Giustizia: bene l’amnistia, e si riparta dalla riforma del codice penale di Desi Bruno (Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna) Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2012 La battaglia radicale per l’amnistia, che è diventata di molti, è una battaglia sacrosanta per le condizioni disumane in cui versa il carcere italiano, ma anche per la libertà e la giustizia dei cittadini e per ridare fiato a un progetto vero di riforme a questo paese. Ma il punto di partenza deve essere, se si vuole riformare il carcere e dare corpo ad un provvedimento clemenziale importante e necessario, e a cui tutto ciò che precede deve servire di accompagnamento, la riforma del codice penale, con una diversa descrizione delle fattispecie penali e soprattutto un diverso sistema sanzionatorio che preveda la pena detentiva come una delle opzioni punitive possibili, e solo per reati molto gravi, oltre a pene interdittive, pecuniarie, prescrittive, socialmente utili, ecc. Così come un diverso uso della misura cautelare carceraria, coerente con la normativa vigente, impedirebbe a migliaia e migliaia di persone di entrare in carcere per pochi giorni, con oneri immensi per lo stesso e inutile impatto con la privazione della libertà personale e i drammi che ne conseguono. Gli interventi, condivisibili, messi in campo negli ultimi tempi e quelli in itinere, in particolare l’introduzione della messa alla prova nel processo penale, una ampia depenalizzazione, la previsione della misura della reclusione e dell’arresto da scontare al proprio domicilio sono certamente corrette anticipazioni di quanto previsto perlomeno negli ultimi due progetti di riforma del codice penale, quello di Carlo Nordio e di Giuliano Pisapia, ma certo non possono, da soli, risolvere i problemi esistenti, anche perché, essendo previsti per reati puniti sino a 4 anni, non potranno incidere sulla questione carcere e non avranno effetti di sistema. Dunque, solo riforme di ampia portata, come quella del codice penale, possono segnare un mutamento tale da incidere anche sulle altre molte questioni aperte della giustizia e del carcere. E allora si potrà davvero anche ottenere una puntuale applicazione, per le persone condannate in via definitiva, della legge Gozzini del 1986, in larga parte ancora applicabile nonostante i continui interventi normativi che tendono a ridurne l’ambito di operatività, e la riscrittura delle leggi sulle droghe, sull’immigrazione, la cessazione del legiferare in via di emergenza, inasprendo le pene e aumentando le figure di reato, l’abrogazione della cd. ex Cirielli, per quanto riguarda la disciplina della recidiva. Ma solo interventi di riforma che siano strutturali rispetto al tema della pena potranno garantire un approccio tendente alla soluzione della questione, con una risposta punitiva nella forma della carcerazione che dovrebbe riguardare solo quei casi in cui vengono lesi beni di primaria importanza, con una riforma del codice penale tendente al superamento della centralità della pena detentiva, prevedendo una diversa tipologia di sanzioni, tra cui l’utilizzo dei lavori socialmente utili, o che comunque prevedano condotte riparative e restitutorie nei confronti dei singoli e della collettività. Giustizia: carcere, le cose da fare subito di Franco Corleone Il Manifesto, 18 aprile 2012 I buoni propositi di Paola Severino, ministro della Giustizia, per affrontare la crisi del carcere rischiano di tradursi in un desolante nulla. Alla radice, manca un’idea della funzione del carcere e dei luoghi della pena. C’è bisogno di un profondo cambio di paradigma, anche con nuove leggi per eliminare i fattori che producono sovraffollamento e perpetuano un carcere “infantilizzante” (in contrasto con l’ambizione del principio costituzionale del reinserimento del reo nella società). Sostenere che per il governo tecnico non c’è spazio per interventi radicali, è un alibi senza senso che conduce alla paralisi. Così facendo nessuno è costretto ad assumersi precise responsabilità. Come ho già avuto modo di dire, purtroppo molte volte, il sovraffollamento non è un accidente, un fatto dovuto al caso, ma è il prodotto di scelte politiche e di leggi criminogene, in primo luogo della legge sulle droghe. Il ministro per primo dovrebbe denunciare questo fatto e proporre una modifica almeno parziale dell’attuale legge antidroga, sulla linea del testo presentato già alla Camera dall’on. Cavallaro e al Senato dai senatori Ferrante e Della Seta. Così si abbatterebbe drasticamente l’ingresso in carcere di consumatori, piccoli spacciatori e tossicodipendenti che ancora nel 2011 sfiorano il 50% degli ingressi e delle presenze in carcere. Si pensi che su 68.000 ingressi ben 23.000, cioè il 33% è per violazione dell’art. 73 (detenzione di sostanze stupefacenti) del Dpr 309 del 1990, riveduto e peggiorato dalla legge 49 del 2006. Il ministro Severino dovrebbe avere il coraggio di portare in Parlamento un decreto legge (esistono tutti i presupposti di necessità e urgenza, che al contrario non c’erano quando fu approvata la legge del 2006, con un colpo di mano Incostituzionale di Giova-nardi, lasciato passare colpevolmente dal Quirinale). La cancellazione della legge Cirielli sulla recidiva e il ripristino della legge Simeone-Saraceni sarebbero il necessario corollario di una bonifica legislativa non rinviabile. Ovviamente non basta. Occorre un piano per l’applicazione larga della legge sulla detenzione domiciliare coinvolgendo le Regioni e i Comuni; e un progetto per l’uscita dal carcere dei tossicodipendenti, almeno diecimila, con inserimenti sul territorio e in comunità di accoglienza. Se, infine, si adottassero le misure necessarie per ridurre la carcerazione preventiva, allora il carcere tornerebbe ad una dimensione “fisiologica” e si potrebbe sperimentare un modello simile a quello spagnolo o danese (tanto per dare due riferimenti europei). In ogni modo, si dovrebbe partire subito con l’applicazione integrale delle misure, sia strutturali che gestionali, previste dal Regolamento del 2000 (con un ritardo vergognoso di dodici anni). Nel volume “Il corpo e lo spazio della pena” (Ediesse, 2011), si affronta il nodo dell’edilizia carceraria: gli stessi muri e le stesse sbarre contengono il mafioso e la persona in attesa di giudizio, il camorrista e il semilibero, lo stragista e la detenuta madre. È un evidente paradosso, che svela un intento di mero ammassamento di corpi, senza rispetto per la dignità delle persone private della libertà. Altro che privatizzazione delle carceri, occorre un piano di socializzazione e di ridisegno urbanistico della città! Giustizia: continua la mattanza nelle carceri, una catastrofe umanitaria Valter Vecellio Notizie Radicali, 18 aprile 2012 Condotta in una stanza del commissariato di Villa Opicina, una frazione di Trieste, dove vengono trattenuti temporaneamente gli stranieri in attesa di essere accompagnati alla frontiera, Alina Diachuk, cittadina ucraina, si toglie la vita. Secondo le scarne notizie riferite dalle agenzie di stampa, la donna, per impiccarsi, avrebbe utilizzato il cordino della sua felpa. Nelle stesse ore un detenuto del carcere di Foggia ha tentato di farla finita; è stato salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria; niente da fare, invece, per un altro carcerato, anche lui detenuto a Foggia. Si chiamava Michele V, aveva 28 anni, lo avevano arrestato per furto in appartamento, doveva scontare un anno e sei mesi di carcere. Lo hanno trovato immobile, la morte è sopraggiunta nel sonno, i medici parlano di causa “naturale”, ma come si sa, di “naturale” nelle carceri italiane non c’è nulla. Michele V. si dice fosse un tossicodipendente. Se è così il carcere era l’unico posto dove non doveva stare. La mattanza non finisce qui. Un’ora dopo un altro detenuto, nigeriano, Ehiejilchwe Moritz, è stato trovato disteso a terra nella propria cella dove si trovava nel Reparto Isolamento da solo, privo di sensi; trasportato in ospedale si ipotizza un calo glicemico. La situazione drammatica delle carceri italiane è nei dati dei detenuti morti. Nel primo trimestre dell’anno in corso sono 36 i detenuti che hanno perso la vita tra gennaio e marzo, a cui si aggiungo 2 decessi all’interno della camera di sicurezza di Firenze, e uno a Trieste; 18 i suicidi. Cinque sono invece i morti per malattia e ben 15 per cause ancora da accertare. Il rapporto presentato dall’associazione Antigone rivela che l’andamento dell’anno in corso è pari a quello dell’anno passato, quando le morti furono 186 di cui 66 per suicidio, 23 per cause da accertare, 96 per cause naturali e 1 per omicidio. Nel 2010 i numeri erano stati leggermente più contenuti: 170 i decessi, di cui 65 per suicidio. Il primato di carcere dove si muore di più è il Marassi di Genova: 5 decessi (uno per suicidio, uno per infarto e gli altri da accertare); segue Regina Coeli a Roma (tre morti, un detenuto del centro clinico deceduto per malattia, uno colpito da infarto e un ultimo stroncato forse da “overdose”). Il detenuto più giovane aveva 21 anni; era italiano, è morto a San Vittore: incensurato, era accusato di molestie sessuali ai danni di minorenni e aveva denunciato più volte di aver subito violenze dagli altri detenuti. Il più anziano ne aveva 58; si è tolto la vita a Milano Opera: il suo avvocato denuncia che i familiari non sono stati neppure informati dell’accaduto, come l’ordinamento penitenziario prevede. La causa di questa catastrofe umanitaria è il sovraffollamento carcerario, leggi come la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini; e la legge salva-carceri, come previsto, si è rivelata un pannicello caldo: solo 312 detenuti in meno rispetto alla data di entrata in vigore della legge e, in totale, 21mila detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Val la pena di ricordare che la capienza regolamentare delle carceri italiane, certificata dalle