La punizione socialmente utile Il Mattino di Padova, 16 aprile 2012 Quando si chiede a un detenuto se ritiene la sua pena giusta, la risposta è più o meno sempre la stessa: il vero problema non sono gli anni di galera, ma come uno li sconta, che senso riesce a dare alla sua pena, se vive la carcerazione riuscendo a trovare qualcosa di utile nelle sue giornate. Di recente sui giornali si è parlato di un progetto, messo a punto dal Centro di Servizio per il volontariato insieme all’Ufficio scolastico provinciale e alla Provincia di Padova, che prevede tra l’altro di trasformare la sospensione dalle lezioni per motivi disciplinari in un’attività che il ragazzo sospeso deve svolgere in una associazione di volontariato, i detenuti ne hanno discusso con la sensazione che quella “pena” abbia davvero più senso della pura punizione, così come per tanti reati non gravissimi avrebbe più senso, anche per gli adulti, usare di più i lavori socialmente utili o altre modalità per “mettere alla prova” l’autore di reato invece di cacciarlo semplicemente in carcere. Un modo, tra l’altro, per far capire a ragazzi, ma anche ad adulti che con i loro comportamenti non hanno saputo rispettare gli altri, che lavorare gratuitamente in ambito sociale insegna a pensare un pò meno a se stessi, a confrontarsi anche con la sofferenza e ad appassionarsi a un mondo, quello del volontariato, che ti può davvero rendere la vita meno noiosa. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che hanno provato a immedesimarsi nella condizione di studenti che hanno trasgredito alle regole. Scuola e pena Qualche giorno fa, scorrendo le pagine di un quotidiano locale, ci siamo imbattuti in un articolo che ha attirato la nostra attenzione e che ci ha spinti a riflettere su un tema che riguarda la disciplina nelle scuole e le punizioni che vengono adottate per gli studenti che non la rispettano. L’articolo parlava della possibilità di applicare agli studenti, puniti con una sanzione disciplinare per comportamento scorretto, un nuovo tipo di “pena” diverso dalla sospensione, che oltre a punire svolgesse anche una funzione educativa. Insomma la stessa funzione che in base all’articolo 27 della Costituzione dovrebbero svolgere gli istituti penitenziari di questo Paese. Noi, che sappiamo cosa vuol dire essere puniti pesantemente con tanti anni di carcere, ci poniamo una domanda: è sempre giusto punire in maniera dura? Secondo noi certi comportamenti più che puniti andrebbero analizzati caso per caso, i ragazzi invece di essere esclusi dalla scuola andrebbero stimolati a seguire le lezioni, responsabilizzati, posti di fronte a delle situazioni che li facciano riflettere, che li rendano consapevoli che all’interno di una comunità bisogna imparare a rispettare gli altri. Punire, senza riuscire a dare un senso alla punizione, non educa e tantomeno rieduca. Se partiamo proprio da quella che è stata la nostra esperienza, ci sembra che il volontariato sarebbe la miglior soluzione per i giovani, cosi loro possono rieducarsi, e possono rendersi conto dei loro sbagli. Noi siamo venuti in Italia che eravamo ancora giovanissimi, e nel nostro percorso scolastico qui nel vostro Paese abbiamo avuto anche noi una sospensione, ma in quegli anni non c’era l’attività di volontariato, ci mandavano a casa senza rendersi conto che lì, da soli perché i nostri genitori lavoravano, potevamo fare quello che volevamo. Vedendo le attività di volontariato nelle quali possono impegnarsi ora gli studenti ne ricaviamo una buona impressione, cosi ci sembra che i ragazzi possano capire la loro responsabilità. Quanto alla nostra esperienza carceraria, per noi che siamo entrati in giovane età in carcere, quello che abbiamo capito è che non sempre punire con la galera è una soluzione sensata, perché le carceri italiane sono sovraffollate, e in questa situazione nessuno ti dà la possibilità di rieducarti, di cambiare, di imparare qualcosa, di crescere davvero. Qamar e Miguel Come evitare che il carcere diventi un trampolino di lancio per vivere nell’illegalità Io, che sono stato fin da ragazzo “un soggetto difficile”, mi sono subito incuriosito alla notizia che in alcune scuole di Padova si sta adottando un criterio diverso di punizione per i soggetti più indisciplinati, tramutando la classica sospensione dalla scuola in lavori di volontariato, lavori “socialmente utili”. Si è rovesciato il criterio con cui trattare i ragazzi, un po’ come dovrebbe succedere, secondo la Costituzione, anche in carcere: da punitivo a rieducativo. Facendo una riflessione sulla mia esperienza personale credo che un provvedimento del genere sia più utile per rieducare una persona, che magari durante il giorno lavora o va a scuola e nel tempo libero deve dedicarsi al volontariato, riflettendo così sicuramente sui comportamenti che lo hanno portato a non poter trascorrere quel tempo con i suoi amici. Credo invece che l’allontanamento per alcuni giorni dalla scuola possa diventare per lo studente addirittura un “premio”, come accadeva con me quando venivo sospeso, e passavo le intere giornate a non fare nulla, o giocando al computer. Il risultato era quello di non aver speso nemmeno un minuto di quel tempo a riflettere sul perché fossi stato allontanato dalla scuola, senza peraltro neppure rendermi conto di non aver elaborato il senso della punizione ricevuta. Ho vissuto la mia prima esperienza con il carcere minorile per un piccolo reato proprio mentre ero al secondo anno di liceo, penso che se invece di chiudermi in carcere mi avessero fatto svolgere un lavoro di pubblica utilità non avrei abbandonato gli studi, e forse non sarei diventato una persona peggiore di quella che ero prima di varcare la soglia del carcere minorile. Dico questo perché quel tipo di esperienza per un minore, che quasi sempre è poco cosciente dei suoi errori, non lo renderà una persona migliore, anzi io sono uscito con una carica di aggressività che non avevo mai avuto prima, senza trovare più nessuna motivazione per continuare a studiare, e così mi sono allontanato dall’ambiente scolastico e mi sono rifugiato in quello dell’illegalità, che si era radicato in me dopo quell’esperienza. Noi, all’interno della redazione, molto spesso ci confrontiamo su questi temi, sul senso della pena e su come abbiamo vissuto la carcerazione, soprattutto quelli di noi che hanno cominciato a entrare in carcere da ragazzi. Agli studenti che partecipano al progetto di confronto fra la scuola e il carcere cerchiamo di spiegare che la pena non dovrebbe essere semplicemente punitiva, ma dovrebbe tendere a far riflettere sugli errori che hanno portato a commettere il reato, e il carcere non deve essere il primo rimedio, ma l’ultimo, almeno per quelle persone che fanno piccoli reati e in particolar modo per i ragazzi minorenni. Se si permettesse loro di svolgere lavori di pubblica utilità, si riuscirebbe forse ad evitare che l’esperienza carceraria diventi un trampolino di lancio per vivere nell’illegalità, come è avvenuto per me. Luigi Guida La soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce Ogni giorno, sfogliando i quotidiani, noi qui dal carcere non possiamo non guardare con ansia al problema dei ragazzi che incominciano a violare le regole in una età giovanissima. È per questo che organizziamo un progetto che ha come scopo principale quello di parlare con gli studenti. È un progetto importante non solo per i giovani, ma anche per noi, che ci apriamo a loro parlando del perché uno finisca in carcere, e non è facile tirare fuori quei momenti del nostro passato che più ci fanno male, però noi siamo convinti che ai ragazzi i nostri racconti portino il beneficio di vedere concretamente le conseguenze di certi comportamenti a rischio. Noi prima di essere detenuti siamo padri e facciamo non poca fatica a metterci davanti a loro e a portare la nostra testimonianza. Appena arrivano con le loro classi sono molto spaesati, non è facile entrare in un posto come questo: allora cerchiamo di metterli a loro agio, piano piano incominciano a farci qualche domanda, lì vedi che vogliono capire anche ascoltando le nostre storie poco felici, e in qualche modo si sentono un pò partecipi, perché fuori forse hanno un amico che magari ha usato della droga, o per mostrarsi forte davanti a una ragazza ha tirato fuori un coltellino. Un ragazzo davvero non dovrebbe conoscere il carcere al primo reato che fa, così come non dovrebbe essere punito troppo duramente se a scuola non rispetta le regole, le istituzioni dovrebbero cercare di aiutarlo nel modo più costruttivo possibile: per esempio se per caso ha danneggiato delle cose, la miglior punizione è che in qualche modo ripari i danni prodotti, aiutato da una associazione di volontariato, cosi che la sua “pena” si trasformi in qualcosa di utile per la società. Molte associazioni hanno preso a cuore questo problema e già ci sono i primi sviluppi, speriamo che in futuro tutte le scuole adottino il metodo dei lavori di pubblica utilità. Noi dal carcere cerchiamo di far capire che la soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce e basta, e lo facciamo portando agli studenti la nostra esperienza. Alain Canzian Giustizia: 67mila detenuti per 45mila posti; carceri malate, tra sovraffollamento e suicidi di Giovanni Stinco Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2012 A guardarci dentro si trovano storie agghiaccianti. Come quella di A.M, detenuto in attesa di giudizio a Bergamo morto per una neoplasia non più operabile a causa dei ritardi delle visite specialistiche e delle terapie. O ancora, all’altro capo del paese, c’è la vicenda di un detenuto del carcere di Siracusa che non può fare più dialisi perché manca il carburante per portarlo in ospedale. Storie di ordinaria vita carceraria raccolte nell’ottavo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione dell’Osservatorio Antigone, presentato al Vag61 di Bologna. Le prigioni malate, è il titolo di quello che è diventato anche un libro di 203 pagine, numeri, storie e dati raccolti dai volontari di Antigone che da 14 anni entrano nelle carceri di tutta Italia. E allora eccoli i numeri: 67mila detenuti registrati a settembre 2011, 45mila i posti previsti, 28mila coloro che attendono dietro le sbarre la sentenza definitiva, 14mila quelli che addirittura stanno aspettando il primo grado. Su tutto domina il sovraffollamento e un dato: i 450 ricorsi presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro le condizioni inumane di detenzione. A Lamezia Terme i posti letto sono 30, i detenuti 91. A Busto Arsizio, provincia di Varese, i detenuti sono 423 su una capienza programmata di 167 posti. Tra loro 255 stranieri. Ad Agrigento invece i detenuti sono 450 su 250 posti. Impossibile lavarsi con l’acqua calda, in compenso quando piove gli ospiti delle celle dell’ultimo piano possono quasi farsi la doccia, viste le crepe nei muri e sul soffitto. A Poggioreale si fanno i turni per stare in piedi in cella, mentre a Reggio Calabria un detenuto non è potuto andare al funerale del padre. Mancava la scorta. A Bologna, dove sono oltre mille i detenuti su meno di 500 posti, pochi mesi fa è scoppiata anche una rivolta. E se i carcerati stanno malissimo, dall’altra parte delle sbarre le cose non vanno meglio, con gli agenti penitenziari costretti a condividere condizioni di vita degradanti e a volte disumane. A Caltagirone, caso estremo, un assistente capo di Polizia penitenziaria si è suicidato impiccandosi a un albero. Non si contano i suicidi dei detenuti, tanti da inizio anno, troppi. E anche questo dei suicidi è un punto che i sindacati di polizia penitenziaria - inascoltati - denunciano da tempo. Una situazione comune un po’ a tutte le carceri, da San Vittore a Taranto. In prospettiva, per tamponare il problema, ci sarebbe il “Piano carceri”, il progetto lanciato due anni fa per risolvere, attraverso la costruzione di nuovi padiglioni, il problema del sovraffollamento. Novemila posti contro 21mila detenuti in soprannumero. “Dei 9.150 nuovi posti previsti - spiega il rapporto di Antigone - 2.400 sorgeranno in Sicilia, 850 in Campania, 1.050 in Puglia: circa metà dei nuovi posti si concentrerà dunque al sud, mentre oggi i tassi di sovraffollamento più elevati si registrano nel centro nord (Emilia Romagna, Lombardia e Veneto in testa)”. Peccato poi che i carceri già ci sarebbero, e pure funzionanti e sorvegliati. Sono quelli che Antigone chiama “carceri fantasma”, pronti per l’uso ma vuoti o addirittura abbandonati. Ad Accadia in provincia di Foggia c’è un carcere consegnato 20 anni fa e mai utilizzato. Sempre in provincia di Foggia, questa volta a Castelnuovo della Daunia, c’è una struttura pronta e arredata da 15 anni fa ma mai aperta. Ad Agrigento invece una sezione femminile da 100 posti letto è occupata da solo 6 donne. Ad Arghillà, in provincia di Reggio Calabria, il carcere locale è nuovissimo ma inutilizzato. Manca la strada d’accesso e l’allacciamento alla fogne e al servizio idrico. A Monopoli invece il carcere, ormai abbandonato, è stato occupato abusivamente dagli sfrattati. A Codigoro, in provincia di Ferrara, la casa circondariale è vuota e non si sa nemmeno a chi appartenga. Per il Ministero della Giustizia è del Comune, per il Comune è ancora dello Stato perché il passaggio di proprietà non è mai avvenuto. Giustizia: “Matti al bivio”, inchiesta sulla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari di Lidia Baratta, Tommaso Canetta, Paolo Fiore, Alvise Losi, Edoardo Malvenuti, Pietro Pruneddu, Silvia Ragusa, Maurizio Bongioanni www.repubblica.it, 16 aprile 2012 Un tempo si chiamavano “manicomi criminali”, ora sono Ospedali psichiatrici giudiziari. Vi finisce chi commette un crimine in condizioni di accertata malattia mentale. Ne sono rimasti sei con 1200 detenuti e alla fine del 2013 dovranno chiudere. Nessuno ha ancora capito bene dove andranno a finire i ricoverati. Abbiamo visitato l’Opg di Castiglione delle Stiviere, quello dove si cerca di curare non solo di segregare Addio ai vecchi manicomi criminali, i “rei folli” in attesa di trasferimento Gli Opg stanno per chiudere. Nel 2010, la commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, si “imbatte” nei sei ospedali psichiatrici giudiziari ancora in uso. Luoghi dimenticati, sfuggiti agli interventi legislativi degli ultimi ottant’anni, legge Basaglia compresa. Adesso il decreto “svuota carceri” ha deciso: dovranno chiudere entro il 31 marzo 2013. Ma le nuove strutture ancora non ci sono Si chiamano Opg: ospedali psichiatrici giudiziari. Sono i vecchi