Incontro con i Radicali sul tema dei detenuti sottoposti al regime di 41 bis Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2012 Si è svolto il 13 aprile nella Casa di reclusione di Padova un incontro, nella redazione di Ristretti Orizzonti, con l’onorevole Maurizio Turco, deputato radicale, e Maria Grazia Lucchiari membro del comitato nazionale di Radicali Italiani. Al centro della discussione la condizione dei detenuti sottoposti al regime di 41 bis. “Di fronte a questa progressiva militarizzazione del sistema, l’unica cosa che possiamo fare è una forma di resistenza, cercando di far valere le garanzie che la norma stessa prevede”, ha spiegato l’onorevole che svolge costantemente visite nelle carceri dove sono state create le sezioni del 41 bis. Nelle sezioni del 41 bis ci sono circa 650 detenuti ma c’è pochissima trasparenza sulle loro condizioni di vita: non si sa quanti anni vi rimangono, se escono dalla cella e che tipo di attività svolgono, se parlano mai con qualcuno, se fanno colloqui con i famigliari, come vengono curati, quanti sono i morti? Dal 41 bis si può uscire soltanto collaborando con la giustizia e il nuovo capo del Dap ha detto recentemente che il 41 funziona, ma nessuno dice quanti sono i detenuti che si sono pentiti dopo essere stati sottoposti a questo regime, quanti non si sono pentiti e qual è la loro storia personale. Insomma, il 41 bis rimane una tortura democratica, una violenza che lo Stato utilizza per costringere gli accusati di mafia a fornire informazioni, ma anche per indicare alla società qual è “la mafia”, come se i mafiosi fossero solo loro, i sottoposti al regime del 41 bis, un identikit questo che però non rappresenta anche altre categorie di mafiosi, come quelli che lavorano nella finanza. Tortura democratica è anche il titolo del libro che Maurizio Turco ha scritto (editore Marsilio) insieme a Sergio D’Elia, trattando a lungo questo argomento. Nell’incontro con i detenuti della redazione è stato toccato anche il tema dell’ergastolo, su cui oggi manca totalmente un dibattito da parte della classe politica odierna. In particolare si è parlato dell’ergastolo ostativo,, che esclude i condannati all’ergastolo dall’accesso alle misure alternative al carcere, rendendo questa pena un effettivo “fine pena mai”. E così, la tortura democratica continua. Giustizia: Bernardini; Governo propone nulla per uscire illegalità, amnistia unica risposta Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2012 Da governo e grandi maggioranze viene proposto il nulla per uscire dall’illegalità. Sicché l’amnistia è, clamorosamente, l’unica risposta immediata per riforma strutturale e normativa. Dichiarazione del leader radicale Marco Pannella e di Rita Bernardini, deputata radicale, membro della Commissione Giustizia: “Tutti possono oggi constatare che dalle attuali posizioni assunte dal Governo e dalle grandi maggioranze parlamentari, nulla di quanto da trent’anni ci viene formalmente ingiunto dalle giurisdizioni internazionali, nulla di quanto sostenuto dalle stesse dichiarazioni del Presidente della Repubblica e dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, nulla di quanto manifestamente e tassativamente è previsto dalla Costituzione italiana, nulla viene assicurato per interrompere la flagranza letteralmente criminale nella quale Stato e Repubblica italiana si trovano. Per il quinto anno consecutivo l’Italia ha conquistato due giorni fa il poco invidiabile primato del Paese con il maggior numero di sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo rimaste inapplicate. Un fenomeno legato alla irragionevole durata dei processi che fa del nostro Paese un sorvegliato speciale in sede europea che si comporta peggio di Turchia, Russia, Polonia e Ucraina. Un mese fa il Comitato dei Ministri ha chiesto alle autorità italiane di “presentare un piano d’azione che oltre a proposte concrete su come risolvere la questione contenga anche un calendario che permetta di monitorare attentamente gli effetti delle riforme già introdotte e la tempistica per le misure ancora da introdurre”. D’altra parte, lo stesso Governo per bocca del sottosegretario Salvatore Mazzamuto, ha ammesso che le depenalizzazioni previste nel disegno di legge Severino in discussione in Commissione Giustizia della Camera hanno una portata minima e sicuramente “non adeguata rispetto agli obiettivi deflattivi che si pone il Governo”. Presentando i dati di uno studio realizzato dall’Ufficio statistiche del Ministero della Giustizia, Mazzamuto ha riferito che l’incidenza delle depenalizzazioni previste nel disegno di legge governativo avrebbero un’incidenza dello 0,5% rispetto ai processi iscritti in primo grado con rito monocratico (366.000 nel 2010). A questo punto ci rivolgeremo a tutte le giurisdizioni superiori documentando come la proposta dell’amnistia immediatamente realizzerebbe quanto ci viene da decenni ingiunto, innescando processi convergenti sia sul piano dell’ottenimento della ragionevole durata dei processi penali e civili sia su quello della pressoché immediata soluzione strutturale e normativa della conseguente criminale condizione penitenziaria italiana. Giustizia: la crisi del carcere, tra burocrati e magistrati di Massimo Di Rienzo (Direttore Casa Circondariale di Lanciano) Il Manifesto, 15 aprile 2012 Per risolvere la crisi del sistema penitenziario c’è bisogno di una classe dirigente diversa dall’attuale coabitazione tra alti burocrati, appagati dallo status raggiunto, e magistrati a tempo Ad affrontare la grave crisi del sistema penitenziario, notoriamente ormai caratterizzata dai problemi del sovraffollamento e della carenza delle risorse, umane e finanziarie, è chiamata una dirigenza penitenziaria ancora in via di formazione, dopo la riforma del 2005. Segnata da un percorso storico travagliato, oscillante fra spinte politico-legislative spesso di segno opposto, essa da circa sette anni nella gestione corrente viene assimilata, o meglio equiparata, ora a quello ora a questo riferimento professionale, limitata e tenuta sotto tutela dalla presenza costante, sebbene temporanea per i singoli interessati, di magistrati nei ruoli fondamentali dell’amministrazione. La permanenza dei magistrati all’interno dell’ organizzazione amministrativa in generale, ed in particolare in quella della giustizia, ha una lunga storia. Tuttavia intorno alla metà degli anni novanta, per chi viveva dal di dentro la cosa penitenziaria, era evidente che una sorta di tacito patto finiva per legare gli alti dirigenti ed i magistrati insediati nei gangli centrali dell’apparato carcerario. Ai primi, dopo le prime nomine e fino al 2011 selezionati con modalità che lasciavano progressivamente sempre meno spazio al merito ed alla competenza a vantaggio di patrocini politici e di potere, veniva riservata