statistiche ufficiale, è di 45.742 posti letto: prima della entrata in vigore della legge Alfano, ossia il 31 dicembre del 2010, i detenuti erano 67.961. Quella legge, si disse, avrebbe ridotto di ottomila unità la popolazione detenuta. Così non è avvenuto, e il 31 dicembre 2011 i detenuti erano 66.897. Solo mille in meno. “È stato smascherato quello che definiamo il ‘bluff’ della capienza regolamentare - sottolinea Gonnella - Nel nostro Paese, come in ogni altro - spiega - la percentuale del sovraffollamento si calcola mettendo in relazione la popolazione detenuta con la capienza degli istituti. La Puglia è la regione con il più alto tasso di sovraffollamento di detenuti nei penitenziari (188%), seguita da Lombardia (174%) e Liguria (168%). Il record spetta però alla casa circondariale di Brescia Canton Mombello, con un eccesso di detenuti rispetto a quelli che potrebbe regolarmente contenere del 271%. La Campania, invece, è quella con più imputati dietro le sbarre: su un totale di 7.983 detenuti, al 31 marzo di quest’anno, quelli imputati sono oltre il 51%. E ci si limita, come si vede, alla sola situazione nelle nostre prigioni. I tanti che si dicono non convinti della bontà di un provvedimento di amnistia, cosa propongono a fronte di questa drammatica situazione? Per ora, oltre il NO pregiudiziale, c’è solo indifferenza e silenzio. Ed è per infrangere il muro del silenzio e dell’indifferenza, che il 25 aprile si marcerà: per l’amnistia, la libertà, la democrazia. Giustizia: ci sono detenuti meno uguali degli altri di Matteo Mascia www.rinascita.eu, 18 aprile 2012 Tremila cittadini italiani sono attualmente ospiti di un penitenziario estero. Più di mille sono detenuti in Germania, quasi cinquecento in Spagna, il resto è disseminato in tutti i continenti. Un esercito di cui nessuno parla. Solo quando le vicende giudiziarie riguardano efferati omicidi e gravi delitti le storie di queste persone vengono ritenute degne di menzione dal mondo dell’informazione. La negligenza e la noncuranza coinvolge spesso anche gli uffici che si dovrebbero occupare della loro sorte. Parliamo del ministero per gli Affari esteri e dei nostri Consolati. Istituzioni colpevoli di omettere una serie di attività connesse al proprio mandato. Una situazione in contrasto con trattati internazionali ratificati dal nostro Paese e quindi perfettamente vigenti. Un mix di fattori in grado di indebolire ulteriormente la posizione di un cittadino arrestato a migliaia di chilometri di distanza dalla sua casa. Fabio Polese e Federico Cenci ci guidano in un viaggio attraverso le storie di questi italiani. Nel loro “Le voci del silenzio” (Eclettica Edizioni, pagg. 93, euro 13) si raccontano alcuni dei casi più famosi. Eventi spesso narrati dai protagonisti in prima persona o dai familiari più stretti. Un’opera di verità in grado di squarciare l’assordante silenzio che da sempre circonda storie drammatiche. Nella sua prefazione la criminologa Roberta Bruzzone racconta la banalità con cui spesso si viene coinvolti in procedimenti penali all’estero. Basta una leggerezza o un equivoco durante le vacanze estive per essere arrestati ed interrogati in barba a tutte le garanzie previste per una persona in stato di fermo. Dei “viaggi all’infermo di sola andata” in grado di cambiare per sempre l’esistenza di una persona. Alle minacce ed ai soprusi operati dalle forze di polizia straniere si aggiungono poi interrogatori dei magistrati dell’accusa svolti senza l’ausilio di un traduttore. Un particolare che da noi renderebbe nulli gli atti processuali, altrove invece si considera questo modo di lavorare pienamente legittimo o lo si tollera senza farsi troppe domande. Anche dove i codici di procedura penale prevedono precisi diritti per gli indagati è difficile farli rispettare. L’assistenza legale per un italiano all’estero presenta dei livelli di spesa che non tutti si possono permettere. Una disparità che finisce per riverberarsi sui dispositivi delle sentenze. Atti conclusivi di un processo in cui l’essere italiani finisce per essere un indice di sicura colpevolezza. Nelle pagine del saggio di Polese e Cenci ci si imbatte più volte in questa considerazione aberrante. Soprattutto nei crimini di violenza sessuale l’intestazione del passaporto ha una forte importanza anche quando i nostri connazionali sono spesso figli di emigrati o residenti da decenni lontano dallo Stivale. L’avere legami con l’Italia è stato fatale per Derek Rocco Bernabei. Dopo una serie di leggerezze e diverse omissioni durante le indagini un tribunale della Virginia non ha avuto esitazioni nel condannare a morte l’imputato. Una storia che arrivò persino all’interno dell’aula del Parlamento europeo di Strasburgo grazie all’impegno del deputato senese Fabrizio Vigni. Di modo che tutti potessero sapere come questa storia venne etichettata da uno dei più famosi avvocati penalisti statunitensi, Alan Dershowitz. Il processo a carico di Bernabei fu definito “uno dei più grandi aborti giudiziari mai visti”. Vigni non si limitò a questo ma volò più volte negli Stati Uniti per varcare la soglia del braccio della morte e portare il proprio sostegno ad una persona vittima di un sistema giudiziario non degno di un paese civile. Il libro racconta anche le vicende di altri detenuti. Italiani dimenticati dalla macchina burocratica dello Stato. Persone che chiedono solo di dimostrare la propria innocenza. Il volume si inserisce a pieno titolo in questa lotta per la verità. Un’attività nobile e da portare avanti ad ogni costo. Giustizia: Commissione Senato; diritti umani violati per migranti e detenuti. Asca, 18 aprile 2012 In Italia si assiste a “violazioni dei diritti umani” di detenuti e migranti, le cui condizioni di vita nelle carceri e nei centri di accoglienza sono “illegali”. È quanto emerge dal rapporto presentato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, presieduta da Pietro Marcenaro. “Affermare che la condizione dei detenuti costituisce una violazione della legalità da parte dello Stato - si legge nel rapporto - non è una forzatura frutto di una pur legittima indignazione, ma una pertinente considerazione tecnica”. Lo Stato italiano, inoltre, “si è reso responsabile di diverse ma non meno gravi violazioni della legalità nell’affrontare il problema delle migrazioni, in particolare di quelle irregolari, e nel garantire l’effettivo esercizio del diritto di ogni persona ad avanzare e vedere esaminata domanda di asilo o di altra forma di protezione umanitaria”. L’Italia, quindi, secondo la commissione, “ha il dovere di mettere fine a questa illegalità”: per quanto riguarda le condizioni dei detenuti, tale illegalità è “la diretta conseguenza di una quasi assoluta identificazione della pena con il carcere” e il sovraffollamento carcerario “non è la causa, ma la conseguenza, di questa violazione della legalità”. Secondo Marcenaro, “si è di fronte allo smarrimento del principio costituzionale per cui il carcere è pensato per il recupero della persona. La dignità umana non può essere oltrepassata da motivi di sicurezza”. La commissione, quindi, rileva come sullo stato dei detenuti pesi il problema della custodia cautelare in carcere, così come gli effetti della Bossi-Fini e della Fini-Giovanardi, nonché l’impatto della ex Cirielli, che ha previsto inasprimenti di pena e l’irrigidimento della possibilità di ottenere misure alternative. “È necessario che il Parlamento riesamini questi problemi - osserva Marcenaro - modificando queste leggi potremmo verificare il calo dei flussi degli accessi in carcere. Le misure che il governo ha varato finora vanno nella giusta direzione, ma si tratta di primissime mosse”. Nel rapporto, si fa anche riferimento alla “drammatica” condizione dei transessuali in cella e dei 54 bambini detenuti con le loro madri. Rilievo viene dato anche alla questione della salute in carcere e, in particolare, agli ospedali psichiatrici giudiziari, “la cui chiusura costituisce un impegno da gestire in modo adeguato”. In merito alle situazioni di vita nei centri di identificazione ed espulsione per gli immigrati irregolari, il rapporto rileva come queste siano “molto spesso peggiori” di quelle delle carceri. “Occorre considerare che si tratta in gran parte - conclude Marcenaro - di persone molto giovani e che la detenzione può arrivare fino a 18 mesi, che sono una parte significativa della vita di ciascuno”. Giustizia: Schifani; come Paese dobbiamo vergognarci per le condizioni delle carceri Asca, 18 aprile 2012 “Come Paese dovremmo vergognarci” delle condizioni in cui versano le nostre carceri. “Se è vero che la civiltà di un Paese si misura anche dallo stato delle sue carceri, allora il nostro è fra gli ultimi in classifica”. Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani intervenendo in occasione della proiezione nella sala Koch di Palazzo Madama del film dei fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’oro di Berlino, ‘Cesare deve morire”. Schifani ha sottolineato il valore dell’opera cinematografica “di cui dobbiamo essere orgogliosi perché dà lustro e prestigio al nostro Paese e rappresenta una vera e propria operazione culturale, mantenendo vivo l’obiettivo del reinserimento sociale” degli ex carcerati. Giustizia: intervista ad Alfonso Papa (Pdl); sono stato tre mesi in carcere senza un perché di Chiara Rizzo Tempi, 18 aprile 2012 Il tribunale del Riesame di Napoli ha annullato le ordinanze di arresto per il deputato coinvolto nell’inchiesta P4 “per insussistenza di gravità indiziaria”. “La custodia cautelare è una mostruosità”. Lo scorso 7 novembre una sentenza della Cassazione ha annullato definitivamente l’accusa di associazione per delinquere ad Alfonso Papa, il deputato del Pdl coinvolto dalle indagini dei pm John Woodcock e Francesco Curcio sulla “P4”. La Suprema corte ha, di fatto, cancellato l’ipotesi accusatoria principale. La medesima sentenza, inoltre, ha annullato con rinvio al tribunale del Riesame di Napoli l’ordinanza di custodia cautelare per Alfonso Papa, il primo parlamentare nella storia della Repubblica ad aver scontato 101 giorni di carcere. Lo scorso 5 marzo si è espresso anche il tribunale del Riesame di Napoli, che ha annullato le ordinanze di arresto per Papa “per insussistenza della gravità indiziaria”. Alfonso Papa, nel frattempo, però, ha vissuto tre mesi in una cella di 30 metri quadrati a Poggioreale insieme ad altre quattro detenuti e, dal 31 ottobre al 23 dicembre, agli arresti domiciliari: durante quei cinque mesi le numerose richieste di scarcerazione presentate sono state respinte. Papa spiega a tempi.it che “dei 26 capi di imputazioni che mi sono stati contestati rimangono in piedi due concussioni per un valore minore di 6 mila euro, provenienti da accuse di due imprenditori che fecero queste dichiarazioni mentre erano indagati dal pm Woodcock per altri reati”. Dallo scorso 26 ottobre, è iniziato il processo presso la Corte d’assise di Napoli e, anche da recluso, Papa ha assistito a tutte le udienze. Il tribunale di Napoli lo scorso 27 dicembre ha dichiarato “l’inutilizzabilità delle intercettazioni che vedono coinvolto il deputato Alfonso Papa”, poste a fondamento dell’ordinanza d’arresto, “per omessa richiesta alla Camera di appartenenza” in violazione alla Legge Boato. Onorevole Papa, visto quanto è emerso sinora, e soprattutto vista la sentenza della Cassazione, perché allora, secondo lei, è stato in carcere senza un motivo valido? Sì. Infatti questa vicenda ripropone il problema della carcerazione preventiva che è un errore tutto italiano. Sotto il profilo dei presupposti cautelari, nel mio caso la Cassazione ha riconosciuto che non esistevano le esigenze per procedere al mio arresto. Durante la carcerazione ho subìto numerosi abusi che ho sempre denunciato. Ad esempio, sono stato intercettato abusivamente in carcere nei miei colloqui con i familiari e gli avvocati, la mia corrispondenza è stata letta in barba a qualsiasi norma. Sono stato tenuto in carcere perché avrei dovuto rendere dichiarazioni sull’ex presidente del Consiglio. Sono dell’avviso che oggi bisognerebbe eliminare l’autorizzazione dell’arresto del parlamentare, perché è una procedura elusiva dal merito delle vicende giudiziarie, e usata solo per battaglie politiche. La vera battaglia politica da fare, invece, è quella all’abuso della custodia cautelare: i tempi e i numeri della carcerazione preventiva oggi sono inaccettabili. Se pensiamo che il 50,7 per cento delle persone in carcere attende ancora una sentenza, ci rendiamo conto di quale mostruosità si tratti. In base alla sua esperienza, perché questo avviene in Italia? Nel resto d’Europa non è così, i detenuti in attesa di giudizio sono ad esempio solo il 16 per cento nelle carceri di Germania e Gran Bretagna. È un’anomalia tutta italiana, che purtroppo si accompagna ad altre anomalie del nostro sistema giudiziario, come la lentezza dei processi, lo strapotere dei pubblici ministeri, l’assenza di totale responsabilità per chi commette errori giudiziari. Lei ha presentato un ddl per limitare la custodia cautelare. Che cosa prevede? Ritengo che l’accertamento dei fatti deve intervenire durante il processo: perciò propongo di eliminare la custodia cautelare e limitarla solo ai più gravi reati associativi e ai fatti di sangue. La realtà del carcere italiana è semplicemente inumana e contraria a qualsiasi criterio del diritto. Dopo la sua scarcerazione, ogni fine settimana lei entra in visita a Poggioreale. Ha visitato anche le carceri di Roma e Milano. Perché? Devo la mia sopravvivenza esclusivamente ai detenuti e agli agenti, perché ogni giorno fanno uno sforzo immane perché in carcere non si muoia. Quello che ho visto con i miei occhi è che, se non fosse per l’alto grado di sopportazione e collaborazione che si sviluppa in carcere, ci sarebbe davvero da morirci dentro ogni giorno. E capisco perché si arrivi a così tanti suicidi tra i detenuti e persino tra gli agenti di polizia penitenziaria. Nelle visite che faccio raccolgo segnalazioni continue di gravi trasgressioni da quanto prevede la nostra legge, che vanno da carenze sull’assistenza medico-psicologica, alle condizioni materiali, agli abusi. Qualche giorno fa, subito dopo lo scandalo legato alle vicende leghiste, lei ha ricordato sul Giornale quello che accadde tra lei e l’allora ministro Roberto Maroni subito prima del voto alla Camera che portò al suo arresto. Cosa vi diceste? E perché, a suo parere, la Lega fu favorevole al suo arresto? Rispetto a quello che sta succedendo prendo solo atto che il ricambio della leadership in quel partito si sta realizzando a “botta” di azioni giudiziarie. All’epoca della richiesta del mio arresto, andai da Roberto Maroni e gli segnalai la mia difesa: gli consegnai quegli stessi atti che ora sono stati recepiti dalla Cassazione. Maroni mi rispose che avrebbero votato a favore del mio arresto perché la loro era una valutazione solamente politica, non di merito. Non gli interessavano le mie carte, per lui il voto era solo un segnale politico da dare all’opinione pubblica sulla posizione legalitaria della Lega. Il provvedimento della Cassazione e ciò che sta accadendo nella Lega dovrebbe indurre ad una riflessione su cosa sia davvero la legalità e cosa non lo sia. Giustizia: intervista a Mauro Palma; caso scuola Diaz, il silenzio opaco dei “colpevoli” di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 aprile 2012 Mauro Palma: “Al di là dell’esito dei processi la polizia non può più tacere. Il film di Vicari lascia volutamente aperte alcune domande. È uno spazio civile da cui può nascere una riflessione collettiva contro la rimozione operata da politica e cultura”. A Mauro Palma - ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura - “Diaz”, il film di Daniele Vicari, è piaciuto. Anche perché, dice, “lascia volutamente aperti alcuni interrogativi fondamentali”. Ed è con le domande più che con le risposte - sembra dire Palma - che si combatte quella cultura dell’”opacità” che ancora persiste nei nostri corpi di polizia. Dai tempi del “professor De Tormentis” che negli anni 70 seviziava le Br ad oggi cosa è cambiato nell’uso della tortura? Ricordiamo che a Genova sono stati coinvolti quasi tutti i corpi delle forze dell’ordine: polizia, carabinieri, polizia penitenziaria. E anche in casi più recenti, e individuali, come la morte di Stefano Cucchi sono coinvolte più forze dell’ordine. Allora la domanda è: cosa accomuna tutti queste strutture che pure hanno formazione e compiti totalmente diversi? A fronte di un indubitabile percorso pratico soggettivo - in quanto l’inserimento nei corpi di sicurezza non ha più una radice di tipo ideologico come poteva essere negli anni 70 ma piuttosto di tipo lavorativo - c’è però un elemento che è rimasto immutato: l’opacità. Può sembrare un paradosso: Genova è stata una delle esperienze più raccontata mediaticamente eppure rivela l’ossimoro di una violenza trasparente e al contempo fortemente opaca. Il film Diaz credo che volutamente lascia irrisolti due interrogativi: come sia stata possibile quella violenza sistematica agita da differenti corpi di polizia, e quali sono state le responsabilità politiche a monte (nel consentirlo) e a valle (nell’opacità della cultura degli organismi di polizia). Questa seconda domanda soprattutto interpella non solo il Parlamento, che non ha mai voluto indagare, ma anche tutto il mondo della cultura, che non si è mai soffermato sugli interrogativi profondi che poneva Genova. Eppure da allora altre volte abbiamo assistito a quel tipo di “gestione della piazza” e registrato casi di tortura dentro e fuori le caserme e le prigioni. Conta di più, in questo, l’interruzione del percorso di democratizzazione interna o l’influenza esterna della politica? Credo che il problema sia più esterno. Sicuramente a Genova i vari reparti agiscono come un branco che individua il nemico nei manifestanti, con un deficit di formazione probabilmente mutuata più dalla gestione degli stadi che delle piazze. Questo è un problema interno e non si può parlare di mele marce. Ma se all’esterno ci fosse la consapevolezza della gravità del fenomeno, se non si tendesse a depistare e a negare, si potrebbe creare una nuova cultura a partire dagli errori. È questa l’opacità? C’è opacità innanzitutto nella mancanza degli elementi identificativi sulla divisa degli agenti. Ma a Genova si è andati perfino sul terreno dell’illegalità, pur di depistare e proteggere i responsabili. Si è negato tutto, evitando così che l’evento si trasformasse in elemento di riflessione collettiva. Dopo Genova ci sono state promozioni a livello apicale e nessuna rimozione dai compiti di ordine pubblico degli agenti. Attenzione: se parlassimo di promozioni che scattano automaticamente allora potrebbero ben esistere nel caso non si sia ancora arrivati all’accertamento definitivo. Ma in tutti questi casi sono state promozioni discrezionali, sono stati scelti proprio coloro che nel frattempo erano sotto indagine. S’è mandato così un messaggio fortissimo di impunità. Addirittura ci sono persone con responsabilità accertate in sede processuale che svolgono ancora la stessa funzione. Come nel processo per maltrattamento alla “squadretta” del carcere di Asti: nella sentenza i giudici hanno scritto che in mancanza del reato di tortura l’episodio doveva essere derubricato... Sì, però nella sentenza i fatti sono stati descritti esattamente. E allora a me sembrerebbe che il primo provvedimento da prendere è quantomeno il trasferimento degli agenti negli uffici in modo da sottrarli alla responsabilità diretta dei detenuti. E invece così non è. Se si introducesse il reato di tortura, cosa cambierebbe? La tortura prevede una pena cospicua e tempi più lunghi di prescrizione. Però occorre anche un’inversione culturale: se dopo il 17 marzo 2001 a Napoli ci fosse