manicomi criminali. Strutture dimenticate, sfuggite agli interventi legislativi degli ultimi ottant’anni, legge Basaglia compresa. Adesso il decreto “svuota carceri” ha deciso: dovranno chiudere entro il 31 marzo 2013. Ma le strutture capaci di accogliere i “folli autori di reato” ancora non ci sono Nel 2010, la commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, come ammesso dallo stesso senatore Ignazio Marino - presidente della commissione - si “imbatte” nella questione degli Opg. “Non immaginavamo nemmeno lontanamente che nel nostro Paese esistessero ancora dei residui delle strutture manicomiali realizzate durante il fascismo”, dichiara Marino. Gli ospedali psichiatrici giudiziari, invece, sono spesso manicomi criminali a cui è stato cambiato il nome. “In alcuni casi si tratta materialmente degli stessi edifici”. Come l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, che ha sede nella struttura inaugurata dal ministro Rocco negli anni 30. La commissione decide di intervenire e dà il via a una serie di ispezioni a sorpresa nei sei Opg italiani. “Nel giugno 2010 a Barcellona Pozzo di Gotto abbiamo trovato un uomo nudo legato con delle garze, usate come delle corde, a un letto di ferro con un buco arrugginito al centro che serviva per la caduta degli escrementi e delle orine”, racconta il senatore Marino. In quattro degli altri cinque Opg la situazione non è migliore. Si tratta di carceri dove vengono rinchiusi i malati di mente autori di reato. Senza alcun percorso di recupero e, spesso, senza rispetto per le più elementari norme igienico-sanitarie. L’unica eccezione è rappresentata da Castiglione delle Stiviere, in Lombardia. La struttura è di tipo ospedaliero, non ci sono secondini ma solo infermieri. Si punta sulla cura dei pazienti anziché sulla detenzione. A gennaio 2012 in Senato si discute il decreto ribattezzato “svuota carceri”. I senatori Ignazio Marino, Felice Casson e Alberto Maritati, sulla base dei risultati raccolti dalla commissione parlamentare, presentano un emendamento che prevede il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013. Il decreto diventa legge il 14 febbraio 2012. Il conto alla rovescia inizia. Alle Regioni, che hanno la competenza in materia sanitaria, restano 12 mesi per dotarsi di nuove strutture capaci di accogliere i degenti. Il termine è ravvicinato, ma, spiega Ignazio Marino: “Ho insistito per una scadenza a breve termine per comunicare il senso di urgenza che dobbiamo avere: in questo istante ci sono ancora delle persone chiuse in quegli orribili luoghi”. I detenuti negli Opg sono oltre 1.200. Due sono i requisiti perché il giudice disponga una misura di sicurezza detentiva, in sostituzione o in aggiunta alla pena: la commissione di un reato e la pericolosità sociale. Chi commette un crimine ed è incapace di intendere e volere, perché affetto da gravi disturbi mentali (come schizofrenia, psicosi maniaco - depressive, paranoia o demenze), non viene condannato a una pena da scontare in carcere. Se viene dichiarato socialmente pericoloso, cioè si ritiene probabile che commetta nuovamente reati, viene sottoposto a una misura di sicurezza calibrata in base al grado di pericolosità. Nei casi più gravi, la detenzione in Opg. La differenza principale tra pena e misura di sicurezza è nella durata. La pena ha una durata certa, la misura di sicurezza invece è prorogabile teoricamente all’infinito: è quello che si dice “ergastolo bianco”. Per capire cosa significa, basta citare un caso estremo riportato dalla commissione d’inchiesta: nel 1992 uno dei detenuti è stato arrestato per una rapina di 6 mila lire. Ha finto di aver in tasca una pistola. Incapace di intendere e volere, da vent’anni è chiuso nell’Opg di Barcellona, mentre i suoi tre complici, ritenuti capaci, non hanno fatto neanche un giorno di carcere. Un’altra vicenda simile è quella di M. L., condannato a due anni di detenzione e internato da 25 anni nell’Opg di Napoli. Alcuni pazienti - detenuti, che hanno prima scontato la pena in carcere, si sono visti dare anche la misura di sicurezza in Opg. Sono i “parzialmente incapaci” che, nonostante la galera, sono comunque ritenuti socialmente pericolosi e quindi bisognosi di un reinserimento più graduale nella società. La nuova legge prevede che i pazienti internati negli Ospedali psichiatrici giudiziari vengano distinti in due gruppi: quelli con una pericolosità sociale tale da giustificare la detenzione, e quelli che possono già essere parzialmente reinseriti nella società. Questi ultimi, il 40% del totale, verranno presi in carico dai Dipartimenti di salute mentale e trasferiti in comunità terapeutiche o in strutture psichiatriche residenziali, che in molti casi già esistono. Per quelli ancora socialmente pericolosi, la questione è più complessa. In teoria dovrebbero andare in strutture modellate sull’esempio di Castiglione delle Stiviere. Cioè in istituti con una gestione esclusivamente sanitaria e con la sicurezza garantita da un perimetro di vigilanza esterna. Il problema è che, escludendo Castiglione, queste strutture non esistono. Il compito di costruirle è affidato alle Regioni e i fondi sono già stati individuati nel decreto “svuota carceri”: 120 milioni nel 2012 e 60 nel 2013 per la realizzazione delle strutture. Altri 38 nel 2012 e 55 all’anno dal 2013 per la loro gestione. Quello che manca è un decreto che definisca l’organizzazione delle nuove strutture, le loro dimensioni e gli standard di sicurezza richiesti. Lo sta elaborando un gruppo di lavoro che coinvolge i ministeri di Salute e Giustizia e i rappresentanti di otto regioni: le cinque che ospitano gli Opg (Campania, Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia e Toscana) oltre a Puglia, Veneto e Liguria. I lavori procedono, ma potrebbero avere ritardi. È già scaduta la data fissata per l’uscita del decreto, il 30 marzo 2012. Il gruppo di esperti si è riunito per la prima volta il 20 marzo e terminerà i lavori a metà aprile. Da quel momento partirà l’iter che porterà alla pubblicazione del decreto. Un percorso che potrebbe richiedere tempo e che renderebbe ancora più difficile per le Regioni dotarsi delle strutture previste entro il 31 marzo 2013. In altre parole è da mettere in conto che la scadenza fissata dallo “svuota carceri” non sarà rispettata. Lo sottolinea anche Ignazio Marino: “Nel nostro Paese ci sono differenze importanti nell’offerta sanitaria. Immagino che alcune Regioni arriveranno con un certo ritardo. Questo è motivo di preoccupazione. Bisogna considerare che, quando fu introdotta nel 1978 la legge Basaglia, si indicò di chiudere immediatamente i manicomi civili. Ma l’ultimo è stato chiuso nella seconda metà degli anni ‘90. Con questo non voglio dire che sarei felice se la chiusura definitiva avvenisse in vent’anni, ma mi rendo conto che i tempi potrebbero, in alcune Regioni, allungarsi”. Per ora, poco trapela sui contenuti del decreto. Le dimensioni delle strutture dovrebbero essere comunque molto contenute: 20 o 30 posti letto. Un’informazione confermata dal senatore Marino e da uno dei membri del gruppo di lavoro, l’incaricato della Regione Veneto Lorenzo Rampazzo. Non è ancora chiaro se le strutture che ospiteranno i “rei folli” ad alto rischio dovranno essere del tutto indipendenti o potranno essere sezioni annesse alle carceri. “Questo è un punto in discussione”, dice Rampazzo. Al momento “non c’è nessuna norma che vieti” di percorrere anche la seconda strada. In attesa di direttive dall’alto, le Regioni si stanno muovendo in ordine sparso. Quasi tutte hanno dato vita a gruppi tecnici incaricati di individuare le strutture più adatte ad accogliere gli internati a bassa pericolosità. Ma molte sono ancora ferme a questo stadio. Solo alcune si sono già portate avanti con il lavoro. Il Veneto entro giugno dovrebbe inaugurare una “struttura intermedia” da quindici posti letto, che guiderà i degenti degli Opg a basso rischio verso il reinserimento. Una soluzione simile è già presene in Toscana: si chiama “Le Querce” e ospita una decina di persone. È il primo passo. “Ne mancano tanti prima di arrivare alla chiusura dell’Opg di Montelupo”, conferma l’assessore alla Salute della Toscana Daniela Scaramuccia. L’Emilia Romagna ha scelto un’altra via: si è dotata di un “Fondo regionale pazienti ex Opg”, che finanzia le cure e il reinserimento degli ex degenti: fino al 2009 (l’ultimo dato disponibile) i pazienti ammessi a questo progetto sono stati 198. Al di là di poche eccezioni, le Regioni italiane si avvicinano alla scadenza del 31 marzo 2013 a passo lento: tra progetti di accoglienza e fonti di finanziamento da definire, in attesa delle indicazioni che arriveranno dal ministero, a oggi nessuna Regione sarebbe capace di garantire strutture adeguate ai degenti socialmente pericolosi. Un discorso a parte va fatto per Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta, le tre regioni che rientrano nel bacino di Castiglione delle Stiviere. Ignazio Marino conferma che la struttura mantovana “non verrà toccata”. Al più verrà ridimensionata. A gennaio 2012 ospitava 322 degenti, ben oltre la capienza massima. Troppo, anche perché Castiglione si fa carico di tutte le donne internate in Italia: 86 secondo i dati di gennaio. Presto dovrebbero essere destinate alle proprie regioni perché, spiega Marino, “non è possibile continuare con un metodo per cui una donna di Siracusa viene ricoverata a mille chilometri di distanza da casa sua”. Il modello, quindi, anche per le altre Regioni sarà questo: una struttura come Castiglione, ridotta e alleggerita. Ma quanto costa il “modello Castiglione”? La struttura si regge con 13,7 milioni l’anno. È l’unica sanitarizzata e per questo ha una forma di finanziamento diversa dagli altri Ospedali psichiatrici giudiziari: utilizza 4,5 milioni della Regione Lombardia, la sola che mette mano al portafogli. Piemonte e Valle d’Aosta spediscono a Castiglione i propri “rei folli”, ma non finanziano la struttura. Che riceve 9,2 dei 23 milioni che il Fondo sanitario nazionale destina agli Opg. Il 40% del totale, una fetta consistente, ma che va chiarita. Non avendo celle e guardie carcerarie, Castiglione non riceve un euro dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) che, invece, finanzia gli altri cinque Opg con circa 100 euro al giorno per ogni degente. Una pioggia di milioni (oltre 34 l’anno) che arriva dal ministero della giustizia per sostenere la spesa carceraria. E che supera quanto stanziato dal Fondo sanitario nazionale. Tenere gli internati dietro le sbarre, quindi, non costa meno di tentare di curarli. Sommando quanto erogato dal Dap, dal Fondo sanitario nazionale e dalla Lombardia, risulta evidente che il “modello Castiglione” non è l’Opg più costoso. Barcellona Pozzo di Gotto costa quasi 14 milioni l’anno, con risultati molto diversi: sovraffollata (a gennaio gli internati nell’Opg siciliano erano cento oltre la capienza massima), la struttura è stata descritta dalla commissione d’inchiesta del senato “in pessime condizioni”, “sporca e cadente”, caratterizzata da “un lezzo nauseabondo di urina” e con i degenti in stato di “disumano abbandono”. Le differenza tra Castiglione e gli altri Opg non è (solo) questione di risorse. È decisiva una diversa gestione della spesa: se nel centro lombardo due terzi del budget vengono investiti in risorse sanitarie, negli altri Ospedali psichiatrici giudiziari la stessa porzione di finanziamenti è destinata alla struttura carceraria. La conferma, anche economica, che gli Opg, in attesa della loro chiusura, restano carceri più che strutture sanitarie. Per replicare il modello Castiglione nelle altre regioni, i 55 milioni l’anno previsti dal 2013 per la gestione delle strutture dovrebbero essere sufficienti. La somma non è lontana da quella sborsata da Fsn e Dap: in tutto circa 57 milioni. La prova che la trasformazione degli Opg in ospedali non è solo eticamente necessaria, ma anche economicamente sostenibile. Niente sbarre, niente “sbirri”, a Castiglione solo psichiatri e infermieri Negli Opg si torna in libertà quando l’individuo non è più considerato “socialmente pericoloso”. Se la terapia non funziona il rischio è non uscire più. Castiglione delle Stiviere è l’unico Opg a prevalenza sanitaria, dove la sola barriera tra i pazienti e la libertà sono le alte cancellate di recinzione. Un approccio differente che tenta di liberare il malato Sei matto, ti dicono. E hai commesso un reato. Ma sai che non è così. Sono “loro” che ti hanno incastrato e portato qua dentro. In un carcere che non è un carcere. Un manicomio che non è un manicomio. Un ospedale psichiatrico giudiziario. Qui ci finiscono quei criminali che hanno commesso il reato perché sono pazzi. Ma tu non lo sei. Tu hai reagito per difenderti. E ora ti imbottiscono di farmaci. Ti intontiscono. Dicono di farlo per il tuo bene. Per guarirti. Perché tu non sia più pericoloso per gli altri. Sono queste, spesso, le sensazioni di chi entra in Opg. Di chi è giudicato “incapace di intendere e di volere”. E per questo deve scontare un periodo di reclusione in una struttura che garantisca, e imponga, la cura. Il ritorno in libertà avviene solo quando l’individuo non è più considerato “socialmente pericoloso”. Decisione che spetta al magistrato di sorveglianza, su suggerimento dello psichiatra. Se la terapia non funziona il rischio è non uscire più. Ipotesi ancor più probabile se sei rinchiuso in uno dei cinque Opg a prevalenza detentiva: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Napoli, Reggio Emilia. Meno psichiatri, meno infermieri, meno attenzione alla cura del paziente. Castiglione delle Stiviere è l’unico Opg a prevalenza sanitaria, dove la sola barriera tra i pazienti e la libertà sono le alte cancellate di recinzione. Niente sbarre, niente “sbirri”. Solo psichiatri e infermieri. Molti malati di mente che sono arrivati da altre strutture, qui fanno più fatica. A partire dal rispetto delle regole: ti devi lavare, non puoi dormire tutto il pomeriggio, non puoi fumare più di 30 sigarette al giorno, ti devi curare. “Era meglio Montelupo”, dice un detenuto. “Lì almeno potevo fare quello che volevo e non venivano a rompermi il c...”