Giustizia: la giusta marcia di Dina Galano Il Punto, 13 aprile 2012 I radicali si rimettono in marcia. Dal Natale 2005, quando si svolse la prima sfilata per l’amnistia, la giustizia e la legalità, le condizioni di detenzione non sono migliorate; il bilancio dell’intera macchina giudiziaria, anzi, ha sofferto un’ulteriore flessione. Per il partito che in Italia ha fatto della non violenza lo strumento principale della sua strategia di comunicazione, è ora di coinvolgere nuovamente le piazze. Perché, come dice il suo leader Marco Pannella che per l’occasione si sta preparando anche allo sciopero della sete, «in trent’anni non è stata mai raggiunta la massa critica minima per avviare un serio dibattito pubblico sulla questione carcere». La manifestazione prevista per il prossimo 25 aprile, ricorrenza della Liberazione, invocherà l’amnistia, ma servirà soprattutto a imporre l’urgenza di provvedimenti che – spiegano i promotori – riducano i tempi di durata e i costi dei processi, la calca nei tribunali, la schizofrenia della giurisdizione e il sovraffollamento carcerario. Malagiustizia Sette anni fa si contavano 60mila detenuti in 42mila posti regolamentari. Al 29 febbraio 2012 sono oltre 66.500 stipati in 45mila posti disponibili. Aumentano i suicidi tra i carcerati come tra gli agenti di polizia penitenziaria, un dato quest’ultimo relativamente inedito nella realtà italiana. Dall’inizio del 2011 sono 25 le persone decedute durante la detenzione, di cui dieci si sono tolte volontariamente la vita. Luigi Manconi, che con l’associazione A buon diritto si occupa di garanzie nel sistema penitenziario, sottolinea come “le poche analisi scientifiche che esistono indicano che la popolazione detenuta è costituita da quelle categorie che lo Stato sociale non tutela più o tutela meno: in carcere si trovano tossicomani, stranieri, i poverissimi, gli infermi di mente, i senza fissa dimora. La quota di persone socialmente pericolose – chiarisce – rappresenta una percentuale davvero esigua”. La curva percentuale di chi è recluso in attesa di una sentenza definitiva, inoltre, si è impennata negli anni arrivando a riguardare 30mila persone, di cui 14mila aspettano ancora la decisione di primo grado. “Ogni anno”, evidenzia Irene Testa de Il detenuto ignoto, che coordina la marcia, “sono oltre 2mila le contestazioni di casi di ingiusta detenzione che pesano sul bilancio pubblico all’incirca per 46 milioni di euro pagati in risarcimenti”. Sono gli effetti della legge Pinto che sta causando l’impasse della Corte europea dei diritti umani al punto da aver indotto di recente la Gran Bretagna a promuovere una riforma della Convenzione europea che ne renda più arduo l’accesso. “Una peste”, secondo la vicepresidente del Senato Emma Bonino, “che sta infettando anche la Corte di Strasburgo, di fatto travolta dagli innumerevoli ricorsi che fanno dell’Italia un’ottima cliente”. L’intero sistema si connota per sprechi e inefficienze. “Secondo il rapporto Doing business 2012 della Banca mondiale”, argomenta Irene Testa, “i difetti della sola giustizia civile ci fanno perdere l’1% di Pil l’anno; e in riferimento ai tempi e all’efficacia di risoluzione dei contratti civili, il nostro Paese è posizionato al 158esimo posto su 183”. Sono oltre 10mila i procedimenti civili e penali pendenti davanti ai giudici italiani, 165mila le prescrizioni che intervengono ogni anno. Per questo, aggiunge la senatrice Bonino, “l’amnistia non rappresenta soltanto un atto di clemenza, ma un provvedimento di riforma strutturale del sistema capace di far rientrare le istituzioni italiane nella loro legalità”. Verso la Liberazione Avrebbe dovuto simbolicamente rievocare la “resurrezione” del sistema giustizia, sarà nei fatti un’occasione di “liberazione” dalle sue tagliole. È infatti slittata la data dell’appuntamento, scivolato dall’originaria marcia di Pasqua alla più laica giornata della Liberazione del 25 aprile prossimo quando, a partire da Castel Sant’Angelo a Roma il corteo si muoverà per i luoghi simbolo della detenzione lambendo il carcere di Regina Coeli per arrivare di fronte al Quirinale da cui, a luglio 2011, si è alzato il monito del Presidente Napolitano. Allora il capo dello Stato si riferì al carcere come “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Intervenuto un governo tecnico, le speranze di veder approvati provvedimenti d’indulgenza si fanno meno remote. Fatto sta che, con il supplemento di tempo concesso dallo slittamento della marcia, la già lunga lista di adesioni è destinata a crescere. Giuliano Amato dà il suo appoggio pur confessando di “non essere particolarmente ottimista nella speranza di cambiare l’ordine del giorno della nostra politica”. È seguito da un centinaio di parlamentari di tutto l’emiciclo (Lega esclusa) e da una fitta schiera di rappresentanti locali, extra-parlamentari e giornalisti. Il premio Nobel Rita Levi Montalcini ha firmato accanto ai nomi di molti esponenti del mondo clericale, cappellani e sacerdoti impegnati nell’assistenza ai detenuti. Sostengono la marcia il mondo delle associazioni, degli operatori penitenziari, i sindacati degli agenti di custodia, i familiari delle vittime del carcere. Posizione del Governo Il Guardasigilli Severino, sin dai primi interventi in materia, non ha mai escluso l’ipotesi amnistia. Ma ha sempre sottolineato la prerogativa parlamentare dell’atto. Secondo il deputato del Pd Sandro Gozi “bisogna denunciare l’illegalità italiana in materia di detenzione e partire tentando di risolvere i nodi più gravi: il tema della custodia cautelare e quello della legge Pinto. Il governo ha cominciato a occuparsene con un decreto “svuota carceri” che però svuota poco, ed è chiaro che in Parlamento dovremmo fare molto di più”. In base a quel provvedimento, approvato a metà dicembre, sono stati affidati alla detenzione domiciliare mille detenuti; sono appena 5mila se si fa partire il conteggio dallo “svuota carceri” introdotto da Alfano nel 2010. Jean Léonard Touadi, deputato Pd tra i primi ad aderire all’iniziativa, ammette “la vergogna, per un parlamentare dello Stato, di andare in visita nelle proprie carceri e trovarvi un tale stato di abbandono, di prostrazione psicologica e umana, di tortura che è in aperta violazione della Carta costituzionale”. L’inattività del Parlamento in materia, per Touadi equivale a “un assordante muro di gomma”, a un “immobilismo” che non trova giustificazioni. “Ci aspettiamo che le istituzioni non restino indifferenti al malfunzionamento della giustizia italiana e alla drammatica situazione delle carceri”, confida Irene Testa. “La parola amnistia fa ancora paura a molti al punto che anche coloro che sono consapevoli della sua valenza preferiscono non esporsi. Con noi sfileranno autorevoli promotori ma anche imprenditori e semplici cittadini stanchi di una giustizia che non funziona. Speriamo prevalga il buon senso di tutti e che dai banchi del Parlamento arrivino le risposte che servono a questo Paese”. Nel 2005 ci si era, in parte, riusciti. Quella marcia di Natale che chiedeva l’amnistia contribuì a dare l’impulso all’approvazione parlamentare del suo fratello minore, l’indulto votato durante il ministero Mastella nel 2006. Giustizia: Bernardini; oltre 1.500 le adesioni alla marcia del 25 aprile per l’amnistia Notizie Radicali, 13 aprile 2012 Le carceri, finalmente dopo anni, cominciano ad avere un piccolo spazio nella cronaca dei giornali e delle televisioni. Eppure non basta. L’emergenza sovraffollamento, aggravata dalla lentezza dei processi rendono i penitenziari italiani ghetti dove i detenuti vengono “parcheggiati” per anni, spesso in attesa di giudizio, e senza la garanzia dei diritti umani fondamentali. Nella speranza di cambiare le cose, di incidere sull’opinione pubblica e sulle istituzioni i Radicali scenderanno in piazza il 25 aprile, con una marcia per l’amnistia che percorrerà le vie della Capitale. È la seconda nella storia del movimento guidato da Marco Pannella, la prima era stata nel Natale 2005. Un appuntamento che sta ricevendo diverse adesioni, come spiega la deputata Rita Bernardini. “Sono oltre 1.500 coloro che hanno già preannunciato la propria partecipazione a questo appuntamento e più di 500 quelli che, con il Partito Radicale, hanno scelto di farsi promotori della marcia che, come quella di Natale del 2005, sarà aperta da Don Antonio Mazzi insieme a Don Luigi Ciotti e Don Andrea Gallo, e che gode del sostegno di numerosi cappellani delle carceri e di altri religiosi tra cui Vescovi della Basilicata”, scrive Bernardini sul suo blog. “Nel comitato promotore anche la Chiesa Valdese, rappresentata da Maria Bonafede, moderatora della Tavola Valdese, e la Coreis, Comunità religiosa islamica; le maggiori sigle sindacali come Cgil Nazionale, Cisl, Ugl, i sindacati di Polizia Penitenziaria Uilpa e Osapp e quello dei direttori penitenziari, Sidipe, la Cgia di Mestre, con Giuseppe Bortolussi e l’Unione Camere Penali”, prosegue la deputata radicale. Sono tantissimi i rappresentanti del mondo politico che sostengono l’iniziativa, da Giuliano Amato a Rita Levi Montalcini, arrivando al sindaco di Milano Giuliano Pisapia, quello di Padova Flavio Zanonato e centinaia tra parlamentari e consiglieri comunali, regionali e provinciali. Tra