scalfaro chiese proprio a don Cesare e a lei di aiutare Conso a risolvere quel problema? Le ho già detto dell’amicizia tra Scalfaro e don Cesare. Il presidente sapeva che avevamo una conoscenza profonda del mondo carcerario e che in passato avevamo già aiutato la Chiesa e lo Stato. Nel 1978 don Curioni e io trattammo con le Brigate rosse per ottenere la liberazione di Aldo Moro. Chi vi chiese di trattare con le Br? Paolo VI. La mattina del 16 marzo, poco dopo che Moro venne rapito, ricevemmo una telefonata dal segretario del Papa, monsignor Pasquale Macchi, In Vaticano avevano capito subito che attraverso la malavita si poteva trovare un contatto con le Brigate rosse. E infatti ci riuscimmo. Attraverso l’avvocato Giannino Guiso avevamo un canale aperto sia con i brigatisti in carcere sia con quelli all’esterno. Trattammo per quasi tutti i 55 giorni del sequestro. Ed eravamo quasi riusciti a raggiungere lo scopo. Che cosa volevano le Br in cambio della liberazione di Moro? Il Papa aveva pronti in dollari l’equivalente di 10 miliardi di lire. Don Cesare e io andammo a trovarlo nella sua residenza dì Castelgandolfo. A un certo punto sollevò un drappo blu da una console e ci mostrò il denaro. Ma voleva la prova che Moro fosse vivo. Ci arrivò una foto, tuttavia il Papa voleva una prova certa. E allora le Br ci fecero avere una seconda foto (quella divenuta poi tristemente famosa) di Moro con una copia del quotidiano La Repubblica. Sarebbero bastati quei 10 miliardi? L’obiettivo principale delle Br era ottenere un qualche riconoscimento. E il solo fatto che il Vaticano trattasse con loro lo ritenevano molto importante. Ma il Papa si spinse oltre, con quel famoso appello indirizzato “agli uomini delle Brigate rosse”. Ero presente quando telefonò a don Cesare per leggergli il testo, prima di renderlo pubblico. E don Cesare lo consigliò: “Padre santo, io toglierei questa parola... Padre santo, quell’altra parola la sostituirei con questa...”. Quello era il segnale che le Br si aspettavano? Sì, l’appello del Papa era per loro un grande riconoscimento. Poi però finì come sappiamo. E ancora oggi non ho capito perché i brigatisti decisero di uccidere Moro quando ormai eravamo vicini a un accordo per la sua liberazione. Bisognerebbe capire quali dinamiche si aprirono all’interno dell’organizzazione terroristica. Dunque, tutto questo Scalfaro lo sapeva? Sì, lo sapeva. Sapeva quanto era importante e potente don Cesare. Era stato anche presidente della Commissione internazionale dei cappellani generali del mondo, la cui sede era a Parigi. Era un canale attraverso il quale passava la diplomazia segreta del Vaticano per le operazioni più delicate, E io ero con lui anche in missioni particolarmente sensibili, come quelle in Polonia, a Cuba e in Ruanda, solo per farle alcuni esempi. Don Cesare era uno che parlava tranquillamente con i grandi della Terra. Chi meglio di lui, quindi, poteva risolvere il problema con Cosa nostra: un problema italiano ma, a ben vedere, anche con molte implicazioni internazionali... Giustizia: ucciso durante l’arresto, sotto accusa 4 agenti di Sandro De Riccardis La Repubblica, 20 aprile 2012 Milano, chiuse le indagini sulla morte di Ferrulli. Il pm: fu un omicidio colposo. In un video ripreso da una passante il pestaggio dell’uomo mentre era già a terra. Era già immobilizzato a terra e non poteva più reagire, Michele Ferrulli. Anzi, riverso sull’asfalto di via Varsavia, periferia est di Milano, invocava aiuto mentre i poliziotti continuavano a colpirlo, finché il suo cuore non ha ceduto. Ora, dopo quasi un anno d’indagine, il pm Gaetano Ruta ha notificato ai quattro poliziotti intervenuti la notte dello scorso 30 giugno, l’avviso di chiusura delle indagini per la morte dell’uomo, 51enne, facchino con qualche piccolo precedente penale. Ora i quattro - tra i 30 e i 34 anni, in servizio al commissariato Mecenate - dovranno rispondere di omicidio colposo e falso ideologico. Perché non solo “con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell’ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, cagionavano la morte dell’uomo”, ma “attestavano il falso” nella relazione di servizio. In quella via di periferia le volanti erano arrivate dopo la chiamata di un residente che lamentava grida e schiamazzi. I quattro agenti scrivono di essersi trovati di fronte a tre uomini, Ferrulli e i suoi due amici romeni, “alterati, palesemente ubriachi, ancora intenti a bere”. Ferrulli, scrivono, “assume un atteggiamento ostile” con “insulti e minacce”, “cercando in più occasioni di ridurre la distanza di sicurezza con gli operatori”. Poi, “improvvisamente e senza apparente giustificazione cerca di colpire alle spalle” un poliziotto, ne nasce una colluttazione, finché “la perdita di equilibrio di tutto il gruppo fa cadere rovinosamente a terra Ferrulli e tutti gli agenti”. Nel verbale, non si parla di colpi sul corpo “prono a terra”. Si è cercato, assicurano i poliziotti, una volta “assicurato, di