. Chi si sente sano vuole esercitare il proprio libero arbitrio, non vuole essere trattato come un demente. “Per questo la cosa più difficile per i pazienti”, dice Ettore Straticò, psichiatra primario della sezione maschile, “è ammettere a se stessi di essere folli e autori di reato”. Appena un detenuto arriva a Castiglione, il tempo che impiega per ambientarsi varia da tre giorni a tre settimane. “Solo in caso di grave pericolo ricorriamo anche alla contenzione fisica, ma la norma è cercare di parlare con ognuno. È importante che capisca che qui l’obiettivo è farlo stare meglio perché possa uscire, una volta terminata la misura di sicurezza”, afferma Straticò. Dopo l’ingresso sono previste delle sedute per individuare di quale psicosi soffra il paziente, così da potergli somministrare un trattamento farmacologico adeguato. “Siamo un gruppo di lavoro multidisciplinare. Il confronto è fondamentale per essere certi di curare il paziente con la terapia migliore”. È il primo passo per poi procedere con gli incontri rivolti all’analisi e all’accettazione della propria malattia mentale. Sono molti i pazienti a lamentarsi per gli effetti collaterali delle medicine: dalla lentezza muscolare all’impotenza. “I farmaci sono molto meno invasivi di un tempo, ma qualche effetto lo hanno comunque”, ammette Straticò. Alcuni pazienti non vorrebbero assumerli. Pensano di essere persone assolutamente normali, e detestano quelle pastiglie che li stordiscono. Non capiscono da quale malattia dovrebbero guarire. “Non è possibile rifiutare la cura”, continua Straticò, “e ogni tanto capita che ci siano episodi di scontro, anche fisico, con i pazienti. Da quando sono qui non sono mai stati segnalati atti di violenza da parte del personale sanitario, vendette o ritorsioni, ma se un degente ti aggredisce, devi difenderti”. Roberto Castagna e Antonio Barletta sono due operatori sanitari che hanno l’aria di chi, se è il caso, sa come difendersi. Stanno chiacchierando fuori dal seggio per l’elezione della loro rappresentanza sindacale e spiegano che sì, ogni tanto ci sono degli scontri con i degenti. “Lo scorso mese un infermiere si è rotto una rotula dopo che un paziente gli ha tirato addosso una sedia”, dice Antonio, il più giovane dei due. Ha il collo taurino, mani grandi e callose e lo sguardo buono. Indossa una felpa del Napoli. “Il problema”, prosegue, “è che spesso la struttura è sovraffollata, e questo è un male sia per noi che per i pazienti”. Gli dà ragione anche Roberto, capelli grigi, fisico basso ma robusto. “Noi abbiamo una preparazione specifica, con aggiornamenti professionali ogni tre mesi. Ma se costringiamo i detenuti in spazi ristretti è più facile che litighino ed è più difficile per noi intervenire. Rischiamo di farci male”. Ora il numero è sceso, ma ci sono stati mesi in cui a Castiglione c’erano più di cento persone oltre il previsto. Quanto agli episodi di violenza raccontati dai detenuti, Antonio fa un sorriso amaro. “Non è vero che noi picchiamo i pazienti o li chiudiamo in cella di isolamento per giorni”, racconta. “Al massimo, ma solo se uno sta avendo un attacco di quelli brutti, lo teniamo isolato per due ore, finché non gli passa”. La psicosi e la paranoia, poi, ingigantiscono questi episodi nel ricordo di alcuni detenuti. Che a volte non sono aiutati dalle famiglie a distinguere la realtà da ciò che la mente fa credere loro. “Ogni tanto i parenti - dice Antonio - fanno il doppio gioco. Ai pazienti dicono che non vedono l’ora di riabbracciarli e a noi invece “per carità, tenetelo voi”. Questo non aiuta persone che sono già di per sé inclini alle manie di persecuzione”. Uscire da Castiglione delle Stiviere è possibile. La maggioranza dei detenuti in cura ce la fa. Se la terapia ha avuto successo, prima si è mandati in comunità terapeutica e poi, se anche lì tutto è andato bene, inizia un progressivo reinserimento nella società. Ma il primo ostacolo è riconoscere il motivo della propria detenzione. Ed è il passo più difficile. Perché, per chi soffre di una malattia invisibile, è assurdo accettare di essere matto. Le pecorelle smarrite di padre Pippo… “a Barcellona non si rispetta l’uomo” Con la follia altrui Don Giuseppe Insana ci convive da quasi trent’anni. Per lui i “matti” sono cattolici praticanti e vanno trattati come tali, non come criminali. Racconta: “Ho adibito casa mia come appartamento di accoglienza per chi esce”. Il magistrato si è fidato e l’esperimento ha funzionato . La messa di padre Pippo è quasi finita. Un crocifisso dietro l’altare, il segno di pace, una fila ordinata per prendere la comunione. I fedeli pregano, cantano, partecipano. Qualcuno si confessa dopo la funzione. Poi ognuno torna nella propria cella, con la camminata lenta indotta dagli psicofarmaci. Dietro le sbarre di un Ospedale psichiatrico giudiziario manca tutto, dai sorrisi al detersivo. Ma il budget ridotto non ha cancellato la religione. Per molti, anzi, la messa domenicale è una delle poche certezze in una routine fatta di giornate tutte uguali, che si trascinano tra camicie di forza e pastiglie di neurolettici. Le pecorelle smarrite di Don Giuseppe Insana, per tutti padre Pippo, sono cattolici praticanti da un punto di vista religioso, matti secondo la cartella clinica, criminali sotto il profilo giudiziario. Il “prete dei pazzi” a Barcellona Pozzo di Gotto è un’istituzione, tutti lo conoscono e lo stimano in maniera incondizionata. Ha iniziato a lavorare nell’ospedale psichiatrico la notte di Natale del 1984. Ventisette anni tra i corridoi dell’Opg. A dire messa, supportare i pazienti, portare notizie ai familiari. “Ho scelto questa strada per sentire la vera sofferenza, proprio come fa il mio Dio. Io osservo, ascolto, cerco di essere un tramite con le famiglie e gli avvocati, visto che sono l’unico che può entrare nei reparti di degenza”, spiega il prete. “Qui le persone sono schiacciate. È un luogo che non rispetta la dignità umana”. Aggressioni, pestaggi, degrado. I detenuti si confessano con padre Pippo, tanti seguono la sua messa ogni domenica mattina: “Vengono sempre 80 - 90 persone a settimana”. L’impegno del prete continua anche fuori dall’Opg. “Ho adibito casa mia come appartamento di accoglienza per i pazienti in permesso e per coloro che non hanno dove andare quando vengono rilasciati”. Il magistrato di Messina si è fidato e l’esperimento finora ha dato ottimi risultati. Nella lettera ai Corinzi, San Paolo ha scritto: “La pazzia di Dio è più saggia degli uomini”. Un passaggio che ricorre spesso anche nelle omelie di padre Pippo. “Io sono confuso. Sorpreso positivamente dall’umanità dei pazienti. Ho assistito a conversioni e pentimenti. Ho visto un ragazzo, arrestato perché faceva pipì in piazza, diventare amico di un pluriomicida, senza pregiudizi”. Qui dentro ogni cosa ha un peso diverso. “La bestemmia non mi scandalizza, quando qualcuno impreca contro Dio poi mi chiede scusa”. Alcuni pazienti si proclamano indemoniati. Padre Pippo non fa una piega: “Digli a questo demonio di venire da me, che lo aggiusto io”. Non ci sono solo i cattolici in questo Ospedale psichiatrico giudiziario. Qualche anno fa a Barcellona Pozzo di Gotto morì un paziente di fede islamica. “Le autorità volevano che mi occupassi di benedire la salma”, racconta padre Pippo. “Invece riuscii a convincerli che doveva farlo una guida spirituale musulmana”. Venne quindi contattato l’imam Mohamed Yahiaoui, che da allora è diventato una sorta di alter ego islamico di padre Pippo. Il venerdì, in una stanza riservata, conduce la preghiera con i suoi 20 fedeli e durante la settimana è sempre disponibile per aiutare i pazienti musulmani. La pluralità religiosa, negli ultimi anni, è diventata ancora più evidente. “Abbiamo anche un pastore evangelico che segue tre fedeli e un testimone di Geova che ne ha in carico un paio. L’ultimo arrivato è un prete ortodosso, che garantisce una guida spirituale per i pazienti rumeni e dell’Est Europa”. Con la follia altrui padre Pippo ci convive, da quasi trent’anni. E ha una visione personale sul tema: “C’è chi è diabetico, c’è chi è pazzo. Il disturbo mentale è una malattia come le altre. Può essere curata e non repressa, ma oltre gli psicofarmaci serve l’aiuto della società”. Il prete siciliano lotta da anni per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nel 2013 potrebbe vincere la sua battaglia. “Quando chiuderanno la struttura me ne andrò in pensione. Non riesco a immaginarmi in un posto diverso da questo”. Padre Pippo si ferma a riflettere, vuole spiegarsi meglio. Spinge sul naso i grossi occhiali scuri: “Voglio essere fedele a mia moglie”. Detto da un prete fa un certo effetto. Lo straniamento dura poco, il tempo di chiarire la metafora. “L’Opg è come una compagna di vita. Non la tradirò, fino alla chiusura definitiva. Dopo aver visto tanti orrori, ora desidero un po’ di solitudine”. La messa è finita, annuncia padre Pippo. I fedeli, un pò matti, un po’ criminali, se ne vanno in pace. Una voce gli ha fatto uccidere il padre… l’ho perdonato, mio figlio è parte di me Figli che uccidono padri e madri. Fratelli che tentano di ammazzarsi. La follia può spezzare la vita non solo di chi muore, o di chi viene rinchiuso, ma anche di quelli che restano a casa. Annalisa racconta: “Ho paura. Se chiudono gli Opg, mio fratello potrebbe essere liberato”. Sul citofono di casa c’erano i nomi di tutti e tre. Padre, madre, figlio. Una mattina, appena compiuti 18 anni, il ragazzo si fida delle voci nella sua testa. Da anni gli sussurrano cosa fare: prende un martello e ammazza il padre. Vittima e carnefice hanno lo stesso sangue, lo stesso cognome in bella vista sulla buca delle lettere. Poi ci sono gli altri, i sopravvissuti. La terza faccia del nucleo familiare devastato. Quelli che per anni hanno condiviso la colazione e il letto a castello con un parente malato di schizofrenia. Quelli che la mattina della tragedia erano fuori casa, a lavoro, a comprare il giornale. Sono vivi, esistenze spezzate. Fanno la spola tra il cimitero e l’Opg: un parente ucciso e un altro internato. Per chi ha visto una pozza di sangue sulla tavola apparecchiata in cucina, l’incubo è destinato a non finire mai. Due storie di famiglie spezzate, per capire meglio cosa significhi essere madre o sorella di un omicida dichiarato malato di mente. “Mio figlio, da sei anni in Opg” Michele tenta di ammazzarsi in continuazione. L’ultima volta ci ha provato qualche giorno fa. Aveva chiesto alle guardie di legarlo, perché ha paura delle voci nella sua testa. Le stesse voci che lo portarono a uccidere il padre, ora gli dicono di suicidarsi. Ingerisce delle batterie, dei calcinacci. Poi spacca una finestra, si mette in bocca il vetro e lo ingoia. I medici l’hanno salvato. Michele ha 24 anni, è totalmente incapace di intendere e volere. Ha passato gli ultimi sei anni sballottato tra gli Opg: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Montelupo. Nello stanzino dei colloqui riceve la visita di una donna minuta, che gli somiglia tanto. Maria è la madre di Michele. Si abbracciano, lei gli sistema i capelli. Gli tiene strette le dita, la stessa mano che l’ha resa vedova. “L’ho perdonato. È mio figlio, una parte di me”. Maria vive in Sardegna, ha viaggiato molte ore per incontrare Michele. “Ho una pensione che non arriva a 500 euro, faccio qualsiasi sacrificio per vederlo”. Nel regolamento dell’Opg è bandita l’intimità. Due guardie assistono in silenzio a ogni istante della chiacchierata tra madre e figlio. “Michele qui dentro sta peggiorando. Sembra un vegetale, imbottito di sedativi. E continua a sentire le voci”. Maria gli sorride spesso, lo guarda negli occhi dicendogli che la vita è bella. In questi sei anni non hanno mai parlato dell’omicidio, lei vorrebbe chiedere, lui probabilmente non saprebbe cosa rispondere. “I medici raccontano che mio figlio parla spesso di me, dice a tutti di avere una mamma eccezionale”. La voce di Maria è rotta dalle lacrime: “Una parte di me è sempre con lui, dentro l’Opg. Ci penso ogni mattina: oggi Michele come starà?”. Montelupo, come gli altri Ospedali psichiatrici giudiziari, si avvia alla chiusura. C’è un progetto per portare Michele nella sua Sardegna tra un anno. Vicino a sua madre, ma non troppo. “Ha bisogno di cure mediche costanti che a casa non potrei mai dargli. E poi non sono pronta per riaccoglierlo così. Già adesso, che sono sola, vivo nel terrore. Come potrei fare con lui in casa?”. Andrea e la strage annunciata “Ho paura. Se chiudono gli Opg, mio fratello potrebbe essere liberato. E se esce ci ammazza tutti”. Il terrore nella voce di Annalisa è reale. Ha vissuto per anni sotto lo stesso tetto di Andrea, suo fratello schizofrenico. Fino al giorno in cui lui uccise a coltellate la loro madre. “Ci odiava tutti. Ci odia ancora. La sua schizofrenia paranoide gli causa deliri continui, che lo portano a individuare nei familiari i colpevoli di qualsiasi cosa gli accada”. La diagnosi della malattia risale a otto anni prima dell’omicidio. Otto anni atroci per Annalisa: “Rompeva oggetti, passava le giornate a minacciarci, a urlare. Una volta mi ha dato un pugno in faccia per avergli girato lo sguardo. Era una bomba ad orologeria. Col senno di poi l’avrei denunciato ogni giorno, me ne vergognavo”. Per anni nessuna cura, nessun farmaco. Un mese prima dell’omicidio, Andrea urlò contro la madre: “Prima o poi quella stronza la ammazzo”. Tre perizie psichiatriche l’hanno dichiarato incapace di intendere e volere. Ed è finito prima all’Opg di Montelupo poi in quello di Castiglione delle Stiviere. Nell’ospedale fiorentino, Andrea ha ricevuto per la prima volta un trattamento a base di psicofarmaci. “Ha dovuto ammazzare nostra madre perché qualcuno si accorgesse della sua pericolosità. E paradossalmente ora ha una vita sociale migliore: si è fatto degli amici, fa sport, lavora”. Mentre la commissione Marino decreta la chiusura degli Opg, Annalisa li difende: “Gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono fondamentali per tutelare le famiglie e gli stessi pazienti. Io non voglio abbandonare mio fratello, semplicemente ho paura di lui”. Ha cercato di visitarlo in questi dieci anni, ma si è sempre fermata sulla porta della struttura dove è rinchiuso. “Non riesco a odiarlo, anche se lui continua a sostenere di aver fatto bene a uccidere la mamma. Ecco, vorrei sapere cosa sarà di lui quando chiuderà l’Opg. E cosa sarà di me”. Annalisa guarda la fede al dito. “Ogni volta che squilla il telefono ho paura che sia successo qualcosa di brutto. È una sensazione orrenda, che non sparirà mai. Tutte le sere, quando spengo la luce, penso alla mia famiglia demolita. La schizofrenia ha divorato mio fratello, ucciso mia madre, distrutto me. Siamo tre vittime, ognuna in modo diverso”. * In questo articolo, per tutelare la privacy e l’incolumità degli intervistati, su loro esplicita richiesta, sono stati usati dei nomi di fantasia Le storie di