Giustizia: carceri italiane come una cloaca, manca la volontà politica di risolvere problema di Roberto Saviano L’Espresso, 31 agosto 2012 “Che fare per interrompere subito il crimine in corso?”, vorrebbe domandarmelo la parlamentare radicale eletta nelle liste del Pd Rita Bernardini. E vorrebbe farlo mentre insieme a lei - è un invito che accetto volentieri - visitiamo una delle tante carceri italiane in cui le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Cara Rita Bernardini ciò che scrive mi è noto, anzi, per quanto io possa forse essere inviso in alcuni penitenziari per le mie origini campane, per aver “tradito” scrivendo Gomorra la mia situazione di reclusione mi porta ad avere una certa empatia di fondo per chi la propria libertà l’ha persa e magari è ancora in attesa di un giudizio. La consapevolezza che 66.500 detenuti e molta parte del personale penitenziario (ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita) vivano condizioni inumane, che il carcere non riesca a essere rieducazione e reinserimento ma solo privazione, punizione e tortura, mi porta, appena possibile, a dare voce alla nostra indignazione. Ho approfittato di qualunque spazio a mia disposizione. Ho parlato di carceri in recensioni, sui social network, in televisione e la reazione più comune è stata “Saviano, smetti di occuparti dei delinquenti, pensa alle persone per bene “. Scrivo di tossicodipendenza? Mi si risponde che farei meglio a parlare di disoccupazione che di drogati. Parlo di Laogai? Sbaglio, la Cina è lontana: dovrei pensare all’Italia. Mi permetto di dire che esiste una Israele che è anche altro rispetto alle politiche dei suoi governi? Che non è solo guerra, così come per venti lunghi anni l’Italia non è stata solo Berlusconi o mafie? Mi danno del sionista. Del tuttologo. “Parla di camorra, Saviano”. Ma la vita non è a compartimenti stagni. Non dovrebbero esistere temi di cui non ci si possa o debba occupare. Allora una cosa l’ho capita. Una cosa semplice e dolorosamente vera nella sua semplicità. Una cosa che non deve scoraggiare, ma solo darci la dimensione del problema, che è molto più grave di quanto non appaia. In Italia necessitiamo di una discarica dove confinare tutto ciò che la nostra democrazia crede sia il peggio che abbia prodotto e da cui costantemente desidera distogliere l’attenzione: il carcere, per intenderci, ci è utile. In carcere mettiamo tutti i problemi che non vogliamo affrontare e risolvere. Mettiamo tutta la “spazzatura indifferenziata” (delinquenti comuni, assassini, tossicodipendenti, piccoli e grandi spacciatori, già condannati o in massima parte in attesa di giudizio) con la quale non vogliamo fare i conti. “Spazzatura” che se non trattata finirà per travolgerci. E io, da campano, di emergenze rifiuti incistate, trascurate, sfruttate, ne so abbastanza. Oggi la Campania è una terra che arde di rifiuti tossici, con falde acquifere e mare inquinati. Ci sono paesi dai quali le persone, pur amandoli, se possono fuggono per non ammalarsi. Ecco cosa sta diventando l’Italia, una terra dalla quale è meglio fuggire, una terra in cui l’unica occupazione del momento sembra essere quella di ridisegnare con ogni mezzo lo scenario elettorale, le alleanze o meglio le accozzaglie, con cui dovremo fare i conti da qui a qualche mese. Giornalisti e celebri giuristi, costantemente impegnati in questo, restano indifferenti al decesso del nostro sistema giudiziario, vero problema per noi che in Italia ci viviamo e per chi in Italia potrebbe decidere di investire. Lo sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle e ancor più lo vivono sulla loro, le migliaia di detenuti e operatori carcerari abbandonati da tutti. Ma è evidente che i problemi non si vogliono risolti: le carceri rimarranno la cloaca che sono e senza informazione le persone continueranno a pensare e a dirmi che dovrei “piuttosto” occuparmi d’altro. La giustizia non si riformerà, perché è più utile così com’è, e all’occorrenza utilizzarla per ridisegnare gli orizzonti politici, sempre troppo angusti, del nostro Paese. Allora per una volta, questo lusso decido di prendermelo io e vi domando: ma perché non vi occupate “piuttosto” un può tutti di carceri? Per scoprire magari che risolvere il problema dei “rifiuti”, in fondo, potrebbe anche convenirvi. Giustizia: amnistia e pregiudizio di Valeria Centorame Notizie Radicali, 31 agosto 2012 Un’idea giusta nella quale ci si insedia, / al riparo delle contraddizioni, / come al riparo dal vento e dalla pioggia, / per guardare gli altri uomini scalpicciare nella melma, / non è più un’idea giusta, è un pregiudizio. Georges Bernanos. Aggiungerei che tenere sequestrati migliaia di individui, per la metà anche innocenti in attesa di giudizio, privandoli delle libertà fondamentali come quello alla salute ed alla stessa vita sfruttando i pregiudizi della “brava gente” è criminale. Secondo il sociologo Ilvo Diamanti, l’Italia si caratterizza per il rapporto tra i mezzi di informazione (specialmente la televisione) e i fatti di criminalità comune. Diamanti sottolinea come i media italiani puntino alla “serializzazione” e alla “drammatizzazione” dei casi criminali, mentre in altri paesi l’informazione è “puntuale” e “contestuale”. Ciò avviene soprattutto quando si tratta di casi che coinvolgono persone comuni, o che si sviluppano nell’ambito amicale e familiare, specificando l’intento voyeuristico da comunità ristretta. Ulteriori spinte caratteristiche dei media italiani potrebbero venire, sempre secondo Diamanti, dal rapporto con la politica, che tende a sfruttare i media per condizionare la percezione sociale dei fenomeni, e così spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, ad esempio, dalla disoccupazione alla criminalità. E se come sosteneva Charles-Louis de Montesquieu “Gli uomini, in fondo ragionevoli, riducono a regole perfino i loro pregiudizi”, sappiamo che purtroppo la politica ha fatto della cosiddetta sicurezza sociale una battaglia propagandistica incutendo paura negli italiani, grazie a media compiacenti e creando non pochi pregiudizi sul mondo carcerario nel suo insieme. Le nostre carceri lager, abitate solo dagli ultimi e da detenuti in attesa di giudizio provocano sofferenza e morte nell’indifferenza generale, e nell’inconsapevolezza della gente comune, che ignora la realtà. La realtà è che L’Italia è tra i paesi europei quello dove si espiano le pene quasi per intero e dove le evasioni sono in numero più basso ed è invece il Paese che ha ricevuto la “maglia nera” per la carcerazione preventiva inflitta, collocandosi al primo posto con oltre il 42% di detenuti in attesa di giudizio(di cui la metà sarà statisticamente dichiarata innocente). La realtà è che L’Italia è il Paese dove secondo il resoconto della situazione carceraria pre e post-indulto pubblicato dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, nei primi 5 mesi il tasso di recidiva (ossia la percentuale di persone che commettono un altro reato e tornano in carcere) è stato del solo l’11,9%, (rispetto a circa il 30% di chi sconta un fine pena). Ed invece nello stesso periodo facevano notizia mediaticamente i pochissimi che tornavano ad essere recidivi dando così la sgradevole “certezza” che il provvedimento fosse errato e creando insicurezza sociale. La realtà è che le nostre carceri fatiscenti sono ormai divenute veri e propri lager, dove illegalmente sono detenute oltre 20.000 persone in più rispetto alla capienza regolamentare, la realtà è che il nostro paese è pluricondannato per la lentezza dei nostri processi e per trattamenti disumani e degradanti. La realtà è che è purtroppo bastato che il sistema della politica si astenesse dall’utilizzare l’amnistia, per opportunità politiche e di consenso, che in un solo decennio dal 1990 ai primi anni del 2000, la popolazione detenuta raddoppiasse e il sistema processuale-penale pericolosamente si avvicinasse ad una stato di assoluta paralisi e che oggi l’amnistia è un provvedimento urgente, indispensabile, e di Giustizia. La realtà è che L’Italia è il Paese al penultimo posto per tasso di criminalità (numero di delitti per 100.000 abitanti) da analisi e da fonte Eurostat rispetto a Germania, Francia, Gran Bretagna Spagna ed ha invece il triste primato europeo per il tasso di sovraffollamento carcerario. In sostanza il problema non sono le poche carceri come ci si vuol fare credere