riportarlo in una posizione più comoda per lui per avvicinarlo all’auto”. Tutte circostanze “false”, secondo l’accusa. Nello scrupoloso lavoro della procura - il pm aveva chiesto la proroga delle indagini proprio per verificare con una perizia il nesso di causalità tra le condotte degli agenti e il decesso - viene contestato agli agenti di aver “ecceduto i limiti del legittimo intervento”. Concorrendo “a determinare il decesso” dell’uomo, per “le percosse” e i colpi con “corpi contundenti” quando la vittima “era immobilizzata a terra in posizione prona, non era in grado di reagire ed invocava aiuto”. Per la procura, la morte è avvenuta per cedimento del cuore dovuto allo “stress emotivo del contenimento e alle percosse” a seguito di una “tempesta emotiva”, espressione già usata per il decesso di Giuseppe Uva, morto a Varese dopo ore nella caserma dei carabinieri. Ora, con la chiusura delle indagini, la procura avanzerà la richiesta di giudizio per gli agenti. Da subito, la famiglia di Ferrulli aveva accusato esplicitamente la polizia. La procura aveva acquisito il video girato da una rom, in cui erano ripresi i poliziotti che continuavano a colpire Ferrulli quando era a terra, con un oggetto che sembra un manganello. “Una decisione importante - commenta Fabio Anselmo, legale della famiglia Ferrulli e difensore di altre vittime delle forze dell’ordine come Stefano Cucchi e dello stesso Uva. Ci sarà un processo per rendere giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza”. “È un passo grande verso la speranza - dice in lacrime Domenica Ferrulli, figlia di Michele. Il rischio era che tutto venisse seppellito insieme a mio padre. Non ci siamo arresi e abbiamo ottenuto almeno un processo”. Giustizia: strage di Bologna; ricerca verità completa non giustifica l’avallo di nuovi depistaggi di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2012 Dopo il mio articolo intitolato “Fascicolo bis sulla strage di Bologna: la “pista palestinese” non regge e Raisi accusa la Procura” si è aperto un dibattito su diversi siti Internet al quale ha partecipato, attraverso una replica articolata in cinque punti (vedasi sito www.fascinazione.info), lo stesso parlamentare di Futuro e Libertà di cui avevo criticato il teorema. Rispondo perciò punto per punto a Enzo Rasi, amico e portavoce della coppia Mambro & Fioravanti che a sua volta, nel quadro della battaglia per ottenere la libertà condizionale della donna ex militante dei Nar (vedasi “Le lettere (e una cena) a Giusva e Mambro: vi perdoniamo”, Corriere della sera del 3 agosto 2008), alcuni anni fa fece amicizia con Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, la vittima della strage di Bologna che oggi secondo lo stesso Raisi potrebbe aver avuto qualcosa a che fare con quel crimine. Primo punto Le Br, organizzazione in cui ho militato nella seconda metà degli anni 70 e fino al momento del mio arresto avvenuto nel novembre 1982, non hanno mai intrattenuto rapporti politici o d’altra natura con il cosiddetto gruppo di Carlos e neppure con il Fplp. Ciò premesso, per semplice amore della verità vanno corrette le numerose informazioni false e inesattezze sostenute da Raisi. Il parlamentare di Futuro e Libertà afferma che “all’interrogatorio con Cieri nel 2009 Carlos ha fatto scena muta e ha detto che parlava solo di fronte ad una commissione parlamentare”. In realtà, pur non firmando nulla, Carlos fece un discorso al pm Cieri in riferimento alla strage di Bologna, poi riportato dalla stampa italiana, nel quale dichiarò in sintesi quanto segue: “…. è roba della Cia, i servizi segreti italiani e tedeschi lo sanno bene”. (Corriere della Sera, 26 aprile 2009). Questo fatto, cioè l’assenza di una “scena muta”, è dato per certo a pagina 158 del “Dossier strage di Bologna”, un libro scritto da Gabriele Paradisi, Gian Paolo Pelizzaro, François de Quengo de Tonquédec, persone amiche di Enzo Raisi e pubblicizzato da quest’ultimo il 10 settembre 2011 nel corso di un meeting di Futuro e Libertà a Mirabello. Secondo punto L’onorevole Raisi asserisce che nessun paragone sarebbe mai stato fatto sulla compatibilità del materiale sequestrato alla Frolich all’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e quello usato nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. Una recente notizia di stampa, pubblicata proprio sul quotidiano bolognese al quale Raisi spesso rilascia delle interviste, fornisce sulle indagini condotte una versione molto diversa: “dalla comparazione tra i documenti sulla qualità degli esplosivi utilizzati dal gruppo del terrorista Carlos e le perizie sull’esplosivo usato per l’attentato del 2 agosto 1980 non è, al momento, risultata alcuna immediata compatibilità. Quella della comparazione sulla qualità degli esplosivi era una delle strade che vengono seguite nell’inchiesta bis sulla strage della stazione. Una strada che al momento quindi non registra novità. Il pm Enrico Cieri aveva chiesto ed ottenuto delle autorità