la gestione dei provveditorati regionali, oltre alla conduzione di alcune direzioni generali e dell’Istituto superiore di studi penitenziari. I secondi, provenienti quasi esclusivamente da esperienze nelle Procure, progressivamente rafforzavano le proprie posizioni a livello centrale ampliando maggiormente la loro sfera di influenza con l’occupazione di posti ulteriori rispetto ai limiti dettati dalla legge, che circoscrive le loro competenze a quelle riconducibili a solo due delle cinque direzioni generali. La coabitazione fra alti burocrati e magistrati nei posti di comando dell’Amministrazione penitenziaria finiva per svilire e relegare in secondo piano le problematiche che caratterizzavano le entità territoriali, gli istituti e gli uffici di esecuzione penale esterna; realtà che, invece, rivestendo un ruolo centrale nella concreta applicazione dell’esecuzione penale, avrebbero meritato ben altre attenzioni. Uno sguardo d’insieme a quella che è stata nell’ultimo scorcio la distribuzione del personale dirigente sul territorio rileva situazioni di estrema instabilità: istituti ed uffici locali lasciati per anni privi di direttori titolari, anche a causa di un mancato turn over, cui fa da contrappunto l’ ingolfamento di funzionari dirigenti presso sia gli uffici centrali che le articolazioni regionali, con relativo svilimento e deprezzamento delle funzioni ivi svolte. Rappresentazione inquietante, che si sarebbe ancora maggiormente consolidata se si fosse realizzato il più recente proposito di redistribuzione delle risorse professionali dirigenziali, risalente a circa un anno addietro, che invece ha trovato una decisa opposizione e, allo stato, non se ne conosce il destino. La presenza, quindi, ai livelli di alta responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, da un lato di burocrati ormai appagati dello status raggiunto, e quindi generalmente poco inclini all’esercizio di capacità critiche e di stimolo nei confronti dei referenti decisionali della politica carceraria; dall’altro di magistrati prestati a tempo determinato alla vita amministrativa (la norma prevede una permanenza massima di cinque anni, molto spesso prorogata fino a dieci) sta rallentando la costruzione di un ceto dirigente all’altezza dei compiti, onerosi e problematici, che i tempi richiedono. Il mantenimento delle posizioni di potere accennate non è estraneo allo stesso ritardo che si registra nella ripresa delle trattative per giungere alla conclusione del primo contratto di categoria: è palmare la tiepidezza che l’ Amministrazione centrale fino ad oggi mostra nella vicenda. Ancora una volta si rileva come il problema cruciale risieda nella formazione dell’assetto in cui si sviluppano i processi di formazione della volontà dell’apparato di vertice, che fanno capo a soggetti per un verso scarsamente motivati, per l’altro carenti nel fondamentale rapporto di immedesimazione organica con l’ente cui sono temporaneamente distaccati. Altre considerazioni, non proprio di confine, si pongono ancora sulla presenza di componenti di un ordine diverso nella segmentazione amministrativa. Senza scomodare principi di ordine costituzionale, senza cioè invocare la mai troppo celebrata tripartizione dei poteri alla base dello stato di diritto, non può non rilevarsi quanto la confusione fra matrici culturali, e relative vocazioni professionali, proiettate a finalità di diversa valenza istituzionale, finisca per ingenerare mescolanze perniciose. Quando, per esempio, a capo di un ufficio ispettivo e di controllo viene posto un - peraltro valente - magistrato che per diversi anni ha svolto le funzioni di Pubblico Ministero, è di tutta evidenza come le regole della vita amministrativa vengano inevitabilmente alterate. Per non dire di quanto sia forte la tentazione di ritenere che sia stato disposto un commissariamento di fatto di quell’ ufficio, quando si constata che a capo della Direzione generale dei beni patrimoniali viene posto un magistrato, già anch’egli Pubblico Ministero di indubbio valore e cacciatore di mafiosi. È quindi evidente come in casi del genere venga snaturata la finalità istituzionale cui gli uffici in questione sono preposti, per assumerne altre, di intuibile, ma taciuto, significato. Ecco come allora la stessa tripartizione dei poteri, che non si vorrebbe scomodare in tale corpore vili, finisca inevitabilmente per ridondare e per rilevarsi la sua inosservanza un pericoloso intralcio alla trasparenza dell’azione amministrativa, segmento non proprio trascurabile, della stessa vita democratica. Un ulteriore problema si pone nella comprensione di tale caleidoscopio, quando si rilevano ben tre diverse specie nella dirigenza penitenziaria, ( per le specifiche contrattuali se ne potrebbero contare quattro) ciascuna portatrice di un suo background culturale. Quando cioè, nel giro di qualche anno, anche la Polizia Penitenziaria enumererà suoi componenti fra le leve dirigenziali, l’Amministrazione sarà dotata di almeno tre ranghi diversi di funzionari dirigenti. Si badi, non si tratta semplicemente di ruoli distinti che si dipartono dal medesimo ceppo. La situazione è ben più complicata. Sono infatti almeno tre i filoni di diversa origine e matrice, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di disomogeneità nel significante degli interventi. La provenienza culturale, formativa e professionale infatti spazierà da quella della magistratura ( ordinaria ) a quella dei dirigenti penitenziari, (comprendendovi anche quelli di competenza pedagogica e contabile) a quella di un Corpo di polizia; con una aggiunta di eterogeneità di ben quattro regimi contrattuali - che vuol dire trattamento economico e status giuridico, e cioè: diritti, doveri, interessi, oneri, aspettative, progressioni - diversamente individuati e regolamentati. Una dinamica virtuale fra queste quattro specie potrebbe risolversi positivamente a vantaggio di un arricchimento della vita amministrativa, con la presenza imprescindibile di una regia autorevole che sappia far convergere le differenze verso l’ univocità del mandato istituzionale. Ma il compito è arduo ed irto di difficoltà. Un quadro invece appena men che ottimale, caratterizzato semmai da debolezze in fatto di volontà di indirizzo o da scarsa chiarezza nelle finalità da perseguire, semmai con una leadership che non eccella in carisma e capacità risolutive, potrebbe invece contribuire a determinare un panorama di disorganicità, con incertezze ed incoerenze sia nella individuazione che nel perseguimento degli obiettivi. Certamente la semplificazione della complessità delineata, al fine di rendere meno arduo il perseguimento degli intenti definiti in sede politica, richiede come obiettivo immediato la riduzione delle distanze fra le matrici di provenienza, almeno attraverso significativi