con i vari piani di Governo, infruttuosi e propagandistici, non sono le poche carceri (fatiscenti che andrebbero comunque messe a norma), ma i troppi detenuti! Troppi detenuti ai quali non vengono garantiti i principali diritti umani, quello alla salute ed alla tutela della stessa vita e tutto ciò anche grazie ad un opinione pubblica vittima di falsi luoghi comuni, di troppi pregiudizi e di poca vera informazione. Giustizia: carceri e Stato di diritto, un processo contro lo scempio di legalità di Carlo Peis Notizie Radicali, 31 agosto 2012 Se dicessimo che la situazione delle carceri e della giustizia italiana è illegale, molti confermerebbero la veridicità dell’asserzione e nel contempo altri la valuterebbero come un mero giudizio: un’opinione come un’altra. Ed il considerare opinabile a prescindere dal merito, dalla forma e dal contesto, ogni dichiarazione determina quella persistente inerzia e irresponsabilità personale e collettiva che è sotto gli occhi di tutti. Ed è proprio questo che comporta quell’avvilente situazione di irreale paradosso tra la realtà e il suo giudizio. Persino le parole di “impellente urgenza” usate in una cerimonia ufficiale dal Presidente della Repubblica, nel pieno assolvimento delle sue funzioni, riferite alla situazione intollerabile “sul piano costituzionale e civile” dello stato della Giustizia e delle carceri, hanno subito una triste sorte: parole al vento. Ecco perché non è sbagliato soffermarsi sul dato oggettivo dei fatti e sul conseguente giusto significato da attribuire alle parole, affinché sia possibile, provando ad indicare una via, il ripristino di quella corrispondenza biunivoca dei fatti alle parole. Iniziamo col parlare di alcuni fatti. Per le carceri l’illegalità è certificata, oltre che dalla constatazione ictu oculi del sovraffollamento, delle condizioni detentive e delle strutture fatiscenti, dalle condanne che l’Italia subisce dai tribunali europei per le numerose violazioni dei diritti umani. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo a proposito della situazione italiana parla di “trattamento inumano e degradante” dei detenuti in carceri sovraffollate e non attrezzate e di un’Italia che con “volontaria inerzia” elude i suoi “obblighi” e così, invece di trovare una soluzione al problema carcerario ed evitare le condanne, a causa della reiterata “mancata diligenza” determina le condizioni di un numero sempre maggiore di ricorsi. Un altro agghiacciante dato della situazione carceraria viene fornito dell’Osservatorio permanente delle morti in carcere. Quest’anno sono 36 i detenuti che si sono tolti la vita. Dal 2000 a oggi sono 712 i detenuti che si sono tolti la vita. Il dato è di luglio e ciò vuol dire un probabile amaro aggiornamento. Per la giustizia italiana sussiste un’identica sequela negativa. Questi i fatti: ci sono circa 9 milioni di processi penali e 5 milioni di civili pendenti; un cittadino, in media, deve aspettare nove anni per una sentenza definitiva, ciò comporta 170 mila prescrizioni all’anno. Questa situazione genera la negazione di qualsivoglia giustizia nei confronti di tutte le persone coinvolte nel processo e in generale un danno sociale che si sostanzia nell’assenza di certezza del diritto, nella privazione di sicurezza sociale oltre al danno economico. Se questi sono i fatti soffermiamoci ora sulle parole. Lo Stato di diritto è violato nella sua stessa legalità, ripetono i radicali e altre isolate voci. La legalità costituzionale è tradita e bisogna “interrompere la condizione di flagranza criminale che, a partire dalla negazione del diritto ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli per arrivare alla condizione strutturale di tortura inferta nelle carceri, colloca lo Stato italiano al di fuori della Costituzione, del diritto comunitario e internazionale” sottolinea Marco Pannella. A questo punto sarebbe giusto ed ecco una via, collegando i fatti alle parole, che la magistratura, nell’assolvimento della sua funzione, procedesse alla verifica della corrispondenza al vero o no della situazione denunciata. In questo caso l’accertamento sarebbe davvero semplice trattandosi di una permanente condizione tanto di fatto quanto palese ed oggettivamente valutabile. Di conseguenza se le parole utilizzate fossero riconosciute “vere”, in un contesto come il nostro di legale obbligatorietà dell’azione penale, la flagranza di reato (indirettamente già riconosciuta dalla Corte di Strasburgo) dovrebbe essere perseguita individuando chi ne debba risponderne personalmente. Tutto ciò appare logico, opportuno se non obbligato, a meno ché non si voglia lasciare ad un generale giudizio politico la responsabilità della sistematica violazione dei più elementari diritti umani senza che si riesca sia a porre un freno sia ad attribuire una specifica responsabilità, se non quella indistinta nei confronti dello Stato. Invertire questa realtà di ignoti giustiziati, offesi e dimenticati nelle patrie galere e di processi che durano anni nell’indifferenza generale talvolta spezzata da quella preziosa solidarietà di alcuni che da prova di una profonda umanità e impegno civile che non si vuole arrendere, dovrebbe essere un obbligato morale e un dovere civile. Ma come? In uno Stato che si proclama e vuole essere di diritto, basterebbe proporre un’autodenuncia e chiedere così che venga statuito nelle aule giudiziarie la veridicità dei fatti e delle affermazioni su riportate. La magistratura è formalmente investita del compito di garantire ed accertare il pieno rispetto della legalità. Non sarebbe inopportuno, allora, un giusto processo contro questo scempio di legalità che stabilisca la sussistenza o meno di una consapevole volontaria omissione del rispetto dei diritti umanitari da parte di chi agisce per conto e in nome dello Stato. Di sicuro, dal processo, da quel processo, in attesa di quella risposta politica che latita da decenni, emergerebbero tutte quelle incongruenze normative o di vuoto legislativo che di fatto fanno strage di legalità. In ogni caso sarà comunque un passo avanti: dai fatti alle parole, dal valore delle parole ai fatti. Giustizia: intervista al ministro Paola Severino; ecco come ridurrò il sovraffollamento di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 31 agosto 2012 Lei ha effettuato visite in diversi istituti penitenziari. Cosa ha visto? Abissi di degrado e disperazione, ma anche picchi di solidarietà ed efficienza, come a Marassi e San Vittore: celle strapiene, ma anche la lavorazione del pane nel primo e la cucitura di toghe per magistrati e avvocati nel secondo. Mi sono sentita rassicurata a Bollate e a Rieti, dove i detenuti hanno l’opportunità di lavorare e di imparare mestieri come la riparazione di elettrodomestici o di telefoni cellulari. Quali sono i numeri delle presenze? Nei 206 istituti penitenziari italiani, al 30 di agosto, ci sono 66.345 detenuti, il 47% in attesa di giudizio definitivo, a fronte di 45.566 posti regolamentari. A novembre, quando mi sono insediata, erano quasi 69mila: grazie alle prime misure, sono scesi di 3mila unità. Anche i sindacati della polizia penitenziaria lamentano carenza di organici e condizioni difficili di lavoro. La spending review non tocca carceri e agenti, ma resta aperta la questione del turn over. Ho assunto un impegno coi sindacati: rivedere la pianta organica per evitare scoperture, distacchi immotivati e ingiustizie nella distribuzione degli incarichi. Ci sarà mai un piano vero di edilizia carceraria? Anche a fronte di minori stanziamenti, il piano di edilizia affidato al Commissario straordinario Angelo Sinesio va avanti. Prevede la realizzazione di 11.573 nuovi posti detentivi con 446,8 milioni di euro rispetto ai 9.150 posti iniziali per 675 milioni . Ci saranno dunque più posti, tra nuove carceri e nuovi padiglioni, con un risparmio di 228 milioni di euro. Con le risorse ordinarie, inoltre abbiamo già realizzato 3150 nuovi posti ed entro l’anno si prevede la consegna di altri 1.677. A fine settembre dovrebbe essere calendarizzato in aula il ddl sulle misure alternative. Quali sono i suoi cardini? C’è la messa alla prova e la reclusione domiciliare, come alternativa al carcere. Abbiamo rinunciato ad introdurre nel ddl la non punibilità per tenuità del fatto in quanto un analogo testo, di iniziativa parlamentare, era già in discussione alla Camera. Spero vengano approvati dal