francesi i documenti sulla qualità dell’esplosivo utilizzato dal gruppo dello Sciacallo. Parimenti negativa sarebbe stata la comparazione fatta con la qualità dell’esplosivo che Margot Frohlich (indagata nell’inchiesta assieme a Thomas Kram) aveva in una valigia quando fu arrestata a Fiumicino nell’82.” (Resto del Carlino, 6 aprile 2012). Come se non bastasse, la natura dell’esplosivo trovato alla Frolich è nota da molto tempo anche ai principali teorici della “pista palestinese”. In una interpellanza urgente si affermava: “il 18 giugno 1982, quindi due anni e mezzo dopo le stragi di Ustica e Bologna e due anni prima della strage del 904, all’aeroporto di Fiumicino veniva fermata per un controllo la cittadina tedesca Christa Margot Frolich trovata in possesso di una valigia contenente due detonatori e tre chili e mezzo di miccia detonante, contenente esplosivo ad alta velocità di tipo Pentrite, una sostanza detonante che entra nella composizione del Semtex” (interpellanza urgente 2-01636 presentata giovedì 28 luglio 2005 da Vincenzo Fragalà nella seduta n. 664). Come è altresì noto, l’ordigno impiegato per la strage di Bologna non era costituito da esplosivo di tipo Pentrite ma “da un esplosivo contenente gelatinato e Compound B” (sentenza secondo processo di Appello sulla strage di Bologna, 16 maggio 1994). E il Compound B, una miscela di tritolo e T4, è roba della Nato. Terzo punto Smentito anche dall’amico Gabriele Paradisi sulla circostanza che avrebbe visto Carlos vivere a Parigi nel 1980, come aveva affermato sul Resto del Carlino dell’8 aprile 2012, il parlamentare futurista dieci giorni dopo tenta di salvarsi in corner sostenendo che Carlos “a Parigi aveva un gruppo operativo della sua organizzazione denominata Separat.” Una presenza stabile in Francia di un nucleo del gruppo Carlos, per altro già ristretto ad un numero molto limitato di componenti, non ha mai trovato conferma nelle lunghe indagini condotte dalla polizia francese. Forse Raisi, sbagliando comunque le date, voleva fare riferimento al periodo di detenzione nel carcere di Fresnes di due esponenti del gruppo Carlos: Bruno Breguet e Magdalena Kopp, detenuti dal febbraio 1982 al maggio e settembre 1985. Fin qui nulla di nuovo dunque. Si tratta della solita rimasticatura di alcuni elementi utilizzati per dare corpo al depistaggio che vorrebbe orientare le nuove indagini verso la “pista palestinese”. A tale proposito va ricordato che l’OLP, di cui faceva parte integrante il pur critico e marxista Fplp, considerava un piccolo passo positivo la dichiarazione del Consiglio europeo di Venezia del 13 giugno 1980, contestata solo dagli Usa e dal governo israeliano, a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Non vi era dunque alcuna ragione di colpire obiettivi italiani da parte di chi aderiva all’OLP. Quarto punto La vera novità stavolta è il cinico coinvolgimento da parte di Raisi e dei suoi mandanti di una delle vittime della strage: Mauro Di Vittorio. Perché proprio Di Vittorio? Semplice: era romano e simpatizzava col “Movimento” di quegli anni. Attribuendogli una precisa identità politica, ovvero quella di militante di Autonomia operaia romana, Raisi intende richiamare ancora una volta la “pista palestinese” che si regge sull’assunto che qui cito: “Ricordo che Pifano e altri componenti del gruppo di Via dei Volsci, autonomia romana, furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona per i famosi missili che appartenevano all’Fplp e al gruppo Separat, cioè al gruppo di Carlos.” A quanto risulta, tre autonomi del collettivo del Policlinico (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Lusiano Nieri) furono arrestati nel novembre 1979 e poi condannati per il trasporto di due lanciamissili (non i missili) che appartenevano esclusivamente all’Fplp, erano smontati e dovevano essere spediti in Medioriente. Inoltre il cosiddetto gruppo di Carlos si chiamava Ori (Organizzazione dei rivoluzionari internazionalisti) e non certo Separat (vedasi “A Bologna a colpire furono Cia e Mossad”, Corriere della sera del 23 novembre 2005 ). Infine, a differenza di quanto sostiene Raisi, quei tre autonomi non “furono arrestati con Abu Saleh ad Ortona”. Abu Anzeh Saleh fu “fermato a Bologna una settimana dopo l’arresto degli autonomi” (pagina 25 del “Dossier strage di Bologna” scritto dagli amici di Raisi). La vicenda è sufficientemente nota e chiara come quella connessa allo strumentale tentativo del generale Dalla Chiesa che, tanto per produrre un nuovo teorema accusatorio corollario del 7 aprile, fece pressioni su Saleh affinché dichiarasse che quei lanciamissili servivano ad Autonomia in Italia. Ciò detto, non risulta minimamente che il ventiquattrenne Mauro Di Vittorio avesse mai fatto parte del Collettivo del Policlinico in cui militavano i tre autonomi arrestati ad Ortona. Dalle cronache dell’epoca si evince che era un giovane del movimento di quegli anni. Al funerale venne salutato dai compagni e dalle