momenti formativi comuni dei ranghi. Tempi diversi, ma non eludibili per chi si fosse dato una visione alta della funzione penitenziaria, richiede la costruzione di un ceto dirigente compatto ed unitario: attraverso un percorso in cui non solo il substrato di valori condivisi, ma pure una comune, agita e penetrante conoscenza degli strumenti attuativi dell’esecuzione penale, così come modellata dalla norma, facciano da imprescindibile tessuto connettivo. Giustizia: Lisiapp; più poteri alla Polizia penitenziaria, bene proposta capo Dap Asca, 15 aprile 2012 “La Polizia penitenziaria potrebbe assumere un ruolo di custodia e vigilanza anche per i condannati che scontano la loro pena con misure alternative al carcere”. È quanto affermato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, in merito al ruolo della Polizia penitenziaria rispetto alle nuove misure alternative al carcere proposte dal Governo. Anche in questi casi, ha sottolineato Tamburino, “ci sono esigenze di controllo e vigilanza e bisogna valutare se questo compito potrebbe essere svolto dalla Polizia penitenziaria o dalle forze di polizia sul territorio. A ciò interviene Mirko Manna segretario Generale del Libero Sindacato appartenenti polizia penitenziaria (Lisiapp), che sottolinea come da tempo non si vedeva un intervento in favore del Corpo o quanto meno una condivisione delle problematiche che affliggono i poliziotti penitenziari a cominciare dalla proposta avanzata dal capo Dap fino ad arrivare a riconoscere gli episodi di suicidi come riconducibili ad una serio disagio che il personale vive sulla propria pelle. È un piccolo segnale - continua il leader Lisiapp, quello del presidente Tamburino, purtroppo siamo davanti ad un ventennio dalla riforma di smilitarizzazione del 1991’ che il Corpo attende una vera ristrutturazione intesa come istituzione del dipartimento della Polizia penitenziaria e un capo della Polizia penitenziaria proveniente dai ranghi del Corpo come accade per altre forze di polizia. Piccoli passi - conclude Manna - sono stati fatti in questi anni , ma ciò non basta, ci vuole come denunciamo da anni una vera ed esclusiva posizione di merito sulle problematiche di tutte le donne e uomini della Polizia penitenziaria. Giustizia: sulle “torture di Stato” trent’anni di latitanza della politica di Rita Bernardini (Deputata Radicale) Gli Altri, 15 aprile 2012 L’immagine che è rimasta impressa nella mia mente è quella di un’apparizione televisiva di Emma Bonino con alle spalle la gigantografia dei genitali seviziati di Cesare Di Lenardo, brigatista rosso implicato nel sequestro del generale statunitense James Lee Dozier. Nella conferenza stampa che i radicali tennero il 30 aprile 1983 per presentare il dossier con le prove delle sevizie a Di Lenardo, Marco Pannella, riferendosi al Governo e al reticente ministro dell’interno Rognoni, disse che si trattava delle prove “della menzogna di un governo, di un ministro, gravissima, colpevole, dolosa; sono le prove di una operazione fascista nei valori, da parte di piduisti, guidati dal piduista Longo, dal piduista Belluscio e da coloro che senza pudore evidentemente sono passati ad organizzare con molta chiarezza il piduismo come squadrismo e come neonazismo che si materializzano in forme di tortura come la falsa esecuzione in mezzo ai campi, di notte, del prigioniero al quale si dice “tanto nessuno sa che tu sei nelle nostre mani”. A questo pieno di verità sconvolgenti corrisponde - disse Pannella - un pieno di fuga e di latitanza (tranne eccezioni) da parte della classe politica; da parte, per esempio, dei noti “oppositori” al governo del partito Comunista, mentre è noto che su tutta la politica piduista di sfascio fascista delle leggi il Pci è stato all’avanguardia sulla linea del terrorismo di Stato da contrapporre al terrorismo del parastato che è quello delle Br. Fuga e latitanza della classe politica che durano inesorabilmente fino ai nostri giorni. Oggi, quei fatti di trent’anni fa riemergono dal fondo paludoso in cui uno Stato - letteralmente criminale - li aveva messi a tacere. Nel 2007, Salvatore Genova, uno dei funzionari di polizia protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni Ottanta, inizia a sputare il rospo rivelando al Secolo XIX le “torture” e i “pestaggi inutili” di cui anch’egli fu protagonista nei confronti di alcuni brigatisti arrestati. Un rapporto approfondito e tragico viene fuori anche dal libro-inchiesta di Nicola Rao “Colpo al cuore. Dai pentiti ai metodi speciali: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata”. È proprio Nicola Rao a parlare della squadretta addetta alle sevizie comandata dal funzionario dell’Ucigos “professor De Tormentis”, che percorreva in lungo e in largo le questure e le caserme d’Italia per estorcere informazioni ai militanti delle Brigate rosse. Più di recente, alla fine del 2011 - a testimonianza che nel nostro Paese fortunatamente resiste ancora chi crede nello stato di diritto e nella democrazia - il giornalista di Liberazione Paolo Persichetti pubblica un’inchiesta in cui, per i dettagli del profilo professionale e culturale, si comprende perfettamente che dietro lo pseudonimo di De Tormentis c’è Nicola Ciocia che oggi esercita la professione di avvocato dopo essere uscito, con il grado di questore, dalla polizia di stato che aveva “servito” per tre decenni. Sono di queste ore invece, le ulteriori, agghiaccianti confessioni di Salvatore Genova che sembra aver deciso di vuotare completamente il sacco affidandosi all’Espresso e alla penna di Pier Vittorio Buffa. C’è materia in abbondanza per fare quella Commissione d’inchiesta che si negò ai radicali quando il 27 aprile del 1988 presentarono una proposta di legge per istituirla. Ma ora come allora tira una brutta aria, se consideriamo che il Governo attuale ha mandato a rispondere all’interrogazione che come radicali abbiamo presentato sull’attualità della vicenda di De Tormentis, il sottosegretario agli Interni Carlo De Stefano già Direttore centrale della Polizia di prevenzione (l’ex Ucigos), quello che nel 1978 arrestò Enrico Triaca per affidarlo immediatamente nelle mani di De Tormentis per il “trattamento” di rito. Sì, una brutta aria: il sottosegretario tace sulla Commissione d’inchiesta lasciando intendere che è stato già tutto chiarito perché “a suo tempo - si legge nella risposta - si sono svolti ampi e circostanziati dibattiti parlamentari, nonché inchieste giudiziarie”. “Su tali fatti, pertanto, non è necessario che io indugi” taglia corto il sottosegretario, che però indugia su una ricostruzione storica pro-domo-sua del reato di tortura come vive nei trattati internazionali. Già perché riferendosi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 il sottosegretario arriva ad affermare che essa poneva sì il divieto di