stata una riflessione sulla gestione della piazza e sulle violenze, forse a Genova sarebbe andata diversamente. Invece si demonizza l’avversario. Ecco, questo è un punto estremamente negativo che è entrato nella formazione. La mancanza di cultura, di idealità complessiva, fa sì che ci si rifugi nelle identità deboli e che si percepisca chi ne è fuori come un aggressore. A Genova la trasversalità e l’ampiezza del movimento hanno contribuito a farlo percepire come un nemico ancora più pericoloso. Se ad essere sgomberata fosse stata una sede antagonista probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Ecco l’influenza della politica. Lei che spesso forma funzionari di polizia penitenziaria, vede in questi corpi una certa ideologica “destrorsa”? Nell’accezione tradizionale, no. Il problema però è che ci sono nuove categorie della cultura di destra, come quella di chi in Parlamento non vuole indagare sui fatti ma coprirli, di chi non vuole il codice identificativo o il reato di tortura pensando così di proteggere le forze dell’ordine. Ma non le sta proteggendo, sta creando un alone di opacità che facilita comportamenti aggressivi e ghettizzanti. I veri anticorpi sono proprio le finestre aperte. Emilia Romagna: affollamento carceri, è emergenza anche in regione di Silvia De Pasquale Affari Italiani, 18 aprile 2012 L’era dei supplizi è finita ma le carceri continuano a restare luoghi invivibili in tutta Italia. E con la crisi economica aumentano i reati contro il patrimonio. L’Emilia Romagna con il 161% dei detenuti in più è in condizioni precarie. L’associazione Antigone, l’osservatorio per le garanzie nel sistema penale, ha presentato a Bologna il rapporto annuale sulle carceri malate con numeri e dati. I radicali per protesta si stanno mobilitano con le loro lanterne rosse L’associazione Antigone, l’osservatorio per i diritti e le garanzie nel sistema penale ha presentato pochi giorni fa anche a Bologna Le prigioni malate, edizione relativa al 2011 del rapporto annuale sulle carceri italiane. Tra sovraffollamento e scarso ricorso alle misure alternative alla detenzione, nel nostro paese è sempre più evidente il fallimento del riformismo penitenziario. La situazione è critica soprattutto al Centro-Nord, tra Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. Anche se è la Puglia la regione con le carceri più sovraffollate (188,8% in più) l’Emilia-Romagna è ben piazzata (161,1% in più) al quarto posto. E con la crisi economica sembrano crescere ulteriormente i piccoli reati contro il patrimonio. L’era dei supplizi era tramontata alla fine del ‘700, e tre secoli dopo pare che il corpo torni a essere il principale bersaglio della repressione penale. A mancare, infatti, è soprattutto lo spazio vitale: i detenuti italiani vivono in meno di 3mq a testa, dove la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ne prevede almeno 7. Su una capienza regolamentare di 45,681 posti, nelle carceri italiane sono stipate quasi 67,000 persone: 146,5 detenuti ogni 100 posti. A Bologna, i meno di 500 posti disponibili se li dividono in oltre mille. Per non parlare delle carenze sanitarie e dei tagli a vitto e comparto sicurezza. La domanda è: troppi detenuti o pochi posti? Quelli di Antigone - e con loro tantissime altre organizzazioni e associazioni che si occupano del tema - non hanno dubbi: è necessaria una riforma sostanziale del Codice Penale, con maggiore ricorso alle pene alternative e una diminuzione delle fattispecie di reato. Il boom della popolazione detenuta c’è stato a partire dal ‘92, da quando la modifica all’art. 79 della Costituzione ha cambiato la maggioranza necessaria per concedere provvedimenti di clemenza. Dalla nascita della repubblica, infatti, i 28 provvedimenti di amnistia e indulto “sono intervenuti come sistema ordinario di gestione del sistema penitenziario e di contenimento del sovraffollamento”. Ci hanno pensato poi le leggi ex Cirielli, Fini-Giovanardi e Bossi-Fini a riempire le patrie galere di tossicodipendenti (che dovrebbero essere presi in carico dai servizi sociali più dal Ministero della Giustizia), cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno e recidivi. Senza contare che oltre il 41% della popolazione detenuta è ancora in attesa di giudizio. Con la “campagna politica” seguita all’ultimo provvedimento (legge n. 241/2006), le parole “amnistia” e “indulto” da unico strumento per impedire il collasso del sistema penitenziario sono diventate sinonimo di allarme sociale. I radicali di Marco Pannella, tra i più sensibili al tema, organizzano una Marcia per la giustizia e la libertà a Roma il 25 aprile. In vista di questo evento, le associazioni emiliano-romagnole organizzano un flash-mob che vedrà coinvolte in contemporanea le città di Bologna, Rimini e Modena. La sera del 20 aprile, in piazza Maggiore verranno fatte volare 53 grandi lanterne cinesi, una per ciascuno dei detenuti deceduti in carcere dall’inizio dell’anno. Sardegna: Sdr; con la legge “svuota carceri” solo 258 detenuti ai domiciliari in 16 mesi Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2012 “Da quando è diventata legge, la svuota carceri ha consentito in Sardegna di far accedere ai domiciliari soltanto 258 cittadini privati della libertà, 67 dei quali stranieri. Un numero irrisorio se si pensa che per ottenere questo risultato sono stati necessari 1 anno e 4 mesi di tempo e un ingente lavoro di assistenti sociali, magistrati e forze dell’ordine”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, riferendosi ai dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. A godere maggiormente del dispositivo di legge sono stati 73 detenuti (6 stranieri) della Casa Circondariale Buoncammino di Cagliari. I numeri più insignificanti sono stati registrati a Tempio Pausania (4 di cui 1 straniero), Iglesias (5 - 2 stranieri), Lanusei (6 italiani) e Macomer (9 - 6). “Un risultato - sottolinea la presidente di SdR - che ha confermato le previsioni di quanti sollecitavano interventi più incisivi e meno farraginosi. La svuota-carceri, pensata e proposta dall’ex Guardasigilli Angelino Alfano, ha comportato e continua a determinare un dispendio di energie e denaro e a suscitare illusioni e delusioni. Nella fase istruttoria è infatti necessario impiegare diverse figure professionali per verificare la possibilità di accedere alla misura alternativa al carcere con indagini sulla disponibilità di alloggi idonei all’accoglienza dei reclusi, familiari in grado di garantire loro il necessario per la sopravvivenza oltre che in molti casi indispensabili cure. Il lavoro di indagine svolto dalle Forze dell’Ordine, soprattutto Carabinieri e/o assistenti sociali dell’Uepe, ha comportato un aggravio per gli Uffici dei Magistrati di Sorveglianza, peraltro ridotti all’osso. Una volta concessi i domiciliari inoltre non cessa l’impegno delle Forze dell’Ordine che hanno il compito di verificare l’adempimento delle prescrizioni da parte dei detenuti con visite domiciliari anche in ore notturne. Un disagio, quest’ultimo, che grava pesantemente sulle famiglie inducendo alcuni a rifiutare l’accoglimento di un amico, parente o familiare proprio per i fastidi che comporta”. “La svuota-carceri quindi non ha affatto alleggerito il numero di detenuti che - sottolinea Caligaris - da un confronto dei dati risultano paradossalmente sempre in aumento, con condizioni soprattutto invivibili per il sovraffollamento nel carcere di Cagliari dove il numero dei ristretti resta compreso quotidianamente in media tra i 530 e i 540 contro un numero tollerabile pari a 380. Ciò in particolare vale per gli extracomunitari che non disponendo di familiari in grado di ospitarli e accudirli sono costretti a scontare nelle strutture detentive interamente la pena peraltro il più delle volte non alta”. Per quanto riguarda gli altri Istituti e le colonie penali hanno fruito dei benefici 47 detenuti di Sassari-San Sebastiano (10 stranieri); 34 di Mamone-Lodè (16 stranieri); 22 di Nuoro-Badu e Carros (4 stranieri); 18 Arbus-Is Arenas (6); 15 Oristano (3); 13 Alghero (7) e 12 Isili (6). Calabria: Lo Moro (Pd); nominare con urgenza provveditore regionale alle carceri Agi, 18 aprile 2012 “È necessario procedere con urgenza alla nomina di un Provveditore generale delle carceri calabresi che si occupi della Calabria a tempo pieno, viste le molte difficoltà che emergono dalle denunce dei sindacalisti e che diano la possibilità agli operatori penitenziari di avere un interlocutore istituzionale”. È quanto ha chiesto Doris Lo Moro del Pd in un’interrogazione rivolta al Ministro della Giustizia dopo il caso dell’assistente capo Mauro Cosentino che si è suicidato nel carcere di Rossano. “Non è escluso - continua la Lo Moro - che il suicidio dell’agente sia stato favorito da un contesto in cui non c’è la giusta protezione, il giusto riferimento per il personale. Serve un Provveditore che conosce il personale, sceglie in maniera adeguata i direttori e parla con i dipendenti, come faceva Quattrone, morto suicida anche lui qualche anno fa. L’auspicio è che si provveda a risolvere una situazione che avrebbe dovuto essere provvisoria, ma che perdura invece da alcuni anni”. Nell’interrogazione la deputata del Pd chiede inoltre di verificare verifiche al fine di adeguare la pianta organica degli agenti di Polizia Penitenziaria alle reali esigenze del carcere di Rossano, visto il sovraffollamento che tanti istituti si trovano a vivere. Napoli: il Consigliere regionale Gabriele; nel carcere di Poggioreale situazione inumana www.campanianotizie.com, 18 aprile 2012 “Una situazione assurda e inumana al carcere di Poggioreale dove tutti i riflettori sembrano puntati sul detenuto eccellente Lavitola”. Così il consigliere regionale Corrado Gabriele in visita oggi al carcere di Poggioreale che aggiunge: “Nel reparto che ospita il faccendiere Walter Lavitola docce calde tutti i giorni mentre al padiglione Napoli, dove