i promotori della marcia anche molti accademici, come Giuseppe Di Federico, Margherita Hack, Fulco Lanchester, Antonio Martino e Gianfranco Pasquino; personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, giornalisti e testate come la rivista cattolica Tempi, Il Foglio e il Manifesto, e realtà tra le più importanti dell’associazionismo e del volontariato, come la Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, oltre a numerosi garanti dei diritti dei detenuti e familiari tra cui Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Rudra Bianzino. Giustizia: rapporto del Consiglio d’Europa, l’Italia è ancora “maglia nera” di Sandro Forte Secolo D’Italia, 13 aprile 2012 Il tema della giustizia torna prepotentemente sulla scena politica dopo le pesanti bacchettate del Consiglio d’Europa. L’Italia, infatti, ha conquistato la maglia nera davanti alla Corte di Giustizia di Strasburgo: nel 2011 è risultato essere il Paese con il maggior numero di sentenze inapplicate (2.522 sul totale di 10.689). La maggior parte dei casi è legata alla lentezza della nostra macchina giudiziaria. Addirittura qualche sentenza, relativa alle espulsioni, non è stata eseguita. E quanto emerge dal rapporto pubblicato ieri dal Consiglio d’Europa. Tutto ciò mentre martedì si riunirà la commissione Giustizia della Cartiera per discutere il disegno di legge anticorruzione e il ministro Severino e il movimento forense saranno in commissione Giustizia del Senato per la riforma del processo civile. Il Pdl ha ben presenti quali sono le priorità sul tema. Già quando era ministro della Giustizia, il segretario Angelino Alfano le aveva indicate: separazione delle carriere, responsabilità civile, divieto dell’accumulo cariche, riforma del Csm, legge anticorruzione e legge sull’abuso delle intercettazioni telefoniche. Carne al fuoco, come si vede, ce ne è in abbondanza, anche se i primi punti hanno indubbiamente la precedenza: accusa e difesa devono essere alla pari e quindi giudicati da un giudice imparziale; se un magistrato sbaglia deve esserne responsabile; riforma del Csm, perché la magistratura dovrà essere giudicata da un organismo terzo. “Oggi pm e giudici si danno del tu e hanno stessi uffici e uguale Csm”, ha spiegato più volte Alfano, indicando appunto la strada della separazione delle carriere come una via obbligata da percorrere “Un magistrato, se sbaglia - ha proseguito - come per i medici e gli avvocati, deve esserne responsabile”. Tornando al rapporto del Consiglio d’Europa, che ha rimesso in modo il dibattito sulla riforma della giustizia, nel 2011 l’Italia ha pagato come risarcimento ai cittadini, di cui ha violato i diritti, quasi 8 milioni e mezzo di euro, 2,5 in più che nel 2010. L’Italia figura al terzo posto dopo la Turchia (circa 31 milioni di euro) e la Russia. Dal rapporto del Consiglio d’Europa emerge inoltre che è aumentato il numero di casi, passati da 6 nel 2010 a 23 nel 2011, in cui le autorità italiane hanno pagato il risarcimento in ritardo. Peggio dell’Italia, la Turchia, con 93 risarcimenti pagati oltre il limite e la Russia con 43. Parziale soddisfazione è stata espressa dal Comitato dei Ministri sul controllo del rispetto delle sentenze da parte degli Stati membri per il maggior numero di sentenze che si è riusciti a eseguire nel 2011. Per alcuni Paesi la situazione è notevolmente migliorata, in rapporto al 2010 addirittura dell’80%. Si rileva, cioè, la chiusura di 816 casi in più che nell’anno precedente C’è purtroppo preoccupazione, però, per importanti problemi strutturali che non si riesce a superare. Ad esempio, ci sono sentenze emesse già cinque anni fa che non sono state ancora eseguite, forse per la crisi che ancora incombe in Europa. Il rapporto sul controllo del rispetto delle sentenze da parte degli Stati membri uscito ieri è il primo redatto con le nuove procedure introdotte dalla riforma della Conferenza dei Ministri europei della Giustizia di Interlaken nel 2010, e che hanno notevolmente snellito la trasparenza e l’efficienza della Corte, oltre che accelerato le procedure L’Italia, però, non riesce a beneficiare della riforma. Anche quest’anno più di 2500 sentenze non sono state eseguite cioè un quarto del totale. Siamo il Paese europeo più inadempiente primeggiando nella classifica negativa, precedendo addirittura la Turchia e la Russia, come si è visto, che ne hanno la metà. Fra queste inadempienze c’è anche il mancato rispetto di sentenze che riguardano l’espulsione di cittadini stranieri verso Paesi che, secondo i giudici di Strasburgo, non garantiscono la dignità e l’incolumità fisica. A causa della mancata riforma giudiziaria che il Consiglio d’Europa sollecita da diversi anni, la maggior parte delle condanne subite dall’Italia riguarda ancora quest’anno la lungaggine dei processi. “Apprendiamo dalla Corte di Strasburgo che siamo il Paese europeo più inadempiente, primeggiando per la lentezza dei processi e stando peggio di Paesi come la Turchia e la Russia. Sono dati preoccupanti che dovrebbero indurre i nostri rappresentanti parlamentari e politici a prendere finalmente di petto la situazione”. È il commento del vicepresidente del Csm, Michele Vietti, intervenuto ieri in Cassazione ad un convegno sulle Corti di Giustizia in Europa. Fra le soluzioni indicate da Vietti c’è quella di “affidare ad autorità amministrative la soluzione dei risarcimenti per alleggerire le Corti da un fardello di lavoro che finisce per ritardare anche gli altri processi”. Anche il senatore Giuseppe Valentino, vicecoordinatore della Consulta sulla giustizia del Pdl e membro della commissione Giustizia del Senato, pensa ad una soluzione “esterna”. “Occorre costituire una struttura valutativa della sussistenza del danno che sia al di fuori degli organismi giudiziari -ha dichiarato - Una struttura di saggi col solo compito di valutare le varie situazioni. I saggi possono essere magistrati o avvocati in pensione, oppure giovani avvocati o professionisti, con le stesse funzioni dei giudici di pace”. Il governo “ascolti l’ennesimo richiamo del Consiglio d’Europa: cittadini e imprese non possono pagare i costi di una giustizia lenta”. Così il vicepresidente del Parlamento Ue, Roberta Angelilli (Pdl-Ppe), ha commentato i contenuti del rapporto. Giustizia: carceri fuorilegge, ora lo dicono tutti di Gabriella Monteleone Europa, 13 aprile 2012 immagine documento Diamo per scontato che il nostro sia un paese il cui impianto morale, sociale e giuridico si basa sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. Dobbiamo ricrederci. Per quanto scomodo, e doloroso, dobbiamo ammettere che i diritti umani vengono costantemente violati dalla oggettiva situazione di sovraffollamento e decadimento delle nostre carceri e pure dei Centri di identificazione ed espulsione sparsi in Italia. Non è più, solo, l’instancabile Pannella a intonare il de profundis della dignità e dei diritti della persona - perché tale è anche il detenuto e a maggior ragione chi ha commesso solo un illecito amministrativo come il clandestino. Anche la Commissione diritti umani del senato, presieduta da Pietro Marcenaro del Pd, nel rapporto approvato all’unanimità il 6 marzo dopo una lunga serie di audizioni, ne denuncia tutte le violazioni, lancia l’allarme, grida la necessità di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento per prevenire altri casi “Bolzaneto” o di agenti ritenuti “responsabili senza alcuna possibilità di dubbio di torture di detenuti” e assolti “per mancanza della norma necessaria” (sentenza del Tribunale di Asti del 30 gennaio scorso). Il Rapporto, presentato ieri alla Fnsi (e martedì prossimo a palazzo Giustiniani alla presenza del ministro Severino) richiama le varie condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla nostra situazione carceraria e sul sovraffollamento (caso Scoppola nel 2006 e caso Sulejmanovic nel 2009) e i reiterati richiami del Comitato dei ministri del Consiglio Ue. Lo stato delle cose ci racconta che solo nel 2011, su 186 persone decedute nei nostri penitenziari, 63 si sono suicidate: a fine febbraio i detenuti erano 66.632 (più del 30% stranieri, il 40% tossicodipendenti) ma di posti - umani - ce ne sarebbero 45.742. Numeri? Persone piuttosto, delle quali peraltro solo 38.195 con condanna definitiva. Come fanno quelli che “resistono”? Lo ha svelato con coraggio il segretario dell’Osapp, Leo Beneduci: almeno 16mila “sono trattati con dosi massicce di psicofarmaci”. Valium, antidepressivi e via. Ma se ne fa un gran uso anche nei Cie, “posti dove ragazzini spauriti vivono a fianco con delinquenti incalliti - ha denunciato ieri Marcenaro - dove i migranti vengono tenuti in gabbie come animali”. Cosa si può fare? Qualche passo avanti c’è stato, il Rapporto è stato approvato all’unanimità, “segno di un cambiamento politico su questi temi” nota ancora Marcenaro. Roberto Natale, presidente della Fnsi, apprezza la circolare del ministro Cancellieri che a dicembre ha aperto ai giornalisti i Cie (anche se perdurano molte resistenze) ma denuncia “l’ossessione securitaria che ha distorto il dibattito in Italia su carceri e Cie” e della quale “l’informazione è stata succube”. Il governo Monti ha tentato di prendere di petto l’emergenza varando come primo provvedimento il “pacchetto