tortura, ma “con delle limitazioni non di poco conto (morale, ordine pubblico, benessere generale di una società democratica)”. Limitazioni che però vengono cancellate ad avviso del sottosegretario, nel 1984, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con l’approvazione della “Convenzione per la prevenzione specifica della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti”. Insomma, secondo De Stefano, fino al 1984 si poteva torturare se era in gioco “il benessere generale di una società democratica”. No, anche con il Governo Monti, non tira una buona aria sul fronte dei diritti umani universalmente acquisiti se a rappresentarli si dà carta bianca al Prefetto De Stefano. D’altra parte, basterebbe che qualcuno ricordasse a tutta la latitante classe politica italiana che occorrerebbe far vivere l’art. 13, comma 4 della Costituzione, per il quale “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Ma la Costituzione più bella del mondo, come dice Pannella, è in realtà la più buona, visto che l’antidemocratica partitocrazia italiana se l’è voracemente divorata da decenni mentre non solo i fatti rievocati in questo articolo ma i più recenti G8, caso Cucchi, carceri infami e infamanti dovrebbero straziare i cuori e le intelligenze dei democratici di questo nostro Paese. Perugia: due interrogazioni parlamentari per riaprire il caso Bianzino di Francesca Marruco www.umbria24.it, 15 aprile 2012 Sono di Rita Bernardini, deputata radicale eletta nelle liste del partito Democratico, componente della commissione Giustizia della Camera dei deputati e di Walter Verini, deputato umbro del partito Democratico le due interrogazioni al ministro della Giustizia per chiedere di fare piena luce sulla morte di Aldo Bianzino, il detenuto che morì nel carcere perugino di Capanne nell’ottobre del 2007. Per quella morte un agente della polizia penitenziaria è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione per omissione di soccorso, falso e omissione d’atti d’ufficio. Le indagini per omicidio volontario sono state archiviate su richiesta del pubblico ministero prima dell’inizio del processo all’agente della penitenziaria. Il deputato umbro Walter Verini chiede al ministro Severino che “nell’ambito delle proprie competenze, anche ispettive, faccia piena luce sulle cause che determinarono la morte del falegname di Pietralunga, all’interno del carcere di Capanne, nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 2007”. In particolare Verini ricorda “che già nel gennaio del 2010, scrisse una lettera all’allora ministro della Giustizia, con la quale chiese di contribuire, nelle sue prerogative e nelle forme opportune, di accertare se tutte le procedure di indagine che portarono alla decisione di archiviazione fossero state scrupolosamente seguite al fine di contribuire a colmare anche le zone d’ombra legate alla primissima fase delle stesse indagini, nell’immediatezza della morte di Aldo Bianzino”. “Alla lettera di cui sopra - ricorda ancora Verini - il Gabinetto dell’allora ministro rispose diversi mesi dopo e in maniera insoddisfacente per l’interrogante: non dando corso alla richiesta di ulteriori accertamenti”. Verini auspica pertanto che “in virtù dei nuovi particolari emersi sulla vicenda di Aldo Bianzino pubblicati dalla stampa, che potrebbero far acquisire nuova valenza alla tesi dei familiari, il ministro Severino adotti una nuova iniziativa sul caso e più in generale le opportune iniziative affinché il tema dalle morti in carcere - morti naturali, suicidi e morti avvenute per cause diverse da quelle naturali - sia affrontato in tutta la sua drammaticità al fine di evitare che atti similari continuino a ripetersi”. Il deputato Bernardini “Ritengo necessaria la riapertura delle indagini per accertare l’evoluzione delle circostanze che hanno portato al decesso del detenuto, anche per sgomberare al più presto ogni nube e per evitare l’atroce sensazione di trovarsi davanti ad un nuovo caso di denegata giustizia”. Scrive invece il deputato del Pd Rita Bernardini nella sua interrogazione al ministro a cui chiede di “eseguire le verifiche del caso, atteso che l’intera vicenda processuale che ha portato il gip ad archiviare le indagini presenta dei lati non ancora chiariti, che necessitano di un approfondimento e, soprattutto, di chiarezza. Quella chiarezza che meritano i famigliari di quest’uomo e le centinaia di operatori della sicurezza che svolgono con correttezza e abnegazione il proprio lavoro”. “Nell’interrogazione - ha spiegato la Bernardini - ho anche chiesto al ministro della Giustizia di riferire sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere in modo che possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle, invece, avvenute per cause sospette; quanti sono stati i decessi avvenuti per “cause naturali” che si sono registrati negli ultimi cinque anni all’interno degli istituti penitenziari e quanti di questi - in percentuale - si sono verificati a poche ore dall’ingresso in carcere del detenuto; e, da ultimo, quali provvedimenti il governo intenda adottare, al fine di garantire, anche per il futuro, un attento monitoraggio delle condizioni in cui versano i detenuti negli istanti immediatamente successivi al loro ingresso in carcere, assicurando, per quanto possibile, l’eliminazione di ogni fattore di rischio per la loro vita e incolumità fisico-psichica”. Gli avvocati della famiglia Bianzino stanno lavorando a nuovi documenti da presentare per chiedere la riapertura del caso. Lo aveva già detto appena dopo la lettura della sentenza Massimo Zaganelli, il legale di Città di Castello che ha seguito la vicenda fin dalle primissime battute a sostenere che adesso era giunto il momento in cui si poteva chiedere di riaprire l’indagine per omicidio volontario che il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini aveva chiesto di archiviare. Per i familiari di Bianzino infatti, in dibattimento sono emersi degli elementi medico legali che potrebbero spingere un giudice a disporre ulteriori accertamenti sulla morte di Aldo Bianzino. La verità secondo la parte civile Per il professor Vittorio Fineschi infatti, il consulente della parte civile, fermo restando la presenza dell’emorragia subaracnoidea che ha provocato la morte di Aldo Bianzino e la presenza della lesione al fegato, propone una lettura diversa da quella dell’insorgenza spontanea data dai periti del pm. Per Fineschi l’emorragia, che inizialmente fu di modesta entità perché non avrebbe inondato di sangue le parti più profonde del cervello, potrebbe anche essere stata provocata da un trauma: una torsione della testa, uno scuotimento, qualcosa che abbia causato una lacerazione e un’uscita di sangue. Le perplessità Per il medico questa affermazione è possibile vista l’assenza del rinvenimento dell’aneurisma