Parlamento entro fine legislatura. Inoltre, tengo a che la legge Smuraglia sul lavoro carcerario sia rifinanziata. Ma ho anche fatto presente, in Cdm, che si dovrà colmare un vuoto legislativo: i familiari delle vittime devono essere interpellati, nel caso in cui un detenuto ammesso al lavoro esterno vada a svolgere la sua attività nei pressi dei luoghi dei delitti. Si riferisce al caso Vallanzasca? Anche. Ho chiesto gli atti, appurando che il giudice di sorveglianza avesse vagliato la condotta, i precedenti lavorativi a Milano svolti senza alcun incidente, il lungo percorso detentivo, con tangibili segni di ravvedimento. Ma credo anche all’esistenza di un profilo di opportunità che suggerirebbe di pensare ai familiari delle vittime. Ancora un suicidio, stavolta a Udine... Ogni volta provo impotenza e frustrazione. Il Dap ha contato 63 episodi nel 2010, altrettanti nel 2011, 36 nei primi otto mesi del 2012. È stata riattivata l’unità di monitoraggio e si sta provvedendo alla redistribuzione dei detenuti a livello regionale, per avvicinarli alle famiglie, sostegno essenziale: esistono iniziative valide, come il pic-nic della domenica con i familiari o i “giardini degli incontri”, per attenuare il peso delle sbarre. Nei penitenziari, resta il dramma della tossicodipendenza... È allo studio del Dap, su proposta del Dipartimento delle politiche antidroga che fa capo al ministro Riccardi, la possibilità di far scontare, ai condannati a pene minime che abbiano problemi di tossicodipendenza, il residuo di pena in strutture di cura e di recupero, per agevolare il loro reinserimento nella vita sociale. Nelle carceri ci sono purtroppo 60 mamme con 70 bambini di età inferiore a tre anni. Cosa si può fare? La reclusione deve essere una extrema ratio, a maggior ragione quando si tratta di mamme e bambini, che non dovrebbero mai conoscere l’esistenza delle sbarre. Ci sono luoghi, come l’Istituto a custodia attenuata (Icam) di Milano, dove le agenti non indossano la divisa e si respira un’atmosfera di famiglia. Esempi che andrebbero moltiplicati... Giustizia: la Severino ri-presenta il Piano carceri, poca fiducia tra i giuristi www.leggioggi.it, 31 agosto 2012 Il ministro della Giustizia: “5mila nuovi posti nelle carceri entro fine 2012”. In arrivo Ddl sulle misure alternative. Giuristi scettici. “Nei 206 istituti penitenziari italiani, al 30 di agosto ci sono 66.345 detenuti, il 47% in attesa di giudizio definitivo, a fronte di 45.566 posti regolamentari”. È questa la fotografia del sistema carcerario nazionale, scattata dal ministro della Giustizia Paola Severino in un’intervista concessa al quotidiano Avvenire. E su questo sfondo, il Guardasigilli ha elencato le prossime modifiche che investiranno i penitenziari italiani. In primo luogo, conferma la Severino, arriverà il disegno di legge sulle misure alternative al carcere, già anticipate dal ministro nel suo recente tour alle case circondariali. Tra gli obiettivi del testo, figureranno “messa alla prova e reclusione domiciliare, e tengo - ha spiegato - a che la legge Smuraglia sul lavoro carcerario sia rifinanziata. Ma ho anche fatto presente in Cdm che i familiari delle vittime devono essere interpellati, nel caso in cui un detenuto ammesso al lavoro esterno vada a svolgere la sua attività nei pressi dei luoghi dei delitti”. Altro punto sul quale il Guardasigilli ha confermato attenzione, è quello dell’iter per il nuovo piano di edilizia carceraria, che, ottimizzato secondo gli aggiustamenti del governo Monti, porterà alla “realizzazione di 11.573 nuovi posti detentivi con 446,8 milioni di euro rispetto ai 9150 posti iniziali per 675 milioni. Ci saranno dunque più posti, con un risparmio di 228 milioni”. L’inquilina di via Arenula ha poi confermato come, in tutto il 2012, i nuovi posti saranno circa 5mila. Ultimo punto toccato dal ministro è quello delle situazioni umane degradanti condivise da molti detenuti, alle prese con problemi depressivi o di tossicodipendenza che spesso sfociano in suicidi, da sempre piaga congenita al sistema carcerario. Le statistiche dicono che i decessi in carcere sono stati oltre 100 nell’anno in corso, con i suicidi a quota 38. “Stiamo provvedendo ad avvicinare i detenuti alle famiglie - ha promesso il ministro - sostegno essenziale. Esistono iniziative valide come il pic-nic della domenica o i giardini degli incontri”. Tra i giuristi, però, regna lo scetticismo sul “piano carceri” che il governo ha in mente di sottoporre al Parlamento appena questo tornerà operativo a pieno regime. Proprio su Leggioggi.it, l’articolo recentemente firmato da Angela Bruno ha dato vita a un mini convegno “virtuale”, dove professori e professionisti si sono interrogati sullo stato di salute del sistema carcerario italiano. Nel suo post, l’avvocato cita un rapporto dell’Associazione Antigone che chiede come “è un uomo chi è costretto a vivere in una cella per 20 ore al giorno, senza acqua calda, senza riscaldamento, senza luce? È un uomo chi, a due giorni dalla scarcerazione, decide di togliersi la vita perché nessuno gli parla di futuro?”. Interrogativi pregnanti che hanno generato un dibattito acceso, a testimonianza di quanto l’argomento delle carceri e dell’esercizio della pena sia sentito tra gli addetti ai lavori. Primo tra tutti, il professore Domenico Corradini H. Broussard ha notato, in diversi interventi, l’eccessiva leggerezza in fatto di emanazione di ordini di custodia, con la conseguenza che, spesso un po’ troppo frettolosamente “quelle persone sbattute in carcere, non vi sono custodite né con diligenza né con perizia”. In riferimento all’alto tasso di suicidi, il professore nota che “se la Severino non è in grado di risolvere “l’emergenza carceraria”, e finora non è stata in grado come testimoniano i recenti suicidi a catena di carcerati e guardie carcerarie, è bene che faccia “un passo indietro”. Giustizia: Sappe; ok a depenalizzazione e messa in prova, urgente incontro con ministro Ansa, 31 agosto 2012 In relazione alla gravissima situazione di emergenza delle carceri italiane e all’intervista rilasciata dalla Ministro Guardasigilli su Avvenire di oggi, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria – Sappe - prima e più rappresentativa organizzazione del Corpo, rinnova la richiesta di un incontro alla Ministro della Giustizia Paolo Severino. Il segretario generale del Sappe Donato Capece torna a manifestare la grande preoccupazione del sindacato per la situazione delle carceri del Paese, che oggi vede 66mila detenuti presenti a fronte di 42mila posti letto e 7mila agenti di Polizia Penitenziaria in meno in organico. “Abbiamo apprezzato le parole della Guardasigilli sulla prossima calendarizzazione in Parlamento del provvedimento sulle criticità penitenziarie” dichiara il Segretario Generale Sappe Donato Capece. “Il Sappe da tempo ha chiesto proprio alla Ministro della Giustizia di sollecitare l’attenzione del Parlamento su ogni utile soluzione legislativa che possa decongestionare concretamente le carceri, a cominciare proprio dalla calendarizzazione del provvedimento della Ministro sulle depenalizzazioni. Sul tema, il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è in piena sintonia con la Ministro sulla necessità di ricorrere maggiormente alle misure alternative alla detenzione per quei reati di minore allarme sociale. Riteniamo sia importante incontrare la Ministro della Giustizia vista la recente legge sulla revisione di spesa che potrebbe piegare le gambe al Corpo: è necessario garantire adeguati stanziamenti di denaro per la funzionalità operativa della Polizia penitenziaria, che invece si è visto congelare le assunzioni per i prossimi anni e ridurre i soldi per l’acquisto di vestiario e mezzi. Il Sappe, primo e più rappresentativo sindacato della Polizia, torna peraltro ad esternare le proprie preoccupazioni per le politiche gestionali dell’Amministrazione Penitenziaria che, a nostro avviso, stanno delegittimando e depotenziando oltre misura il ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come confermano il suicidio di un detenuto ieri a Udine e l’evasione sventata di altro ristretto ieri a Firenze. A nostro avviso, il Capo del Dap Giovanni Tamburino sottovaluta l’aspetto della sicurezza e dell’ordine pubblico a favore di una indiscriminata politica trattamentale che allo stato attuale, con queste strutture e questi numeri