normalmente le docce si fanno a turni bisettimanali la caldaia è guasta e i detenuti sono costretti a farla in cella su una busta di plastica con le bottiglie d’acqua riscaldata sui fornelletti a gas”. “ La situazione igienica è come sempre ai limiti delle condizioni di sopravvivenza e i detenuti costretti a stare in cella 22 ore su 24 in uno spazio di appena un metro quadro a testa fanno a turno per usare un piccolo bagno fatiscente e a turno si aiutano l’un l’altro per le docce versandosi l’acqua che riscaldano su bollitori a gas comprati a loro spese - aggiunge. Per fortuna di Valter Lavitola e soprattutto degli altri detenuti del padiglione Firenze invece le docce lì funzionano bene e si possono fare tutti i giorni. Non è certo responsabilità della neo direttrice del penitenziario napoletano la dottoressa Abbate che ha provveduto tempestivamente a ordinare la riparazione della caldaia per un importo di circa 2 mila euro, ma che quest’anno ha a disposizione per le manutenzioni dell’intera struttura la misera somma di soli 22 mila euro a fronte dei già insufficienti 150 mila euro stanziati nel 2011, per una struttura dove vi sono 2700 tra detenuti in via definitiva o in attesa di giudizio”. “Spiccano nel padiglione Firenze, accanto alla cella dell’illustre Lavitola, tante singole personalità tra cui quella di Agostino e di Mario, detenuti di mezza età che dedicano il proprio tempo allo studio della psicologia e aiutano i più giovani ad affrontare la detenzione - spiega - o quella di Mario e Francesco giovani professionisti coinvolti nello scandalo dei commercialisti che organizzano corsi per autodidatti di disegno e inglese, oppure Antonio e Ciro che griffano orologi da polso in plastica per i detenuti con le foto di mogli e figli, ricamandole con il tessuto di vecchie canottiere. Il più anziano della cella n. 16 del padiglione Napoli è sistemato sul letto più in alto di tutti sul terzo ripiano, ma non ha bisogno di scendere da lassù se non per l’ora d’aria mentre il più giovane dagli occhi lucidi e vispi disegna dei cuoricini per la sua fidanzata. Un carcere dalla diffusa umanità che avrebbe bisogno di risorse per la manutenzione, per corsi di formazione, più spazi per i colloqui e sale più accoglienti per i familiari che ogni martedì incontrano i propri cari in detenzione e gli consegnano il pacco con la biancheria”. Milano: l’Ucpi visita San Vittore; numero detenuti doppio rispetto a capienza Adnkronos, 18 aprile 2012 “Celle originariamente previste per due persone occupate da sei detenuti, in una struttura costruita nel 1879, e che quindi risente dell’usura del tempo, dove la capienza regolamentare è di 800 posti comprendendo anche i reparti chiusi da anni per inagibilità. I detenuti oggi presenti sono in numero superiore a 1500”. È quanto riferisce la delegazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che oggi ha visitato il carcere milanese di San Vittore, tappa di un tour negli istituti penitenziari italiani. La delegazione, composta dal presidente Valerio Spigarelli e dai componenti di Giunta Vinicio Nardo e Manuela Deorsola, da Alessandro De Federicis e Mirko Mazzali dell’Osservatorio Carcere, da Salvatore Scuto presidente della camera penale di Milano e Antonella Calcaterra referente carcere dell’Osservatorio e del direttivo camera penale locale - si legge in una nota - ha toccato con mano le condizioni di vivibilità nell’istituto lombardo. Nei due reparti non ristrutturati, secondo la delegazione, i servizi doccia sono in rapporto di 4 su 150 detenuti. Gli stessi rimangono “chiusi per 20 ore al giorno, e le 4 ore destinate all’aria si svolgono in luoghi inadeguati al numero di persone che ne usufruiscono”, si fa notare. A fronte di una situazione “così difficile”, rileva però l’Ucpi, “sono apprezzabili gli sforzi quotidianamente compiuti dalla direzione e dal personale di polizia penitenziaria, costretti a turni massacranti, che attraverso iniziative collegate al territorio e al terzo settore, cercano di rendere la detenzione aderente alle finalità rieducative della pena”. A tal proposito, nell’istituto esiste un servizio psicologico destinato ai nuovi giunti operativo 18 ore su 24. La visita ha ricompreso anche il reparto centro clinico dove sono reclusi 111 detenuti, “alcuni dei quali - conclude la nota - in gravi condizioni tanto da determinare la direzione sanitaria a un giudizio di incompatibilità con la custodia cautelare intramuraria”. Roma: assemblea Comunale accoglie mozione per accertamento su morte De Cupis Dire, 18 aprile 2012 “Nel corso dell’ultima seduta, l’Assemblea capitolina ha accolto con 33 voti favorevoli la mozione, da me presentata, che impegna il sindaco e la giunta ad intervenire verso gli organi preposti affinché sia fatta luce piena sulla drammatica vicenda che si è conclusa con la morte di Cristian De Cupis, 36enne romano deceduto nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo, dopo tre giorni dal suo arresto”. Così, in una nota, Andrea Alzetta, presidente Roma in Action all’Assemblea Capitolina. “A seguito dell’accaduto - spiega - si sono attivati sia il presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, sia il garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni. Cristian De Cupis, come Stefano Cucchi, non avevano patologie compromettenti tali da causare una morte improvvisa. Oltre al sostegno umano alla famiglia - conclude Alzetta - le istituzioni hanno il dovere di agire per la ricerca della verità, questa mozione è il primo piccolissimo passo”. Reggio Emilia: incontro pubblico con don Matteo Mioni, cappellano del carcere della Pulce www.redacon.it, 18 aprile 2012 Incontro, ieri pomeriggio, con don Matteo Mioni, cappellano del carcere della Pulce di Reggio Emilia. “In Italia la legge è avanzata, quello che manca è la parte rieducativa, la riabilitazione e il reinserimento nella società”. Nel pomeriggio di ieri, domenica 15 aprile, nel salone parrocchiale di Fontanaluccia (alto modenese ma diocesi reggiana), don Matteo Mioni, Fratello della carità, cappellano del carcere della Pulce di Reggio Emilia, ha tenuto un incontro sul tema “La realtà delle carceri”. Non è stata una classica relazione informativa; o almeno non solo. Già dalle prime battute si è capito che per intendere appieno quello che don Matteo cercava di dire si doveva tentare di abbandonare la logica umana su quanto spesso si sente dire sul detenuto (come fosse una categoria umana e non una condizione vissuta diversamente, così come le persone sono diverse), sulla punizione, sulla detenzione come slogan del tipo “sbagli e paghi, nessuna pietà”. La lettura del vangelo del Buon Pastore ci ha messo la prima parola: ragionare in termini diversi, di recupero ed attenzione alla persona che si è persa. E se anche questa persona continua a perdersi e non ce la fa a redimersi ad un corretto codice di comportamento, il buon pastore deve sempre aspettare e cercare e rallegrarsi qualora qualcosa cambi. “In Italia la legge è avanzata”, dice don Mioni, “quello che manca è la parte rieducativa, la riabilitazione e il reinserimento nella società”. Diventa difficile per un detenuto avere il tempo e i mezzi per pensare all’errore commesso… rimane troppo concentrato su quando la pena finirà e spesso vive nella prepotenza, confusione, mancanza di spazi (tre persone in 8 mq.) e di condizioni perché l’attenzione si sposti sulla riflessione. Spesso, quando il detenuto esce, è più scaltro di prima, perché “educato” dal sistema. Queste alcune considerazioni per aiutare a comprendere che il carcere vissuto in questo modo non porta a nulla di buono. Anche se necessariamente le persone devono “pagare” per i loro errori. Il discorso quindi è: cosa significa “pagare”? Come si può vivere un carcere in modo che davvero il detenuto capisca l’errore commesso e non abbia più occasione di ricadervi, quando fuori? Domande difficili, senz’altro, ma la risposta di don Matteo è chiara e scuote le coscienze: non è costruendo nuove carceri e lasciando i detenuti soli ad affrontare le proprie vite che si risolve il problema, ma è ascoltandoli, non etichettandoli come persi, diversi, contagiosi. È prendendosi cura di loro, andandoli a trovare, intessendo rapporti e relazioni e dando loro opportunità di cambiamento. Don Matteo riferisce anche di mettere l’appartamento della parrocchia a disposizione di alcuni di loro nel difficile momento del reinserimento, per creare un clima di “Famiglia” e di fiducia. Il messaggio finale è rivolto ad una apertura di cuore, ad un ascolto, ad una logica simile a quella del Buon Pastore. Tutto può partire da piccoli gesti: una lettera, un incontro, partecipare alla S. Messa insieme a loro, donare qualche soldo affinché abbiano il necessario per lavarsi. Il bello è capire che le grandi cose, spesso, nascono da piccoli gesti. Oristano: Pili (Pdl); già spesi 40 mln per nuovo carcere, ancora senza luce e collaudi Adnkronos, 18 aprile 2012 “Una struttura costata 40 milioni di euro, senza allaccio elettrico, senza collegamenti con le reti e i collettori fognari, mancanza di qualsiasi tipo di collaudo, aree interne abbandonate a se stesse, un guardiano privato e una consegna che non arriva. I ritardi sin qui accumulati alimentano sospetti e confermano problemi di cui tutti parlano ma che il Ministero continua a non voler affrontare”. Lo ha detto il deputato sardo Mauro Pili (Pdl) dopo aver effettuato nei giorni scorsi una visita ispettiva nel nuovo carcere di Massama, in provincia di Oristano, e aver sottoposto al Ministro della Giustizia un’interrogazione con la quale espone alcune questioni rilevanti. “La data di ultimazione e consegna dei lavori era prevista per il 29 settembre 2009 - ricorda Pili -, e a distanza di oltre due anni e mezzo dalla prevista data di ultimazione la casa circondariale di Oristano risulta ancora chiusa”. Pili ha illustrato, poi, il sopralluogo compiuto il 13 aprile scorso alla presenza