stesso. Quanto alla lesione al fegato ha sostenuto, studi alla mano, che la stessa risulta classificata come molto rara nelle manovre rianimatorie. E generalmente correlata anche da altri traumi classificati come meno rari. Per Fineschi insomma la lesione al fegato, su un soggetto morto, con un versamento di sangue come quello di Bianzino solleva più di una perplessità. E anche per la famiglia che chiede ancora spiegazioni. Vicenza: la legge “scuota-carceri” finora non ha ridotto il sovraffollamento Giornale di Vicenza, 15 aprile 2012 Un centinaio di persone ospitate in cella di sicurezza in questura invece che portate in prigione “È presto per dire se funziona”. Resta irrisolto il problema del sovraffollamento nelle carceri italiane: il S. Pio X è al 6° posto in Italia. Come è andata con il decreto svuota carceri a distanza di due mesi dall’applicazione? Dipende dai punti di vista: per la questura (che temeva il superlavoro di vigilanza nelle celle di sicurezza) per ora non male, poca cosa per il carcere di S. Pio X (dove restano irrisolti i problemi di sovraffollamento) e nulla di rivoluzionario neanche per il garante dei detenuti di Vicenza (“Un po’ di lavoro in meno per la polizia penitenziaria”). Il decreto (entrato in vigore il 17 febbraio scorso) prevedeva di far uscire dai penitenziari circa 3.300 detenuti estendendo a 18 mesi (invece dei 12 precedenti) il periodo di pena finale da scontare a casa per le condanne non gravi. In più chi prima doveva aspettare in galera il processo per direttissima (ad esempio chi era stato arrestato in flagranza di reato) ora attende nelle celle di sicurezza di questure e caserme. L’ipotesi è che circa 16-18 mila persone si risparmieranno in un anno la sosta in carcere. Il vicequestore Elena Peruffo non si lamenta: “Stiamo gestendo bene la situazione assieme alla procura, soprattutto per i processi per direttissima. Il personale che deve sorvegliare le celle? C’è da lavorare ma siamo collaudati. Comunque per ora i numeri non sono altissimi. Il problema potrebbe complicarsi in estate, quando in giro c’è più gente”. Questi i numeri della questura di Vicenza: in due mesi sono passati dalle celle di sicurezza (o nei casi meno gravi in una stanza vicina) poco più di 100 persone: 10 arrestati in attesa delle direttissime, altri 10 fermati poche ore e poi subito destinati al carcere su ordine del pm, circa 50 indagati in stato di libertà (restano in questura al massimo 24 ore) e altri 30 accompagnati perché magari trovati senza documenti. Finché le cifre sono queste, ci possono stare: “Comunque ci vogliono almeno quattro agenti per la vigilanza, il cibo e in caso di problemi di salute del fermato” spiega il vicequestore. Federica Berti, garante per i detenuti del S. Pio X, ancora non può esprimersi: “Il coordinamento dei garanti sta valutando i dati, ci vorrà ancora tempo per capire se lo svuota carceri funziona. Vicenza? I numeri restano quelli, la presenza media è fra 335 e 350 detenuti. Oggi siamo il 6° istituto di pena più affollato d’Italia”. Perché la capienza prevista è di 146: meno della metà. Con 130 agenti. “Mi pare che non ci siano stati grandi vantaggi - spiega sempre Berti, magari hanno alleviato il lavoro della polizia penitenziaria che deve portare il detenuto e accompagnarlo”. E un agente non basta. Mentre la struttura resta la stessa: celle di 9 metri quadri più 3 metri di bagno con 3 detenuti ogni cella. Giuseppe Testa, commissario capo del S. Pio X, è d’accordo anche con il coinvolgimento della stessa polizia penitenziaria nella vigilanza di chi sconta la pena a casa, sempre per effetto dello svuota-carceri: “Per noi va bene, ma l’organico dovrà essere adeguato. Se no diventa un problema”. Perché in base al decreto saranno circa 22 mila le persone destinate ai domiciliari con 7 mila guardie carcerarie operative già alle prese con le celle sovraffollate. Insomma sulla carta al solito tutto bene, sulla strada la carta finisce nei cestini. Modena: Garante regionale Bruno; al carcere Sant’Anna sovraffollamento e pochi agenti www.mo24.it, 15 aprile 2012 Di ritorno dalla visita, già programmata, alla Casa circondariale di Modena, dove era recluso il ragazzo originario della Costa d’Avorio deceduto ieri in ospedale, dopo un tentativo di suicidio che l’aveva ridotto in coma, Desi Bruno, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, riferisce alcuni dati sulla situazione complessiva della struttura e sul recente caso di suicidio. Sul caso del giovane morto dopo essere entrato in coma a seguito di un tentativo di suicidio in cella interrotto dal pronto intervento di un agente, Desi Bruno ha raccolto la testimonianza della direttrice della Casa circondariale che ha riferito che il detenuto, proveniente da un’altra struttura carceraria della regione, non dava segni di squilibrio, era seguito dagli psicologi e psichiatri e non era considerato a rischio, anche se nel suo diario clinico era però registrato un tentativo di suicidio in una precedente episodio detentivo a Parma. Non appariva depresso, parlava e comprendeva bene l’italiano, era stato visto più volte dalla direttrice, l’ultima volta proprio il giorno di Pasqua. Il giovane avrebbe finito di scontare la pena nel 2016. “È evidente - afferma la Garante - che questo caso segnala la necessità di non sottovalutare mai la storia clinica delle persone e va sempre considerata la vicenda personale anche pregressa, come il caso di specie, trattandosi di un giovane detenuto che aveva già conosciuto anche il carcere minorile”. In seguito, il Garante regionale ha voluto fare il punto della situazione sul carcere rivelando i dati aggiornati: ci sono 323 le persone attualmente detenute (25 donne), a fronte di una capienza di 220 persone, delle quali circa il 70% sono stranieri (215) e quasi il 30% tossicodipendenti. Un centinaio sta scontando una pena in via definitiva. Per la sezione femminile e due sezioni maschili è stato adottato il regime delle “porte aperte” per molte ore del giorno come previsto dalla recente circolare Dap per i detenuti considerati a bassa pericolosità. Su questo particolare Bruno ha sottolineato: “Consente un clima sostanzialmente positivo, perché aiuta a superare le tensioni dovute al sovraffollamento e migliora la socialità. Un buon riscontro si è avuto da parte dei detenuti sull’attività dei volontari presenti in modo efficace all’interno del carcere. Sono presenti reparti di semiliberi, protetti e un reparto I care per Hiv sieropositivi in osservazione, al momento ci sono sei ristretti”. Inoltre, Bruno ha fatto riferimento al sovraffollamento che si verifica nel carcere. Secondo le sue parole un dato particolarmente positivo rispetto al sovraffollamento che contraddistingue le altre istituzioni carcerarie della Regione non deve trarre in inganno. La Casa circondariale di