carceri” che aiuterà, ma che a chiamarlo “svuota carceri”, come pure è stato fatto, ci vuole un bel coraggio. La crisi incalza, i soldi mancano e al momento solo meno della metà dei fondi dell’otto per mille del 2011 (57 milioni ) sono destinati all’edilizia carceraria e alle condizioni di vita nelle prigioni. Nel frattempo i garanti dei detenuti il 27 aprile incontreranno il capo dello stato. Due giorni prima, il 25, a Roma si terrà la seconda Marcia per “l’amnistia, la giustizia e la libertà” organizzata, ça va sans dire, dai radicali dopo la manifestazione che a Pasqua li ha portati da Regina Coeli a piazza San Pietro. Alla prima, nel Natale 2005, marciò anche Napolitano. Ma non se ne fece nulla e non sembrano tempi, questi, per un cambio di rotta. Giustizia: Dap; calano le presenze di detenuti, il dato è incoraggiante Redattore Sociale, 13 aprile 2012 Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, erano 66.585 i detenuti presenti nelle carceri italiane lo scorso 10 aprile. “Sono i primi, incoraggianti effetti della legge salva carcero”. Erano 66.585 i detenuti presenti nelle carceri italiane lo scorso 10 aprile. Il dato viene reso noto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, secondo cui si mostrano “i primi incoraggianti effetti della legge salva carceri”. Il dato, evidenzia il Dap, “se confrontato con quello di aprile 2011, quando le presenze furono 67.510, e con la cifra record di 68.047 detenuti del 30 novembre 2011, consente di prevedere una lenta ma costante riduzione del numero dei detenuti”. “Nelle prossime settimane - conclude la nota del Dap -, sarà possibile verificare se la flessione degli ingressi in carcere manterrà il trend positivo rilevato ormai da parecchi mesi e in particolare nell’ultima settimana”. Giustizia: Sappe; impercettibile il calo dei detenuti, ancora in 20mila oltre capienza Comunicato stampa, 13 aprile 2012 “Mi viene difficile definire incoraggiante, come invece fa l’Amministrazione penitenziaria, l’impercettibile calo di detenuti, rispetto ad un anno fa. Oggi abbiamo oltre ventimila persone detenute rispetto alla capienza regolamentare, un buon 40% dei ristretti in attesa di un giudizio e 7mila Agenti di Polizia Penitenziaria in meno negli organici del Corpo: sono dati incoraggianti questi? Tra l’altro, non fosse per la legge sulla detenzione domiciliare, che pure introduce parametri assai rigidi per avvalersene, e la recente legge del Governo, che limita la detenzione in carcere prima dell’udienza di convalida a casi eccezionali, oggi avremmo in carcere più di 75mila detenuti. La differenza di mille detenuti in meno, da un anno all’altro, è davvero impercettibile: le tensioni in carcere sono costanti ed aggravano le già difficile condizioni di lavoro delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Servono altri interventi per deflazionare le carceri italiane”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, commentando il comunicato stampa odierno del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “La situazione penitenziaria è e resta allarmante ed è ora di ripensare organicamente il sistema dell’esecuzione penale in Italia. È del tutto evidente che scontare la pena fuori dal carcere, per coloro che hanno commesso reati di minore gravità, ha una fondamentale funzione anche sociale. Si deve avere il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione. Non a caso il Sappe da tempo sollecita il Parlamento a sostenere il progetto di legge del ministro della Giustizia Paolo Severino sulla depenalizzazione dei reati minori e, soprattutto, sulla messa alla prova: istituto, quest’ultimo, che ha dato ottimi risultati nel settore minorile e che potrebbe essere altrettanto utili negli adulti, atteso che consentirebbe di espiare in affidamento al lavoro all’esterno le condanne fino a quattro anni di reclusione. Altrettanto evidente è il potenziamento del ruolo della Polizia Penitenziaria, incardinandolo negli Uffici per l’esecuzione penale esterna per svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione”. Lazio: il Garante Marroni; trasferire detenuti italiani all’estero nel nostro paese Iris, 13 aprile 2012 Regolamentare le procedure che prevedono - per i cittadini italiani detenuti all’estero - la possibilità di scontare la pena in un carcere italiano. È quanto chiede il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ai ministri della Giustizia Paola Severino e degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. In base alla Convenzione di Strasburgo del 1983 (ratificata dall’Italia nel 1989) i cittadini condannati all’estero possono scontare la pena nel loro Paese di origine. “Una eventualità che capita di frequente - ha detto Marroni - Molto spesso, però, accade che, una volta giunti in Italia, queste persone abbiano la necessità di documentare la regolare condotta tenuta nelle carceri straniere al fine, ad esempio, di presentare istanze alla Magistratura di Sorveglianza. In questi casi l’Autorità Giudiziaria italiana deve chiedere informazioni sulla condotta penitenziaria del soggetto alle autorità penitenziarie dei Paesi dove è stato condannato. Ciò comporta un allungamento a dismisura dei tempi per evadere ogni tipo di istanza presentata”. Per evitare ciò - in un momento in cui il sistema è già ingolfato dall’elevato numero di detenuti presenti e dalla scarsità di personale e di risorse finanziarie - il Garante ha suggerito al Governo italiano di farsi promotore di una iniziativa “volta a regolamentare in maniera più specifica le procedure per il trasferimento dei cittadini”, prevedendo in particolare che, al momento della consegna della persona, venga obbligatoriamente rilasciata all’Autorità giudiziaria italiana anche una relazione sulla condotta tenuta dal condannato. “Una procedura - ha commentato il Garante - che non comporterebbe aggravi aggiuntivi visto che, comunque, il Paese di condanna deve già comunicare a quello di esecuzione una relazione circa il percorso processuale del condannato. L’introduzione di questa prassi consentirebbe, oltre che di velocizzare l’istruttoria delle istanze, anche di ridurre il carico di lavoro delle strutture dei ministeri della Giustizia e degli Esteri, con evidenti risparmi di tempo e di danaro”. Giustizia: caso Bianzino, quella Tac è falsa di Emanuele Giordana (direttore di Terra) Il Manifesto, 13 aprile 2012 I medici hanno rilevato 280 cl di sangue attorno al fegato. Quando Aldo era già morto L’analisi mostrava un aneurisma che avrebbe provocato la morte del detenuto. Nel dicembre del 2009 la Procura di Perugia archiviò il caso della morte di Aldo Bianzino come decesso per cause “naturali”, scartando per sempre l’ipotesi di omicidio. La decisione, cui seguì poi un processo già arrivato a sentenza per omissione di soccorso a una guardia del carcere di Capanne, si basava sui riscontri prodotti da un corposo dossier dei medici incaricati dalla magistratura perugina in cui un fotogramma di materia cerebrale evidenziava in modo chiarissimo un aneurisma: una malformazione dell’apparato vascolare che aveva causato la morte del falegname di Pietralunga, arrestato per possesso di canapa nel 2007 e morto in carcere durante una brevissima detenzione. Ma adesso tutto ritorna in discussione. Semplicemente perché quel fotogramma non riguardava il cervello di Aldo Bianzino ma quello di uno sconosciuto. Materiale d’archivio. Niente di più che letteratura medica. La vicenda è emersa alla penultima udienza del processo per omissione di soccorso contro Gianluca Cantoro, una guardia carceraria ritenuta responsabile di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d’ufficio, che una recente sentenza all’inizio di marzo ha condannato a un anno e mezzo con pena sospesa. In quella sede però sono riemersi tutti gli elementi che in realtà mettono in dubbio la scelta dell’archiviazione. Terra, il mensile ecologista in edicola da oggi, pubblica i fotogrammi che dovrebbero - come chiede adesso la famiglia Bianzino - far riaprire il caso: uno in particolare (quello riprodotto a fianco e cerchiato in rosso nell’originale), che mostra l’aneurisma... che non c’è. Lontana dai clamori della cronaca di una vicenda che, per la prima volta, ebbe risalto nazionale sulle pagine de il manifesto, ma che di fatto fu seguita soltanto dal Partito radicale e da gruppi autorganizzati della società civile perugina, la storia di Aldo è sempre stata piena di lati oscuri, ignorati proprio per via della famosa malformazione vascolare. Tutta l’ipotesi dell’archiviazione si basava infatti sull’esistenza di un aneurisma che era stato ampiamente documentato dai consulenti del pm Aprile e Lalli in una minuta documentazione del 2008, nella quale si vedono le parti smembrate del cervello di Bianzino accanto a un’altra immagine che mostra la “malformazione” vascolare aneurismatica origine del sanguinamento”, come dice la didascalia. Le due figure venivano proposte in sequenza e messe strettamente in relazione senza che, fino a marzo scorso, si fosse mai sollevato un dubbio - questa volta proposto in udienza dagli avvocati di Bianzino - sul fatto che il fotogramma cerchiato in rosso fosse effettivamente relativo alla massa cerebrale di Aldo. Interrogata in proposito, la stessa Aprile ha spiegato infatti che i