degli incaricati della struttura penitenziaria: “nella visita ispettiva ho riscontrato la assenza totale di qualsiasi tipo di personale, nessuna lavorazione risulta in corso e la custodia del carcere affidata ad una guardia giurata incaricata dall’impresa. Tutte le aree interne ed esterne al carcere risultano in un totale stato di abbandono e non risultano allacciate le linee elettriche necessarie per il funzionamento della struttura e da notizie assunte non si conosce ancora la data per l’allaccio stesso da parte dell’Enel’. Pili afferma anche che “non risulta allacciata la struttura depurativa interna con i collettori esterni rendendo di fatto inutilizzabili gli impianti interni, nessun tipo di collaudo così come previsto prima della consegna delle opere alla struttura penitenziaria e non risultano presenti arredi di alcun tipo, così come non risultano attivati gli impianti di allarme per la mancata disponibilità di corrente elettrica”. La consegna ufficiale della struttura quindi “continua a slittare - dice Pili - e non risulta essere programmata così come non si conosce la data dei collaudi strutturali, statici e di sicurezza”. “Alle valutazioni e ai riscontro emersi nel corso del sopralluogo - dice Pili - si aggiunge il mancato collaudo della struttura che rappresenta un indubbio motivo di incertezza sulla futura apertura del carcere stesso. A tutt’oggi non risultano ancora disponibili gli arredi necessari e quelli acquistati sarebbero di tipo sovrapponibile lasciando intendere che la struttura possa arbitrariamente ospitare il doppio dei detenuti individuati nella capienza progettuale”. Pili affronta una “questione delicata sulla quale mancano riscontri oggettivi ma dove le indiscrezioni costituiscono più di un allarme”. Spiega il deputato: “È ovvio e necessario che venga promosso un accurato controllo statico e di sicurezza della struttura, comprese, come è scontato in questi casi, le verifiche della qualità e delle quantità dei materiali utilizzati nel rafforzamento della sicurezza, con particolare riferimento delle intercapedine dei muri sia interni, tra celle, e quelli esterni. È indispensabile promuovere tale verifica anche nell’ambito dei diversi lotti esecutivi articolatisi nel tempo al fine di garantire una costante qualità esecutiva nell’ambito di tutta la struttura”. Il deputato sardo chiede quindi al Ministro della Giustizia di predisporre tutti gli atti per rendere immediatamente operativo il carcere di Oristano - Massama e sollecitare il Ministro delle Infrastrutture affinché venga predisposto il collaudo con particolare riferimento a quello della sicurezza, comprese le verifiche delle quantità e qualità di materiali utilizzati per il rafforzamento delle intercapedine tra celle e muri esterni”. Pili ha concluso chiedendo se il ministro non “ritenga necessario, per ogni eventuale tentazione, evitare di predisporre o ordinare letti a castello al fine di raddoppiare il numero dei detenuti accoglibili nella nuova struttura considerato che sarebbe assolutamente inaccettabile un utilizzo abnorme della casa circondariale”. Roma: Assessore regione Cangemi; bene esenzione tasse università per detenuti Rebibbia Il Velino, 18 aprile 2012 “Abbiamo seguito con grande attenzione da subito, fino alla risoluzione le istanze che ci hanno rivolto per richiedere l’esonero dal pagamento delle tasse universitarie i 13 detenuti del carcere di Rebibbia. Abbiamo inoltrato la richiesta al nostro Ente per il diritto agli studi universitari nel Lazio (Laziodisu) che ha seguito in modo attento l’iter del provvedimento con l’Università”. È quanto ha dichiarato l’assessore agli Enti Locali e Sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, commentando positivamente il provvedimento che esonera dal pagamento della tassa regionale gli studenti sottoposti a misure restrittive della libertà personale iscritti presso l’Università degli studi Roma La Sapienza. “In questi primi due anni vi è stata una intensa attività sul tema delle carceri di interventi volti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti penitenziari, condivisi con le direzioni degli stessi Istituti che molte volte insieme alla Presidente Renata Polverini ho avuto modo di visitare. Tutto il lavoro che abbiamo svolto in questi 24 mesi è stato incentrato nella direzione di favorire, anche attraverso progetti specifici una seria politica di inclusione sociale, dedicando la massima attenzione verso i diritti dei detenuti”, ha concluso Cangemi. Colosimo: detenuti Rebibbia esenti da tasse universitarie “Accolgo con soddisfazione la notizia che Laziodisu ha accettato la nostra richiesta di esonerare dal pagamento delle tasse i detenuti nel carcere di Rebibbia, che hanno intrapreso un percorso di studi universitario. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’importante sostegno di Gabriella Sentinelli, assessore all’Istruzione e Politiche per i Giovani della Regione Lazio, e al lavoro dell’associazione Gruppo Idee e di Filippo Pegorari, Garante dei detenuti di Roma Capitale”. Lo dichiara, in una nota, Chiara Colosimo, consigliere regionale del Pdl e vicepresidente commissione Scuola, diritto allo studio, formazione professionale e università della Regione Lazio, che aggiunge: “Questa scelta è l’ennesima attenzione che questa maggioranza rivolge alle fasce più deboli della società, ma soprattutto una risposta rivolta ai detenuti che hanno inteso intraprendere un percorso di studi universitario, che è sicuramente un modo per favorire l’occupazione del tempo all’interno dell’istituto penitenziario e allo stesso tempo il reinserimento nel mondo del lavoro una volta usciti”. Palmi (Rc): Ugl Polizia Penitenziaria; detenuto appicca un incendio all’interno della cella Ansa, 18 aprile 2012 Ieri 16 aprile presso la Casa Circondariale di Palmi un detenuto ristretto nella suddetta struttura penitenziaria ha tentato di darsi fuoco all’interno della propria cella. Soltanto grazie al tempestivo intervento del personale di Polizia penitenziaria si è riusciti per ben due volte a scongiurare il peggio. Infatti, lo stesso detenuto, accompagnato immediatamente all’interno della locale infermeria, avrebbe da qui tentato ancora una volta di togliersi la vita ingerendo del materiale vario. Quanto accaduto, pone ancora una volta l’attenzione sulla gravissima carenza di personale esistente presso la Casa Circondariale di Palmi, dove la Polizia Penitenziaria per garantire il regolare servizio non fruisce del previsto riposo settimanale, ed è costretto, inoltre, ad effettuare circa cinquanta ore di straordinario al mese per sopperire alla carenza di organico. Venezia: i prodotti delle carcerate in mostra a San Teodoro La Nuova Venezia, 18 aprile 2012 Manifesti in pvc dismessi che diventano borse, compresi i grandi teloni utilizzati per la messa del Papa a San Giuliano di un anno fa. E poi, i cosmetici e vestiti, magliette e prodotti di pelletteria. Il progetto “Opportunità dal carcere” vuole far conoscere alla città e promuovere le attività, i prodotti ed i servizi realizzati attraverso il lavoro dei detenuti degli istituti di pena veneziani. Oggi l’attività nelle carceri produce molti oggetti e prodotti: borse di varie fogge; prodotti di cosmesi, personalizzabili anche come linea di “cortesia” nelle strutture ricettive e ricavati da coltivazioni naturali in loco, articoli serigrafati, di pelletteria, frutta e verdura biologici, servizi di catering e lavanderia industriale, per fare un veloce elenco. Oggi alle 10.30 presso la Scuola Grande di San Teodoro, in campo San Salvador (San Marco 4810) l’iniziativa viene presentata alla città, alle categorie economiche e alle realtà associative. Interverranno al convegno che sarà dedicato al mondo delle carceri e al lavoro dei detenuti l’assessore al commercio Carla Rey; Piero Menegazzi, Guardian Grando della Scuola Grande di San Teodoro, la direttrice della casa di reclusione della Giudecca Gabriella Straffi e il direttore del carcere di Santa Maria Maggiore, Salvatore Pirruccio, il direttore della Caritas don Dino Pistolato, la presidente dell’associazione “Granello di senape” Maria Teresa Menotto; Liri Longo, presidente Cooperativa Rio Terà dei Pensieri e Gianni Trevisan, presidente della cooperativa “Il Cerchio”. Interviene anche Francesca Cappelli, presidente del comitato Imprenditoria Femminile della Camera di commercio. In esposizione all’ingresso del salone tutti i prodotti realizzati nel carcere e che gli imprenditori locali possono decidere di utilizzare e acquistare o promuovere. Padova: Riina jr distribuirà i pasti nelle case dei poveri Il Mattino di Padova, 18 aprile 2012 Studente del Bo a Scienze della Formazione. Telefonista come lavoro da ex detenuto. E distributore di pasti a domicilio nelle famiglie padovane in difficoltà. Con l’obbligo quotidiano di firma in questura. Salvatore Giuseppe Riina, 34 anni, terzo figlio del boss Totò (il capo dei capi di Cosa Nostra), a Padova avrà giornate scandite con precisione in base a tempi e luoghi predefiniti. È affidato a “Noi Famiglie contro l’emarginazione”, con un tutor dell’Università e la necessaria “protezione” nei movimenti. Ieri mattina Riina jr ha disertato l’annunciata conferenza stampa. Ha deciso di tacere fino al prossimo weekend, in attesa dei gazebo della Lega Nord che sabato raccoglierà le firme “per rispedirlo a casa”. Alle 12.15, arriva la telefonata al cellulare di Tina Ciccarelli, responsabile dell’associazione. “Il ragazzo non vuole aizzare la città”, sono le parole dell’avvocato Casarotto riferite da Ciccarelli. “Il timore è che qualche dichiarazione possa amplificare la tensione già presente. Non vuole gonfiare un certo stato di livore che si è percepito fino ad oggi”. Paura? Tutt’altro. Al contrario, Riina jr “è imbarazzato per le attenzioni mediatiche e per il clamore intorno alla sua presenza” si fa interprete, ancora una volta, Ciccarelli. Da quando è arrivato, Riina