allarmanti, è semplicemente pura utopia”. Giustizia: Ugl; le dichiarazioni della Severino non ci rassicurano, servirebbero 9mila agenti Italpress, 31 agosto 2012 “Apprezziamo la volontà espressa dal ministro della Giustizia nel ricercare soluzioni percorribili per l’emergenza carceri, ma le sue dichiarazioni in merito non ci rassicurano affatto. Al contrario, ci spingono a chiedere con rinnovata forza al governo di rompere al più presto gli indugi per un serio rinnovamento del sistema penitenziario”. Così il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta l’intervista del ministro Severino ad Avvenire, spiegando che “è ineludibile che talune misure debbano essere adottate in deroga al rigore imposto dai tagli alla spesa, ma non è plausibile l’affermazione che la spending review non tocca carceri e agenti, dal momento che la manutenzione degli istituti è già da tempo deficitaria rispetto alle normali necessità e un’ulteriore compressione della forza in servizio, come previsto con il taglio al turn over, sarebbe il colpo di grazia per un sistema che già fa fatica a far fronte al sovraffollamento e a contenere i gesti estremi che si verificano con costanza e drammaticità, come l’ultimo suicidio accaduto ad Udine”. “Inoltre - continua il sindacalista - se da un lato si annuncia l’apertura di 11.573 nuovi posti detentivi, dall’altro non si dice nulla sul necessario adeguamento dell’organico, già sotto di ben 7 mila unità, e non rispetto all’attuale presenza detentiva (66.000 detenuti), bensì rispetto ad una capienza regolamentare di 45.000 ristretti”. “In realtà - sottolinea Moretti - anche la stessa Amministrazione penitenziaria ha accertato che occorrerebbero almeno altre 9 mila unità per l’apertura delle nuove sedi e non bastano provvedimenti surrettizi, come una riduzione della vigilanza attiva a beneficio di un controllo remoto, perché dovrebbe realizzarsi con un adeguamento della tecnologia ancora lontano dal realizzarsi”. “Chiediamo al governo - conclude il sindacalista - che non si dimentichino il ruolo e la competenza professionale della Polizia Penitenziaria, fortemente a rischio qualora si continuino ad aumentare i carichi di lavoro che già gravano sulle donne e gli uomini appartenenti a questa istituzione dello Stato”. Giustizia: Clemenza e Dignità; detenuti non sono numeri, far conoscere le storie dei suicidi Ristretti Orizzonti, 31 agosto 2012 Con il recente e triste accadimento di Udine, salgono a 36 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Lo dichiara in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. “Il 36, - prosegue - però è semplicemente un numero, come potrebbe essere anche il 114. I numeri, a cui costantemente si fa ricorso nella tragedia penitenziaria, - rileva - descrivono precisamente una quantità, ma gli stessi numeri da soli non sono in grado di descrivere altrettanto esaustivamente la qualità delle cose che sono assoggettate al calcolo. È necessario, quindi, - spiega - al di là del giudizio di disapprovazione sui comportamenti pregressi, aggiungere sempre che stiamo trattando di persone, di uomini e donne in carne ed ossa, che evidentemente avevano anche loro un volto, una storia personale, degli affetti, una fede o comunque delle speranze. Pertanto, - sottolinea - se non altro per il rispetto che meritano tutti i defunti, sarebbe cosa civile uscire finalmente dalla logica del detenuto ignoto. In sostanza, - conclude - sarebbe una bella manifestazione di progresso civile e sarebbe cosa molto utile per ricordare alla gente che stiamo vertendo di esseri umani, se i media, anziché limitarsi a descrivere la tragedia carceraria mediante l’aritmetica dei decessi, iniziassero a fare giornalismo d’inchiesta per far conoscere al pubblico i volti e soprattutto le storie di queste persone che non ci sono più”. Cagliari: vertenza per cantiere nuovo carcere; pressing Provincia e Sindacati su Governo Ansa, 31 agosto 2012 Provincia di Cagliari e sindacati hanno chiesto un incontro urgente al presidente del Consiglio e ai ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti e della Giustizia per trovare una soluzione alle problematiche dei lavoratori che stanno portando avanti la costruzione del nuovo carcere di Uta. La richiesta, sottoscritta dalla vicepresidente e dall’assessore alle Politiche del lavoro della Provincia, Angela Quaquero e Lorena Cordeddu, e dai sindacalisti Enrico Cordeddu (Fillea Cgil), Gianluca Cotza (Filca Cisl) e Gianni Olla (Feneal Uil), rafforza la precedente richiesta di incontro inviata all’attenzione dei ministri in una nota congiunta Provincia-sindacati lo scorso 4 giugno. “Dal mese di gennaio, a seguito della sollecitazione da parte delle organizzazioni sindacali, questa Provincia, nell’ambito delle proprie competenze - spiegano Quaquero e Cordeddu - ha attivato il tavolo di mediazione in relazione alle problematiche emerse nella gestione dell’appalto che riguardano i circa 50 lavoratori, impegnati nella costruzione del carcere, e le loro gravi difficoltà economiche. Si tratta di una vertenza lunga e difficile, a tutt’oggi non risolta, nonostante gli sforzi intrapresi dalle parti coinvolte. Ci sono questioni drammaticamente irrisolte, relative ad alcune delle legittime spettanze dovute ai lavoratori che, pur non ricevendo lo stipendio da giugno e senza contributi versati da due anni, con inaudito senso di responsabilità hanno permesso che i lavori dell’opera non si fermassero”. “Congiuntamente ai sindacati - concludono - richiediamo con forza un incontro urgente, per illustrare la situazione e chiedere un intervento immediato a garanzia dei diritti dei lavoratori”. Milano: Luigi Pagano; il cardinale Martini e la visita a San Vittore… gesto rivoluzionario Redattore Sociale, 31 agosto 2012 Luigi Pagano, oggi vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato direttore dell’istituto di Milano dove l’arcivescovo si recò per la sua prima visita pastorale nel 1981. Qui volle incontrare anche i terroristi “Gli dobbiamo molto, per la sua presenza nella carceri e per il suo pensiero sulla pena, il perdono e la riconciliazione”: Luigi Pagano, oggi vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato dal 1989 al 2004 il direttore del carcere di San Vittore, il più antico e affollato di Milano. E fu proprio nel carcere di San Vittore che il cardinale Carlo Maria Martini fece la sua prima visita pastorale, nel 1981: visitò le celle e i cortili per quattro giorni, parlò con i detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria e conobbe anche i terroristi rinchiusi nella sezione di massima sicurezza. “Volle incontrarli, nel cortile dell’ora d’aria -ricorda Luigi Pagano -. Parlò con loro. Un gesto rivoluzionario allora e qualche anno dopo i terroristi consegnarono le armi al cardinale Martini”. Il Cardinale Martini ogni Natale ha celebrato la Messa nel carcere di San Vittore. “Esprimeva così la sua vicinanza ai detenuti e ai loro parenti e a tutti coloro che nel carcere ci lavorano -aggiunge Luigi Pagano-: ripeteva che San Vittore è il cuore di Milano. Non dobbiamo poi dimenticare le sue riflessioni sulla pena. Più volte ha sottolineato che il carcere doveva essere l’extrema ratio, che qualsiasi reato un detenuto avesse commesso doveva avere la possibilità di compiere un percorso di riabilitazione e di reinserimento nella società”. L’ex direttore del carcere milanese ricorda in particolare la visita a San Vittore del 9 luglio 2000, in occasione del Giubileo delle carceri. “Il Giubileo significa per ciascuno di voi anche la presa di coscienza della propria dignità -disse il cardinale-, così da poter dire: io sono importante, sono figlio di Dio, figlia di Dio, ho diritto al rispetto, all’amore, all’aiuto, alla solidarietà come tutti gli altri uomini e donne della terra”. “Ad un certo punto entrò dalla finestra una colomba bianca - racconta Luigi Pagano. C’era un silenzio assoluto perché tutti ascoltavano Martini. Videro la colomba e ci fu un applauso fragoroso”. Teramo: le condizioni dei detenuti raccontate dai Radicali in visita al carcere Il Centro, 31 agosto 2012 In collegamento da un altro mondo (quello del carcere di Castrogno) storie e problemi degli esseri umani che lì dentro vivono costretti (per scontare una pena o per lavorare). “M.D.G., è ristretto nella cella 44. È un tossicodipendente che piange e riferisce di aver tentato il suicidio: “sto male, ho ansia, il Ser.T. non mi segue; ho 4 figli piccoli: due gemelli di 4 anni, uno di 3 anni e l’ultimo ha un anno e mezzo; sono stato arrestato per un vecchio reato risalente al 2002, prima lavoravo come operatore ecologico, adesso ho finito, sono povero, ho cercato di togliermi la vita”; S.A. ha 71 anni: cardiopatico, sdentato non mangia più perché quello che gli passano è di natura solida. B.C. due anni, è nato in carcere, figlio della Sventura che ha gettato troppo presto sua madre in una cella”. Sono le storie dei detenuti del carcere di Castrogno, a Teramo, contenute nell’interrogazione che i Radicali hanno presentato al Ministro della Salute ed a quello della Giustizia. I politici Marco Pannella, Riccardo Chiavaroli, consigliere regionale della Regione Abruzzo, i militanti radicali Rosa Quasibene, Orazio Papili, Renato Ciminà, Paolo Francesco Palombo e Gianmarco Ciccarelli hanno fatto visita il 15 agosto scorso all’istituto penitenziario teramano costruito negli anni 70. 