medici che avevano redatto il dossier per la Procura non avevano “riscontrato l’aneurisma, ma abbiamo riscontrato dei vasi con delle caratteristiche alterate, che ben si correlano con l’ipotesi di una rottura, diciamo, spontanea”. Insomma quella immagine era nulla più che letteratura medica. In altre parole, l’aneurisma per cui Bianzino morì nel suo cervello non c’è. O almeno non è così visibile da poterne fare un fotogramma che non lasci ombra di dubbio. A questo vanno aggiunti altri lati oscuri. I medici hanno rilevato attorno al fegato di Aldo ben 280 cl di sangue, in una parola un terzo di litro. Quella fuoriuscita di sangue sarebbe dovuta dalla pressione esercitata durante la rianimazione. Ma allora Bianzino era già morto. Oltre ai dubbi già sollevati, anche le spiegazioni tecniche lasciano aperte molte porte. Ancora Aprile davanti al giudice: “Arresto cardiaco o non arresto cardiaco, lesione in vita o lesione in morte, l’immagine che si deve avere rispetto a questa azione di compressione a livello locale è quella di una spugna. Il fegato è pieno di sangue”. Anche il magistrato ha un momento di apparente perplessità: “Sì ecco, riguardo a questo punto, però, la manovra rianimatoria ha come punto di riferimento il cuore, ecco, più che il fegato”, commenta in aula. La perplessità rimane a tutti. Possibile che due esperti rianimatori, pur eccitati dal desiderio di salvare un uomo (già morto), gli facciano a pezzi il fegato tanto da far uscire poco meno di mezzo litro di sangue? La rianimazione (sul cuore) durò almeno venti minuti. E qui sta l’altro punto debole. Non ve n’è traccia. Il carcere ha ovviamente un sistema di telesorveglianza. Non riprende in maniera continuativa; lo fa a spezzoni. Ma sicuramente non a intervalli di venti minuti, altrimenti il carcere di Capanne sarebbe un colabrodo di evasioni o atti illegali consumati al riparo di occhi indiscreti. Eppure, tra tutte le immagini acquisite di quella maledetta notte, non vi è un solo fotogramma in cui appaia Bianzino nel corridoio dove si cercò di rianimarlo. Bianzino era entrato in prigione venerdì 12 ottobre in condizioni fisiche normali. Ma la mattina di domenica 14 viene rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta e, sebbene sia ottobre inoltrato, Aldo indossa solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. La notte si è lamentato ma solo al mattino viene trasportato fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti non vedano. Un medico dirà di non riuscire a spiegarsi per quale motivo sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell’infermeria ancora chiusa poiché, in altri casi, l’intervento del soccorritore - com’è logico - avviene direttamente in cella. Si tenta dunque la rianimazione effettuando il massaggio cardiaco: uno dei punti - l’abbiamo già rilevato - più oscuri dell’intera vicenda. Le indagini dopo la sua morte riveleranno subito che si riscontrano “lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica”. L’inchiesta però esclude proprio quell’emorragia traumatica e sposa la tesi dell’aneurisma, aprendo solo un procedimento nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. Del resto, se Aldo è morto per lo scoppio di un aneurisma cerebrale, si esclude automaticamente l’omicidio. Resta quel fegato “strappato” dalla sede naturale sul quale la letteratura medica è avarissima di casi in cui ciò possa essere avvenuto a seguito di un massaggio cardiaco. Si archivia. Ma ecco che nel recente processo alla guardia, nell’udienza del 16 gennaio scorso, emergono elementi nuovi. Che dovrebbero indurre un ripensamento. Può darsi infatti che quando chiede la riapertura del caso, il padre di Aldo - Giuseppe Bianzino - sia un uomo ottenebrato dal dolore, che vede nero dov’è bianco e che ingrandisce o diminuisce a suo piacere. Ma i fatti sono fatti. Sia quando ci sono, come il sangue fuoriuscito, sia quando non ci sono (l’aneurisma o i fotogrammi del carcere). Quello che c’è in abbondanza sono gli elementi per cui quel caso dovrebbe uscire dalla casella “archiviato” dove è stato, forse troppo rapidamente, riposto. Giustizia: sei anni di indagini per capire che la “pistola” era un giocattolo di Valter Vecellio Libero, 13 aprile 2012 Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, “situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia”. A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrando la. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: “Detenzione illegale di arma”. I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: “Non luogo a procedere”. E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa “non luogo a procedere”? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva “fabbricata prima del 1890” in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: “Non è un’arma, è un giocattolo”. Niente da fare. “Detenzione di arma illegale”. Bastava guardarla, quell’”arma illegale”: “Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500”. Per i carabinieri era “un’arma illegale”. I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. “Si può?”. “Prego, accomodatevi”. Ecco. E lì, in bella vista “l’arma illegale”. Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: “All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella”. Lazio: presidente Consiglio Regionale Mario Abbruzzese scrive a promotori Marcia Amnistia Agenparl, 13 aprile 2012 Il Presidente del Consiglio Regionale del Lazio Mario Abbruzzese ha scritto una lettera ai promotori della II Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà che si svolgerà a Roma il prossimo 25 aprile. Nella lettera, il Presidente Mario Abbruzzese, nell’esprimere la sua vicinanza nei confronti della meritoria iniziativa scrive, tra l’altro: “Il sovraffollamento delle Carceri è un problema serio, non più procrastinabile e va affrontato con tempestività e determinazione da parte di tutte le Istituzioni. Un paese come l’Italia che fonda le proprie radici sulla Costituzione e sullo stato di diritto, non può consentire che la cura delle persone, ancorché in stato di reclusione, e il rispetto della dignità umana, siano seriamente compromessi a causa di un regime carcerario ormai al limite del collasso. Pur nella sacrosanta tutela di sicurezza sociale è necessario avviare una riforma che garantisca un corretto equilibrio tra aspetto afflittivo ed aspetto rieducativo della pena, tra carattere umanitario del trattamento del condannato e quindi tutela dei diritti dei cittadini alla sicurezza. Sono allo stesso modo consapevole che una revisione del sistema carcerario in Italia non potrà avvenire se non si avvia, contestualmente , anche una profonda ed organica riforma della giustizia, perché i due aspetti sono assolutamente complementari e l’uno determina inevitabilmente effetti negativi sull’altro”. I Consiglieri Regionali Radicali, Giuseppe Rossodivita, Capogruppo Lista Bonino Pannella Federalisti Europei e Rocco Berardo, nel ringraziare il Presidente del Consiglio Regionale del Lazio per queste sue parole di sensibilità e attenzione al tema drammatico delle carceri, invitano i colleghi consiglieri regionali a partecipare all’iniziativa nonviolenta del 25 aprile. Lo comunicano i Radicali in una nota. Siracusa: presentato il progetto “Coltivare la libertà” www.siracusanews.it, 13 aprile 2012 “Ogni provvedimento di pena deve avere un senso riabilitativo nell’interesse del detenuto e della società”. Con queste parole la dottoressa Carla Frau, Magistrato di sorveglianza del Tribunale di Siracusa, ha esordito nel presentare il progetto “Coltivare la libertà”. Un percorso finanziato per 500.000 euro tramite avviso Pubblico n. 1/2011 per la realizzazione di progetti volti all’inclusione socio-lavorativa di soggetti in condizione di disagio ed esclusione sociale. “Vogliamo - ha proseguito il magistrato - che il detenuto sia inserito nella società. Per questo il progetto in questione ha una importanza fondamentale”. “Coltivare la libertà” è rivolto, infatti, ai soggetti in esecuzione penale esterna in carico all’Uepe di Siracusa e Ragusa. Prevede azioni di ricerca, orientamento, accompagnamento e inserimento lavorativo delle persone coinvolte come utenti. “La missione del nostro ufficio - ha sottolineato la dottoressa Maria Corda, direttrice dell’Uepe di Siracusa - è proprio quella di creare un ponte tra la società e chi, dopo avere scontato un periodo di detenzione, si prepara a tornare in completa libertà”. “Il lavoro - conferma la dottoressa Maria Rita Motta, referente del progetto per l’Uepe - è fondamentale per la nostra missione istituzionale. Ricordo come solo il 50% delle persone che terminano il periodo di pena riesce a trovare un impiego regolare. Il restante 50% è occupato solo saltuariamente o è disoccupato. Questo vuol dire che sarà molto facile per queste persone ricadere in atti di illegalità. In questo contesto l’aggancio con le imprese e le aziende esterne appare di grande importanza”. “Coltivare la libertà” avrà una durata di due anni. La Cooperativa sociale l’Arcolaio ne è il soggetto proponente. “Collaboriamo con l’Uepe di Siracusa - afferma Giovanni Romano, presidente de L’Arcolaio - da ormai dieci anni. Adesso ci siamo posti il problema di come operare anche fuori dal carcere per sostenere l’inserimento dei