Modena ha raggiunto in passato picchi di presenze che andavano fino al doppio della capienza complessiva. Attualmente tuttavia due sezioni della struttura sono in ristrutturazione, il che significa celle sovraffollate (si parla di 3 detenuti in circa 9 metri quadrati). Condizioni di detenzione decisamente migliori saranno consentite dal nuovo padiglione, ormai terminato e in attesa del collaudo tecnico) che disporrà di 150 posti su tre piani, distribuiti in celle da 3 con misure regolamentari. Ogni piano della nuova costruzione è dotato di lavanderia, stenditoio e postazione telefonica. Al pian terreno si trova anche una cucina attrezzata, una sala socialità molto grande (forse diventerà una palestra) e la sala colloqui. Nonostante la nuova struttura sia stata dotata di tecnologie d’avanguardia che consentono una gestione delle aperture e chiusure delle celle automatica, la direzione ha fatto sapere che per la gestione complessiva servirebbero 40 agenti in più rispetto a quelli attualmente in servizio. Con gli ultimi 17 arrivati, al saldo delle uscite per pensionamento o altri motivi, sono invece solo 7 le unità di personale penitenziario recentemente aggiunte: un numero troppo esiguo per il funzionamento del vecchio e del nuovo edificio insieme. Per ultimo Bruno ha voluto sottolineare le condizioni dell’edificio dove si stanno verificando diversi problemi: importanti infiltrazioni d’acqua che investono tutti gli ambienti dell’ultimo piano. Sotterranei esposti ad allagamenti a causa del mancato funzionamento delle pompe idrauliche previste perché la struttura si trova in un terreno “paludoso”. Malfunzionamento e guasti agli impianti idraulici, tali che le docce funzionano ad intermittenza, e ci sono notevoli perdite d’acqua che hanno causato spese in bollette per oltre 50 mila euro in più. Unica ristrutturazione realizzata quella dell’infermeria. Sulla situazione degli agenti, Bruno ha fatto riferimento alla mancanza di risorse: 21 i permessi per lavoro esterno: 2 effettivi, 4 in attività di volontariato esterno non remunerato, 13 impegnati in un corso formazione in coltivazione biologica di prodotti che vengono venduti dal circuito coop. L’unica borsa lavoro messa a disposizione dal Comune di Modena rischia di non essere rinnovata per mancanza di fondi. Dentro al carcere sono invece impegnati in lavoro di pulizia a turno solo 50 persone. Il dato risente del taglio del 50% delle risorse per il 2011 assegnate dal ministero per tali attività. Ulteriori 10 mila euro sono stati tagliati nell’anno in corso fino ad arrivare alla cifra di 190 mila euro in capitolo per il 2012. La scarsità di risorse si ripercuote anche sul taglio dei prodotti di igiene e pulizia che può contare su un budget molto basso rimasto invariato rispetto al 2011. Un motivo di ulteriore preoccupazione per quando verrà aperto il nuovo padiglione. Soddisfacente l’attività nel reparto sanitario, particolarmente attrezzato per interventi specialistici, in dotazione anche un apparecchio radiologico, viene tuttavia indicato come necessario un incremento delle ore di intervento psichiatrico anche in ragione del crescente numero di soggetti portatori di patologie riconducibili. Sappe: evitato il suicidio di una detenuto libanese Né da notizia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe che spiega che oggi “un giovane detenuto, di origine libanese, ha tentato di impiccarsi, sempre nello stesso reparto dove si era impiccato nel giorno di Pasqua l’uomo poi deceduto dopo essere stato in coma. Un agente della polizia penitenziaria si è accorto che il giovane detenuto si era appena lanciato dalla terza branda del letto a castello con un cappio al collo. L’agente è entrato immediatamente in cella e con l’aiuto di altri colleghi lo ha sollevato dalle gambe e adagiato a terra, riuscendo a salvargli la vita”. “L’uomo - ragguaglia la nota di Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe - è in carcere per fatti legati allo spaccio di droga”. Nel carcere di Modena, “la situazione è diventata ormai difficile, al limite della tollerabilità, - denuncia ancora il sindacato - anche per il personale di polizia penitenziaria. Chiediamo al Dipartimento di attivare l’ufficio ispettivo, per verificare l’organizzazione del lavoro nella struttura modenese e le condizioni in cui lavora il personale di polizia penitenziaria, considerato che sono tante le lamentele che ci giungono quotidianamente”. Ferrara: convenzione tra Comune Bondeno e Tribunale per pene alternative al carcere www.estense.com, 15 aprile 2012 Bondeno. Esiste una convenzione, che la Città di Bondeno ha sottoscritto assieme al Tribunale di Ferrara, per consentire ad alcuni detenuti “non pericolosi”, macchiatisi cioè di reati di non gravissima entità, di poter rispondere dei medesimi attraverso forme di occupazione fuori dal carcere. Un metodo moderno, sicuramente non una sbrigativa misura “svuota carceri”, per consentire il pieno ed effettivo recupero in termini rieducativi dei detenuti. “È un’esperienza già tentata da Cento e credo che possiamo dirci certi che questa misura alternativa alla pena detentiva sia utile - dice il vicesindaco con delega ai servizi sociali, Luca Pancaldi. Ringraziamo il Tribunale per avere accolto la nostra idea, perché riteniamo socialmente importante che una persona abbia una misura alternativa, che le consenta di essere utile per se stessa e per il proprio recupero, in un momento di riflessione; dal quale il Comune trae un’utilità. Estrapolando ciò che di positivo c’è nelle persone, che è poi lo spirito che contraddistingue anche le borse lavoro. Abbiamo esaminato attentamente le categorie dei reati, per assicurarci che queste persone che sconteranno in maniera diversa la pena non siano assolutamente pericolose per la comunità”. La condizione prevista nel documento sottoscritto tra Comune e Tribunale è che la misura porti ad una “immediata utilità alla collettività, dimostrando come il responsabile - recita il testo del protocollo numero 57 del 2012 - del reato non solo venga effettivamente punito, ma in modo utile e vantaggioso per la società; inoltre, è conveniente per lo stesso condannato, che a fronte della trasgressione commessa può sviluppare un’attività risocializzante”. In questo modo, ai sensi dell’art. 54 del Decreto 274, cinque persone che il Tribunale riterrà opportuno destinare a tale scopo, potranno vedere espletata la loro condanna con lavori di pubblica utilità, non retribuita, che dovrà in seguito essere rendicontata all’autorità per la pubblica sicurezza competente e al giudice. Milano: le borse di “Veri Avanzi di Galera” al “Fuori Salone” da 17 al 22 aprile Comunicato stampa, 15 aprile 2012 Una borsa per una (nuova) vita. 500 borse ideate e cucite dalle detenute italiane. Vag Spring Edition in vendita durante il “Fuori