assassini, cannibali, piromani: dieci “incapaci di intendere e di volere” Le pagine della cronaca nera italiana sono piene di autori di crimini efferati dichiarati incapaci di intendere e di volere e internati in un ospedale psichiatrico giudiziario. Ma la malattia mentale non basta. Per essere prosciolti con il “vizio di mente”, occorre stabilire la stretta connessione causale tra la patologia e il reato e il rischio che quest’ultimo possa essere ripetuto. Ecco dieci fatti di sangue, i cui protagonisti sono finiti negli Opg. Il cannibale di Pineto Voleva ucciderla e poi mangiarne i piedi. “Era una pulsione forte perché me lo chiedevano delle voci e delle persone di cui vedevo le ombre - ha raccontato Luca Michelucci, operaio 23enne, ormai noto come “il cannibale di Pineto” in provincia Teramo. “Io cercavo di controllarmi, ma alla fine non ci sono riuscito. Per questo ho visto dei filmati sull’azione di serial killer e su atti di cannibalismo”. Dalla teoria alla pratica, il 15 novembre del 2011 ha individuato la sua prima vittima, C.D.T., impiegata di 43 anni, intenta a fare jogging nella pineta della città. Michelucci ha prima tentato di strangolarla e poi l’ha pugnalata più volte. “Le dicevo: “Rilassati, non sono io”“, ha raccontato ai carabinieri. La donna si è salvata. Ma l’obiettivo del killer era quello di ammazzarla e cibarsi del suo cadavere. Nel bagagliaio della sua macchina sono stati trovati sacchi neri, cavi del telefono e una sega. Sottoposto a perizia psichiatrica, l’operaio è stato definito un “soggetto schizofrenico, con dei rilievi di cannibalismo e necrofilia” e quindi incapace di intendere e di volere. Ha trascorso qualche settimana nell’Opg di Reggio Emilia, per poi essere trasferito in quello di Aversa, dove si trova tuttora. La badante killer Ha ucciso l’anziana donna che accudiva perché “spinta dai vampiri”. Nataliya Shynyan, badante ucraina di 31 anni, il 14 marzo del 2011 ha accoltellato a Ravenna l’ottantottenne Elsa Morigi: dieci colpi sferrati con due diverse lame da cucina. Per sette volte l’anziana era riuscita a ripararsi con le mani. Ma tre coltellate, le più profonde, sono andate a segno sulla gola. I primi vigili del Fuoco arrivati sul posto hanno visto la giovane mentre, a cavalcioni sulla donna, tirava ancora i colpi e rideva istericamente. Nataliya si era poi lanciata di sotto, ma era caduta sul tettuccio di un’auto. Al termine del rito abbreviato, il 30 novembre scorso la badante killer è stata assolta grazie a una perizia psichiatrica che ha stabilito la sua incapacità di intendere e di volere al momento del reato. Diagnosi: schizofrenia. Nataliya ha raccontato di occhi di vampiri che la scrutavano nella notte e di una congiura oscura contro la sua famiglia. Per lei si sono aperte le porte dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, dove resterà per sei anni. Il pugile omicida “Ho visto il diavolo, un enorme mostro nero che voleva entrare dentro me”. Oleg Fedchenko spiegò così agli inquirenti il motivo per cui aveva appena massacrato una donna a mani nude. Era il 6 agosto del 2010, una calda mattina estiva a Milano. Oleg, 26 anni, pugile dilettante di origini ucraine, era sconvolto per una relazione sentimentale finita. Non mangiava e dormiva da due giorni. Scese in strada trafelato e si accanì contro la prima persona che si trovo davanti: Emlou Arvesu, filippina di 41 anni. Pugni violenti, una brutalità cieca, che continuò anche quando la donna era ormai morta. Fedchenko venne sottoposto a perizia psichiatrica e risultò totalmente incapace di intendere e volere. Soffre di una grave forma di schizofrenia paranoide, che gli causa deliri e crisi mistiche. Il giudice ha disposto che rimanga rinchiuso per 5 anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove si trova al momento. La madre assassina Il piccolo Mattia, nato da appena un mese, rifiutava il latte dal suo seno. Così Cinzia Baldo, insegnante di scuola materna, in preda alla depressione post-partum il 7 aprile del 2009 lo ha annegato nella vasca da bagno della sua casa a Vestenanova, in provincia di Verona. Quella mattina, l’altra figlia, di 7 anni, si trovava a scuola. Il marito Nicola, brigadiere dei Carabinieri, era uscito per andare dal barbiere. È bastata un’ora per far scattare il raptus omicida. Cinzia spogliò Mattia per fargli il bagnetto. E improvvisamente vide un neonato brutto, che non avrebbe potuto crescere sano se allevato con il latte artificiale. Così tenne la mano ferma sott’acqua, posata sulla testa del piccolo. “Perché l’ho fatto? Che cosa ho combinato?”, ha detto poco dopo Cinzia al parroco di Vestenanova. Arrestata con l’accusa di omicidio volontario, la maestra d’asilo venne ritenuta incapace di intendere e di volere al momento del reato. L’immagine alterata del neonato era solo nella sua mente e non le ha offerto una visuale alternativa. Cinzia Baldo ora si trova nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Le sue condizioni migliorano di giorno in giorno, tanto che le è permesso anche di tornare a Vestenanova per incontrare la figlia e il marito, che da subito ha dichiarato di averla “perdonata”. Il piromane di Firenze Francesco Nassi terrorizzò un’intera città nel 2008. Usciva la notte e senza motivo appiccava il fuoco ad automobili e motorini. Ne incendiò più di 60 in pochi mesi, per un danno complessivo di un milione di euro. Già in passato aveva accumulato una serie infinita di precedenti legati a incendi dolosi: una palestra, l’auto del socio in affari, un albergo, alcuni camper. Nassi, tra l’altro, era molto noto a Firenze come conduttore televisivo e ospite di programmi in varie emittenti locali. Ma le perizie psichiatriche parlano di una mente con “disturbi bipolari borderline di personalità”. La pericolosità sociale dell’uomo è stata confermata dal recente processo, conclusosi nel marzo 2012 con un’assoluzione: Francesco Nassi è completamente incapace di intendere e volere. Attualmente è rinchiuso nell’Opg di Montelupo Fiorentino, dove si trova dal momento dell’arresto, avvenuto quattro anni fa. Il mostro di Terrazzo Gianfranco Stevanin è un criminale da manuale. Nel 1994 viene arrestato al casello di Vicenza Ovest dopo aver minacciato e stuprato per ore una prostituta. Meno di un anno dopo, un agricoltore individua in un terreno di proprietà dei Stevanin, a Terrazzo Veronese, un sacco contenente i resti di un cadavere. Da qui partono le perquisizioni nella sua casa, dove gli inquirenti trovano siringhe, rasoi, corde, borse di donna, indumenti intimi. E anche ciocche di capelli e un sacchetto contenente peli pubici. Oltre a 7 mila fotografie di donne in pose erotiche e sadomasochiste. Quello che a tutti sembrava un bravo ragazzo improvvisamente non lo era più. Solo nel 1996 Stevanin decide di confessare. Rivela di aver smembrato i cadaveri di quattro donne e di averle sepolte, aggiungendo di aver agito come in un sogno. Descrive i momenti dei delitti come immagini confuse e accompagna gli investigatori lungo i fossi tra le province di Padova e Verona, indicando i luoghi dove “ricorda” di aver gettato i pezzi dei corpi. I cadaveri ritrovati salgono a sei. Dopo la prima perizia psichiatrica, Stevanin viene dichiarato processabile. La condanna in primo grado è l’ergastolo, ma la corte di Assise d’Appello di Venezia lo dichiara non punibile perché incapace di intendere e di volere e ordina il ricovero in un Opg per la durata minima di dieci anni. Il “mostro di Terrazzo” finisce a Montelupo Fiorentino, Firenze. La Cassazione però annulla per “illogica motivazione” la sentenza d’appello e nel secondo processo viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di cinque donne. Il “mostro”, si legge nella motivazione, “possedeva mezzi intellettivi e culturali per evitare siffatti crimini” che venivano compiuti solo per il “soddisfacimento della propria libido”. Sentenza confermata dalla Cassazione nel febbraio 2002. Ludwig il nazista “La nostra fede è nazismo, la nostra giustizia è morte, la nostra democrazia è sterminio”. È questo il messaggio con cui Ludwig rivendica i suoi 15 delitti. Dietro questo nome ci sono due ragazzi della Verona bene: Marco Furlan e Wolfgang Abel. La loro carriera criminale si conclude il 4 marzo 1984, mentre cercano di dare fuoco a una discoteca di Castiglione delle Stiviere. I difensori di Furlan, Piero Longo e Niccolò Ghedini, chiedono la perizia psichiatrica. Ai due membri di Ludwig viene riconosciuta una ridotta capacità di intendere e di volere. Da quel momento le loro strade si dividono. Nel 1991, poco prima della definitiva condanna a 27 anni, Furlan scappa a Creta. Rintracciato nel 1995, sconterà quindici anni di carcere. È libero dal novembre 2010. Abel, dopo la condanna, inizia un lungo sciopero della fame e tenta più volte il suicidio. Viene trasferito nell’Opg di Reggio Emilia. Nel 1997 è trasferito nel carcere di Padova. Da tre anni è agli arresti domiciliari. L’ultima perizia psichiatrica, effettuata nel maggio 2011, descrive ancora Abel come “soggetto psicotico”. Il figlio killer Il 15 aprile 1999 la sentenza: Ferdinando Carretta ha ucciso tre volte, ma è incapace di intendere e volere. Viene rinchiuso nell’Opg di Castiglione delle Stiviere, dove rimane fino al 21 giugno 2006. Dal 2009, dopo tre anni passati nella comunità di recupero di Forlì, Ferdinando Carretta è un uomo libero. I genitori e il fratello di Ferdinando Carretta sono pronti per le vacanze. Il camper è già carico. Poche ore prima di partire, il 4 agosto 1989, Ferdinando spara con una Walther calibro 6.35: uccide il padre, la madre e il fratello Nicola. I loro corpi, nascosti nella discarica di Viarolo, non saranno più ritrovati. Nessuna traccia, tanto che le indagini credono che la famiglia Carretta sia scappata in qualche paradiso tropicale. Nessuna traccia neanche di Ferdinando: è scappato a Londra, dove vive indisturbato fino al 1998. Il 30 novembre dello stesso anno confessa il delitto davanti alle telecamere di Chi l’ha visto?. La saponificatrice di Correggio Donna e serial killer. Leonarda Cianciulli ha ucciso tre donne tra il 1939 e il 1940, ha sezionato i loro corpi e ne ha fatto pasticcini e sapone. La prima vittima è Faustina Setti, uccisa a colpi di ascia. L’assassina lascia che il sangue si coaguli, unisce farina, zucchero, cioccolato, latte e margarina e ne fa dolci da tè. Passano nove mesi e Leonarda uccide Francesca Soavi. Ancora con un colpo di scure. Anche questo cadavere finisce in pentola. Anche questo sangue in forno. Il 30 novembre 1940, l’ultimo omicidio. A cadere è una ex soprano, Virginia Cacioppo. I suoi resti vengono messi in un pentolone con un flacone di colonia. Leonarda ne ricava saponette. E un soprannome: la saponificatrice di Correggio. Nel 1946 confessa. Le viene riconosciuta la seminfermità mentale. Condannata a trent’anni di carcere e a tre di manicomio criminale, muore il 15 aprile 1970 nell’Opg di Pozzuoli. L’assassino dagli occhi di ghiaccio Introverso, schizofrenico, ossessionato dal culturismo. Roberto Succo è passato alla storia come uno dei più efferati assassini italiani. Nel 1981, appena diciannovenne, uccise a coltellate la madre e il padre facendone a pezzi i cadaveri con un’accetta. I corpi furono ritrovati nella vasca da bagno. Arrestato, venne dichiarato mentalmente infermo. Ai giudici disse: “Mamma mi ha escluso, papà non mi prestava l’auto”. Lo internarono all’Opg di Reggio Emilia. L’assassino dagli occhi di ghiaccio, così chiamato per il suo volto angelico, divenne un detenuto modello, si diplomò e ricevette permessi per andare all’università a sostenere gli esami. Nel maggio 1986, approfittando del regime di semilibertà, scappò in Francia, dove cambia identità e uccide altre cinque persone. Catturato di nuovo nel 1988 a Treviso, confesserà: “Di mestiere ammazzo la gente”. Rinchiuso nel carcere di Vicenza, tentò la fuga improvvisando una conferenza stampa sul tetto dell’edificio. L’episodio non fece che accrescere la sua fama. Le nuove perizie confermarono la totale incapacità di intendere e volere, oltre a manie di superiorità. Succo venne imbottito di sedativi, ma trovò comunque le forze per suicidarsi, nella sua cella di isolamento, soffocandosi con un sacchetto di plastica pieno di gas. I disperati dell’ergastolo bianco nella “casa lavoro” senza fine pena Nella struttura di Saliceta (Modena) vivono 63 persone. Sono ex carcerati che hanno scontato una condanna ma che risultano socialmente “pericolosi”. Attraverso il lavoro dovrebbero essere reinseriti nel mondo. Ma occupazione, ovviamente, non ce n’è quasi e molti di loro restano in questo regime di semireclusione senza alcuna certezza sul futuro. Un progetto: abolire questi istituti (4 in tutta Italia) e sostituirli con altre forme di accoglienza che permetterebbero anche risparmi Si può finire di scontare una pena e diventare ergastolani? A vedere il caso degli internati della Casa Lavoro di Saliceta San Giuliano, provincia di Modena, sembrerebbe proprio di sì. Infatti, in questa struttura vengono “parcheggiati” ex - detenuti che dopo aver commesso reati hanno già scontato una pena ma ai quali il magistrato ha applicato un’ulteriore misura di sicurezza perché considerati socialmente pericolosi. Tali misure di sicurezza hanno l’obbligo del lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento sociale, ma, nella realtà, lavoro non ce n’è. Così i periodi di internamento post carcere diventano a tutti gli effetti misure di sicurezza senza date finali certe e il giudice di sorveglianza può prorogarli finché non ritenga cessata la pericolosità sociale. In sostanza senza lavoro non c’è reinserimento sociale e di conseguenza non c’è fine della pena. Nella Casa Lavoro di Saliceta vivono 63 persone (su 67 posti disponibili) di cui il 6-7% rappresentato da stranieri. Altre 25 sono fuori per licenza ma dipendono dalla struttura. Dei 63 citati, 4 lavorano all’esterno, due assunti da una cooperativa sociale e due con una borsa lavoro del Comune di Modena. Gli altri sono occupati 10 - 15 giorni al mese perché manca il lavoro e per lo più svolgono mansioni domestiche dentro l’Istituto, mentre tre di loro sono occupati in tipografia con una remunerazione che va dagli 80 euro per dieci giorni di lavoro ai 220 euro per un mese. Tutte queste persone non sanno ancora quando potranno uscire di lì. Vivono nell’incertezza più totale e hanno poco altro da fare per distrarsi o migliorare la loro cultura. La maggioranza degli internati ha commesso più reati (di qui la pericolosità sociale). Il 20% ha compiuto reati legati alla