4 suicidi quest’anno 4 suicidi registrati, tossicodipendenti, malati psichiatrici; nella stessa cella detenuti che scontano una condanna definitiva e detenuti in attesa di giudizio, senza alcuna separazione di sorta. E ancora: sovraffollamento, copertura psicologica insufficiente, si lavora e non si lavora, si guadagna e non si guadagna, personale penitenziario numericamente inadeguato. Forse pure Dio si è dimenticato dei carcerati di Castrogno? Dov’è finito il parroco per la messa domenicale? Si sente rimbombare questa domanda nei corridoi. I detenuti presenti sono 418 (376 uomini e 42 donne), raccontano gli onorevoli nell’interrogazione, a fronte di una capienza regolamentare di 231 posti. 236 detenuti scontano una condanna definitiva, 62 sono in attesa di primo giudizio, 37 appellanti, 30 ricorrenti, 34 con posizione giuridica mista con definitivo, 18 con posizione giuridica mista senza definitivo; i detenuti stranieri sono 82, così suddivisi: 23 provenienti dalla Romania, 12 dall’Albania, 11 dal Marocco, 10 dalla Nigeria, 8 dalla Tunisia, 4 dall’Algeria, 2 da Slovacchia e Macedonia, 1 detenuto proveniente da Libia, Egitto, Sierra Leone, Somalia, Ruanda, Burkina Faso, Bolivia, Georgia, Croazia, Svizzera. Gli agenti assegnati all’istituto sono 180 ma le unità effettivamente in servizio sono soltanto 160 (a causa di distacchi e malattie di lungo corso) e questa carenza si ripercuote negativamente sulla vita dei detenuti e sulla vita degli stessi agenti, costretti a operare in condizioni di stress per fare fronte a un notevole carico di lavoro; 10 nuovi agenti, secondo quanto riferito, prenderanno servizio dal prossimo autunno, ma l’incremento effettivo sarà di sole 4 unità, perché 6 delle 10 unità previste sono già attualmente distaccate presso il carcere di Castrogno. Di tossicodipendenti iscritti al Ser.T di Teramo ce ne sono 90 lì dentro; 80 detenuti sono affetti da patologie di tipo psichiatrico e circa 250 manifestano disturbi di personalità e forme di disagio psicologico; all’interno dell’istituto operano 6 medici (che assicurano una copertura h24), 1 psichiatra per 18 ore settimanali, 9 infermieri più 1 caposala (ciascuno impegnato per 36 ore settimanali, assicurano una copertura dalle 7.00 alle 22.00); l’area sanitaria, secondo quanto riferito, ha effettuato all’interno 6044 visite dall’inizio dell’anno; gli educatori effettivi sono 4, atteso che 2 dei 6 educatori assegnati al carcere di Castrogno sono distaccati in un altro istituto; l’assistenza psicologica è assicurata soltanto da 2 psicologi volontari. Paga da fame, nessuna formazione A Castrogno lavora solo il 10 per cento dei detenuti, a rotazione: si tratta esclusivamente di lavori domestici alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre non sono presenti lavorazioni interne o collaborazioni con cooperative o imprese esterne. E la paghe sono molto irrisorie, si lamentano in tanti. Un detenuto con la mansione di spesino dice di aver guadagnato nel mese di maggio 74 euro, ridotti a 41 euro per le varie trattenute (fra le quali 13 euro vincolati per affrontare eventuali emergenze); un altro detenuto riferisce di guadagnare 19 € ogni 10 giorni. Tre detenuti in una cella da uno Celle per ospitare un detenuto ne accolgono due, al massimo tre. Sono tutte della stessa dimensione (circa 9 mq). I carcerati trascorrono 20 ore al giorno chiusi lì dentro; tutte le celle sono sprovviste di doccia; l’erogazione di acqua è razionata, con una sospensione di 2 ore e mezzo al mattino (dalle 8.30 alle 11.00) e di 3 ore nel pomeriggio (dalle 14.00 alle 17.00); l’accesso alla doccia comune è consentito ogni giorno, tranne la domenica e i giorni festivi; in tutte le celle il letto a castello è fissato al pavimento in cemento; la condizione dei materassini di gommapiuma su cui sono costretti a dormire i detenuti è pessima, riferiscono i politici in visita. Alle finestre sono applicate, oltre alle normali sbarre, reti a maglia stretta che ostacolano la visuale esterna e limitano la circolazione di aria e l’ingresso di luce naturale. Pochi mezzi per raggiungere il carcere C’è poi il problema collegamenti. La posizione del penitenziario che ha una dislocazione extraurbana e collinare rende difficile il collegamento con i mezzi del trasporto pubblico; e questo scoraggia visitatori e parenti nel far visita ai propri cari. Che cosa intende fare il governo per rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto del detenuto con i propri familiari e i figli? È una delle domande contenute nell’interrogazione. E ancora: “cosa farà per garantire istruzione, formazione ai reclusi? Quali iniziative ha intrapreso a seguito dei quattro suicidi che si sono verificati quest’anno nel carcere di Teramo? Perché non rende effettiva la possibilità per i detenuti stranieri che lo richiedano di scontare gli ultimi due anni di pena nel Paese d’origine?”. Chi risponderà alle persone detenute a Castrogno? Sassari: Sdr; 4 neonati in cella al “San Sebastiano”, segnalazione al ministro Severino Ristretti Orizzonti, 31 agosto 2012 “La presenza nel carcere di San Sebastiano di 4 bimbi in tenerissima età, uno di appena una settimana di vita, è un fatto gravissimo, vergognoso per il nostro Paese”. Lo ha scritto al Ministro della Giustizia Paola Severino, la presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” Maria Grazia Caligaris, avendo appreso che sono reclusi nella Casa Circondariale sassarese in un’unica cella “nido” 4 neonati e le rispettive madri. “Le segnaliamo la situazione - sottolinea Caligaris - perché riteniamo che l’Istituto di Pena di Sassari, per le caratteristiche strutturali e igienico-sanitarie, a Lei ben note, non sia il luogo ideale per far crescere delle creature così piccole. Siamo convinti inoltre che non sussistano elementi tali da far ritenere queste madri talmente pericolose da non poter trovare sistemazione in un’altra struttura protetta in grado di offrire a bambini innocenti esperienze di vita meno degradanti e pericolose per la loro salute fisica e psichica. Com’è noto la permanenza in carcere provoca, anche in bimbi piccolissimi, dei traumi che si manifestano in momenti successivi. L’idea che gli eventi registratisi nei primi giorni e anni di vita non restino nella memoria è ormai stata abbondantemente superata dagli studi di neuropsichiatria infantile e seppure vi fossero dubbi resta il fatto che la coabitazione in ambienti igienicamente non idonei è un fatto gravissimo, vergognoso per il nostro Paese”. Sulmona (Aq): Sindacati e detenuti condividono protesta contro illegalità carceri Ansa, 31 agosto 2012 “Battitura delle sbarre” ieri nel carcere di Sulmona. Dalle 19.30 alle 20, tutti i detenuti hanno battuto scodelle e posate contro le inferriate delle celle per protestare contro “lo stato di illegalità nel quale vivono le istituzioni italiane e per chiedere l’amnistia”. I reclusi della struttura di Sulmona hanno così risposto all’invito di Marco Pannella e dei radicali italiani. Una protesta condivisa dalla Uil penitenziari: “Seppur non condividendone i mezzi, atteso che la battitura delle inferriate è un atto che cozza contro quelli che sono i parametri in tema di ordine e disciplina - afferma il vice segretario regionale Mauro Nardella - la Uil penitenziari Abruzzo plaude all’iniziativa intrapresa da Marco Pannella e diretta ancora una volta, e semmai ce ne fosse ancora bisogno, a sensibilizzare