detenuti nella società. Nell’ottica di un welfare condiviso e di comunità puntiamo a coinvolgere aziende e datori di lavoro. La nostra visione è che il territorio deve ritrovare la propria vocazione, per questo il progetto dedica particolare attenzione ai settori dell’agricoltura e del turismo”. Nei dettagli di “Coltivare la libertà” entra Giuseppe Pisano, direttore del progetto. “Il percorso prevede due anni di lavoro. Obiettivo del progetto è favorire l’inserimento socio lavorativo di persone in esecuzione penale esterna in carico agli uffici Uepe di Siracusa e Ragusa mirando a incidere sui meccanismi che rendono più difficile l’affrancamento, per chi vive questa condizione, dalle logiche di assistenza, devianza e pregiudizio. Si punta quindi ad avviare e sperimentare un modello di contaminazione fra le logiche e le pratiche del welfare e quelle dell’impresa offrendo ai destinatari, attraverso dei piani educativi individualizzati, opportunità di orientamento e sostegno all’inclusione sociale, di inserimento lavorativo, di sostegno socio-relazionale. Le misure progettuali saranno eseguite in stretto raccordo con gli uffici Uepe competenti per territorio”. L’intervento prevede più fasi. “Partiamo - conferma Filippo Spadola, progettista - con una fase di indagine sul mercato del lavoro locale e sulla propensione delle imprese, in particolare quelle del settore agricolo e turistico, ad inserire soggetti in esecuzione penale esterna. A seguire ci sarà una fase di orientamento ed accompagnamento al lavoro, dunque partiranno le work experience di 550 ore in azienda per 36 destinatari. Infine renderemo pubblici i risultati del progetto”. I restanti partner del progetto sono l’Associazione Econ.form (Modica), HCC Kairòs S.r.l. (Ragusa), Cooperativa Sociale A. Portogallo (Ragusa). Camerino: nuovo carcere, approvazione definitiva del progetto, lavori nei primi mesi del 2013 Corriere Adriatico, 13 aprile 2012 Adesso anche i più scettici dovranno tornare sulle loro convinzioni. Entro i primi mesi del 2013, infatti, a Camerino inizieranno i lavori per la realizzazione del nuovo carcere. Ieri, a Roma, si è svolta, presso l’ufficio del commissario straordinario per l’emergenza carceri, la conferenza dei servizi che ha portato all’approvazione definitiva del progetto. “Una firma - ha spiegato l’assessore Roberto Lucarelli, che ha rappresentato ieri il comune insieme all’architetto Forconi, dell’ufficio tecnico - attesa a Camerino da ormai più di un decennio. È stata la tappa conclusiva di un percorso che, adesso, si fa in discesa per la nostra città”. Oltre al Comune di Camerino, ieri, alla conferenza dei servizi erano rappresentati la Regione Marche, l’agenzia del demanio e l’Asur Marche, oltre alla presenza, ovviamente, dei tecnici che hanno firmato il progetto del nuovo carcere di Camerino. Adesso si passerà alla fase operativa. Entro il mese di giugno, stando a quanto è dato sapere, si procederà all’appalto per l’affidamento dei lavori. Poi, con i primi mesi del 2013, le prime ruspe si metteranno all’opera. Nel frattempo, nell’area individuata, in località Morro, sono già stati effettuati tutti i rilevamenti preliminari. La nuova struttura penitenziaria che sorgerà nella città ducale, lo ricordiamo, ospiterà circa 450 detenuti e verrà a costare una cifra complessiva di circa trentatré milioni di Euro. “Finalmente - ha concluso l’assessore Lucarelli, raggiunto telefonicamente mentre rientrava da Roma - una buona notizia per Camerino. Il nuovo carcere, con l’indotto che si verrà a creare, rappresenterà per la nostra città anche un importante volano economico. Ma, prima di questo, viene il rispetto per la dignità dei detenuti e degli operatori penitenziari che ormai da troppo tempo si trovano a scontare la pena o a lavorare in una struttura non più adeguata. Un traguardo che siamo riusciti a raggiungere grazie all’ex sottosegretario Giacomo Caliendo e al senatore Salvatore Piscitelli”. Roma: Radicali; depositata interrogazione su decesso a Rebibbia Agenparl, 13 aprile 2012 I Consiglieri regionali della Lista Bonino Pannella Federalisti Europei Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo hanno presentato un’interrogazione alla Presidente Polverini e agli Assessori competenti sul decesso di un detenuto all’interno della sezione psichiatrica della Casa di Reclusione di Rebibbia avvenuto tra il 2 e il 3 aprile scorso, come riportato da organi di stampa. Con l’interrogazione, che riprende quella presentata su questo caso dalla deputata Radicale Rita Bernardini, i consiglieri Rossodivita e Berardo chiedono di conoscere l’effettiva situazione clinica del detenuto e, al di là dell’inchiesta aperta dalla magistratura per accertare eventuali responsabilità penali nel trattamento riservato al detenuto in questione, di verificare, attraverso un’approfondita indagine interna, se il trattamento sanitario previsto nell’istituto ottemperi a quanto prescritto dalle leggi dello Stato e alle competenze sanitarie della Regione Lazio, soprattutto con quanto previsto dagli articoli 3, 13 (comma 4), 27 (comma 3) e 32 della Costituzione. Con l’interrogazione si chiede, infine, se non si ritenga urgente l’avvio di un’indagine sui decessi che avvengono tra i detenuti delle carceri della Regione Lazio, inclusi i suicidi, per verificarne le cause reali e scongiurarne di nuovi e l’apertura di un tavolo di confronto con i responsabili delle Asl e i medici che hanno competenza sulle carceri della Regione Lazio. “Riteniamo questa interrogazione tanto più urgente alla luce della recente visita che abbiamo effettuato nei giorni scorsi presso il Carcere di Regina Coeli” dichiarano Rossodivita e Berardo. “Abbiamo avuto modo di riscontrare, oltre alla cronica situazione di sovraffollamento carcerario che riguarda tutte le carceri italiane, delle gravissime carenze nell’assistenza sanitaria. In diversi casi che abbiamo potuto vedere personalmente è risultata evidente e spesso acclarata dai referti medici l’assoluta incompatibilità tra detenzione e salute”. Verona: i detenuti diventano panettieri, un percorso per l’inserimento nel mondo del lavoro L’Arena, 13 aprile 2012 Nascoste nell’impasto non ci sono lime né altri congegni utili a tentar la fuga. Ma torte, pizze, focacce e pagnotte realizzate nel laboratorio panificatori del carcere di Montorio dagli stessi detenuti rappresentano comunque una via d’uscita. Ovvero, il futuro oltre e fuori le quattro mura del carcere. La possibilità concreta di un reinserimento lavorativo e sociale. Sedici detenuti stanno infatti ultimando il corso di formazione professionale per diventare panificatori. Un percorso di studi che si articola non solo concretamente tra farine, confetture, forni grazie all’arte insegnata dai maestri dell’associazione panificatori veronese: Ma anche nella teoria delle nozioni di cultura generale e di competenze trasversali, sotto la guida del Centro di formazione Canossiano e del Ctp Carducci. “Questo corso per panificatori è strutturato in 600 ore e segue i parametri europei per la formazione. L’obiettivo è preparare le persone al mondo del lavoro”, ha spiegato Paola Tacchella, referente del corso e volontaria della redazione di Microcosmo, il trimestrale del carcere. Si tratta di una delle fasi di cui è strutturato “Progetto Esodo: percorsi giudiziari in inclusione socio lavorativa per detenuti ed ex detenuti”, un’iniziativa interprovinciale che coinvolge oltre la città anche Belluno e Vicenza, coordinata dalla Caritas diocesana e finanziata dalla fondazione Cariverona che ha l’obiettivo di sostenere detenuti ed ex detenuti nel difficile processo di reinserimento sociale non solo dopo il carcere maanche durante, nell’ultimo periodo di pena. Alla presentazione di “Con il pane verso la comunità”, questo il nome dato al corso, hanno partecipato oltre alla direttrice del carcere Mariagrazia Bregoli e alla Garante dei diritti dei detenuti, Margherita Forestan, molti dei rappresentanti delle associazioni che si occupano dei detenuti, da Maurizio Ruzzenenti di progetto Carcere 663 a fra Beppe de La Fraternità, Marco Valdi-noci, vice direttore Attività istituzionali della Fondazione Cariverona, l’assessore ai Servizi Sociali Stefano Bertacco. Il nuovo forno è stato benedetto da monsignor Giuliano Ceselli, direttore della Caritas. “Questa è un’opportunità importante che viene data alla popolazione detenuta. È un primo passo verso l’esterno e questo progetto di vita domani è significativo anche per noi che non siamo solo sicurezza e vigilanza”, ha commentato Lara Bocco, vice comandante della polizia penitenziaria. La maggior parte dei detenuti del corso, in grado ora di preparare ottime prelibatezze sia dolci che salate, sarà libera fra poco. E potrà cercare di far fruttare quanto appreso dietro le sbarre, nella vita reale. “Noi non vi deluderemo. Questa è la ricetta giusta per vivere e andare avanti”, ha detto Luca a nome di tutti i compagni di corso. Quattro detenuti corsisti, sono invece di lunga pena. Ovvero hanno ancora parecchio tempo da scontare in carcere. Tuttavia, sono stati ugualmente formati e a loro spetterà il compito di preparare quotidianamente il pane per tutti gli altri detenuti del carcere. I forni, gli impastatori sono stati infatti installati in una stanza del