criminalità organizzata, molti hanno problemi di tossicodipendenza - affrontato con la sola somministrazione di metadone da parte dell’Asl - e/o di disagio psichiatrico. L’80% di queste persone, inoltre, arriva alla Casa lavoro su provvedimenti della magistratura della Campania e della Lombardia: si tratta per lo più di internati senza riferimenti sociali, abitativi, di lavoro che spesso hanno perduto anche i legami familiari dopo una vita trascorsa in carcere. E questo è ancora più vero se si tratta di stranieri, spesso privi di documenti, il che crea difficoltà ancora più evidenti di reinserimento. La Garante Regionale dei Detenuti in Emilia Romagna Desi Bruno ha parlato a questo proposito di “ergastolo bianco”: “Ritengo necessario lavorare per l’abolizione delle Case lavoro poiché è venuto meno il senso della loro presenza nel nostro ordinamento. La struttura di Saliceta è la Cenerentola dell’amministrazione penitenziaria”. Desi Bruno ha visitato la Casa il 23 marzo dopo una missiva firmata dai detenuti che chiedevano “di chiudere per una serie di motivi la Casa, primo fra tutti l’illegittimità costituzionale della materia penale che regola l’istituto”. “Queste misure detentive - ha aggiunto Bruno - sono retaggio dell’epoca fascista perché previste ancora dal Codice Rocco. Già alcuni consiglieri regionali parlarono di abolirle ma poi questo progetto si bloccò. La mia idea è quella di ridargli impulso anche a fronte dell’abolizione dal 2013 degli ospedali psichiatrici giudiziari e del fatto che queste misure detentive non stanno funzionando, perché non assicurano un lavoro, che per una Casa come questa è una contraddizione, né il reinserimento sociale attraverso specifici progetti”. “L’alternativa? Ci sono le comunità di accoglienza, dedicate a persone sole o malate oppure trovare una misura di sicurezza nella libertà vigilata. Molti fra i detenuti già soffrono di disagi e non possiamo tenerli rinchiusi in una casa lavoro perché non sappiamo altrimenti dove metterli. Bisognerebbe prendere caso per caso, i territori di provenienza dovrebbero fare uno sforzo per riprenderseli e creare delle reti sociali tra l’altro con costi nettamente inferiori per la collettività rispetto al mantenimento tout court in queste strutture inutili. Usiamo le risorse per mettere a punto dei piani di recupero sociale”. Che il percorso di risocializzazione sia efficace solo se intrapreso nel territorio di provenienza dei soggetti interessati lo ha confermato anche il direttore della Casa Lavoro, la Dott. ssa Federica Dallari, in un suo intervento consegnato agli archivi comunali: “Mi permetto di evidenziare che se fossero strutturate in maniera corretta (con obbligatorietà del lavoro e la possibilità d’accesso negli ultimi 6 mesi a percorsi lavorativi esterni) avrebbero un senso compiuto di vera risocializzazione ma andrebbero comunque eseguite nei territori di residenza e non in Istituti così lontani dal luogo ove queste persone vivono”. Oltre a Saliceta San Giuliano ci sono altre sezioni di Case Lavoro sul territorio italiano: Castelfranco Emilia, di nuovo in provincia di Modena, Sulmona (L’Aquila) e l’isola di Favignana (Trapani). In tutte queste strutture è stata riscontrata la totale mancanza di una programmazione delle attività dei detenuti internati praticamente a tempo indeterminato e di conseguenza senza alcuna utilità pratica. Un tempo erano i manicomi criminali Di manicomio criminale si inizia a parlare verso la metà dell’800, in Inghilterra. La proposta di istituirli in Italia arriva nel 1875. Un anno dopo, prima ancora che lo Stato si dotasse di una legge che ne regolasse il funzionamento, viene creata all’interno del carcere di Aversa una “sezione per maniaci”. È il battesimo dei manicomi criminali. Ne nasceranno altri: Montelupo Fiorentino apre nel 1886, Reggio Emilia nel 1892, Napoli nel 1923, Barcellona Pozzo di Gotto nel 1925, Castiglione delle Stiviere nel 1939, Pozzuoli nel 1955. Tutti hanno cambiato nome: da “manicomi criminali” sono diventati prima “manicomi giudiziari” e poi “ospedali psichiatrici giudiziari”. Sei sono attivi ancora oggi. Negli anni cinquanta gli Opg italiani sono arrivati ad ospitare oltre duemila persone. Un numero che si era dimezzato nel 1976, quando lo shock per la morte di Antonietta Bernardini e la successiva riforma portarono gli internati a 1.035. Nel 1980 erano già risaliti a 1.600. Negli ultimi 60 anni solo due volte, nel 1997 e nel 1998, la popolazione dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani è scesa sotto quota mille. Un andamento che però non è mai riuscito ad essere costante: nel 2010 gli internati erano di nuovo 1.600, un numero paragonabile a quello di quarant’anni prima. Dietro le cifre, le persone. Le condizioni negli ospedali psichiatrici giudiziari restano paragonabili a quelle degli anni passati. Nel 2010 la commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia del servizio sanitario nazionale è entrata negli opg italiani. Ha rilevato situazioni di pieno degrado, come ad Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. E strutture virtuose, come Castiglione delle Stiviere. Giustizia: nelle carceri italiane la tortura del “contenimento chimico” di Valentina Ascione Gli Altri, 16 aprile 2012 A chiunque abbia avuto la possibilità di visitare un carcere non potranno essere sfuggiti quei corpi esanimi adagiati sulle brande, raggomitolati sotto le coperte a tutte le ore del giorno. Gli sguardi spenti di molti, la loro andatura incerta e l’eloquio biascicato. Uomini, in molti casi giovani e giovanissimi, facilmente liquidati come “drogati”. E testimoni invece di un disagio forse più complesso e sempre più diffuso al di là delle sbarre. Oltre ai dati sul sovraffollamento, sugli atti di autolesionismo e le aggressioni, le morti, i suicidi tentati e quelli riusciti, ci sono altri numeri da capogiro attraverso i quali filtra la deriva incontrollabile e drammatica della realtà penitenziaria italiana: “più del 40 per cento dei detenuti in attesa di giudizio nelle case circondariali”, cioè più di 12 mila persone, e “oltre il 10 per cento dei detenuti condannati nelle case di reclusione”, pari a ulteriori 3.500 - 4 mila unità, sono soggetti nelle carceri italiane a una sorta di “contenimento chimico”, a causa del massiccio uso di psicofarmaci. Sono queste le cifre, snocciolate pochi giorni fa da Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia Penitenziaria, per tracciare il quadro allarmante che vede un’ampia fetta della popolazione detenuta vivere per la maggior parte del tempo in uno stato di narcosi. Stordita da ettolitri di valium e da sostanze tra le più disparate: “dagli antipsicotici agli ipnotici, dagli antidepressivi agli oppiacei, dalle benzodiazepine agli stabilizzatori dell’umore”. Le galere italiane - dove trattamento e rieducazione hanno la consistenza di un miraggio - non sono solo scuole di addestramento al crimine per tanti finiscono dentro per piccoli reati, magari legati alla droga, ed escono delinquenti dopo anni trascorsi ad apprendere i fondamentali dai professionisti della materia. Sono anche fabbriche di intossicati, dove si sviluppa la dipendenza da tutte quelle sostanze che inibiscono i sensi e i pensieri. Anestetizzano corpo e mente, così da rendere meno insopportabili per i detenuti le condizioni di vita disumane e le sofferenze di una pena supplementare. E più semplice, per il sistema, la gestione di istituti al collasso a causa della sovrappopolazione. Un vero e proprio metodo, di cui ancora una volta è la società intera a fare le spese, ma senza accorgersene. Narcotizzata com’è, a sua volta, dall’illusione che quel che accade dentro le mura di un carcere non la riguardi. Giustizia: mercoledì prossimo la Uil Penitenziari incontra Alfano e Pdl Adnkronos, 16 aprile 2012 “Nel pomeriggio di ieri, il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha invitato a un incontro fissato per mercoledì alle 10, presso la sede del Pdl in via dell’Umiltà, a Roma, tutte le organizzazioni sindacali che hanno firmato il documento del 4 aprile”. È quanto fa sapere Eugenio Sarno, segretario generale Uil Penitenziari, sottolineando che “dopo la manifestazione di piazza tenutasi a Roma lo scorso 15 marzo, la conferenza stampa del 20 marzo a Montecitorio e l’autoconvocazione del 4 aprile, comincia a muoversi qualcosa nel panorama politico italiano rispetto alla questione relativa alla questione della modifica dei criteri di accesso alla pensione per il personale appartenente al comparto sicurezza - difesa e soccorso pubblico”. “La Uil Penitenziari, con la Uil Vv.ff, la Uil Cfs, la Cisl Fns, l’Ugl, il Siulp, il Sap, il Sapaf, il Sappe, il Consap, il Fesifo, il Conapo e la Fsa incontrerà il segretario del Pdl, Angelino Alfano, e una delegazione del Pdl composta dal responsabile per i dipartimenti, Renato Brunetta, e i capigruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto, e al Senato, Maurizio Gasparri”. “L’incontro sarà utile - continua Sarno - a definire nel dettaglio tutte le nostre riserve e perplessità in relazione a una proposta del governo Monti che penalizza fortemente poliziotti, militari e vigili del fuoco in materia di accesso alla pensione nonché mortifica, quasi annullandola, quella specificità più volte decantata dallo stesso Pdl quando l’allora governo Berlusconi la varò”. In ogni caso - sottolinea il segretario generale della Uil Penitenziari - giudichiamo con favore questa convocazione, con riserva di valutarne gli esiti, perché rappresenta, comunque, un segnale di attenzione verso gli operatori della sicurezza, della difesa e del soccorso pubblico. Segnale che, invece, ad oggi ancora non è pervenuto dal Pd e dal Terzo Polo. Restiamo in attesa che anche Bersani e Casini rendano concrete la tante affermazioni verbali di stima, attenzione e vicinanza più volte ribadite nei confronti di poliziotti, militari e vigili del fuoco. “L’iter del regolamento di armonizzazione dell’accesso al trattamento previdenziale per il comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico - rimarca Sarno - non prevede passaggi parlamentari, ma è fuori di ogni dubbio che una eventuale azione di sensibilizzazione posta in essere dai partiti che reggono la maggioranza al governo Monti, non potrà non produrre quelle modifiche che unanimemente le organizzazioni sindacali della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale nonché dai Cocer di Carabinieri, Guardia di Finanza, Esercito Marina ed Aeronautica ritengono indispensabili perché il provvedimento non sia ingiustificatamente penalizzante per una categoria di lavoratori il cui lavoro comporta livelli di stress psico-fisico non assimilabili ad alcuna altra tipologia di lavoro”. Giustizia: casi Bianzino e Manciaracina… ministri, se ci siete battete un colpo… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 16 aprile 2012 Se lo Stato, per un qualunque motivo, decide che un cittadino va privato della sua libertà, lo Stato si fa massimamente responsabile della sua incolumità, fisica o psichica. È dunque inaccettabile che un cittadino entri vivo in una questura, in una caserma o stazione dei carabinieri, in un carcere, e ne esca morto. Come è accaduto ad Aldo Bianzino, falegname di Pietralunga, morto nel carcere perugino di Capanne nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per la morte di Bianzino un agente della polizia penitenziaria è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione per omissione di soccorso, falso e omissione d’atti d’ufficio. Le indagini per omicidio volontario sono infatti state archiviate su richiesta del pubblico ministero prima dell’inizio del processo all’agente della penitenziaria. Ma la famiglia non crede a questa verità e, insieme agli avvocati, lavora a nuovi documenti da presentare per chiedere la riapertura del caso. Anche perché, dal dibattimento sarebbero emersi elementi medico-legali che potrebbero spingere un giudice a disporre ulteriori accertamenti sulla morte di Aldo. I deputati radicali (prima firmataria Rita Bernardini) su questa vicenda hanno presentato un’ennesima interrogazione. Bernardini chiede al ministro di “eseguire le verifiche del caso, atteso che l’intera vicenda processuale che ha portato il Gip ad archiviare le indagini presenta dei lati non ancora chiariti, che necessitano di un approfondimento e, soprattutto, di chiarezza. Quella chiarezza che meritano i famigliari di quest’uomo e le centinaia di operatori della sicurezza che svolgono con correttezza e abnegazione il proprio lavoro”. Nell’interrogazione si chiede inoltre al Ministro della Giustizia di riferire sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere in modo che possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle, invece, avvenute per cause sospette; quanti sono stati i decessi avvenuti per “cause naturali” che si sono registrati negli ultimi cinque anni all’interno degli istituti penitenziari e quanti di questi - in percentuale - si sono verificati a poche ore dall’ingresso in carcere del detenuto; e, da ultimo, quali provvedimenti il Governo intenda adottare, al fine di garantire, anche per il futuro, un attento monitoraggio delle condizioni in cui versano i detenuti negli istanti immediatamente successivi al loro ingresso in carcere, assicurando, per quanto possibile, l’eliminazione di ogni fattore di rischio per la loro vita e incolumità fisico - psichica”. Come si è detto, gli avvocati della famiglia Bianzino stanno lavorando a nuovi documenti da presentare per chiedere la riapertura del caso. Lo aveva già detto appena dopo la lettura della sentenza Massimo Zaganelli, che ha seguito la vicenda fin dalle primissime battute a sostenere che adesso era giunto il momento in cui si poteva chiedere di riaprire l’indagine per omicidio volontario che il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini aveva chiesto di archiviare. Per i familiari di Aldo infatti, in dibattimento sono emersi degli elementi medico - legali che potrebbero spingere un giudice a disporre ulteriori accertamenti sulla morte. Il professor Vittorio Fineschi, il consulente della parte civile, fermo restando la presenza dell’emorragia subaracnoidea che ha provocato la morte di Aldo Bianzino e la presenza della lesione al fegato, propone una lettura diversa da quella dell’insorgenza spontanea data dai periti del pm: l’emorragia, che inizialmente fu di modesta entità perché non avrebbe inondato di sangue le parti più profonde del cervello, potrebbe anche essere stata provocata da un trauma: una torsione della