femministe del suo quartiere, Tor Pignattara. Una scheda biografica è presente sul sito dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. Il tentativo di coinvolgerlo è dunque una volgare azione di sciacallaggio, in particolare se si tiene conto del fatto che la sorella di Di Vittorio fece passi significativi in favore della coppia Mambro-Fioravanti. Il livello di strumentalizzazione a questo punto raggiunge vertici di cinismo abissale. Perché tutto questo? Pur di arrivare alla revisione del processo, i due ex militanti dei Nar insieme a Raisi sono disposti a gettare fango in ogni direzione, creando così ennesimi capri espiatori. Quinto punto Nel 1983, quasi un anno dopo il mio arresto, conobbi la detenuta Christa Margot Frolich tramite posta controllata dalla censura del carcere. Lei si trovava in cella con una mia coimputata, non parlava affatto bene la lingua italiana, non era mai stata una ballerina, non aveva figli e nel 1980 aveva 38 anni. In altre parole, Christa Margot Frolich non era per niente l’ex ballerina e donna madre tedesca che nell’agosto 1980 fu vista frequentare un albergo di Bologna e che, secondo i testimoni, conosceva alla perfezione la lingua italiana. Lo stesso discorso vale per Kram. A parte le sue idee politiche antitetiche allo stragismo, un tipo come lui - secondo i documenti anagrafici ben conosciuti da teorici della “pista palestinese” come gli autori di “Dossier strage di Bologna” - non sarebbe certo passato inosservato nella stazione di Bologna del 2 agosto 1980 se avesse lasciato la valigia della strage nella sala d’attesa della seconda classe in cui scoppiò. “Poco prima dell’esplosione - ha detto Rolando Mannocci alla figlia e al fratello accorsi al suo capezzale - ho notato due giovani aggirarsi nella sala. Li ho seguiti per un po’ con lo sguardo. Ho visto che hanno posato un qualche cosa, forse una valigia, proprio nell’angolo dove dieci minuti dopo è avvenuta l’esplosione. Non mi sono insospettito, non c’era alcun motivo perché lo dovessi essere. Erano due come tanti altri. Invece forse...”. (La Stampa del 4 agosto 1980). I giovani, per essere tali, debbono almeno avere un’età sotto i 30 anni. Per poi considerarli “come tanti altri” dovrebbero avere un’altezza media di circa 1 metro e 65 per le ragazze e di circa 1 metro e 75 per i ragazzi. Tutto ciò significa, a rigor di logica, che Thomas Kram - alto quasi due metri e allora trentaduenne - non era certo uno dei “giovani” - “due come tanti altri” - visti da Rolando Mannocci all’interno della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 mentre posavano qualcosa nell’angolo in cui avvenne l’esplosione. Infine vorrei ricordare a Raisi che la legittima ricerca della verità completa sulla strage di Bologna, che persone come me hanno sempre appoggiato, è cosa diversa dall’avallare depistaggi che di fatto sono la continuazione dello stragismo con altri mezzi. Calabria: progetto tra Dsm e Istituti penitenziari per migliori cure psichiatriche ai detenuti Redattore Sociale, 20 aprile 2012 Il progetto coinvolgerà tutta la psichiatria calabrese, avendo come finalità l’elaborazione di linee-guida regionali per rendere operativa l’integrazione funzionale tra i Dsm e le articolazioni delle aziende sanitarie presso gli istituti penitenziari. A Gambarie d’Aspromonte, domani sarà presentato ai dipartimenti ed ai Centri di salute mentale della Regione Calabria, ed agli operatori penitenziari nel settore della psichiatria, il progetto regionale di attività integrata tra i Dsm (dipartimenti salute mentale) e gli Iipp (istituti penitenziari psichiatrici), frutto di un percorso multi-professionale sul disagio mentale e sul disturbo della personalità. L’iter progettuale è stato elaborato nell’ambito degli obiettivi del Piano sanitario 2009, per la linea progettuale sulla sanità penitenziaria. Il progetto coinvolgerà tutta la psichiatria calabrese, avendo come finalità l’ elaborazione di linee-guida regionali per rendere pienamente operativa l’integrazione funzionale tra i Dsm della Calabria e le articolazioni delle aziende sanitarie presso gli istituti penitenziari. Ulteriore obiettivo è quello di indirizzare alle buone pratiche l’attività “di trincea” degli psichiatri e degli psicologi che operano in queste strutture e per avviare sin dal “tempo carcere”, per i casi identificati di disturbo della personalità e dell’adattamento, un percorso multiprofessionale integrato che prosegua anche dopo le dimissioni dall’istituto penitenziario presso i competenti servizi sanitari territoriali. Il complesso lavoro preparatorio di questo progetto ha risentito dell’intensa attività nel campo della tutela in carcere della salute mentale, sino alla recentissima legge 9 del 17 febbraio scorso che di fatto chiude gli Opg. Collateralmente ed integrata a questo percorso, oltre che orientata alla gestione delle criticità sanitarie psichiatriche interne al carcere, verrà implementata la funzionalità della sezione regionale di