jr non ha ancora firmato il contratto con la cooperativa (top secret) che gli darà un lavoro da telefonista grazie alla convenzione con “Noi Famiglie”. La firma era prevista ieri, forse è solo slittata a causa degli ultimi adempimenti burocratici. Per il reinserimento sociale dell’ex detenuto, invece, è già definito il monte ore di volontariato da “scontare” nell’associazione della Ciccarelli: “Distribuirà pasti ai poveri”. Niente mense popolari o strutture dell’accoglienza, ma appuntamenti predefiniti “in case private, vestito di umiltà” scandisce la responsabile dell’associazione. Infine, l’istruzione: è ufficialmente iscritto al corso di studi in Scienze della Formazione, ha già dato un esame e viene seguito da un professore della Facoltà, di cui viene preservata l’identità. Blindatissimo l’appartamento dove il figlio del boss è stato sistemato. Si sa che vive da solo e che incontra uno psicoterapeuta che ha “già lavorato con i carcerati e ha molta esperienza nel settore”, precisa Ciccarelli. “Si tratta di un nostro volontario, molto preparato. Potrebbe, temporaneamente, trasferirsi in casa con lui”. Durissimo il tono di Massimo Bitonci, deputato della Lega Nord. “Questo qui si mette anche a fare la superstar”. Enna: 20 aprile convegno “Carceri, carcerati e carcerieri tra sovraffollamento e amnistia” Comunicato Stampa, 18 aprile 2012 Si terrà il prossimo 20 aprile 2012 presso l’Auditorium dell’Università Kore, il convegno organizzato dal Comune di Enna in collaborazione con lo stesso ateneo ennese e con l’Associazione Culturale “Pompeo Colajanni” sotto il patrocinio dell’Ufficio del Garante per i Diritti dei Detenuti e del Senato della Repubblica, il convegno dal titolo: “carceri, carcerati e carcerieri tra sovraffollamento e amnistia”. I lavori saranno aperti, alle ore 9,30, dagli interventi di saluto delle autorità mentre dalle ore 10,30 alle ore 13,30 si susseguiranno gli interventi del Sen. Salvo Fleres, Garante per i diritti dei detenuti della Sicilia, Letizia Bellelli, Direttrice della Casa circondariale di Enna, Rita Bernardini, Deputata Radicale e componente della Commissione Giustizia della Camera, Caterina Chinnici, Assessore regionale per le autonomie locali, Angelo Meli, Direttore del Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia, il Sen. Luigi Campagna, componente della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere, Vitaliana Cecchetti, Amministratore Delegato Enaip Nazionale. Nel pomeriggio i lavori riprenderanno alle ore 16 e si protrarranno sino alle ore 19,30 con gli interventi di Anna Valvo, Preside della Facoltà di Scienze Economiche e giuridiche dell’Università Kore di Enna, il Sen. Roberto di Giovan Paolo, componente della Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Augusto Rio, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna, Gianfranco De Gesu, Provveditore per Sardegna e Calabria del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, quindi l’intervento del Sindaco di Enna, Paolo Garofalo e, infine, gli interventi conclusivi della Senatrice Maria Pia Garavaglia e del Presidente del Partito Radicale, Marco Pannella. “Questo importante appuntamento di confronto e riflessione - spiega il Sindaco Garofalo - servirà non solo ad affrontare tematiche solo apparentemente lontane alla vita di ciascuno di noi ma a porre al centro del dibattito nazionale tematiche che molto hanno a che fare con il senso di civiltà e della dignità umana”. “In tutto ciò - conclude Garofalo - offrendo alla nostra città un momento di visibilità e prestigio con un convegno che vede presenze illustri che ci onoreremo di ospitare ed ascoltare”. Nel corso dei lavori del convegno, presso l’ingresso dell’auditorium, il provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sardegna offrirà una degustazione dei prodotti agroalimentari coltivati e trasformati dai reclusi presso le Colonie Agricole sarde. La Segreteria del Sindaco Immigrazione: quando il Cie è peggio del carcere di Paolo Ferrario Avvenire, 18 aprile 2012 Per i migranti, “troppo spesso” è peggio stare nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) che in carcere. Lo dice il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti in Italia, presentato ieri dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. “Quello che viene imposto ai migranti irregolari - si legge nel Rapporto - in condizioni logistiche sovente inaccettabili e nel contesto di una promiscuità assurda, è un tempo assolutamente vuoto, privo di qualsiasi progetto e riempito solo dall’ansia e dall’incertezza del futuro. E occorre considerare - prosegue la Commissione - che si tratta in gran parte di persone molto giovani e che la detenzione può arrivare fino a diciotto mesi, una parte significativa della vita di una persona”. Ma non sono soltanto gli stranieri a soffrire in cella. Il Rapporto, infatti, presentai dati, aggiornati al 29 febbraio 2012, che raccontano una realtà fatta di sovraffollamento e diritti negati. Pur presentando una contrazione di 1.400 unità rispetto a prima dell’entrata in vigore della legge Alfano, la cosiddetta svuota-car-ceri, nei 206 istituti penitenziari italiani sono detenute 66.632 persone (di cui 24.069 stranieri), rispetto a una capienza regolamentare di 45.742. Di troppo, quindi, ci sarebbero quasi21mi-la persone. Da qui sovraffollamento e promiscuità arrivati ormai a toccare livelli non più tollerabili. “Affermare che la condizione dei detenuti costituisce una violazione della legalità da parte dello Stato -si legge sempre nel Rapporto illustrato ieri al Senato -non è una forzatura frutto di una pur legittima indignazione, ma una pertinente considerazione tecnica”. Così, mentre l’associazione Antigone chiede “un’amnistia come atto di riparazione rispetto a un’ingiustizia”, il presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del senato, Marcenaro, ha presentato un emendamento al ddl sull’adeguamento alle disposizioni della Corte penale internazionale, per introdurre nel codice penale italiano il reato di tortura. “Spero di avere un parere positivo del governo su questo emendamento”, ha aggiunto Marcenaro. Sulle condizioni delle carceri è intervenuto anche il presidente del Senato, Renato Schifani: “Come Paese dovremmo vergognarci”, ha detto. La denuncia della “identificazione quasi assoluta fra pena e carcere”, è arrivata anche dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, che ha partecipato alla presentazione del Rapporto. Conseguenza di questo stato di cose, ha osservato Flick, è “la riduzione del carcere a mera custodia; l’elusione della funzione di recupero della pena; il sovraffollamento (come conseguenza e non come causa); la necessità di tendere ad un “carcere minimo” per recuperare la funzione costituzionale della pena e il rispetto della dignità umana”. Ricordando i ripetuti pronunciamenti della Consulta sul tema, Flick ha ricordato che “la pena detentiva non annulla i diritti fondamentali e il loro esercizio non può essere compresso al di la di quanto è reso inevitabile dallo stato di detenzione e dev’essere garantito anche attraverso il ricorso al giudice”. Anzi, ha aggiunto, “il “residuo” di libertà del detenuto è doppiamente prezioso e da tutelare, perché fa capo ad un soggetto doppiamente debole: in quanto è detenuto; e in quanto, di solito, è emarginato ed in situazione di disagio sociale già prima del carcere”. E invece, ha amaramente concluso, oggi il carcere è sempre di più “una discarica sociale per e-marginati, tossicodipendenti e clandestini”. Droghe: una domanda per il ministro Riccardi… e per Giovanardi e Serpelloni di Roberto Spagnoli Notizie Radicali, 18 aprile 2012 Oscar Perez Molina è un ex generale che ha studiato alla “Escuela de las Americas”, la scuola militare da cui sono passati diversi dittatori e torturatori dei regimi sudamericani degli anni 70. Ha studiato anche all’università di Harvard e ha frequentato diversi corsi di perfezionamento militare negli Usa. Nel corso della sua carriera ha diretto i servizi segreti del suo Paese e ha compiuto diverse operazioni sul campo. Pare sia coinvolto in almeno un golpe e addirittura nell’assassinio di un vescovo. Insomma, non è quello che si potrebbe definire un pericoloso sovversivo o un libertario. Eppure propone la depenalizzazione del consumo di doghe. Oscar Perez Molina è il presidente del Guatemala e in questa veste e con questa proposta si è presentato alla “Cumbre de las Americas”, il summit che ogni tre anni riunisce i Paesi membri dell’Organizzazione degli Stati Americani, che si è svolta a Cartagena, in Colombia, il 14 e 15 aprile. Il presidente Molina sa di cosa parla: come capo dei servizi segreti militari aveva collaborato alla cattura di Joaquin “El chapo” Guzman, capo del cartello di Sinaloa, una delle più potenti e temibili organizzazioni del narcotraffico messicano. La stessa proposta l’aveva fatta poco tempo fa ad un vertice dei Paesi centro-americani: ripensare la politica antidroga. “Dopo decenni di grandi arresti, di sequestri di tonnellate di droga, il consumo e la produzione continua ad espandersi. La diminuzione del consumo di una droga viene immediatamente seguita dall’aumento della domanda di un’altra. È sui fatti che dobbiamo concentrarci quando ragioniamo di politica di contrasto alla droga. Se analizziamo i mercati dei narcotici con uno sguardo realistico (e non ideologico come va di moda in molti governi) ci rendiamo conto che il consumo di droga è un problema di salute pubblica, sfortunatamente trasformato in un problema di criminalità”, ha scritto Perez Molina sul Guardian. Il presidente del Guatemala invita ad abbandonare le posizioni ideologiche e ad aprire un dibattito sulle nuove politiche da intraprendere. La cosa interessante che sono sempre di più coloro che, dal Messico all’Argentina, esprimono posizioni simili. In molti chiedono agli Usa di riconsiderare la politica di “war on drugs” che continuano pervicacemente a sostenere nonostante cinquant’anni di fallimenti. E da Washington, in effetti, rispondono che se ne può parlare, anche se la loro politica proibizionista non cambierà. Certo al suo arrivo alla Casa Bianca il presidente Obama aveva fatto sperare in qualcosa di più. Però almeno l’amministrazione Usa risponde. Sempre meglio del governo italiano: il ministro Andrea Riccardi, che ha la competenza in materia, tace. Anzi, lascia parlare il dottor Serpelloni che assicura che la politica del governo Monti è la stessa del precedente governo Berlusconi. Ha scritto ancora Perez Molina: “Il paradigma della proibizione che ispira la politica antidroga globale main stream si fonda su una premessa sbagliata: che il mercato globale delle droghe possa essere sradicato. Non crederemmo a un’affermazione del genere se fosse applicata a tabacco o consumo di alcol, ma riteniamo si possa applicare alle droghe. Perché?”