testa, uno scuotimento, qualcosa che abbia causato una lacerazione e un’uscita di sangue. Per il medico questa affermazione è possibile vista l’assenza del rinvenimento dell’aneurisma stesso. Quanto alla lesione al fegato, studi alla mano, sostiene che la stessa risulta classificata come molto rara nelle manovre rianimatorie. E generalmente correlata anche da altri traumi classificati come meno rari. Per Fineschi insomma la lesione al fegato, su un soggetto morto, con un versamento di sangue come quello di Bianzino solleva più di una perplessità. E anche per la famiglia, che chiede ancora spiegazioni. Un altro caso, sconcertante e drammatico insieme, denunciato da Bernardini e dagli altri parlamentari radicali riguarda il caso di un detenuto, Vito Manciaracina, 76 anni, condannato all’ergastolo, che sta scontando nel carcere di Bari. Manciaracina è probabilmente i “carcerato in peggiori condizioni di salute di cui si abbia notizia in Italia”. I fatti. Una consulenza medico legale al di sopra di ogni sospetto, disposta dal tribunale di Sorveglianza di Bari descrive un quadro clinico drammatico; tuttavia, i magistrati continuano a trattenere Manciaracina in cella, negandogli i domiciliari, e lasciandolo, di fatto, in uno stato di detenzione ai limiti della dignità umana: immobilizzato a letto con il pannolone, in stato confusionale, in preda a crisi epilettiche, in condizioni igieniche precarie. Sono gli stessi detenuti, denuncia l’avvocato Debora Speciale, “ad accudirlo per pietà, per quanto possono, ma col risultato che Manciaracina vive come un barbone in cella, sporco, maleodorante, le piaghe di decubito”. La neurologa del policlinico di Bari Elena Tripaldi, medico legale del tribunale riassume il quadro clinico di Manciaracina: le sue gravi patologie cominciano molto tempo prima della detenzione, ma peggiorano dopo l’ingresso in prigione: “In seguito ad un ictus subito nel 1994 Manciaracina ha la parte sinistra del corpo (faccia, braccio e gamba), paralizzata”. Il distretto sanitario di Mazara del Vallo lo ha riconosciuto invalido al 100 per cento nel 2002: “Deficit neurologico grave a sinistra. Deambulazione autonoma impedita. Incontinenza urinaria. Necessita di sedia a rotelle”. Il quadro clinico già precario dieci anni fa, s’è ulteriormente aggravato nel tempo. Il corpo di Manciaracina è aggredito da un tumore alla prostata, che gli viene asportata: durante l’intervento chirurgico, il detenuto ha un arresto respiratorio e poi un arresto cardiaco da shock emorragico. Il cuore è minato da una cardiopatia ipertensiva. L’uomo crolla in depressione, e viene sottoposto ad una terapia farmacologia; venti ore al giorno su una barella. Questa la sua condizione nel momento in cui la polizia penitenziaria si reca a casa sua, nel 2008, a Mazara del Vallo, per portarlo nel carcere di Bari. Ma proprio quando l’uomo è tradotto in carcere, iniziano violente crisi epilettiche che gli impediscono praticamente di stare seduto sulla sedia a rotelle, costringendolo 20 ore al giorno inchiodato immobile su una barella. Come accenna ad alzarsi, è aggredito dall’epilessia, alla quale si aggiungono “ernie discali multiple”. La situazione in cella precipita. La dose massiccia di farmaci che ingerisce gli intossica lo stomaco, procurandogli nausea e vomito continuo. Lo psichiatra che lo visita diagnostica “un atteggiamento a tratti pseudo demenziale”. La vita clinica del detenuto è ricostruita nei minimi dettagli dalla dottoressa Tripaldi che, ad un certo punto della sua relazione, annota: nel 2009 le autorità carcerarie sono costrette ad emettere “un ordine di servizio per disporre la grande sorveglianza del detenuto, per gravi problemi di adattamento alla vita carceraria, per rischio suicidario e autolesionistico”. Quando il medico legale del tribunale lo visita dopo averne ricostruito l’anamnesi, gli diagnostica una “piaga di decubito sacrale” provocata dalla eccessiva permanenza in posizione orizzontale sulla barella. Il perito nel verbale scrive: necessita di “pannolone per incontinenza sfinterica” e trova il detenuto settantaseienne “estremamente trascurato in generale e nell’igiene personale, barba e capelli lunghi incolti”. “Negli ultimi mesi s’è aggiunta gastrite atrofica erosiva e stenosi pilorica”. Nonostante questo quadro clinico sconcertante, la neurologa conclude la sua relazione per il Tribunale ritenendo (incredibilmente) il paziente idoneo alla vita carceraria: “Manciaracina non è in pericolo di vita le sue sono patologie gravissime, ma croniche, e in carcere, del resto, è ben curato”. Non deve essere poi così ben curato, se la stessa dottoressa Tripaldi, nella stessa relazione, ammette che “un po’ di riabilitazione quotidiana potrebbe avere una ricaduta positiva sulla sindrome da immobilizzazione e prevenire le piaghe di decubito, il trofismo muscolare, la stipsi”. E le crisi epilettiche? “Di per sé non aumentano la probabilità di mortalità”. E la forte depressione curata con una dose massiccia di farmaci? “Indubbiamente il detenuto vive il proprio stato con disagio psicologico. Però come per ogni essere umano, tocca a lui volere stabilire se incrementare il proprio benessere fisico e mentale”. La perizia di parte, redatta dal dott. Vincenzo Cavaliere, psichiatra, psicoterapeuta e dirigente presso il reparto di psichiatria dell’ospedale “Cervello” di Palermo, si conclude con queste amare parole: “Il nostro Stato non prevede più la pena di morte, probabilmente in un futuro più o meno prossimo non sarà più vigente l’ergastolo, da più parti segnalato come in contrasto con alcuni nostri principi costituzionali, ma per quanto detto sopra (relazione di perizia, N.d.R.) si deve necessariamente ammettere che protrarre la carcerazione del Manciaracina, condizione prognostica sfavorevole sia “quoad vitam” che “quoad valetudinem”, possa corrispondere in questo specifico caso ad una “condanna a morte al rallentatore” se non ad una induzione, in qualche modo, al gesto anticonservativo: “non ti posso uccidere, ma pongo le condizioni ambientali per le quali sarai tu a volerlo fare”. Quali iniziative urgenti, signore ministri della Giustizia e dell’Interno intendete assumere? Cosa intendete fare, cosa avete fatto? Giustizia: caso Cucchi; “Stefano fu ucciso, ora lo dimostreremo” di Elsa Vinci la Repubblica, 16 aprile 2012 La sorella di Cucchi e la svolta della maxi perizia: “I giudici finalmente ci credono”. Quando ti pestano e poi muori c’è un assassino? Oppure le botte sono solo botte e il resto lo fa l’incuria? Le due verità sul caso Cucchi vanno alla prova. Dopo l’esame di 29 consulenti di parte, praticamente il gotha della medicina legale in Italia, il 9 maggio la seconda Corte d’assise di Roma affiderà una maxi perizia per stabilire se al centro della scena c’è un omicidio. Quali sono i dubbi di questo processo, i nodi da sciogliere? “Lo Stato se l’è preso vivo e ce lo ha ridato morto”, sostiene la famiglia di Stefano. La procura racconta invece la storia di un giovane arrivato in tribunale per la convalida di un fermo per droga, che viene picchiato nei sotterranei e poi abbandonato all’ospedale Pertini di Roma. Una verità terribile, ma “insufficiente”, “monca” per chi ha perso un figlio con due fratture alla spina dorsale. La dialettica nel bunker di Rebibbia non si gioca tra Accusa e Difesa, come sempre in un processo. “Ma tra i pm e noi parte civile”, dice Ilaria Cucchi. “C’è omertà”. Dovrà rispondere a una serie di interrogativi che attraversano il dibattimento, per esempio se le lesioni alla schiena siano dovute a un pestaggio, sempre che ci sia stato. “Sono indubbia conseguenza” per il professor Vittorio Fineschi dell’università di Foggia, consulente della famiglia. Non è così per Paolo Arbarello, di medicina legale a La Sapienza, perito della procura: la frattura lombare sarebbe “vecchia”, quella sacrale più recente ma “compatibile con una caduta sul sedere”. Dunque, niente “calci assassini”. Per questo rispondono “solo” di lesioni tre agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio, Antonio Domenici), a giudizio con sei medici (Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Stefania Corbi, Luigi De Marchi Preite, Rosita Caponetti, Flaminia Bruno) e tre infermieri (Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe) del Pertini, accusati di aver abbandonato e “nascosto” il paziente.I pm Francesca Loy e Vincenzo Barba non si tacciono che l’interrogativo principe sarà sulle cause della morte. Due verità opposte, dicotomiche si sono affrontate in aula per mesi. Persino sulla dinamica dei fatti. Stefano Cucchi viene arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti la sera del 15 ottobre 2009 per droga. Passa la notte nella caserma di Tor Sapienza, ed è qui che comincia a star male. Tanto che alle 5.30 del mattino i militari chiamano il 118. “Se stava bene all’1.30 perché l’ambulanza all’alba?”, osserva l’avvocato Diego Perugini, difensore dell’agente Minichini. Non solo, il carabiniere Stefano Mollica, che dalla caserma lo porta in tribunale, racconta alla Corte: “Notai subito il viso gonfio e arrossamenti intorno agli occhi. Gli chiesi se aveva bisogno di un medico, rifiutò”. Cucchi ha mai parlato di carabinieri? “A due detenuti arrestati la stessa notte. Dicono la verità? Mentono? Il verbale è agli atti”, osserva l’avvocato Perugini. C’è pure la testimonianza dell’agente dell’ufficio casellario di Regina Coeli, Bruno Mastrogiacomo, che al processo afferma: “Cucchi mi disse che era stato menato all’atto dell’arresto”. Nessun carabiniere è finito sotto inchiesta, cosa ha fatto la procura di queste dichiarazioni? “Non ci sono stati riscontri”, rispondono i pm. Allora che cosa è successo? “Che lo hanno pestato due volte - sostiene Fabio Anselmo, legale della famiglia - una in caserma e l’altra nei sotterranei del tribunale”. Lì c’è un giovane africano, Samura Yaya, anche lui in attesa di giudizio, sente dei “calci”, vede “l’uniforme blu”. Il colore dei penitenziari. La sua voce è il perno dell’accusa. Cucchi è davvero malconcio, tanto che l’agente Minichini, che giura di non averlo mai toccato, chiama il medico del tribunale. A sera al Fatebenefratelli il riscontro delle fratture. A questo punto soltanto la superperizia potrà stabilire se si annida lì la causa mortis, oppure “se il fisico provato di un ex tossicodipendente non ha retto all’abbandono”. In cinque giorni di ricovero al Pertini, la sua tomba, Stefano accumula quasi un litro e mezzo di urina nella vescica. È una mummia di dolore. I consulenti della famiglia affermano che è stata la miccia della reazione mortale. I medici e gli infermieri si difendono dicendo che il paziente non collaborava, rifiutava il cibo. “Mio fratello chiedeva un avvocato, non mangiava per protesta. Finalmente solo ora i giudici ci credono”, dice Ilaria. “Cucchi respingeva le terapie - replica l’avvocato Gaetano Scalise, per il professor Fierro. Abbiamo esibito alla Corte 14 verbali di rifiuto. La sua è stata una morte improvvisa”. Il cuore si è fermato alle 5.30 del 22 ottobre 2009. Senza la presenza di un solo rianimatore. Eppure in Corte d’assise l’assoluzione degli imputati non appare affatto da escludere. La maxi perizia potrebbe scongiurare il rischio. Giustizia: strage di Bologna, la “pista palestinese” non regge e Raisi (Fli) accusa la Procura di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 16 aprile 2012 Attraverso delle dichiarazioni rilasciate al quotidiano Il Resto del Carlino dell’otto aprile (2012), l’onorevole Enzo Raisi (Futuro e Libertà) lancia numerose accuse rispetto alle modalità con cui la Procura di Bologna sta affrontando il fascicolo bis sulla strage del 2 agosto 1980. Critica il procuratore capo Roberto Alfonso perché quest’ultimo si sarebbe limitato a chiedere una rogatoria alle autorità competenti per ascoltare Christa Margot Frohlich e Thomas Kram, i due cittadini tedeschi indagati in riferimento alla “pista palestinese”. A dispetto di ogni minima cognizione del diritto nazionale e internazionale, afferma che la Procura avrebbe dovuto spiccare dei “mandati di cattura” verso la Frohich e il Kram. A differenza del procuratore capo di Bologna, pretende altresì che Carlos, detenuto in Francia, sia ascoltato. Finge così di non sapere che, in un interrogatorio del 2009 condotto dal pm Enrico Cieri, lo stesso Carlos ha già parlato di una pista alternativa a tutte quelle finora avanzate sulla strage del 2 agosto 1980 e, nello specifico, della possibile e diretta responsabilità di settori particolari dei servizi segreti degli Usa e di Israele, un po’ come successe con la strage compiuta dal finto anarchico Gianfranco Bertoli davanti alla Questura di Milano il 17 maggio 1973. Raisi non accetta inoltre la verità secondo cui, in base a quanto riportato dagli stessi documenti forniti dalle autorità francesi e italiane, l’esplosivo utilizzato per la strage del 2 agosto non è compatibile con quello che sarebbe stato usato - per altro alcuni anni dopo - dal cosiddetto gruppo Carlos in Francia e con quello trovato in una valigia della Frohlich quando quest’ultima, nel 1982, fu tratta in arresto a Fiumicino. Come se non bastasse, propone un ulteriore scenario: “Una delle vittime della bomba era un ragazzo di Autonomia operaia. Ho saputo da alcune testimonianze che il giorno dopo, nella sala autopsie, andarono due persone, un giovane mediorientale e una ragazza. Passarono in rassegna i corpi e, quando videro il ragazzo, si guardarono in faccia, si spaventarono e tirarono dritto. Un maresciallo dei carabinieri vide tutto e li chiamò, ma loro uscirono di corsa e sparirono. Chi erano quei due? E perché il ragazzo di Autonomia operaia aveva in tasca un biglietto della metro di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?”