Salone” a Milano in contemporanea con il “Salone del Mobile” (17-22 aprile 2012). Tra qualche giorno recuperiamoci! riprende il viaggio verso il nord dove sarà presente a Milano, poi a Bergamo, Brescia, Torino e Genova. Vag - Veri Avanzi di Galera, è la sigla che firma questa collezione di borse che le detenute di alcune carceri italiane hanno ideato e prodotto, realizzandole con materiali di recupero (avanzi) provenienti dal carcere stesso e dal territorio. Stoffe da materasso recuperate, tessuti d’arredamento mandati al macero, vele in disuso e cinture di sicurezza delle auto in rottamazione, riprendono vita sotto forma di comode e leggere borse, ideali per le giornate estive. La linea “Vag” arriverà a Milano durante uno dei due più importanti appuntamenti a livello internazionale della Milano Design Week, il “Salone internazionale del Mobile” e il “Fuori Salone”, in programma dal 17 al 22 aprile 2012. La linea “Vag” sarà infatti presentata nel cuore del “Fuori Salone” nello spazio allestito nell’edificio di Young & Rubicam brands (via Tortona, 37), e realizzato anche questo con oggetti di arredamento in materiale di recupero. La produzione della collezione è opera delle Sartorie Associazione Arione di Torino, Coop. Oikos di Vigevano, e della coop. Parti Inverse di Mantova. Queste cooperative come tante altre (invitate a partecipare all’ evento con la loro versione del modello) gestiscono laboratori interni alle case di reclusione e si occupano di formare i detenuti in previsione del reinserimento nella quotidianità. Recuperiamoci! Da anni l’Associazione “Recuperiamoci!” - nata a Prato dove tra l’altro ha sede l’Of-Fucina” di Recuperiamoci! in via del Tasso a San Giorgio a Colonica - promuove l’economia solidale carceraria, creando un network solidale tra le produzioni interne/esterne alle carceri che offrono impiego a persone detenute ed ex detenute su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è creare un’impresa sociale nazionale per il lavoro detentivo aumentando il numero dei detenuti riavviati. La vendita delle borse prosegue nei negozi (distribuiti in tutta Italia) che aderiscono alla rete di recuperiamoci! oltre che all’ “Of-Fucina” di Prato. Per informazioni: www.recuperiamoci.org. Teramo: Sappe; nel carcere di Castrogno detenuto aggredisce agente Ansa, 15 aprile 2012 Ancora un’aggressione nel carcere di Castrogno. È quella di cui si è reso protagonista, ieri mattina, un detenuto più volte segnalato per essere soggetto pericoloso. A farne le spese è stato un agente di polizia penitenziaria della casa circondariale teramana, che nella colluttazione con il detenuto ha riportato ferite giudicate guaribili in 15 giorni. Ne dà notizia il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che sottolinea anche come l’agente fosse l’unico addetto alla sorveglianza della sezione protetta, dove si è verificata l’aggressione e che da solo gestiva il controllo di 50 detenuti. “Il personale - scrive il Sappe in una nota - adempie ai compiti istituzionali con carichi di lavoro onerosissimi, nonostante la gravissima carenza di personale in un contesto di eccezionale sovraffollamento della popolazione detenuta. Il sindacato degli agenti di custodia, nell’esprimere la solidarietà al collega aggredito e a tutto il personale così pressato dai carichi di lavoro e dal rischio, ritiene che sia giunta l’ora di accorgersi della struttura abruzzese e di assumere i provvedimenti più opportuni con grande senso di responsabilità. Ci domandiamo - conclude la nota del sindacato - quante aggressioni ancora dovranno subire le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria perché si decida di intervenire concretamente sulle criticità di Castrogno”. Cagliari: incendio doloso nel carcere di Buoncammino, intossicati un detenuto e tre agenti L’Unione Sarda, 15 aprile 2012 Il rogo appiccato da un recluso che ha incendiato il materasso della sua cella. Hanno rischiato di morire come topi. Chiusi nelle celle del Centro clinico di Buoncammino 40 detenuti sono stati messi in salvo poco prima che le fiamme e il fumo potessero fare vittime. Autore del pomeriggio di fuoco un recluso con malattie mentali che ha incendiato il materasso della stanza. Quattro le persone finite all’ospedale tre agenti (per problemi respiratori) e lo stesso autore del rogo (in Psichiatria all’ospedale Santissima Trinità). Padova: Riina Jr è arrivato in città, lavorerà in una onlus contro le droghe Ansa, 15 aprile 2012 Si dice “felice” di essere arrivato a Padova, dove per altro è iscritto all’università, e spera di “riuscire a costruirsi una vita normale”. Sono le prime parole, riservate ai giornalisti che ieri lo hanno inseguito dal suo sbarco al Marco Polo di Venezia, di Giuseppe Salvatore (Salvuccio) Riina, figlio 35enne terzogenito di Totò Riina. Accompagnato dal suo avvocato vicentino, Francesca Casarotto, Riina è stato “sorpreso” dai cronisti nei pressi della stazione ferroviaria di Padova e facendo buon viso a cattiva sorte, dall’interno della macchina del legale, ha confermato di aver scelto Padova perché la ritiene “una città splendida”. “Ho trascorso due anni in carcere a Padova e sono venuto in contatto con alcune Onlus che mi hanno convinto a scegliere questo luogo”. Come indicano oggi i quotidiani locali Riina ha confermato di volere “cercare un lavoro. Se qualcuno fosse interessato - ha detto - ora sono qui”. Per ora Giuseppe Salvatore che nell’ottobre scorso ha finito di scontare nel carcere di Voghera una condanna a otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa sarà impegnato, probabilmente sin da domani mattina, a lavorare nella Onlus “Famiglie contro la droga e l’emarginazione”. Commentando le critiche della Lega Nord sul suo arrivo in Veneto (il presidente del Veneto Zaia ieri aveva tuonato “No ai delinquenti da esportazione”) Riina ha osservato di “non conoscere né la Lega né la Padania: sono un uomo del sud e credo nell’Italia”. Dopo aver confermato di “avere una fidanzata” e ribadito di “cercare una vita normale” Riina è passato dalla questura di Padova per la sua prima firma obbligatoria. Rito che dovrà ripetere quotidianamente. Cinema: “Cronaca di un assurdo normale” di Stefano Calvagna, in anteprima a New York Adnkronos, 15 aprile 2012 È tutto pronto al Landmark-Sunshine Cinema (143 East Houston Street) di New York, per la premiere americana, in anteprima mondiale, del nuovo film di Stefano Calvagna “Cronaca di un assurdo normale”, (“Bad Times” titolo statunitense) che verrà proiettato mercoledì 18 aprile alle ore 20 per poi uscire a giugno nelle sale italiane. Il film, prodotto dalla Poker Entertainment, Timeline ed Island Film verrà proiettato in lingua italiana con sottotitoli in inglese. Alla proiezione il regista e lo sceneggiatore Emanuele Cerman. Tra gli ospiti Harvey Keitel (“Le