carcere in pianta stabile a formare il panificio della casa circondariale di Montorio”. Genova: “Loro dentro”, documentario sulla vita in cella con i giovani detenuti di Marassi www.ligurianotizie.it, 13 aprile 2012 Le giornate oltre le sbarre di chi trascorre in cella la gioventù: le racconta, dall’esperienza concreta e quotidiana di dieci detenuti tra i venti e i trent’anni della Casa Circondariale di Marassi, il documentario “Loro Dentro” realizzato con il sostegno della Provincia di Genova e della direzione del carcere più grande della Liguria dal laboratorio di sociologia visuale dell’Università di Genova con il centro Frantz Fanon di Torino e il Sert a Lavagna della Asl 4. Il filmato sarà presentato martedì prossimo, 17 aprile alle 18, al Sivori di salita Santa Caterina. Con la regista Cristina Oddone e gli altri animatori del laboratorio di sociologia visuale interverranno l’assessore provinciale alle carceri Milò Bertolotto, il direttore della Casa Circondariale di Marassi Salvatore Mazzeo, alcuni dei giovani protagonisti del video, esperti di sociologia e diritti umani. Durante il laboratorio (tra febbraio e giugno 2011) i ricercatori dell’Università hanno raccolto storie e molti momenti della quotidianità - fra adattamento e resistenza all’istituzione carceraria, relazioni fra i reclusi, attese di colloqui, speranze di pene alternative - della vita, che continua a scorrere anche nel chiuso di una cella sovraffollata, di dieci ragazzi tra i venti e i trent’anni, detenuti comuni, italiani e stranieri, stando al loro fianco in sala colloqui, nelle ore d’aria, sul campo sportivo, nelle cucine, nei corridoi delle sezioni. “I giovani ai quali era stato proposto il laboratorio video - dicono i ricercatori di Sociologia Visuale - hanno partecipato molto attivamente alle interviste e alle riprese del film, prodotto della relazione costruita nello spazio carcerario di convivenza e strumento per informare, sensibilizzare e riflettere sulla situazione delle carceri in Italia”. Novara: una tensostruttura per il carcere, grazie a Provincia e Compagnia dell’Olmo Asca, 13 aprile 2012 Ancora una volta la Provincia di Novara a sostegno del sociale e, in particolare, delle esigenze dei detenuti della casa circondariale di Novara di via Sforzesca. Grazie, infatti, all’impegno dell’Ente di Palazzo Natta (assessorato alle Politiche sociali guidato dall’assessore Annamaria Mellone) e all’associazione “Compagnia dell’Olmo” di Grignasco (da sempre impegnata nelle sue iniziative culturali in attività legate al sociale) e alla collaborazione degli operatori del carcere novarese, si realizzerà una tensostruttura all’interno degli spazi della casa circondariale. Si tratta di una struttura con la quale consentire l’ampliamento delle attività culturali e ricreative a favore dei detenuti ospitati in via Sforzesca. Un intervento con il quale si favorisce il miglioramento della condizione carceraria e il reinserimento sociale del detenuto. L’iniziativa sarà presentata nei prossimi giorni alla stampa dal presidente della Provincia, Diego Sozzani, da Mellone, da Rosalia Marino, direttore del carcere di Novara e da Pietro Pesare, presidente della Compagnia dell’Olmo. Torino: seminario transazionale “Economia carceraria, il contributo del Fondo sociale europeo” Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2012 Il Ministero del Lavoro - Direzione Generale per le Politiche Attive e Passive del Lavoro e la Regione Piemonte - Assessorato alla Formazione professionale e al Lavoro, in collaborazione con Consorzio Open, Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus e con il supporto tecnico scientifico dell’Isfol Vi invitano a partecipare al Seminario “Economia carceraria: esperienze, idee e prospettive. Il contributo del Fondo sociale europeo” che si svolgerà l’11 maggio p.v. dalle 9,00 alle 16,30 a Torino presso il Museo Regionale di Scienze Naturali, Sala Conferenze, Via Giolitti, 36. Il Seminario vedrà la presentazione di esperienze regionali, nazionali ed europee finanziate dal Fondo sociale europeo sul tema dell’economia carceraria e sul ruolo che essa riveste nell’ambito della strategia di reinserimento socio-lavorativo dei soggetti in esecuzione penale. L’evento si incentrerà, tra l’altro, sul confronto tra esperienze di tre importanti Stati Membri dell’Unione Europea: Francia, Germania e Regno Unito. Il Seminario si articolerà in tre sessioni. La prima sarà dedicata a relazioni introduttive sul sistema penitenziario e sull’economia carceraria nel nostro Paese. La seconda metterà a confronto esperienze italiane ed europee sul ruolo che l’economia carceraria riveste nell’ambito della strategia di reinserimento socio-lavorativo dei soggetti in esecuzione penale. Nella terza sessione si terrà una Tavola Rotonda in cui rappresentanti dei Ministeri competenti e dei principali stakeholder nazionali si confronteranno a partire dalle indicazioni emerse dal Focus Group che si terrà il giorno precedente e che, con la partecipazione di rappresentanti istituzionali ed esperti tematici, italiani e stranieri, sarà destinato ad elaborare raccomandazioni di policy. Latina: sul palco come attrici, le detenute recitano “La gatta cenerentola” www.latinatoday.it, 13 aprile 2012 Le carcerate in scena davanti al presidente Polverini, agli assessori alla Sicurezza e alla Cultura, a Di Giorgi e ai rappresentanti del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Attrici per un giorno: sul palco le detenute, in platea gli studenti Attrici per un giorno: sul palco le detenute, in platea gli studenti. Teatro di donne al carcere di Latina, in scena “Gatta Cenerentola”. La scorsa settimana avevano recitato davanti ad un pubblico tutto speciale fatto di giovani studenti che avevano potuto ammirarle mentre magistralmente si muovevano sul palco; e oggi hanno replicato per un altrettanto platea d’eccezione. Sono le detenute della casa circondariale di via Aspromonte a Latina che stamattina hanno messo in scena “La gatta cenerentola”, la favola teatrale di Roberto De Simone realizzata al termine del corso di teatro “Captivae”, organizzato dalla onlus Liberanimus con il finanziamento della Regione Lazio. Ad assistere alla loro pièce il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, con i suoi assessori alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi, e alla Cultura, Fabiana Santini, il capo e il vicecapo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino e Simonetta Matone, il provveditore alle carceri del Lazio, Maria Claudia Di Paolo, e il sindaco di Latina, Giovanni Di Giorgi. Sul palco loro, le sette detenute-attrici del penitenziario pontino che, presentate dal direttore del carcere Nadia Fontana, hanno rappresentato lo spettacolo in stretto dialetto partenopeo interpretando anche i brani musicali dell’opera, ridotta nel laboratorio alla durata di un’ora. Ma non solo, sono state proprio loro, le carcerate, ad aver anche realizzato i costumi indossati nella messa in scena. “Il teatro in carcere - ha detto Polverini - è un fatto molto importante. Avevo promesso alle detenute, quando ero venuta a Natale, che sarei tornata a trovarle”. “Avete qualità non comuni. Le nostre carceri cominciano ad avere un elemento in più, e ogni volta che le visito riesco ad apprezzare cosa si riesce a costruire negli istituti per la vita di fuori. Oggi è importante la presenza del capo del Dap e di tutti quelli che si occupano delle carceri nel nostro territorio”. “Il teatro è importante - ha commentato Tamburino - perché fa riflettere su sé stessi e sul rapporto con gli altri, ed è sempre stato considerato una terapia. Mi fa piacere vedere che questa tradizione cresce”. Secondo Matone “sono esperimenti bellissimi, di cui far tesoro quando si esce: vi auguro di costruirvi una carriera diversa da quella che vi siete lasciata alle spalle” ha detto alle detenute. Soddisfatto il sindaco Di Giorgi: “È un’iniziativa importante, che ha un senso sociale e di solidarietà: la Regione Lazio sta lavorando molto bene”. Cinema: “Romanzo di una strage”…. troppo romanzo, poca strage di Alessandro Litta Modignani Notizie Radicali, 13 aprile 2012 Del film di Marco Tullio Giordana “Romanzo di una strage” (la strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969) ci si è occupati su “Notizie Radicali del 27 marzo (“Piazza Fontana. Quando un film si fa storia. Una poesia di Pier Paolo Pasolini”). Il giorno successivo, il 28 marzo, abbiamo ripubblicato un interessante intervento di Marco Pannella scritto per “Notizie Radicali” all’indomani dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi (“Strage di piazza Fontana, Pino Pinelli, Luigi Calabresi… Un uomo di “buona fede”); l’11 aprile è intervenuto lo storico Salvatore Sechi. Oggi è la volta di Alessandro Litta Modignani. Altri interventi e contributi sono annunciati e benvenuti. Per una persona della mia generazione, milanese per giunta, “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana è un film imperdibile. In quella folla sterminata e muta, che assiste attonita ai funerali delle vittime della bomba di piazza Fontana, c’ero anch’io quindicenne ingenuo e infiammato di passione politica. Ricordo tutto di quel periodo, nei minimi particolari. Rivederli ricostruiti nel film, che