. (Il Resto del Carlino, 8 aprile 2012). In realtà, nel 1980 Carlos non viveva in Francia, paese da cui era fuggito nel 1975 dopo una sparatoria conclusasi con la morte di due poliziotti, e le organizzazioni palestinesi - specie dopo la riunione a Venezia del Consiglio europeo che il 13 giugno elaborò una dichiarazione a favore dell’autodeterminazione del popolo palestinese - non avevano neanche il benché minimo motivo per compiere un attentato stragista a Bologna. Questa è la verità storica. Non sembrerebbe perciò necessario dover aggiungere altro a commento delle fantasie di Raisi ma tutte le bugie vanno sempre contrastate in tempo prima che diventino un ulteriore depistaggio. Per questo motivo dobbiamo dire a chiare lettere che le affermazioni raisiane costituiscono dei sospetti privi di fondamento. Il ragazzo morto a cui si riferisce il parlamentare di Futuro e Libertà forse era stato un giovane del movimento del 1977. In ogni caso, stando a quanto riportarono alcuni quotidiani allorché fu riconosciuto il suo cadavere, sostituì il padre deceduto per aiutare la madre e la famiglia, intraprese delle attività lavorative in giro per l’Italia e a Londra e, senza dubbio, nel 1980 non aveva più il tempo libero per effettuare una qualche forma di attività politica. Come tutti sanno o dovrebbero sapere, dopo la strage del 2 agosto furono svolte anche delle indagini per capire se fra le vittime ci fossero dei possibili responsabili del crimine. Non se ne trovò nessuno fra quelle decedute e, anni dopo, ne fu trovato solo uno fra le persone ferite. Si chiamava Sergio Picciafuoco ed era un personaggio, proprio come Bertoli, dal carattere fragile e dalla mentalità mercenaria. Al di là di queste caratteristiche, suscettibili di essere poco precise, contano comunque i fatti. Ad esempio, pochi ricordano che in carcere, durante il processo di appello che si svolgeva a Bologna ed in cui era imputato, Picciafuoco ricevette un significativo aiuto dal faccendiere e depistatore reaganiano Francesco Pazienza, ex dirigente del Sismi. Nella sentenza del processo d’Appello datata 18 luglio 1990 si parla infatti della “memoria indirizzata dal Pazienza al Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. In essa riferiva il Pazienza di avere appreso dal Picciafuoco che costui, nel 1985, essendo detenuto all’Asinara, aveva potuto incontrare “tre misteriosi personaggi” che gli avevano promesso due o tre miliardi ed un passaporto per espatriare in Sudamerica, in cambio di una conferma da parte sua delle “assai improbabili teorie sviluppate dal G.I. e dal P.M. di Bologna”. Queste rivelazioni il Picciafuoco le aveva fatte durante una pausa delle udienze innanzi alla Corte di Assise di Bologna. Interpellato in merito al contenuto della lettera del Pazienza, il Picciafuoco confermava le cose riferite …” . Grazie anche a quella memoria scritta da Francesco Pazienza, Picciafuoco venne assolto dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna del suddetto processo. E la sua posizione giudiziaria, condizionata da alterne vicende, cinque anni dopo fu stralciata per passare sotto la competenza di un tribunale di Firenze, dove alla fine trovò la più completa assoluzione. Diversi indizi e troppe coincidenze facevano supporre che Picciafuoco, latitante per circa dieci anni prima dell’arresto avvenuto nel 1981 e frequentatore di alcuni ambienti dell’estrema destra, potrebbe essere stato un collaboratore dei servizi segreti militari ma su questo punto nessuno fece delle approfondite indagini. Tutto ciò significa che la verità giudiziaria sulla strage di Bologna cercò di avvicinarsi alla verità storica ma fu ostacolata in mille modi, anche dentro le carceri, dai depistatori di Stato e da persone a suo tempo imputate, ma ormai morte, come lo stesso Sergio Picciafuoco e Carlo Digilio, il tecnico delle stragi di Piazza Fontana e di Brescia che fu collaboratore dei servizi segreti militari Usa dal 1966 al 1982. Quest’ultimo a metà degli anni 90 si “pentì” e fece ampie confessioni esclusivamente rispetto ai reati che erano andati in prescrizione. Non certo rispetto a quelli per cui, come nel caso della strage di Bologna del 1980, avrebbe rischiato una lunga pena detentiva. Giustizia: detenuto per 7 anni negli Usa “molti italiani innocenti nelle carceri americane” La Sicilia, 16 aprile 2012 La Commissione dei Diritti umani del Senato della Repubblica, nell’ambito della sua attività di approfondimento e di ispezione della situazione penitenziaria interna, su indicazione del presidente Pietro Marcenaro, ha dedicato una seduta allo scottante tema dei cittadini italiani arrestati all’estero, tema delicato, se si considera che allo stato attuale i cittadini residenti in Italia e detenuti all’estero sono circa tremila. Nell’incontro si è convenuto che lo Stato italiano deve attivarsi per fare sentire loro il più possibile la presenza della nostra istituzione, a prescindere della valutazione della colpevolezza o della condanna, che spesso giunge dopo un lungo periodo di detenzione, talvolta inutile, o discutibile, o in contrasto con le nostre normative. Il presidente Marcenaro ha chiamato in audizione della commissione un cittadino italiano detenuto per circa otto anni in un carcere della California e recentemente rimesso in libertà, Carlo Parlanti, 47enne di Montecatini Terme, ex brillante manager informatico, ingiustamente detenuto dal 2004, sulla base di un falso certificato penale che attestava inesistenti precedenti giudiziari per stupro. Negli Usa, condannato a nove anni, ha scontato l’85% della pena (sette anni e sette mesi), ed è stato trattato in maniera umiliante e subumana. Successivamente il presidente ha dato la parola all’avvocato Vito Pirrone, consulente della commissione, il quale ha formulato delle proposte operative, possibilmente di pronto intervento, da attuare di intesa con il Ministero degli affari esteri. Pirrone, ha evidenziato che su tale problema in particolare si sente di rilevare un metafisico disinteresse. Ha proposto che de devono essere seriamente attuate le disposizioni contenute nella Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, in modo da garantire i diritti della persona tutelati dalla Costituzione italiana; ha evidenziato che sarebbe opportuno istituire presso le ambasciate, ma ancor più presso i consolati, un ufficio specifico per i cittadini italiani detenuti all’estero, a cui si possono rivolgere le famiglie dei cittadini detenuti, nonché i detenuti stessi per, chiedere assistenza; ogni consolato dovrebbe istituire una lista di legali fidati cui il cittadino possa rivolgersi, assicurando una effettiva assistenza di interpreti che sollevi il detenuto dal gap notevole della lingua. L’ufficio consolare dovrebbe poi accertarsi delle condizioni di salute del detenuto e attivarsi affinché sia garantita un’adeguata assistenza sanitaria, e che la espiazione sia consone ai principi di civiltà ed agli accordi internazionali . Il senatore Fleres, coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti e garante per la Regione Siciliana, ha sottolineato il problema della tutela e del rispetto dei cittadini italiani, imputati o detenuti all’estero, che va seguito sia nella fase istruttoria, sia nelle successive fasi fino all’eventuale condanna. Fleres ha auspicato una maggiore attenzione da parte del ministero degli Esteri, così da evitare gravi errori giudiziari e “trattamentali”, come purtroppo è già accaduto. All’incontro della Commissione ha fatto seguito una conferenza stampa, nei locali del Senato della Repubblica, cui hanno preso parte, oltre al senatore Fleres e all’avv. Pirrone, il criminologo Vincenzo Mastronardi, criminologo, ordinario nell’università di Roma e il signor Carlo Parlanti. Parlanti fu rinchiuso in carcere con l’accusa di aver sequestrato e violentato nel 2002 la sua convivente, Rebecca White. La vicenda risale al 2001 quando Parlanti conobbe la donna che lo denunciò, alla fine di una relazione sentimentale dichiarando di essere stata picchiata, legata e stuprata, contraddicendosi palesemente. Il procuratore distrettuale dichiarò che l’imputato aveva precedenti penali in Italia per stupro e rapina a mano armata. Sull’estratto della sua fedina penale del casellario giudiziario si legge invece solo una parola: “Nulla”. “Sono scampato all’inferno, - ha detto Parlanti in conferenza stampa - dunque non tornerò, mai più, negli Stati Uniti. Ora devo curarmi, riprendermi, riprendere una vita normale. Poi voglio collaborare con il professor Mastronardi e con l’associazione “Prigionieri del Silenzio”, che per me ha fatto il possibile e l’impossibile. Solo negli Stati Uniti sono detenuti 178 italiani, fra cui, secondo le statistiche, almeno 50 innocenti”. Marsala (Tp): il vecchio carcere chiude, ma quello nuovo non verrà costruito a.marsala.it, 16 aprile 2012 Il nuovo carcere di Marsala, quello che il Ministro della Giustizia del governo Berlusconi, Alfano, aveva promesso al Sindaco Carini, non si farà più. Per contenere la spesa le nuove carceri sono state tutte tagliate. E benché Carini abbia scritto una lettera al Ministro della Giustizia Severino qualche settimana fa, appena sono giunti i rumor della cancellazione del carcere, non c’è stata nessuna risposta dal Guardasigilli. Insomma, il silenzio va interpretato nel senso che il nuovo carcere di Contrada Scacciaiazzo non verrà fatto. Ma chiude anche il vecchio carcere, quello del Castello, in pieno centro storico a Marsala. Oggi infatti è sulla carta il giorno di chiusura della vecchia struttura, che ospita pochi detenuti. Con un decreto il Ministero ha stabilito la chiusura della struttura che fa da carcere dal 1818. Sia la locale Camera penale, presieduta dall’avvocato Diego Tranchida, che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, guidato da Gianfranco Zarzana, hanno preparato duri documenti di protesta. Una città sede di Tribunale e Procura non può, infatti, rimanere senza un carcere. Seppur con il rango di “casa circondariale”, ovvero luogo di detenzione temporanea, idoneo ad accogliere carcerati in attesa di giudizio o che al massimo devono scontare pene non superiori a 5 anni di reclusione. E nel quale vengono rinchiusi gli arrestati in attesa di convalida, entro 48 ore, del provvedimento restrittivo da parte della magistratura. Per quest’ultima esigenza, a giudizio dello Stato, attualmente votato al “taglio “ della spesa pubblica, sono sufficienti le camere di sicurezza delle caserme delle forze dell’ordine. La chiusura del carcere di piazza Castello comporterà non pochi disagi sia per i familiari dei detenuti che per gli avvocati difensori. I reclusi (una quarantina) dovranno, infatti, essere trasferiti altrove e per i colloqui saranno necessarie lunghe trasferte. Piacenza: film, letteratura e incontri… al via l’edizione 2012 di “Piacenza e il carcere” www.piacenzasera.it, 16 aprile 2012 Tre giornate per parlare di carcere “in maniera attenta e intelligente”. A partire da mercoledì andrà di scena l’edizione 2012 di “Piacenza e il carcere”, l’iniziativa di sensibilizzazione sul tema del carcere e della pena organizzata dall’associazione Oltre il muro. Durante le tre giorni saranno organizzati incontri con gli studenti delle scuole superiori piacentine, verrà proiettato il film “L’aria salata” e saranno premiati i racconti scritti dai detenuti nell’ambito del concorso letterario “Parole oltre il muro - Stefania Manfroni”. “Queste giornate sono solo la parte più visibile di un lavoro costante che le associazioni di volontariato svolgono nel carcere” ha sottolineato l’assessore Giovanni Palladini durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa. Parole ribadite anche dal direttore della casa circondariale di Piacenza Caterina Zurlo: “È importante parlare di carcere in maniera attenta e intelligente. Perciò ringrazio le associazioni e il Comune per il quotidiano lavoro che svolgono con noi”. Si parte mercoledì 18 aprile con la proiezione del film “L’aria salata” alla presenza del regista Alessandro Angelini. La pellicola sarà proiettata nella sede della Circoscrizione 2 alle 21 (ingresso gratuito). Giovedì 19 spazio invece agli incontri con gli studenti di tutti gli istituti superiori piacentini. “Saranno - spiega Valeria Viganò, presidente dell’associazione Oltre il muro - incontri di 2 ore alla presenza di ospiti importanti, volontari e dei detenuti che avranno ottenuto il permesso premio”. Venerdì sera invece a partire dalle 18.30 al caffè letterario Baciccia ci sarà la premiazione del concorso letterario “Parole oltre il muro - Stefania Manfroni”. Oltre 30 i racconti scritti dai detenuti del carcere di Piacenza che verranno selezionati da una giuria composta da diversi scrittori locali. Ad accompagnare la premiazione un aperitivo musicale a cura di Davide Cignatta, Alessandro Colpani e Paolo Cignatta. Durante la conferenza stampa Valeria Viganò ha voluto ringraziare tutto gli enti e le associazioni che hanno reso possibile la realizzazione dell’iniziativa: Comune di Piacenza, A.s.p. “Città di Piacenza, Spazio 4, Lions Club Rivalta valli Trebbia a Luretta, Unione Commercianti, Azione Cattolica Italiana e l’Università Cattolica di Piacenza. Presente anche Carla Chiappini dello Svep e Brunello Bonocore dell’A.s.p. Matera: Ugl Penitenziaria protesta; aumentano i detenuti e diminuiscono gli agenti www.trmtv.it, 16 aprile 2012 Un mix preoccupante, quello che caratterizza la condizione delle carceri italiane, per l’aumento dei detenuti e la contemporanea diminuzione degli agenti, spesso dovuta alla mancanza di turn over. Segnali negativi che ricadono sulle già gravose, pericolose e stressanti condizioni di lavoro degli uomini e delle donne della Polizia Penitenziaria. Una condizione di allarme cui non si sottrae il Carcere di Matera, come denunciano i sindacati che questa mattina hanno luogo ad una manifestazione di protesta, organizzata dall’Ugl Polizia Penitenziaria di Basilicata, cui hanno aderito altre sigle, fra le quali l’Osapp, la Funzione Pubblica della Cgil, l’Fns Cisl e il Sinappe. Insomma, per i Sindacati, bollino rosso anche per la struttura carceraria materana, per la grave carenza di poliziotti penitenziari e per le attuali condizioni di livelli minimi di sicurezza. Ma a preoccupare le organizzazioni sindacali, e sempre in relazione alla carenza di personale, è anche l’annunciata apertura di un nuovo reparto detentivo. La protesta continuerà, annunciano i Sindacati, che sollecitano il Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria, ad un confronto sulle problematiche esposte, perché siano garantite, ribadiscono, condizioni lavorative dignitose. Olbia: incontro tra Asl e direzione carcere di Tempio su gestione sanità penitenziaria Adnkronos, 16 aprile 2012 Istituzioni a confronto in tema di “gestione della sanità penitenziaria”: è in programma per mercoledì 18 aprile 2012 la tavola rotonda che vedrà riuniti intorno ad uno stesso tavolo la Asl di Olbia e i responsabili del carcere di Tempio Pausania. Mercoledì, nella sala convegni dell’hotel - ristorante Il Melograno, in via Vittorio Emanuele a Nuchis (Ot), dalle 9 alle 14, è in programma una tavola rotonda dal titolo “La nuova gestione della sanità penitenziaria”: un incontro tra Asl di Olbia e Casa circondariale durante il quale verranno analizzati percorsi e problematiche che il passaggio dell’assistenza