la classe politica sul tema carcere”. “La Uil Penitenziari, le carceri abruzzesi e tutti coloro i quali vi hanno a che fare, considerata la sofferenza nella quale versano gli istituti soprattutto di Teramo, Sulmona, Lanciano e Vasto - conclude Nardella - si augura che il messaggio di Pannella non cada ancora una volta nel dimenticatoio ed invita anche gli altri partiti a farsi carico della situazione per ottenere una maggior vivibilità delle carceri abruzzesi”. Imperia: disabile affetto da meningite virale in carcere per il furto di un paio di pantaloni Secolo XIX, 31 agosto 2012 La solidarietà arriva da dietro le sbarre. Un malato di meningoencefalite virale associata ad una patologia agli arti che gli impedisce di camminare e ad una serie di complicazioni, in carcere dallo scorso maggio, ha trovato infatti l’aiuto dei compagni del penitenziario di Via Don Abbo. Lo stesso istituto dove in questo periodo è rinchiuso Francesco Bellavista Caltagirone finito nei guai nell’ambito dell’inchiesta sul costruendo porto turistico del capoluogo ponentino. I compagni di detenzione del giovane malato sono arrivati al punto di scrivere per lui una lettera-appello ricca di umanità e di altruismo. F.P.. 37 anni, originario di Sassari, si trova a combattere contro due situazioni completamente diverse: da una parte deve fare i conti con la giustizia che lo accusa per il furto di un paio di pantaloni a Como (è per questo che è finito in prigione), dall’altra deve prendere a pugni malattia e burocrazia. Ma se in Tribunale può contare su un avvocato che dovrà convincere i giudici ad avere la mano più leggera, nella seconda circostanza il sostegno arriva da un numero maggiore di persone che gli hanno teso le mani per non fargli mancare nulla, compreso tanto conforto. In questa battaglia per la vita lo sfortunato protagonista può contare anche sull’aiuto degli agenti della polizia penitenziari, ma è nelle parole dei carcerati che emerge uno spiccato senso di generosità verso il compagno di cella: “Questo sfortunato ragazzo dovrebbe essere assistito 24 ore su 24 in un centro ospedaliero idoneo e se è ancora in vita lo deve al comportamento encomiabile della polizia penitenziaria in questo istituto, che pur costretta ad un superlavoro a causa del sovraffollamento lo assiste come meglio può anche in ore notturne, chiamando i medici esterni nelle ore in cui il carcere non è coperto da assistenza medica”. “I suoi compagni di cella - prosegue l’appello - sacrificano le ore d’aria e il sonno notturno per aiutare l’uomo che soffre di atroci dolori e ha problemi anche di incontinenza”. Tuttavia dal carcere di Imperia fanno sapere che le condizioni di F.P. sono compatibili con il regime carcerario in attesa che sul trasferimento in una struttura più attrezzata si pronunci il Dap, l’ufficio competente del Ministero. Firenze: Sappe; tentata evasione durante una visita in ospedale, sventata da agenti Adnkronos, 31 agosto 2012 Ha tentato di evadere durante una visita in ospedale ma è stato prontamente riacciuffato dalla scorta di Polizia penitenziaria che lo aveva accompagnato. È accaduto ieri a Firenze, a un giovane marocchino, recluso nel carcere di Sollicciano. Ne dà notizia il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), in una nota. “Il detenuto aveva accusato dolori tali da essere valutati dal medico del carcere meritevoli di approfondimenti radiologici in ospedale”, commenta il segretario generale del Sappe Donato Capece. “Nella sala raggi si è improvvisamente allontanato ma i bravi agenti lo hanno riacciuffato. Questo grave episodio, commesso il giorno dopo l’ennesimo suicidio di un detenuto a Udine, testimonia lo stato di allarme delle nostre carceri, nelle quali i poliziotti penitenziari sono 7mila in meno rispetto all’organico previsto ed i detenuti oltre 20mila in più rispetto ai posti letto regolamentari”. “In più - prosegue Capece - la spending review rischia di far collassare il sistema della sicurezza del Paese, bloccando le assunzioni e tagliando i fondi a disposizione del Corpo di Polizia penitenziaria. Il governo e in particolare il ministro della Giustizia Paola Severino raccolgano il grido di allarme del primo Sindacato del Corpo, il Sappe, e si diano concretamente da fare per sanare le costanti criticità con le quali il personale della Polizia penitenziaria deve quotidianamente confrontarsi”. Spoleto (Pg): al matrimonio con 20 agenti di scora, la sposa manda a monte le nozze www.tuttoggi.info, 31 agosto 2012 “C’è troppa polizia, almeno questo momento deve essere solo per noi”. Alla vista di quel cordone di sicurezza (più di 20 agenti) la sposa non ha più voluto sapere di pronunciare il fatidico “sì”. È quanto capitato nella sala del comune di Spoleto adibita ad ospitare i riti civili, dove un detenuto del locale supercarcere, sottoposto a regime di alta sorveglianza, aveva ottenuto il permesso di sposarsi con la propria amata e madre della loro bambina. Solitamente cerimonie simili vengono celebrate nella casa di reclusione ma stavolta il Tribunale di Perugia aveva fatto una eccezione concedendo ai futuri sposi l’ambita location. Il giudice, a quanto è dato sapere, aveva però fissato alcune prescrizioni: niente foto, niente pranzo al ristorante (poteva bastare un buffet all’interno dello stesso Comune) e neanche un po’ di intimità per i due. Il tutto non sarebbe dovuto durare più di sei ore. Per la giovane donna, che forse non si aspettava tutto questo (lui era stato avvisato solo il giorno prima), è stato troppo. Il suo amato l’ha compresa e abbracciata cercando di farle forza, fra gli invitati rimasti impietriti. In silenzio anche il funzionario preposto a dichiararli marito e moglie. Quando il sindaco di Spoleto Daniele Benedetti è entrato nella sala, convinto che la cerimonia fosse conclusa, ha trovato una scena inaspettata con i due che piangevano l’uno sulla spalla dell’altro. Alla scorta della polizia penitenziaria non è così rimasto altro da fare che riaccompagnare il detenuto alla casa circondariale di Maiano di Spoleto. Fin qui la cronaca. Di oggi però la polemica innescata dai sindacati, a cominciare da quello di categoria della Uil, che urlano allo scandalo per lo sperpero di denari pubblici. “Ci dispiace molto per i due ma questa vicenda è assurda. Come si può, in tempi di spending review, impegnare così tanti uomini e mezzi? Agli agenti di Polizia penitenziaria si chiedono turni di lavoro massacranti, continui sacrifici e rinunce, anche sul fronte della propria sicurezza e incolumità, e poi siamo costretti ad assistere ad un simile sperpero”. La vicenda, a quanto è dato sapere, sembra destinata a finire sul tavolo del ministro della giustizia. Droghe: Di Giovan Paolo (Pd); mancano dati certi su tossicodipendenti in carcere 9Colonne, 31 agosto 2012 “Gasparri e Giovanardi dicano tutta la storia. Ad oggi non abbiamo i dati completi sui tossicodipendenti che potrebbero andare nelle comunità d’accoglienza, non abbiamo numeri certi sui posti letti, su chi è ospitato. E questo anche per effetto di un’amministrazione della giustizia effettuata principalmente da parte del centrodestra negli ultimi vent’anni”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, Presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Insomma, se un magistrato di sorveglianza vuole mandare un tossicodipendente in una comunità non è detto che ci riesca. La norma, una toppa alla dissennata legge Fini-Giovanardi, è in parte inapplicata perché non aiuta ad avere un quadro certo della situazione - continua Di Giovan Paolo - Capisco che Giovanardi difenda la sua legge, ma questa, come altre del centrodestra, andrebbe del tutto rivista”. Gasparri (Pdl): Severino legga norme e le applichi “I tecnici in certi casi si rivelano assolutamente incompetenti. Lo dimostra ancora una volta il ministro Severino che in una intervista afferma che è allo studio una norma per far scontare pene minime a detenuti tossicodipendenti fuori dal carcere in strutture di recupero”. Lo dice il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri. “Se la Severino avesse vissuto nel mondo reale - aggiunge -, combattendo disagi e droghe, saprebbe che quella norma esiste da molti anni e consente, anche in caso di condanne a più anni di carcere, di ospitare in comunità di recupero persone che possono così uscire dal carcere. Si legga le norme e le applichi invece di mostrare