osservazione psichiatrica, attiva da oltre sette anni nella casa circondariale di Reggio Calabria. Grande attenzione, anche, per gli internati calabresi in via di dimissione dagli Opg di riferimento, per i quali da ciascun Dsm di competenza dovranno emergere le proposte specifiche per la prosecuzione di eventuali progetti terapeutico-riabilitativi. La realizzazione e la prima sperimentazione sul territorio di questo circuito dovrà incentivare la valutazione, in ambito regionale, per una struttura idonea finalizzata alla custodia di detenuti infermi di mente ed autori di reato, relativamente al recente accordo Stato-Regioni del 13 novembre 2011. Dovranno anche trovare collocazione ed adeguata identificazione quelle strutture psichiatriche residenziali nelle quali avviare, secondo necessità, sia i soggetti dimessi dagli Opg non altrimenti collocabili, che altri casi di patologia psichiatrica eventualmente emergenti dal circuito penitenziario. Punto focale del progetto è anche l’informazione - formazione a cura di ciascun Dsm competente destinata agli operatori impegnati nel settore in tutta la regione. Palermo: Schifani incontra i detenuti dell’Ipm Malaspina “abbiate fiducia nella società” Adnkronos, 20 aprile 2012 “Ho detto ai ragazzi che la funzione rieducativa della pena non può essere persa, è una scommessa fondamentale, vale per i maggiorenni ma anche per voi minorenni”. Così, il presidente del Senato, Renato Schifani, racconta al presidente del Tribunale dei minori di Palermo, Maria Concetta Sole l’incontro con i giovani detenuti nel carcere minorile Malaspina, che ospita una quarantina di giovani. La seconda carica dello Stato è venuto a fare una visita al carcere minorile e assistere a una partita di solidarietà tra i giovani detenuti e gli alunni della scuola superiore Pietro Piazza. “Ho trovato un’ottima struttura - continua - dove la funzione educativa viene realizzata in pieno, con spazi logistici ma soprattutto psicologici per il recupero dei giovani. Ho incoraggiato i ragazzi dicendo loro che quando usciranno da qui ci sarà la società che li aspetta fuori e qualcuno ha fatto una smorfia ma io ho risposto che se troveranno una porta chiusa ne troveranno altre aperte”. E sul torneo di calcio dice: “oggi questi ragazzi fanno un gol nella vita”. E a chi lavora nel carcere dice: “fate un lavoro importante e alla fine è una sfida che vincerete”. Andria (Bat): progetto per lavoro di pubblica utilità come alternativa al carcere www.andrialive.it, 20 aprile 2012 Ha preso avvio un progetto per lavoro di pubblica utilità: il primo detenuto ha infatti ottenuto nei giorni scorsi il beneficio. Ma a breve altre persone detenute potranno essere utilizzate per questo genere di pena alternativa. Adesso questo soggetto presterà la sua attività in una delle strutture sportive affidate alla società “Andria Multiservice spa” in qualità di addetto alla custodia e pulizia degli impianti sportivi per 2 ore al giorno, per 84 giorni, così come stabilito dall’Autorità Giudiziaria. Ricordiamo che questo è il risultato della convenzione per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità stipulata lo scorso 7 novembre del 2011 tra il Ministero della Giustizia, nella persona del Presidente del Tribunale di Trani, Dott. Filippo Bortone, il Comune di Andria, nella persona del Sindaco Avv. Nicola Giorgino e l’Avv. Savino Losappio, Amministratore Unico della Società “Andria Multiservice Spa”. Lo scopo che si prefigge la convenzione è quello di consentire al Giudice, su richiesta dell’imputato e qualora ne ricorrano le condizioni, l’applicazione della pena del lavoro di pubblica utilità che consiste nella prestazione di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività. Viene, pertanto, consentito ad un numero massimo di 10 unità all’anno (5 unità contemporaneamente) di condannati alla pena del lavoro di pubblica utilità, di prestare la loro attività non retribuita in ausilio ai servizi che la società “Andria Multiservice Spa” presta in favore del Comune di Andria. A breve, appena concordate le modalità di svolgimento della pena da parte della Magistratura, partirà l’inserimento delle ulteriori unità. Siracusa: detenuti realizzano chiosco per i parenti in visita Adnkronos, 20 aprile 2012 È stato inaugurato oggi nella casa circondariale di contrada Cavadonna a Siracusa il chiosco realizzato nell’ambito del progetto sperimentale “Liberamente”, per l’inclusione di soggetti adulti in esecuzione penale. L’iniziativa è stata finanziata dalla Regione siciliana, in sinergia con il Consorzio Quark e l’Area marina protetta del Plemmirio. Alla cerimonia ha partecipato l’assessore regionale per le Autonomie locali e la Funzione pubblica, Caterina Chinnici, che nel 2009 quando aveva la delega alla Famiglia e alle Politiche sociali aveva predisposto il bando per l’assegnazione dei finanziamenti. A fare gli onori di casa, la direttrice del penitenziario aretuseo, Angela Gianì. Il chiosco, alla cui costruzione