iene” di Tarantino, “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara, “Pulp fiction”), Gianni Russo (“Il Padrino”, “I Soprano”), Joe Pesci (“Goodfellas” di Scorsese) e tantissimi altri. Nel film “Cronaca di un assurdo normale”) Calvagna ripercorre le sue vicende personali: una storia vissuta in prima persona già descritta nel suo libro dell’anno scorso “Cronaca di un assurdo normale” edito da Graus Editore. Dopo aver subito un tentato omicidio (7 colpi di pistola nella notte del 17 febbraio 2009 all’uscita di un teatro a San Saba a Roma), Calvagna viene arrestato e portato in carcere, dove trascorre un lungo periodo di detenzione. Fortemente provato dalla mancanza di libertà e dall’esperienza carceraria, inizia un dialogo con se stesso per riuscire ad accettare il tormento di trovarsi detenuto, privo di libertà, lontano dalla propria famiglia. Solo in un secondo momento cerca di ricostruire le cause che lo hanno portato a trovarsi in tale situazione: ne scaturisce da una parte la propria storia personale, dall’altra il ritratto di una società corrotta, avida di denaro e potere, che non da nessun valore all’individuo. Per circa due anni la sua vita è completamente divorata dalla detenzione a Regina Coeli, dagli arresti domiciliari, dal tribunale, finché nel 2011 decide di riemergere dall’abisso e riprendere la propria vita artistica. Al termine della proiezione Stefano Calvagna ed Emanuele Cerman incontreranno il pubblico della Grande Mela presso il ristorante “Zio Restaurant” (17, West 19th Street, tra la 5th Avenue e la 6th Avenue) che per l’occasione contribuirà alla serata con un menù speciale di 30 dollari a persona. Immigrazione: Cie Bologna; appello alla Cancellieri “trenta euro al giorno non bastano” di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 15 aprile 2012 Con il nuovo bando, in scadenza il 19 aprile, più che dimezzato il budget per la gestione del centro. L’assessore regionale Marzocchi e la garante per i detenuti chiedono l’intervento diretto del ministro dell’Interno. Con 30 euro al giorno di rimborso, il tetto massimo fissato dalla prefettura di Bologna, si rischia “un abbassamento delle condizioni di vita delle persone ristrette al Cie” di via Mattei, una polveriera di conflittualità, rabbia che ribolle, privazioni, emarginazione. Per questo, per chiedere un ripensamento della tariffa prevista e scongiurare così il peggioramento della situazione, l’assessore regionale alle Politiche sociali e il garante regionale delle persone private della libertà si appellano direttamente al ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Con una lettera indirizzata all’ex commissaria del Comune di Bologna, due pagine fitte, Teresa Marzocchi e Desi Bruno elencano criticità e timori ed esprimono la loro “forte preoccupazione” legata al taglio di budget e alle problematiche degli ospiti. L’attuale gestore del centro per stranieri sull’orlo dell’espulsione, la Misericordia, spende e incassa 69,5 euro per garantire a ciascuno straniero vitto e alloggio, abiti e biancheria, lenzuola di carta, assistenza medica e infermieristica, consulenza legale e insegnamento della lingua, sostegno sociale, mediazione culturale, attività ricreative, la diaria quotidiana, pulizie di ambienti interni ed esterni e altro ancora. Nel bando prefettizio per l’affidamento dei servizi per il prossimo triennio, in scadenza il 19 aprile, la cifra messa a disposizione è più che dimezzata rispetto alla tariffe attuali; e contemporaneamente si chiedono prestazioni aggiuntive. “Ci rivolgiamo a Lei e alla sua sensibilità istituzionale - è il messaggio delle due interlocutrici bolognesi - affinché vengano prese in considerazione le nostre preoccupazioni, nel comune interesse della difesa dei diritti e della dignità delle persone ristrette”. La lettera al ministro Cancellieri ricorda quello che al Viminale dovrebbe già essere ben noto. “La presenza significativa di richiedenti asilo. La non infrequente presenza di stranieri tossicodipendenti o affetti da patologie di dubbia compatibilità con la detenzione. La provenienza di gran parte delle donne trattenute nel mondo della prostituzione e dello sfruttamento sessuale”, quelle che nel centro manco dovrebbero entrare. Ci sono poi persone che non si riescono a identificare, condizione base per l’espulsione effettiva, “perché il Paese di provenienza non le riconosce e restano al Cie per poi uscire e rientrare, in un girone infernale che le rende prive di qualunque riferimento”. Il tutto, viene ricordato al ministro, in un clima dove sono in aumento “la conflittualità, i gesti di autolesionismo e i danneggiamenti”, catalizzati dall’innalzamento a 18 mesi del tempo massimo di trattenimento. Bahrein: Amnesty chiede liberazione prigionieri politici Tm News, 15 aprile 2012 Amnesty International ha chiesto oggi al governo del Bahrein “la liberazione immediata e senza condizioni” di tutti i detenuti politici, compreso il noto attivista sciita Abdelhadi al Khawaja, condannato all’ergastolo e da oltre due mesi in sciopero della fame nel suo carcere. In un rapporto definito “preliminare” sulla repressione del movimento di protesta nel piccolo stato-isola del Golfo Persico, l’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dell’uomo ha espresso “rammarico” perché “non è cambiato nulla nel Paese della repressione contro le proteste anti-governative iniziate nel febbraio e marzo del 2011 ed ispirate dalla cosiddetta Primavera araba. Amnesty ha chiesto al governo di Manama, a mostrare “una volontà politica reale per compiere le riforme” che chiedono i sciiti che sono la maggioranza nel paese governato da una monarchia sunnita. Amnesty chiede in particolare la liberazione di 14 esponenti dell’opposizione, tra i quali figurano 7 condannati alla pena dell’ergastolo, “solo per aver esercitato pacificamente il loro diritto di espressione e di raduno”. Pakistan: talebani assaltano prigione nel nord-ovest, 384 evasi Agi, 15 aprile 2012 I talebani hanno assaltato con mitra e granate un carcere nel nord-ovest del Pakistan, liberando 384 detenuti, per lo più loro compagni tra cui una ventina di terroristi rinchiusi nel braccio della morte. L’attacco, sferrato da 150 miliziani, è avvenuto nella notte a Bannu, vicino alle zone tribali di Khyber e di Orazkai, ed è durato un paio d’ore. Nella sparatoria sono rimasti feriti sette agenti penitenziari. L’assalto è stato rivendicato dal movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp), che raggruppa varie fazioni dei talebani del Pakistan. Nel carcere erano rinchiusi un migliaio di detenuti. Tra gli evasi c’è anche Adnen Rashid, un militante talebano condannato a morte per il coinvolgimento in un attentato contro l’ex presidente Pervez Musharraf. È probabile che fosse la sua liberazione il primo obiettivo dell’attacco.