inadeguatezza al ruolo”. Eritrea: morti in prigione tre giornalisti detenuti dal 2001 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 agosto 2012 Tre giornalisti eritrei sono molti in carcere dopo anni di detenzione. Ne ha dato notizia ieri Reporter sans frontieres. Dawit Habtemichael, vice direttore del bisettimanale Meqaleh, è morto nella seconda metà del 2010 mentre si trovava nel campo di prigionia di Eiraeiro. L’organizzazione non è invece riuscita ad accertare la data del decesso degli altri due reporter, Mattewos Habteab e Sahle Tsegazab. Tutti e tre erano dietro le sbarre dal 2001. “Un altro giornalista arrestato nel febbraio del 2009 - ha aggiunto l’organizzazione - è morto durante la detenzione nella prigione militare di Abi Abeito, vicino ad Asmara ma ancora non è stata stabilita con certezza la sua identità”. In Eritrea, dove vige un sistema politico a partito unico, la situazione dei diritti umani è catastrofica: arresti e detenzioni arbitrari, torture, uccisioni extragiudiziali sono all’ordine del giorno. Chi può fugge: sono migliaia i rifugiati politici eritrei nel mondo, come sono purtroppo tantissimi gli eritrei che hanno perso la vita nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Italia e tanti, ancora, quelli detenuti e torturati nelle prigioni libiche. Oggi, alla Mostra del cinema di Venezia, viene proiettato “Mare chiuso”, di Stefano Liberti e Andrea Segre, che racconta tutto questo. Gli arresti dei giornalisti fanno parte di una strategia in atto dal 2001 per reprimere dissenso e commenti critici. Degli 11 reporter allora fermati, solo quattro sono ancora vivi. Lo scorso anno il Parlamento europeo aveva sollecitato il governo di Asmara di liberare il giornalista svedese-eritreo Davit Isaak e altri undici ex ministri o membri dell’esecutivo che erano finiti in prigione per aver criticato il presidente Isaias Afewerki e chiesto riforme dopo la guerra del 1998-2000 con l’Etiopia. Tra questi, il vicepresidente Mahmoud Sherifo, il ministro degli Esteri Haile Woldetensae, il capo dell’esercito Ogbe Abraha. Nel frattempo Mahmoud, Ogbe e altre cinque persone sono morte a causa delle malattie e del caldo, che nelle prigioni eritree può raggiungere anche i 50 gradi. Nel 2010 l’indice sulla libertà di stampa stilato da Reporters sans Frontieres ha visto l’Eritrea al 178° posto, ultima in classifica, peggiore persino della Corea del Nord. Stati Uniti: torture a detenuti dopo attentati 11 settembre, archiviata inchiesta su Cia Agi, 31 agosto 2012 È stata chiusa senza alcuna incriminazione l’inchiesta avviata nel 2008 dal Dipartimento di Giustizia Usa sugli interrogatori della Cia di sospetti terroristi arrestati dopo l’11 settembre, durante l’amministrazione Bush; interrogatori che sarebbero stati condotti con tecniche come il water boarding (che simula l’annegamento) che lo stesso presidente, Barack Obama, definì torture. Ad annunciare l’archiviazione è stato il ministro della Giustizia, Eric Holder, spiegando che “le prove ammissibili non sarebbero state sufficienti a sostenere e ottenere una condanna oltre ogni ragionevole dubbio”. L’indagine, condotta dal procuratore federale John Durham, ha riguardato il trattamento riservato a 101 detenuti ed è stata formalmente chiusa a giugno 2011, tranne che per due casi. I nomi non sono mai stati ufficialmente divulgati ma, secondo alcuni media, si trattava dell’afghano Gul Rahman e dell’iracheno Manadel al-Jamadi. Il primo morì dopo essere stato spogliato e incatenato al pavimento per un numero imprecisato di giorni in una prigione segreta degli 007 di Langley in Afghanistan, nota con il nome di “Pozzo di sale”. Quanto al secondo, il suo decesso avvenne nel carcere di Abu Ghraib, nel novembre 2003. Jamadi venne ribattezzato Iceman, l’uomo di ghiaccio, quando alcuni scatti - che svelavano gli abusi commessi nella famigerata prigione irachena - mostrarono il suo corpo senza vita dentro un sacco pieno di ghiaccio. L’archiviazione dell’inchiesta è stata duramente criticata dai gruppi per i diritti umani. “L’annuncio del procuratore generale Holder è deludente poiché vi sono molte prove che, dopo l’11 settembre, torture e abusi furono diffusi e sistematici”, ha commentato Melina Milazzo di Human Rights First. “È un vero scandalo che nessuno risponderà per le uccisioni dei prigionieri in custodia della Cia”, ha aggiunto Jameel Jaffer, vice direttore legale dell’American Civil Liberties Union. Soddisfazione è stata invece espressa dal numero uno della Cia, David Petraeus. “Come membri dell’intelligence, la nostra inclinazione è guardare alle sfide del futuro piuttosto che tornare indietro a quelle del passato. Nondimeno, abbiamo sostenuto pienamente il Dipartimento di Giustizia nei suoi sforzi”. Brasile: Apac; da queste carceri non evade nessuno… ma non per il motivo che pensate voi di Rodolfo Casadei Tempi, 31 agosto 2012 Nel Brasile dei penitenziari peggiori del mondo, la storia degli Apac, dove “entra l’uomo. Il reato resta fuori”. Costano meno, si pranza con posate di metallo e nessuno tenta di scappare, “perché non si fugge da chi ti vuole bene”. Il cellulare della polizia penitenziaria brasiliana si ferma davanti alla palazzina verniciata di fresco. A fatica per le catene ai piedi e le manette strette ai polsi quattro carcerati avvolti in accecanti uniformi arancioni scendono dal veicolo e si trascinano nella polvere rossa dello sterrato. Lo sguardo verso terra, come stabilisce il regolamento. Si dispongono in fila dietro a una guardia col berretto blu calcato e la visiera che seminasconde il volto, mitra imbracciato. Bussa al portone. Apre un uomo in sandali e maglietta, un filo di pancia e di baffi: un detenuto pure lui. Per un’inspiegabile telepatia i quattro capiscono e sollevano la testa stupiti. “Buon giorno, chi siete, come vi chiamate?”, chiede gentilmente l’uomo. L’agente risponde pronunciando un paio di numeri di articoli del codice penale. Il detenuto coi sandali sorride: “No, volevo sapere i loro nomi. Entrate. Vi aspettavamo. Per favore signora guardia liberi loro le mani e i piedi: c’è una doccia calda pronta per loro e poi devono provare vestiti della loro misura. Le uniformi ve le restituiamo”. Poco dopo il gruppetto fa il suo ingresso all’interno della struttura, e sulla parete sopra agli ingressi delle tre sezioni in cui è organizzata (“regime segregato”, “regime semi-aperto”, “regime aperto”) i loro occhi incontrano una grande scritta blu sul muro bianco: “Qui entra l’uomo. Il reato resta fuori”. Tutte le settimane una scena come questa si ripete in uno dei 34 “Apac” del Minas Gerais. Gli Apac sono una forma alternativa di detenzione che in Brasile esiste da ben quarant’anni. Quando la sigla è nata, all’interno di un’esperienza di pastorale carceraria, significava “Amando il prossimo amerai Cristo”. Quando poi l’esperienza si è trasformata in un ente no profit del privato sociale, ha cambiato di significato in un più preciso Associazione per la protezione e l’assistenza ai condannati. Infatti a gestire questi centri dove si praticano forme di detenzione ad alto contenuto rieducativo sono esperti e volontari del no profit. Il Minas Gerais, invece, è uno Stato della federazione brasiliana con 20 milioni di abitanti e 50 mila detenuti, 2 mila dei quali sono insediati negli Apac: è anche la regione del Brasile dove il metodo registra oggi i maggiori successi, tanto che altri 20 stati della federazione stanno aumentando il numero degli Apac sul loro territorio e ampliando quelli esistenti. Come nel Minas Gerais è stato già fatto negli ultimi otto anni soprattutto per impulso del Procuratore Generale Tomaz de Aquino Resende. È l’uomo che ha voluto espandere il “carcere dolce” per i condannati con sentenza passata in giudicato nonostante critiche, sospetti e scetticismo. Che giustifica così i suoi orientamenti di politica carceraria: “Il tasso di recidiva fra i detenuti rimessi in libertà dalle prigioni convenzionali è dell’80-90 per cento, e si tratta quasi sempre di reati più gravi di quello commesso la prima volta che sono stati imprigionati; fra i detenuti degli Apac, una volta definitivamente fuori dalla struttura il tasso di recidività è solo del 12 per cento, e il reato compiuto è lo stesso della prima condanna oppure uno meno grave. Dalle loro strutture, dove non esistono agenti di custodia, abbiamo avuto solo 9 evasioni nell’arco di dieci anni, e