hanno partecipato anche alcuni reclusi, potrà essere utilizzato dalle persone in attesa di fare visita ai propri parenti. La gestione della struttura sarà assegnata a una cooperativa che utilizzerà anche due detenuti. “La realizzazione del chioschetto - ha detto l’assessore Chinnici - ha una duplice valenza: da un lato attenua il disagio dei familiari e dall’altro serve a insegnare un mestiere ai detenuti, trasferendo loro competenze che potranno essere utilizzate una volta liberi. In questo modo, quindi, il carcere svolge anche una funzione di rieducazione preparando i detenuti al successivo reinserimento nella società”. Firenze: da detenuti a istruttori calcio, primo corso Figc a Firenze Asca, 20 aprile 2012 L’albo nazionale degli istruttori di scuola calcio è arricchito di 16 nuovi iscritti. Si tratta di altrettanti detenuti che hanno partecipato al corso - primo assoluto in Italia - che si è svolto all’interno del carcere di Sollicciano a Firenze. La consegna dei tesserini, degli attestati e della guida tecnica si è svolta stamani alla presenza del vicesindaco e assessore allo sport Dario Nardella, del presidente del Settore Giovanile e Scolastico della Figc Gianni Rivera accompagnato dal coordinatore regionale Paolo Mangini, da Giancarlo De Sisti e Comunardo Niccolai, e dal presidente del Coni toscano Paolo Ignesti, oltre al direttore del carcere Oreste Cacurri. “Questa apprezzabile iniziativa della federazione calcio - ha sottolineato il vicesindaco Nardella - rientra nel contesto della collaborazione da tempo avviata fra il Comune di Firenze e la casa circondariale di Sollicciano per lo sport e l’attività motoria. Vorrei ricordare l’impegno che mi ero assunto durante la visita di una delegazione della nazionale azzurra e della Fiorentina con Cesare Prandelli, Gianluigi Buffon, Mario Balotelli, Alessandro Gamberini, di ristrutturare il campo di calcio con nuove reti e bandierine, all’interno del carcere e che da tempo abbiamo assolto grazie all’opera di tecnici e operatori del Comune”. Nell’occasione si è svolta anche la premiazione del torneo di calcio interno, che ha visto impegnate 12 squadre di altrettante sezioni e oltre 200 atleti, vinto dalla decima sezione. Torino: Osapp; detenuto libico ricoverato in ospedale morde la mano di un agente Adnkronos, 20 aprile 2012 Un detenuto libico di 38 anni, Mohamed Game condannato a Milano per un attentato terroristico, mentre si trovava presso il reparto detentivo dell’ospedale Molinette di Torino, ha dato un morso, pare senza un motivo plausibile, alla mano sinistra di un agente della Polizia Penitenziaria, addetto al servizio di vigilanza. Lo denuncia l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il 12 ottobre 2009 Game aveva cercato di farsi esplodere all’ingresso della caserma Santa Barbara in piazzale Perrucchetti, a Milano. L’agente, soccorso e medicato, è stato giudicato guaribile in sette giorni. “Sono nuovamente i poliziotti penitenziari - commenta il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - a fare le spese delle disfunzioni e delle inefficienze del sistema penitenziario e dell’aumento all’inverosimile dei carichi di lavoro senza adeguata integrazione degli organici”. Secondo il sindacalista “l’assenza di interesse politico per quanto riguarda le carceri ha assunto livelli di insopportabilità fino ad oggi mai raggiunti”. Pratovecchio (Ar): Agnese Moro ospite dell’incontro “Dalle ferite al perdono” Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2012 Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, sarà a Romena domenica prossima, 22 aprile. Agnese, che in passato ha anche scritto un’affettuosa biografia del padre Aldo (intitolata “Un uomo così”) parteciperà all’incontro dal titolo “Dalle ferite al perdono” in programma alle ore 15 nell’antica pieve romanica. Un incontro nel corso del quale, accanto alla testimonianza personale, forte e coinvolgente, del suo percorso di vita, così segnato dal sequestro di suo padre e dall’omicidio della sua scorta, emergerà anche il desiderio di guardare aldilà delle sbarre, lì dove sono stati anche carcerieri e assassini di suo padre, per raccontare la storia di un uomo, Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo. Nel corso dell’incontro, infatti, Agnese presenterà infatti il libro “Undici ore di un uomo ombra”, in cui Carmelo racconta le uniche undici ore di libertà che gli sono state concesse dal 1991, quando ha cominciato a scontare la sua condanna, a oggi, per discutere la sua tesi di laurea in giurisprudenza. Condannato al “fine pena mai” per fatti di sangue legati alla sua partecipazione a organizzazioni malavitose, Carmelo ha compiuto un percorso di profondo cambiamento in carcere, accompagnato in questo cammino dall’Associazione comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. “Dalle ferite al perdono” metterà dunque in comunicazione chi è vittima di un reato terribile, come è successo a Agnese, con chi sconta una pena lunga quanto