tecnicamente è di buona qualità e regia, mi ha colpito come una cannonata nel petto. Il famigerato “clima di quegli anni” è reso abbastanza bene. Non è vero, come ha scritto Mario Calabresi sul “Corriere della Sera”, che nel film manca la campagna di odio che fu scatenata contro suo padre: le scritte sui muri, le urla durante le udienze del processo Pinelli e altre immagini evocano abbastanza nettamente l’atmosfera che si era creata attorno al commissario assassinato. Questa critica mi sembra infondata. Al contrario, semmai, sono troppo didascaliche altre scene. Le riunioni di emergenza del governo sono recitate male, al limite del grottesco; Saragat è la caricatura di un Presidente della Repubblica reazionario; per non parlare di Valpreda le cui sparate pseudo-politiche con inflessioni dialettali rasentano la comicità. Più riuscita l’immagine riflessiva, intelligente e felpata di Aldo Moro. Quanto a Luigi Calabresi, il discorso è controverso. Amici che lo hanno conosciuto di persona mi hanno confermato che, rispetto al “questurino” tipico di quegli anni, Calabresi aveva una marcia in più: più intelligenza, più cultura, più disponibilità al dialogo. Era un commissario di polizia “con cui si poteva parlare”, dicono tutti, infatti il rapporto umano e teso fra lui e Pinelli è uno dei pezzi forti del film. Con tutto questo, e con il rispetto dovuto a un uomo morto così brutalmente, mi permetto di dubitare che Guida, Allegra e tutti gli altri fossero funzionari così sgradevoli e arroganti, mentre il solo Calabresi a tal punto diverso, una faccia bella e pulita la cui coscienza è tormentata da dubbi e scrupoli democratici. Francamente, ci credo poco. Calabresi era un commissario di polizia che “era al corrente di tutto” e non faceva nulla per nasconderlo, anzi usava proprio questa tecnica per angosciare anche pesantemente le persone sotto controllo (questo aspetto è presente nel film, però appena accennato in un paio di dialoghi). Fin qui, la critica cinematografica. Se poi spostiamo il discorso sulle tesi storico-politiche finali, allora bisogna dire che non ci siamo proprio. Ha ragione Adriano Sofri (che, con buona pace di Mario Cervi, ha il diritto di dire quello che crede) hanno ragione quanti hanno scritto che in questo “Romanzo di una strage” c’è molto romanzo e poca strage. Il film, avvertono i titoli di coda, è liberamente tratto dal libro “Il segreto di piazza Fontana” di Paolo Cucchiarelli, un tipo dalla fantasia assai fervida, al cui confronto Dan Brown con il suo Codice Da Vinci è un dilettante allo sbaraglio. La tesi delle due bombe, quella leggera e dimostrativa degli anarchici e quella pesante e stragista dei servizi segreti, fa semplicemente ridere i polli. Non ha alcun riscontro processuale e oltretutto è offensiva - questo sì - per la memoria degli anarchici innocenti coinvolti in quella tragica vicenda. Questo è sicuramente il difetto più vistoso del film di Giordana, un limite che la buona fattura complessiva dell’opera non riesce affatto a superare. Però il film c’è ed è già qualcosa. Come mi ha detto un amico, insegnante in un liceo milanese, “avendo a che fare con gli adolescenti di oggi, è positivo che almeno qualcuno di loro abbia materia per conoscere e discutere”. Purtroppo però io nel pubblico in sala di giovani ne ho visti proprio pochi. Questo film, dicevo all’inizio, interessa quasi esclusivamente quelli della mia generazione. Peccato. Immigrazione: Oim; no al trasferimento nei Cie dei migranti detenuti, indentificarli in carcere Adnkronos, 13 aprile 2012 Identificare già in carcere quei migranti che stanno scontando una condanna ed evitare così che vengano trasferiti nei Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) al solo fine di procedere a un’identificazione che poteva esser fatta prima. È la proposta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), intesa a evitare che i migranti che hanno già scontato un periodo di detenzione carceraria siano costretti a subire un inutile prolungamento della loro pena nei Cie - in particolare ora che il limite massimo di trattenimento è stato esteso a 18 mesi - solo per essere identificati. “Si stima che più della metà dei migranti trattenuti nei Cie provengano direttamente dalle carceri, dove però non vengono avviate le procedure di identificazione, delegate alle strutture dei Centri di Identificazione ed Espulsionè, afferma, in una nota, Josè Angel Oropeza, direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim. “Questa pratica - prosegue Oropeza - da una parte impone ai migranti che hanno terminato il loro periodo di detenzione in carcere un ulteriore lungo e inutile trattenimento a scopi puramente amministrativi, e dall’altra appesantisce i Cie, dove l’aumento del numero di persone detenute fa salire i costi di mantenimento delle strutture e rende al contempo sempre più difficoltosa la gestione dei centri stessi”. È da sottolineare - ricorda una nota - che una direttiva del 2007 del ministro dell’Interno Amato e del ministro della Giustizia Mastella aveva già previsto che le procedure di identificazione dei migranti detenuti in carcere fossero espletate all’interno delle stesse strutture penitenziarie, in modo da - come citava la direttiva stessa - evitare le criticità emerse in questi anni in relazione al trattenimento nei Cpt di questi soggette. Ultimamente - spiega Oropeza - per ottenere da parte dei consoli dei paesi di origine la documentazione necessaria all’identificazione, i migranti vengono spesso spostati tra vari centri, diventando oggetto di un inutile ‘rimpallò che li porta da una parte all’altra d’Italia e che spesso si rivela infruttuoso. In Italia sono attualmente attivi 13 Centri di identificazione ed espulsione siti in Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Immigrazione: Perduca (Radicali); uniformare pratiche per autorizzazione alle visite nei Cie Agi, 13 aprile 2012 Marco Perduca, co-vicepresidente del Senato del Partito Radicale, in una nota afferma: “Sebbene in prefettura e al Ministero degli interni sapessero da oltre tre settimane che una delegazione del Partito Radicale composta dal consigliere regionale della lista Bonino-Pannella Rocco Berardo, Servio Rovasio e dal sottoscritto, alla quale si sarebbero aggiunti i giornalisti Valentina Ascione e Andrea Billau pare impossibile avere l’autorizzazione all’ingresso al Centro Immigrazione ed Espulsione di Ponte Galeria di Roma. La visita era prevista per sabato mattina, giovedì sera ci è stato comunicato che in quella giornata al centro si svolgono le attività di identificazione colle rappresentanze consolari e che quindi neanche gli eletti potranno avere accesso perché il direttore del centro sarà impegnato in altro”. “Con la senatrice Poretti abbiamo quindi presentato un’interrogazione urgente alla Ministro degli interni per capire come mai esista una disparità di trattamento delle pratiche nelle varie prefetture italiane relativamente all’ingresso ai Cie. Infatti, non ci son stati problemi di preavviso ad altre prefetture né di controllo da parte del Ministero degli Interni delle generalità degli accompagnatori a Trapani, Bari, Bologna, Milano e Torino dove il 9 marzo scorso son potuto entrare anche con una troupe di Quarta Rete alla quale, a differenza di Roma, non era stata richiesta l’iscrizione all’albo dei giornalisti per la cronista e non concesso l’ingresso all’operatore - che a Roma avrebbe dovuto essere un mio accompagnatore”. Droghe: Lila; basta con gli attacchi alla riduzione del danno Comunicato stampa, 13 aprile 2012 A Trieste, Milano, Roma, i servizi vengono chiusi e sono oggetto di anacronistiche campagne di diffamazione. Con gravi rischi per la salute di tutti. Ancora una volta un progetto di riduzione del danno diventa in Italia oggetto della solita strumentale, miope, disinformata e ridicola accusa di incitazione all’uso di droga. A Trieste il prezioso lavoro dell’associazione Etnoblog, alla quale vanno la nostra solidarietà e il nostro sostegno, è finito nel mirino della Lega Nord. Che ha sferrato un attacco durissimo alle loro pratiche di prevenzione, sostenute da finanziamenti europei e assolutamente conformi a quanto si fa nel resto dell’Europa occidentale e alle indicazioni della letteratura e delle organizzazioni internazionali, Onu compresa. Ciò accade mentre la Regione annuncia la chiusura dei servizi di riduzione del danno a bassa soglia in Lombardia, regione che storicamente presenta un numero elevato di consumatori ed è la prima per tassi di incidenza e prevalenza, dove vivono con l’Hiv quasi 50mila persone, e dove vengono distribuite ogni anno 500mila siringhe sterili (e quasi altrettante ritirate usate, anche questa è prevenzione e tutela della salute pubblica, non solo delle persone che consumano sostanze). Nel Comune di Roma intanto si è già proceduto con la drastica riduzione dei centri a bassa soglia, più che dimezzati, con l’estromissione di associazioni e persone di lunga esperienza, che decenni fa hanno dato vita a importantissime esperienze territoriali, e la chiusura di strutture residenziali e di prima accoglienza, praticamente buttando la gente per strada. Fin dagli anni Ottanta, quando il mondo ha fatto la conoscenza dell’Hiv e dell’Aids, e dei danni provocati dalle sostanze, le