sanitaria negli istituti di pena alle Aziende sanitarie può creare. “La sanità pubblica - spiega il direttore amministrativo della Asl di Olbia, Giorgio Tidore, anche moderatore dell’incontro - supera i confini tradizionali, andando ad assorbire quel segmento di sanità sino ad ora di competenza esclusiva del Ministero di Giustizia. In questo modo si vuole garantire, anche alle persone detenute nelle carceri, livelli elevati di assistenza sanitaria che rispondano agli standard che vengono garantiti agli altri cittadini residenti nel nostro territorio”. ‘Un momento di confronto e formazione - scrive in una nota la direzione della Casa Circondariale di Tempio Pausania - tra il personale penitenziario e quello della Asl volto a garantire un’organizzazione funzionale nel passaggio di competenze dalla sanità penitenziaria al servizio sanitario regionalè. All’incontro è prevista la partecipazione dei vertici della Asl di Olbia, con il Dg Giovanni Antonio Fadda, il Da Giorgio Tidore e il Ds Maria Serena Fenu, e del direttore del carcere di Tempio Pausania, Francesco Frontirrè. Milano: i mobili delle carcerate di Bollate in esposizione al “Fuori Salone 2012” Agi, 16 aprile 2012 Poltrone, arazzi, tappeti. Pezzi unici rigorosamente fatti con materiali riciclati dalle carcerate della sezione femminile di Bollate verranno esposti a Milano in occasione del Fuori Salone 2012, dal 17 al 22 aprile, al Coopi Good Shop in collaborazione con l’Atelier Impronte. L’esposizione “Arte, riuso e diritti” nasce da un’idea di Coopi Good Shop e Atelier Impronte che nasce ufficialmente nel 2011 e coinvolge la sezione femminile del carcere di Bollate. Le partecipanti producono accessori per l’abbigliamento, piccoli complementi d’arredo e altri manufatti artigianali e artistici di alta qualità nel campo della tessitura e del riciclo artistico. I materiali utilizzati provengono da donazioni di aziende e privati. L’Atelier Impronte è un progetto, nato da Arte in Tasca, organizzazione no profit per la diffusione dell’arte terapeutica, e che ha l’obiettivo di permettere alle donne carcerate di ritrovare nuove motivazioni personali, perseguirle e concretizzarle in maniera autonoma. L’esposizione “Arte, riuso e diritti” sarà costituita da una decina di pezzi unici, tra cui arazzi, poltrone e tappeti veramente originali, tutti made in Bollate. Le ragazze dell’Atelier hanno riutilizzato vecchi palloni da calcio, vecchi montoni e stoffe in disuso. Genova: “Loro dentro”, la videocamera tra le sbarre di Federica Seneghini Corriere della Sera, 16 aprile 2012 Video girato da 10 carcerati nel carcere di Marassi, uno dei più affollati d’Italia: il lavoro, la violenza, gli affetti lontani. “Autolesionismo, suicidi, violenza e sovraffollamento sono i temi sui quali spesso si concentra il dibattito relativo alle patrie galere. Ma l’universo carcerario può essere raccontato anche in un altro modo”. Ne è convinto uno dei sociologi dell’Università di Genova che l’anno scorso, per cinque mesi, ha varcato ogni giovedì la soglia di Marassi, il carcere più affollato della Liguria, dove sono detenute oltre 800 persone, a fronte di una capienza di 450 posti. In mano taccuini e penne, ma soprattutto le telecamere. L’obiettivo? “Raccontare il carcere dal punto di vista di chi lo abita nella quotidianità”, spiega Francesca Lagomarsino, membro del team di sociologi che da circa tre anni ha dato vita al laboratorio di Sociologia Visuale, uno spazio sperimentale all’interno della Facoltà di Scienze della Formazione. Il gruppo, coordinato da Luca Queirolo Palmas, dopo molti anni di ricerca sui giovani migranti e le organizzazioni di strada, è approdato al carcere e ha scelto il video come forma di mediazione e linguaggio narrativo. “La ricerca sul campo è stata utile e appassionante, utilizzando le potenzialità del video” sostiene Massimo Cannarella, tra gli animatori del laboratorio. “L’audiovisivo è un linguaggio accessibile a tutti e la telecamera uno strumento di indagine della realtà sociale”. Dieci i detenuti coinvolti nel progetto, di età compresa tra i venti e i trent’anni. “Abbiamo messo la telecamera in mano ai ragazzi e li abbiamo aiutati a raccontarsi, con l’intenzione di andare oltre la denuncia e oltre i numeri, tristemente noti, delle carceri italiane”, spiega Cristina Oddone, videomaker e dottoranda. “I temi che sono emersi, almeno all’inizio, sono stati quelli della loro vita di ogni giorno: dalle difficoltà nel fare la spesa all’interno del carcere, alle possibilità di lavorare, alla trasformazione delle relazioni con la famiglia quando si è dentro”. Frutto di questo esperimento è “Loro Dentro”, un documentario di 42 minuti intenso e senza filtri, in cui i dieci ragazzi raccontano il loro microcosmo fatto di amicizia e amarezza, di rabbia che non di rado degenera in violenza e in atti di autolesionismo, di come sono finiti dentro e di come vorrebbero uscirne. Il film sarà presentato in anteprima nazionale a Genova martedì 17 aprile (Cinema Sivori, Salita Santa Caterina, ore 18.00). “I ragazzi, italiani e stranieri, alcuni dei quali tossicodipendenti, giorno dopo giorno, durante il laboratorio, hanno imparato a parlare di fronte alla telecamera, a mettersi in scena e a raccontarsi” riprende Oddone, che ha firmato la regia del film. “Due fattori hanno contribuito a costruire un clima di confidenza e fiducia reciproca: la continuità della nostra presenza e il fatto che il nostro fosse un gruppo coordinato da sei persone, uomini e donne di età e saperi differenti, in modo tale da permettere dinamiche di gruppo, ma anche relazioni individuali”. I risultati sono chiari. “Abbiamo indagato le pratiche di adattamento o di resistenza all’interno dell’istituzione penale e le relazioni che si stabiliscono tra i detenuti - riprende Lagormarsino - cercando di capire se riflettano o meno le appartenenze culturali o se queste vengano negoziate in funzione di altri interessi”. “Nei racconti dei ragazzi era frequente la denuncia del carcere come istituzione distante, vuota, insufficiente, che vivono attimo per attimo, tutto al presente” sostiene Simone Spensieri, psichiatra del Ser.T. di Chiavari e collaboratore del Centro di etnopsichiatria Frantz Fanon di Torino. “Si tratta di uno spazio che cercano costantemente di evadere anche attraverso l’utilizzo di psicofarmaci sommariamente prescritti. Durante i mesi di lavoro insieme, abbiamo sviluppato con loro una relazione significativa che è riuscita a farsi leva per un nuovo immaginario; l’utilizzo della telecamera in questo senso ha permesso la costruzione di un altro luogo in cui rappresentarsi e confrontarsi. Proprio per questo il processo di ricerca è stato fondamentale anche come occasione di cura per i ragazzi”. Milano: oggi i Radicali effettueranno visite ispettive a San Vittore e al Cie Adnkronos, 16 aprile 2012 In preparazione della seconda marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà organizzata dal Partito Radicale a Roma il 25 di aprile, lunedì 16 una delegazione di radicali milanesi composta da Nicolò Calabro, Diego Mazzola, Andrea Andreoli e guidata dal senatore Marco Perduca visiterà il carcere di San Vittore. Il giorno successivo, ovvero martedì 17, Perduca, Giulia Crivellini e Emiliano Silvestri visiteranno inoltre il Cie di via Corelli. Parma: aggredito agente in carcere; i sindacati: "intollerabile" Ansa, 16 aprile 2012 Due pugni al volto da un detenuto. A param ci sono 620 detenuti in una struttura che dovrebbe ospitarne 450. "Questa mattina, nel carcere diParma, un agente della polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto che gli ha sferrato due pugni al volto". Lo segnalano in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Maiorisi Errico, vice segretario regionale. "L'agente è stato immediatamente soccorso dai colleghi intervenuti prontamente ed è stato portato in ospedale, dove ha ricevuto le cure mediche e gli è stata data una prognosi di dieci giorni. Il detenuto è stato denunciato all'autorità giudiziaria e chiediamo all'amministrazione di sanzionarlo adeguatamente, secondo quanto previsto dall'ordinamento penitenziario". "Non è tollerabile - scrivono i sindacalisti - che il personale di polizia penitenziaria debba subire aggressioni fisiche, nel corso del servizio. A Parma sono presenti circa 620 detenuti, per una capienza di 450 posti. Mancano oltre 115 unità di personale di polizia penitenziaria, tra agenti, sovrintendenti de ispettori. In Emilia Romagna mancano 650 unità e ci sono oltre 2.000 detenuti in più". India: prolungata fino al 30 aprile la carcerazione per i due marò italiani Tm News, 16 aprile 2012 È stata prolungata fino al 30 aprile la custodia in prigione dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti in un carcere di Trivandrum, nello stato dell’Orissa. Lo riferisce la televisione indiana Ibn citando fonti del tribunale di Kollam. I due militari sono accusati di aver ucciso due pescatori indiani nel febbraio scorso, durante un’operazione anti pirateria a bordo del cargo Enrica Lexie. Medio Oriente: attivista italiano rinchiuso nel carcere israeliano di Givon a Ramla Agi, 16 aprile 2012 L’italiano Marco Ravasio è stato rinchiuso nel carcere israeliano di Givon a Ramla e non ha finora potuto vedere un avvocato. È quanto denunciano sul loro sito i membri dell’organizzazione di “Freedom Flotilla Italia - Benvenuti in Palestina 2012”. Ravasio faceva parte della delegazione italiano della “Flytilla” che voleva raggiungere Tel Aviv per poi entrare in Cisgiordania per manifestare contro l’occupazione israeliana. Pakistan: attacco di 150 miliziani armati al carcere di Bannu, quasi 400 evasi Ansa, 16 aprile 2012 Evasione di massa dal carcere di Bannu, nel nord-ovest del Pakistan. Sono quasi 400 i detenuti fuggiti dalla prigione che si trova nel distretto di Khyber Pakhtunkhwa, considerato una roccaforte dei talebani alleati di Al Qaida, dopo un attacco condotto con armi pesanti dai talebani, che hanno rivendicato l’assalto. Uno dei detenuti evasi, un ex ufficiale dell’aeronautica, era nel braccio della morte per il coinvolgimento in un complotto per uccidere l’ex presidente Pervez Musharraf. “C’era un detenuto di nome Adnan Rashid, che era un prigioniero pericoloso - ha detto un ufficiale di polizia. Era uno dei capi in un complotto contro Musharraf. Questa gente è venuta per lui e si è presa anche gli altri”. Almeno 150 ribelli armati di mitra, granate e lanciarazzi hanno preso d’assalto la prigione centrale di Bannu, vicino alle zone tribali di Khyber e di Orakzai. L’attacco è stato lanciato poco dopo la mezzanotte locale (le 21 di ieri in Italia) ed è andato avanti per oltre due ore. I ribelli, più numerosi dei secondini, sono penetrati nella prigione grazie un intenso fuoco di armi automatiche e di razzi e sono fuggiti prima dell’arrivo delle forze di sicurezza. “Circa 400 prigionieri, fra i quali molti talebani e insorti radicali, sono fuggiti nel corso dell’attaccò, hanno riferito le autorità pachistane. Al momento dell’assalto nella prigione si trovavano 944 detenuti. Secondo Mian Iftikhar Hussain Shah, ministro dell’Informazione del distretto del Khyber Pakthunkhwa, “fra i talebani liberati c’erano 20 prigionieri di alto profilo che attendevano di essere giustiziati”. Secondo il ministro “i talebani erano in numero elevato e hanno ferito quattro agenti penitenziari prima di liberare i loro compagni”. Interpellato dall’Ansa, il portavoce talebano Asim Mehsud ha detto “sì, abbiamo condotto l’attacco. Circa 150 talebani hanno preso parte all’operazione. Abbiamo liberato 800 dei nostri uomini”. Secondo un ufficiale di polizia, i talebani che hanno condotto l’attacco erano 250, arrivati su mezzi, ma anche a piedi. Il Pakistan, potenza nucleare, è un alleato strategico degli Stati Uniti ma è anche considerato uno dei Paesi più instabili del mondo. Nel maggio scorso, un commando delle forse speciali Usa ha localizzato e ucciso Osama bin Laden nella remota cittadina pachistana di Abbottabad, dove apparentemente l’ex capo di Al Qaida e terrorista più ricercato al mondo aveva vissuto indisturbato per anni. Brasile: detenuti protestano per condizioni detentive, prendono in ostaggio 130 persone Asca, 16 aprile 2012 Da ieri è panico in un carcere brasiliano. La polizia brasiliana ha fatto sapere che domenica più di 400 detenuti dalla prigione Jacinto Filho di Aracaju, nel sud-est del Paese, si si sono ammutinati. Armati di tre fucili rubati nelle armerie e di vari coltelli, i detenuti hanno preso in ostaggio 131 persone, la maggior parte parenti venuti a far loro visita. I negoziati sono stati avviati. Il gesto estremo sarebbe stato compiuto per protestare contro i maltrattamenti subiti dalle guardie. Altro rivendicazione dei detenuti è un servizio di mensa migliore. La rivolta è iniziata ieri mattina, durante l’orario di visita. Poche ore più tardi nel pomeriggio, i prigionieri hanno bruciato i materassi. In serata sono montati sul tetto. Più di 130 agenti di polizia sono stati poi inviati nei pressi del penitenziario. Intorno 20:30 locali, la luce è stata spenta in tutto il carcere. La polizia ha fatto sapere che i negoziati continueranno senza indugio. In Brasile, come in gran parte dell’America Latina, il sistema carcerario è in crisi da sovraffollamento, soffre l’influenza di bande criminali e la mancanza di investimenti. Le gang impongono le loro leggi in carceri spesso fatiscenti e malsani. Sud Corea: primi test di utilizzo della Guardia Robot nelle carceri Ansa, 16 aprile 2012 Già utilizzati per ambiti militari e per operazioni chirurgiche, ora i robot arrivano anche nei carceri della Corea del Sud, un luogo di certo non meno ricco di rischi. Già un pò di tempo fa avevamo parlato del robot-guardia che sarebbe dovuto entrare in azione da Marzo. Oggi finalmente, con leggero ritardo sulla tabella di marcia, arriva la conferma che la Corea Del Sud ha avviato un primo esemplare in un carcere locale, che dovrà controllare tutti i carcerati. Il robot scandaglierà il carcere e grazie a sensori e fotocamere 3D sarà in grado di individuare comportamenti anomali dei prigionieri ed in caso suonare l’allarme ed inviare materiale audio/video ai responsabili. Si tratta ancora di una sperimentazione, che se però avrà successo verrà adottata in tutti gli altri carceri della Corea e forse verrà anche adottato nel resto del mondo. il robot alleggerisce il carico di lavoro del personale e rende l’ambiente più sicuro. Staremo a vedere tra qualche mese se avrà successo, intanto vi lasciamo ad un video della robot-guardia.