l’esistenza (l’ergastolo ostativo, che sconta Carmelo, non prevede alcuna forma di attenuazione del regime carcerario), pur avendo mostrato segni tangibili di un cambiamento di vita. Sarà dunque un’occasione per entrare in contatto profondo con parole come giustizia, verità, riconciliazione, perdono, da parte di chi le vive e le tocca con mano. Accanto ad Agnese Moro parteciperanno all’incontro anche Nadia Bizzotto e Giuseppe Angelini, della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che da molti anni frequentano come volontari il carcere di Spoleto, e che hanno seguito molto da vicino il percorso di Carmelo. Verona: la Garante; oggi gruppo di persone detenute in visita al museo africano Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2012 Nel pomeriggio di oggi, venerdì 20 aprile, un gruppo di persone detenute della Casa Circondariale di Montorio, accompagnato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan e dal presidente dell’associazione “Progetto carcere 663” Maurizio Ruzzenenti, è stato in visita Museo Africano di Verona. L’iniziativa, promossa dalla Garante Margherita Forestan, dal Direttore della Casa Circondariale Mariagrazia Bregoli e dalla responsabile dell’area pedagogica del carcere Enrichetta Ribezzi, rientra nel progetto di recupero sociale delle persone che hanno deviato rispetto alle regole di convivenza civile. Immigrazione: Mauro Palma; metodi coercitivi per espulsioni, pratica comune nei Paesi dell’Ue Il Manifesto, 20 aprile 2012 Mauro Palma è ex presidente del Consiglio permanente contro la Tortura del Consiglio d’Europa, e attuale membro presso lo stesso Consiglio (che rappresenta 47 paesi) dell’organismo che si occupa della cooperazione nell’esecuzione della pena. Sconcertato dalla foto scattata sul volo Roma-Tunisi, in cui si vede un immigrato con la bocca fasciata dallo scotch? È un fatto grave, ma purtroppo non sono completamente stupito. Come Comitato per la prevenzione della tortura ci siamo occupati diverge volte della questione dei metodi coercitivi utilizzati durante le espulsioni. Io non mi occupavo direttamente dell’Italia, ma ho conosciuto casi in Francia, Belgio, Svizzera. Molte denunce sono arrivate fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e come sappiamo ci fu anche una donna morta in Belgio. Per questo eravamo arrivati fino al punto di emanare delle raccomandazioni internazionali, che i governi hanno accettato. Dunque ci sono delle “regole di ingaggio”? Le nostre sono soltanto raccomandazioni e purtroppo non sono vincolanti, certamente però una loro lesione può comportare l’apertura di un procedimento presso la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Tra l’altro, l’Italia ci ha sempre risposto di avere dei Protocolli interni rispettosi di questi principi. Al paragrafo 36 delle raccomandazioni emanate nel 2003 si legge espressamente che vanno assolutamente vietati tutti i mezzi “volti a ostruire parzialmente o totalmente le vie aeree”, cosa già sollecitata nel precedente testo nel 1987. Ricordiamo esplicitamente “i seri incidenti” verificatisi in diversi paesi e “i seri rischi” connessi alla vita della persona che si corrono utilizzando questi metodi. Il problema però continua. Non c’è qualcosa di sbagliato alla base? Perché i detenuti vengono trasferiti senza nessun problema sui voli di linea e quando si tratta di espulsioni si arriva frequentemente a queste situazioni limite? Certamente questo ennesimo caso dimostra che bisognerebbe interrogarsi sulle modalità del rimpatrio, su come vengono effettuate le espulsioni, su quale sia il rapporto che viene instaurato nei confronti di persone a cui si dice: “Te ne devi andare”. Aldilà del mio pensiero sullo schema respingente delle leggi sull’immigrazione, trovo che bisognerebbe impegnarsi molto più di quanto sia stata fatto finora sulla costruzione di un percorso il più possibile condiviso con la persona che si ha di fronte. Non si può dire a qualcuno “fuori”, senza dare alcuna alternativa, senza prepararla alla sua futura condizione. Altrimenti ci si troverà di fronte a resistenze e a scontri di questa portata. Quali controlli si possono mettere in campo? È una questione delicata. Esistono vari tipi di voli con cui vengono effettuati i rimpatri. Ci sono quelli di linea, i charter dove non ci sono passeggeri e dove evidentemente è difficile avere testimonianze come quella di oggi, e poi ci sono i nuovi voli di Frontex in coordinamento tra diversi stati. L’aereo fa scalo in più aeroporti per caricare persone da espellere verso uno stesso paese. È stato lo stesso responsabile di Frontex l’anno scorso a chiederci una collaborazione, sono preoccupati dalle possibili denunce, che naturalmente ci sono state presentate come “pretestuose”. Al momento lo Stato che coordina i rimpatri Frontex dovrebbe nominare un comitato interno di controllo. Noi abbiamo sollevato l’obiezione che questi Comitati non hanno le caratteristiche dell’indipendenza e che un volo di rimpatrio