associazioni si sono mosse perché fossero garantite cure e prevenzione, e per tutelare i diritti delle persone sieropositive, anche e soprattutto se tossicodipendenti. Trent’anni di esperienza che oggi rischia di scomparire, con buona pace della qualità dei servizi, della continuità dell’intervento, del consolidamento e della diffusione delle buone prassi faticosamente costruite. In nome di una logica puramente repressiva, la stessa della legge Fini-Giovanardi, che ha riempito le carceri di persone che fanno uso di droga. Questi attacchi alle politiche di riduzione del danno appaiono quanto mai fuori luogo vista la situazione epidemiologica italiana relativa all’Hiv, e le chiusure di progetti e interventi porteranno solo nuove infezioni, questo è quanto afferma la più importante agenzia europea su Hiv/Aids. È recentissimo il rapporto dell’Ecdc, l’European Center for Desease Prevention and Control, dove accanto a Grecia, Romania e Bulgaria l’Italia risulta essere il Paese in cui negli ultimi anni si registra un calo dell’attenzione e degli interventi di prevenzione, e in alcune regioni addirittura un aumento della prevalenza. La crisi economica come bene sappiamo acuisce il malessere sociale (in Grecia sul totale delle nuove infezioni da Hiv negli anni 2006/2010 il 2/3% era riconducibile a consumatori di sostanze per via iniettiva, oggi questa percentuale è balzata al 25%), proprio per questo i servizi sociali non devono essere tagliati, ma potenziati, secondo le indicazioni dettate dall’esperienza sul campo, dalla letteratura e dalle organizzazioni internazionali. Se così non fosse, il rischio è di ritrovarci, una volta usciti dalla crisi economica, in una società ormai incapace di tutelare i più deboli, e costretta perciò a pagare prezzi altissimi, anche in termini di costi sanitari, oltre che umani. Stati Uniti: l’estradizione dei “sospettati di terrorismo”… destinati al carcere a vita di Michele Paris www.altrenotizie.org, 13 aprile 2012 Qualche giorno fa, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha stabilito la legalità dell’estradizione verso gli Stati Uniti di cinque accusati di terrorismo da tempo detenuti in Gran Bretagna. L’importante sentenza, oltre a segnare un precedente nefasto e ad assestare un colpo gravissimo ai diritti democratici dei cittadini, per i sospettati in questione apre la strada alla detenzione a vita in un carcere di massima sicurezza in territorio americano. Tra i cinque accusati, il più famoso è Abu Hamza al-Masri, egiziano di nascita e già predicatore radicale a capo della famigerata moschea di Finsbury Park, a Londra, da dove prima dell’11 settembre sono passati numerosi estremisti islamici coinvolti in svariati attentati portati a termine o falliti. Nel 2006, Masri fu processato e condannato a sette anni di carcere in Gran Bretagna per aver incitato alla jihad nei suoi discorsi. Masri, il quale ha perso un occhio e l’avambraccio destro in un’esplosione in Afghanistan nel 1989, deve fronteggiare negli Usa undici capi d’imputazione in relazione a rapimenti di turisti in Yemen nel 1998, incitamento alla guerra santa in Afghanistan nel 2001 e per il tentativo di istituire un campo di addestramento per militanti a Bly, in Oregon, tra il 2000 e il 2001. Gli altri quattro, invece, non mai stati accusati formalmente né processati in Gran Bretagna ma rimangono incarcerati secondo le consuetudini pseudo-legali adottate anche in questo paese dopo l’11 settembre e il lancio della guerra al terrore. Tra di essi vi è Babar Ahmad, cittadino britannico detenuto da otto anni durante i quali è stato sottoposto a ripetuti abusi psicologici e sessuali. Arrestato per la prima volta nel 2003, Ahmad ricevette dal governo di Londra svariate decine di migliaia di sterline come riparazione per il trattamento subito, anche se è rimasto in carcere in seguito alla richiesta di estradizione dagli Stati Uniti. Assieme a Seyla Talha Ahsan, Babar Ahmad è accusato di aver gestito in Inghilterra dei siti web radicali legati ad Al-Qaeda tra il 1997 e il 2004. La giustificazione per la richiesta di estradizione americana è la registrazione in Connecticut dei server utilizzati. Gli ultimi due accusati - Adel Abdul Bary e Khaled al-Fawwaz, rispettivamente egiziano e saudita - sono detenuti senza processo da dodici anni e vennero arrestati per la loro presunta responsabilità negli attentati del 1998 contro le ambasciate americane di Dar es Salaam, in Tanzania, e di Nairobi, in Kenya, che fecero più di 200 morti. Il destino di un ultimo accusato, Haroon Rashid Aswat, resta ancora da stabilire, mentre gli altri cinque sui quali la Corte con sede a Strasburgo ha deciso martedì avranno tre mesi di tempo per presentare appello alla cosiddetta Grande Camera con ben poche probabilità di successo. Le richieste di estradizione dagli Stati Uniti sono state emesse in base ad un trattato con la Gran Bretagna siglato all’indomani dell’11 settembre. Questo trattato concede ampi poteri alle autorità giudiziarie britanniche sulla sorte dei sospettati e afferma che chiunque abbia commesso reati che infrangono la legge americana, anche se commessi in Gran Bretagna, possa essere estradato negli USA. Inoltre, gli Stati Uniti non sono tenuti a presentare prove delle accuse, bensì soltanto “ragionevoli sospetti”. Il caso di Masri e degli altri sospettati di terrorismo era finito davanti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo dopo che le autorità britanniche avevano dato l’ok alla loro estradizione. Per ottenere il parere positivo di queste ultime, da Washington erano stati costretti ad assicurare, come se fosse necessario per un paese civile, che gli accusati non sarebbero stati sottoposti a “rendition”, che avrebbero avuto processi in corti federali civili e non sarebbe stata chiesta per loro la pena capitale. Il trasferimento negli Stati Uniti era stato comunque bloccato nel luglio 2010 in attesa di un parere della stessa Corte, la quale in quell’occasione aveva espresso il timore che gli accusati avrebbero potuto andare incontro negli Usa a “punizioni inumane e degradanti”, proibite dalla legislazione europea. Tra le questioni che preoccupavano maggiormente la Corte vi erano l’eventualità di una detenzione prolungata in stato di isolamento e la prospettiva dell’ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola. Con la sentenza di martedì la stessa Corte ha invece stabilito che questi punti non rappresentano una violazione dei diritti umani degli accusati. L’isolamento, infatti, sarebbe “una modalità di vita normale” nelle prigioni di massima sicurezza come quella in Colorado che attende i cinque presunti terroristi. Inoltre, qui essi avrebbero a disposizione attività e servizi che “superano quelli offerti dalla maggior parte delle carceri europee”. La detenzione a vita e senza libertà sulla parola, secondo i membri della Corte, appare infine “proporzionata alla serietà delle accuse in questione”. Prima di essere verosimilmente destinati al carcere di Florence, in Colorado, tre degli accusati - Masri, Bary e Fawwaz - finiranno con ogni probabilità sotto custodia in un carcere di Manhattan, dove contro di loro sono aperti dei procedimenti presso la Corte federale del distretto meridionale di New York. Sulla decisione presa dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo hanno pesato le pressioni di molti politici britannici, il quali alla vigilia avevano sostenuto che un verdetto contro l’estradizione avrebbe danneggiato gravemente i rapporti tra Washington e Londra. Per altri, addirittura, un parere a favore agli accusati avrebbe dovuto far considerare al governo il ritiro della Gran Bretagna dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, la quale ha appunto istituito la Corte nel 1959. Tanto più che lo scorso gennaio la stessa Corte aveva respinto la richiesta di estradizione verso la nativa Giordania di Abu Qatada, un altro predicatore radicale accusato di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Nord Africa, detenuto senza processo in Gran Bretagna dal 2005 e rilasciato solo nel mese di febbraio. Il caso Qatada aveva sollevato le proteste del premier David Cameron e del presidente francese, Nicolas Sarkozy, entrambi molto critici nei confronti della Corte Europea. La nuova attitudine della Corte, confermata dalla sentenza di questa settimana, ha implicazioni che vanno ben al di là delle questioni relative al terrorismo. Solo qualche settimana fa, infatti, un’altra sentenza a dir poco discutibile aveva deliberato l’estradizione negli Usa di uno studente britannico, Richard ÒDwyer, accusato di aver violato la legge sul diritto d’autore con il suo sito che proponeva dei link ad altri siti che offrivano il download di programmi televisivi protetti da copyright. Soprattutto, la decisione di martedì sembra preannunciare la sorte del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, in attesa dell’imminente sentenza d’appello presso la Corte Suprema britannica circa la sua estradizione in Svezia - e da qui negli Stati Uniti - per fronteggiare accuse di stupro gonfiate e politicamente motivate. Se la Corte Suprema di Londra dovesse infatti negare il ricorso di Assange, la sua ultima speranza sarebbe appunto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.