. Già, perché? Senatore Giovanardi, dottor Serpelloni, ministro Riccardi: perché? India: ministro Severino; caso marò, impegno su piano diplomatico, politico e giuridico Adnkronos, 18 aprile 2012 “Confermo in pieno l’impegno del governo per riportare in Italia i due fucilieri della nostra Marina militare, tuttora privati della libertà personale sulla base di un provvedimento restrittivo emesso dall’autorità giudiziaria indiana”. È quanto afferma il ministro della Giustizia Paola Severino, rispondendo nel corso del question time nell’Aula di Montecitorio a un’interrogazione sull’esito della rogatoria internazionale sul caso dei due marò italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, impegnati in missione antipirateria e ancora detenuti in India con l’accusa di duplice omicidio volontario per la morte di due pescatori indiani. Il guardasigilli - assicurando il Parlamento che “il governo sta esperendo tutte le iniziative del caso e a diversi livelli, impegnandosi sia sul piano politico-diplomatico che su quello tecnico-giuridico” - sottolinea “la estrema delicatezza della vicenda” e riferisce che “il 15 marzo scorso la Procura della Repubblica di Roma ha trasmesso al ministero della Giustizia il testo di una rogatoria internazionale inviata alle autorità indiane”. Severino ricorda a tal proposito di aver “disposto la trasmissione della rogatoria al competente ministero degli Esteri, per la successiva trasmissione all’autorità indiana, avvenuta per via diplomatica”. Ma, aggiunge il ministro della Giustizia, “poiché fra Italia e India non vi è un trattato di mutua assistenza, le rogative sono trattate sulla base della cosiddetta cortesia internazionale e con offerta di reciprocità per casi analoghi. Siamo quindi in attesa di risposta”. In particolare, la rogatoria riguarda gli accertamenti tecnici balistici svolti dalle autorità indiane e le dichiarazioni dei due militari italiani. “Le autorità indiane - osserva ancora Severino - contestano la giurisdizione italiana, ma non contestano il fatto che la nave battente bandiera italiana si trovasse in acque extraterritoriali”. Stati Uniti: se l’America licenzia il boia di Vittorio Zucconi La Repubblica, 18 aprile 2012 Dio ama il boia - ti risponderanno - è scritto nel grande libro della Verità rivelata, nella Sacra Scrittura, parola del Signore. E chi siamo noi peccatori, noi Americani che ci consideriamo la “luminosa città di Dio sulla collina” (dal Vangelo secondo Ronald Reagan, 11.01.1989), per disobbedire alla Sua parola? Sta qui, nel cocktail inebriante di religiosità letterale e fondamentalista e di istinti violenti di una civiltà costruita sull’associazione fra la Bibbia e la Colt, il nocciolo tossico che spiega perché gli Stati Uniti d’America siano rimasti ormai l’unica nazione occidentale, e la sola democrazia politica insieme con il Giappone, a praticare e a difendere la pena capitale. Anche quando la speranza di un ravvedimento americano sembra farsi più forte e nuovi Stati si aggiungono alla lista delle moratorie, il nocciolo si rimpicciolisce. Ma si fa ancora più duro. Il 64% degli interpellati dai demografi della Gallup crede ancora fermamente nella pena di morte e il 50% pensa che non sia inflitta abbastanza spesso. Nessuno dei candidati alla Casa Bianca per il 2013, non il presidente in carica Barack Obama, non il suo avversario Mitt Romney, osa mettere in discussione il dogma del patibolo. Quando uno degli speranzosi alfieri del partito repubblicano, il deplorevole governatore del Texas Rick Perry difese e addirittura esaltò durante un dibattito teletrasmesso l’esecuzione di Cameron Todd Willingham al quale aveva negato la commutazione, la platea esplose in un’ovazione. Eppure Willingham era innocente o almeno meritevole di nuove indagini: tutte le indagini successive alla condanna a morte, e le petizioni sul tavolo di Perry quando diede l’ok allo stantuffo nelle siringhe letali, avevano indicato che le tesi della pubblica accusa erano senza fondamento. Per quattro decenni, da quando la Corte Suprema aveva temporaneamente sospeso il supplizio capitale, la speranza degli abolizionisti come lo scrittore di thriller legali e avvocato lui stesso, Scott Turow divenuto accanito critico della forca, era stata che la certezza di avere mandato a morire persone non colpevoli avrebbe finalmente toccato il nocciolo duro di fondamentalismo vendicativo dentro il cuore dell’America. Non è stato, almeno non fino a ora, così. Duecento settanta condannati a morte negli ultimi 30 anni sono stati completamente esonerati grazie ai nuovi test del Dna condotti sui reperti forensi. È impossibile stabilire quanti innocenti abbiano salito i gradini del patibolo, quanti degli uomini (soltanto tre femmine sono state messe a morte per legge) che sono stati gassati con il cianuro, rosolati sulla sedia elettrica, freddati dal plotone di esecuzione, impiccati, paralizzati con curaro e poi sepolti vivi dentro il proprio corpo e soffocati in apparente riposo dal sodio pentotal, fra i circa 16mila uccisi dopo l’impiccagione del capitano George Kendall nella Virginia del 1608 per alto tradimento. Un’estrapolazione basata sulle nuove scoperte scientifiche dal “Progetto Innocenza” indica nel 3% i casi di errore letale, dunque potrebbero essere cinquecento gli innocenti ammazzati nel nome della legge. Ma la risposta di quei due americani su tre che restano aggrappati all’illusione della giustizia perfetta, quella che chiede una vita come “retribuzione” contro chi una vita ha rubata, oltre alle citazioni delle occasioni nelle quali numerose volte il temibile Dio dell’Antico Testamento chiede “l’occhio per occhio” o invoca (Levitico, 20:10) la morte per adulterio, è ancora più agghiacciante del puro fanatismo biblico. “Il rischio di errore naturalmente esiste - razionalizza Steven Stewart, pubblico ministero dell’Indiana - ma il fatto che possano raramente essere stati giustiziati innocenti non deve impedire l’applicazione della legge, non più di quanto incidenti d’auto mortali debbano portare alla eliminazione delle automobili”. “Effetti collaterali”, dunque, morti accidentali e malaugurate, sul fronte di una guerra che appare giusta e addirittura santa. Ancora più fanaticamente, il docente di filosofia morale all’Università del Texas ad Austin, J. Budziszewski, taglia corto sentenziando che “la pena capitale riporta ordine morale nel disordine morale prodotto dal crimine”. Non è irragionevole pensare che in futuro, soprattutto se i cristiani che si riconoscono nella Chiesa Cattolica riprenderanno il memorabile appello fatto a St. Louis dove Giovanni Paolo II chiese di abolire la forca, anche gli Stati Uniti riconosceranno la inutile barbarie dell’omicidio di Stato, quella barbarie che neppure i metodi di morte come l’iniezione letale - studiata per risparmiare al pubblico l’orrore di sedie elettriche o camere a gas, non per “umanità” verso la vittima - riescono a rendere tollerabile. Ma non subito, non nella viltà di una classe politica che liscia il pelo dell’elettorato e non nel periodico riattizzarsi di ondate di terrore collettivo. E asseconda il peggio che dorme nel grande corpo dell’America: la confusione fra la giustizia divina e la vendetta umana. Stati Uniti: bimba di 6 anni fa i capricci a scuola, la polizia la ammanetta Ansa, 18 aprile 2012 La politica di polizia è quella di non fare discriminazioni di età per ogni detenuto che viene portato in centrale. Per la serie quando è troppo è troppo, anche per quanto riguarda i capricci, spesso ingiustificati, dei bambini. La polizia ha ammanettato una bambina di 6 anni letteralmente imbizzarrita a scuola e che non riusciva ad essere calmata con le buone né dagli insegnanti ne dalla stessa polizia. La drastica decisione è arrivata dopo che Salecia Johnson di Milledgeville, in Georgia (Usa) ha iniziato a lanciare mobili in aula e a strappare poster e cartine dalle mura. La bambina stava piangendo nell’ufficio del Preside quando è arrivata la Polizia e, secondo un rapporto delle stesse forze dell’ordine, ha resistito quando un poliziotto ha cercato di calmarla. Incapace di controllare la piccola, e per la sua stessa sicurezza, l’ufficiale ha deciso così di ammanettarla. Iran: due detenuti per traffico di droga impiccati nel carcere di Zanjan Aki, 18 aprile 2012 Due persone sono state impiccate perché colpevoli di traffico di droga nel carcere di Zanjan, nell’Iran occidentale. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione Fars, senza rivelare le identità delle vittime. Secondo ‘Iran Human Rights’, si tratta delle ennesime impiccagioni di detenuti accusati di narcotraffico avvenute negli ultimi tempi nella Repubblica Islamica. Dallo scorso 9 aprile, infatti, almeno 20 persone sono state giustiziate in Iran con questa accusa, sottolinea Ihr, che riferisce di condanne a morte eseguite a Kerman, Tabas, Shahr-e-Kord, Shiraz e Zanjan. Tre giorni fa otto persone sono state impiccate nel carcere di Shiraz, nel sud della Repubblica islamica.