dovrebbe essere considerato come uh qualsiasi altro spazio in cui viene limitata la libertà personale. È una discussione che sta andando avanti. Immigrazione: Ucpi; bene iniziativa senatore Marcenaro, introdurre reato tortura nel Codice Tm News, 20 aprile 2012 Il caso di due tunisini rimpatriati in aereo “in condizioni non umane e profondamente degradanti” è solo l`ultimo esempio “di una lunga storia di trattamenti disumani purtroppo perpetrati anche nel nostro Paese”. È quanto si legge in una nota dell’Unione delle Camere penali italiane (Ucpi), secondo la quale “arriva a proposito l’iniziativa del senatore Marcenaro, presidente della commissione per i Diritti umani del Parlamento per introdurre anche in Italia il reato di tortura”. L’Unione delle Camere Penali Italiane chiede al Governo di fare in fretta e di fare propria la proposta attualmente in discussione. Un appello che l’Ucpi rivolge anche alle forze politiche perché “continuano ad emergere notizie sul fatto che trattamenti disumani e vere e proprie torture non sono affatto estranei al contesto italiano” e a titolo di esempio si rievocano la “pratica del water boarding, che tanto scandalo ha giustamente provocato quando è stata riportata al trattamento subito da prigionieri in Irak o in Afghanistan, ma che è stata ignorata a proposito dei terroristi arrestati negli anni 70/80 in Italia” e la passata esistenza di “una squadra speciale del Ministero degli Interni, capeggiata da un funzionario cui era perfino stato attribuito il nomignolo di De Tormentis, che si spostava alla bisogna nei vari carceri e sottoponeva i detenuti per terrorismo a sevizie di tutti i generi al fine di ottenere informazioni”. Droghe: Serpelloni (Dpa); incrementare misure alternative a carcere per i tossicodipendenti Ansa, 20 aprile 2012 Evitare la carcerazione dei tossicodipendenti che si macchiano di reati, attraverso interventi alternativi di cura da attivare già durante la fase del processo per direttissima: è la proposta che il Dipartimento italiano antidroga ha avanzato nel corso di una riunione del Gruppo Orizzontale Droga presso il Consiglio Europeo di Bruxelles. Il Dipartimento ha chiesto di prendere in considerazione, nel formulare la nuova strategia di lotta alle dipendenze, la necessità che i vari Stati possano riformare il sistema di giustizia criminale nei confronti delle persone tossicodipendenti che abbiamo commesso reati in relazione al loro stato di malattia. Questo - spiega il Dpa - per evitare la carcerazione attraverso interventi alternativi, da attivare già durante la fase del processo per direttissima, di cura e riabilitazione “controllate e gestite” in regime extracarcerario con l’ausilio dei servizi pubblici e delle comunità terapeutiche. “Il nostro dipartimento - commenta il capo del Dpa, Giovanni Serpelloni - da tempo ha attivato un progetto e delle linee di indirizzo per incrementare l’uscita dal carcere delle persone tossicodipendenti che abbiano i requisiti previsti dalla legge. Questo è un problema molto importante e prioritario che abbiamo fatto presente anche a livello europeo. Purtroppo le persone tossicodipendenti commettono molto più frequentemente reati della popolazione generale in quanto vengono spesso coinvolti in traffico e spaccio e in altre attività criminali violente”. “In altre parole - spiega - i reati commessi non possono essere cancellati oppure scontati, ma sicuramente in moltissimi casi trasformati in un più proficuo e volontario percorso di cura e riabilitazione. Per questo il Dpa alcuni mesi fa ha anche divulgato a tutte le Regioni e ai servizi pubblici delle linee di indirizzo per aumentare l’utilizzo del decreto che permette l’uscita dal carcere per intraprendere percorsi terapeutici e riabilitativi”. Stati Uniti: detenuto Guantánamo contesta norma su segretezza dichiarazioni rilasciate Tm News, 20 aprile 2012 Uno dei cinque sospetti dell’attentato dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti ha chiesto ieri alla giustizia militare americana di rimettere in discussione la norma del segreto applicato alle dichiarazioni rilasciate dai prigionieri di Guantánamo. Secondo quanto si è appreso, nella sua richiesta l’avvocato James Connell chiede di porre fine al principio di “classificazione” che si applica a tutto ciò che i prigionieri di Guantánamo possono dichiarare. Alla domanda intesa ad accertare se il suo cliente Ali Abdul Aziz Ali si dichiarerà colpevole il prossimo 5 maggio in tribunale, in occasione della lettura dell’atto d’accusa, James Connell ha dichiarato di non potere rispondere poiché qualsiasi cosa dirà sarà “probabilmente secretata. “Alcune cose che i prigionieri dicono sono classificate come un segreto, altre non lo sono, ma ci chiedono di agire come se lo fossero”, ha commentato l’avvocato. La richiesta di non secretare le dichiarazioni, ha insistito il legale, va nella direzione di “una maggiore trasparenza nella nostra democrazia e protezione della sicurezza nazionale”.