metà degli evasi poi si è riconsegnato; nelle altre prigioni i tentativi di evasione sono pressoché quotidiani”. Tutto ciò accade nel Brasile dei paradossi. Il paese delle peggiori carceri del mondo (il più orrendo del pianeta per comune ammissione si trova nel Rio Grande do Sul) è anche quello dove si incontrano i migliori del mondo, nel Minais Gerais, dove i detenuti in “regime aperto” vanno e vengono per lavorare all’esterno o visitare la famiglia nei week-end, usano il cortile per feste e matrimoni, la libreria per studiare, la cella per suonare la chitarra, autogestiscono l’ordine e la disciplina. Un miracolo carioca? No, solo il frutto della logica, che matura quando si decide di guardare ai delinquenti come persone piuttosto che identificarli col delitto che hanno commesso: se si immerge per anni una persona in un ambiente scomodo, violento e corrotto, se la si umilia quotidianamente e la si espone ad abusi e degradazioni, non ci si potrà meravigliare che al termine della pena esca dal carcere convinto di essere spazzatura sociale, destinato al crimine per il resto della vita. Se, al contrario, una persona è trattata umanamente, se viene stimolata continuamente a prendersi cura di se stessa e dei bisogni di chi convive con lui, e viene premiata nella misura in cui mostra attenzioni per i suoi compagni, se anziché abbandonarla all’ozio che è il padre di tutti i vizi le si dà la possibilità di lavorare, dentro o fuori dalla struttura a seconda della fase del recupero, e di avere rapporti sociali, inclusi quelli con la famiglia di origine. Beh, se si fa così, c’è da meravigliarsi che il delinquente si redima e non torni a commettere delitti? È così semplice da restare imbarazzati per non averlo capito prima… “Entra negli Apac chi ha già trascorso un certo periodo nel carcere convenzionale, su disposizione del giudice di sorveglianza e previo impegno sottoscritto dal detenuto di rispettare le regole della struttura: svolgere turni di lavoro, occuparsi personalmente della manutenzione del carcere, partecipare ai momenti religiosi, rispettare tempi e orari quando avrà la semi-libertà e poi la libertà piena che implica la possibilità di trascorrere il week-end fuori, mantenere un comportamento irreprensibile. Molti detenuti che pure potrebbero entrare nel programma rifiutano, perché sanno che negli Apac non entra la droga, che invece ci si può procurare facilmente nelle altre carceri. Alcuni firmano e vengono progettando di evadere e pensando che da qui sarà più facile: dopo una settimana rinunciano perché scoprono tutti gli aspetti positivi. È passato in una di queste strutture un pluriomicida che aveva 50 anni di pena da scontare. Gli hanno chiesto: “Sei già evaso o hai tentato di farlo 12 volte: perché non ci provi più? Da qui sarebbe più facile”. Risposta: “Perché non si fugge dall’amore”. Quando un detenuto deve recarsi dal giudice per un aggiornamento del suo caso, o per decidere sulla richiesta di passaggio da un regime carcerario a un altro (chiuso, semi-libero, libero) ad accompagnarlo non sono le guardie dentro a un cellulare, ma altri due detenuti che vegliano su di lui e che non usano manette. Tornano sempre tutti e tre, perché chi evade, e viene ripreso finisce nel carcere di provenienza, dove “in celle da 10 persone ce ne vivono 80, non c’è spazio e si fanno i turni sia per dormire sia per stare in piedi, chi non ce la fa lega le lenzuola alle sbarre e dorme come in un’amaca. Le perquisizioni corporali sono la regola, nudi sdraiati in cortile; i detenuti hanno un numero al posto del nome e in presenza di estranei devono tenere sempre lo sguardo volto a terra. Il personale di guardia è sempre in un atteggiamento ostile”. Resende ha molto da dire su individui e gruppi di interesse che criticano l’esperimento degli Apac. “Per i politici in cerca di facile consenso è più normale invocare severità contro i criminali che promuovere e incoraggiare politiche di rieducazione che, per funzionare, devono basarsi su un trattamento più umano dei detenuti. Ma poi ci sono veri e propri interessi economici costituiti che si ribellano perché vengono ridimensionati. Pensate alle ditte che hanno l’esclusiva nella fornitura delle razioni alimentari ai detenuti; pensate ai posti di lavoro rappresentati dagli agenti di polizia penitenziaria, che sono più numerosi dei carcerati. Un detenuto costa allo Stato federale l’equivalente di 650 euro al mese (in Italia molto di più: siamo intorno a 7.000 euro al mese, ndr), ma negli Apac la sovvenzione è di soli 300 euro per internato. Bastano e avanzano per un regime alimentare dignitoso, perché non c’è la corruzione che disperde risorse delle carceri statali, e non ci sono gli stipendi delle guardie da pagare. Logico che tutto questo generi proteste e rancori molto interessati”. “Il metodo Apac coinvolge potenzialmente tutta la società nel recupero dei criminali. Nelle associazioni di volontariato che gestiscono il progetto sulla base di una convenzione con lo Stato ci sono professionisti, comunità cristiane, insegnanti, operatori sociali, famiglie, ecc. Perché abbiamo preso coscienza che se questi nostri figli hanno sbagliato, è perché noi abbiamo fallito: come scuola, come Chiesa, come famiglia, come società. Possiamo e dobbiamo correggerci insieme”. A un momento conviviale in un Apac, nel corso del quale i detenuti pranzavano con posate di metallo, compresi coltelli e forchette, un giornalista ha posto una domanda a Joao de Jesus, un pluriomicida: “Ma voi mangiate sempre così, o questa è una recita che avete allestito oggi per fare colpo su di noi?”. “Vede quell’uomo di spalle?”, ha risposto il condannato. “Quello è il giudice che mi ha condannato due volte. Io ho ammazzato cinque persone. Crede che se lo desiderassi davvero non avrei già affondato un coltello nel suo corpo? I veri malfidati siete voi: voi siete quelli che quando prendono l’aereo mangiano usando solo posate di plastica”. Siria: giornalista freelance americano detenuto a Damasco Adnkronos, 31 agosto 2012 È detenuto a Damasco dalle forze governative Austin Tice, il 31enne giornalista freelance americano - che collabora con il Washington Post, il gruppo McClatchy e altre testate - che risultava disperso in Siria da oltre due settimane. Lo ha riferito lo stesso Washington Post, citando fonti diplomatiche, secondo le quali Tice si trova detenuto a Daraya, il sobborgo di Damasco teatro la scorsa settimana, secondo gli attivisti, di un massacro da parte del regime. L’arresto del freelance, in realtà, era già stato comunicato lunedì dall’ambasciatore ceco in Siria, Eva Filipi, che cura gli interessi degli Stati Uniti nel Paese arabo dopo la chiusura dell’ambasciata di Washington a febbraio. Parlando a una tv ceca, la Filipi aveva affermato che il reporter “era stato fermato dalle forze governative alla periferia di Damasco”, in un luogo “dove i ribelli stavano combattendo contro l’esercito”. “Se la notizia fosse vera, invitiamo le autorità a rilasciarlo immediatamente e incolume. I giornalisti non dovrebbero mai essere arrestati per aver svolto il loro lavoro, specialmente in circostanze difficili”, ha commentato Marcus Brauchli, direttore del Washington Post. Sono almeno 10 i giornalisti uccisi in Siria dal marzo dello scorso anno, quando è scoppiata la rivolta contro il presidente Bashar al-Assad. Tra questi figurano cinque stranieri. Pakistan: bimba down arrestata, giudice dispone altri 14 giorni carcere Adnkronos, 31 agosto 2012 Un giudice di Islamabad ha disposto altri 14 giorni di carcere per Rimsha Masih, la bimba di 11 anni affetta da sindrome di Down arrestata in Pakistan con l’accusa di blasfemia lo scorso 19 agosto. Lo ha riferito il sito web dell’emittente Dawn, secondo cui le autorità non hanno concluso le indagini e necessitano di altro tempo per fare piena luce sull’episodio che vede coinvolta la bimba cristiana, accusata di aver bruciato delle pagine del Corano. L’avvocato di Rimsha, Tahir Naveed Chaudhry, ha affermato che spera che la bimba sia libera su cauzione sabato. La bambina è in carcere dopo aver rischiato di essere bruciata viva da una folla nel villaggio di Meharabadi, nei pressi della capitale Islamabad, dove abita. Nell’ambito della vicenda sono stati denunciati l’imam della moschea della zona e 175 persone che avrebbero chiesto alla polizia la consegna della piccola Rimsha per bruciarla viva in piazza.