Giustizia: Pannella; domani grande “battitura della speranza” da tutte le carceri italiane www.clandestinoweb.com, 29 agosto 2012 Con la fine dell’estate riprendono le iniziative dei Radicali Italiani che attraverso le loro battaglie non violente continuano a portare sotto i riflettori la drammatica situazioni delle carceri italiane. Durante tutto il mese di agosto però non si sono fermate le ispezioni e le visite di deputati radicali, come l’Onorevole Rita Bernardini, negli istituti penitenziari per monitorare la situazione e tenere sotto controllo l’emergenza sovraffollamento e la problematica della violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. È proprio il leader del Partito Radicale, Marco Pannella a lanciare il nuovo appuntamento annunciando per giovedì 30 agosto dalle 19.30 alle 20.0, la grande battitura della speranza per il diritto, per la Giustizia. Da tutte le carceri italiane, dunque questa sarà la prima manifestazione di ripresa della lotta non violenta per l’amnistia e per la riforma del sistema carcerario italiano, resasi ormai assolutamente urgente. Da nuove catacombe domani si alzerà “Battitura della speranza” “Domani suoneremo così le nostre campane”. Marco Pannella rispolvera una battuta storica per presentare la “Grande Battitura della speranza” che domani, dalle 19.30 alle 20, “si alzerà da tutte le carceri italiane”, prima manifestazione di ripresa della lotta non violenta per l’amnistia e la riforma. “Dalle catacombe della civiltà che sono le carceri italiane - spiega il leader radicale - i fedeli alla religiosità della libertà umana faranno suonare le loro campane di dolore ma soprattutto di speranza”. Con la battitura delle sbarre, aggiunge il leader radicale, “rilanciamo la campagna per l’amnistia di tutti gli abitanti delle catacombe della democrazia e della giustizia: le detenute e i detenuti assieme agli altri carcerati, cioè la polizia penitenziaria, il volontariato, il ceto dirigente delle intere comunità penitenziarie”. “L’amnistia - rimarca - è l’unico strumento strutturale per interrompere la flagranza criminale dello Stato italiano che da tre decenni è condannato dalla giurisdizione europea per tutti i peggiori reati contro i diritti umani, personali e sociali”. “Il grido che si alza dalle carceri - aggiunge Pannella - è stato certamente ascoltato ma non capito da Napolitano. Deve essere conosciuto da tutti, perché le carceri davvero sono le catacombe contemporanee, il luogo dove gli ultimissimi dettero corpo alle loro testimonianze con parole, preghiere e comportamenti coerenti. Chi abita le nuove catacombe sono gli ultimissimi della storia romana”. “Tutti quelli che lo vogliono, perché loro lo sanno”, aggiunge Pannella, dato che “in questo Paese la conoscenza è vietata e negata, domani potranno battere il ferro sulle sbarre delle loro comuni celle di tortura e di oppressione, annunciando lieti la sperata liberazione del diritto e della giustizia, in un’Italia che è precipitata nel dominio della violenza dopo il cinquantennio di partitocrazia detto antifascista”. A Teramo - racconta il leader radicale - i detenuti mi hanno accolto cantando “Pannella è uno di noi”. Anche altri compagni e campagne che girano nelle carceri hanno sentito risuonare questo motivo. “La Battitura della speranza - conclude Pannella - deve annunciare il tempo del riscatto della giustizia e della democrazia, come ripresa di questa grande campagna non violenta, in nome della legge e del popolo sovrano”. Intervista a Marco Pannella, curata da Ambrogio Crespi La situazione nelle carceri, purtroppo, non migliora. Le condizioni di vita dei detenuti, con l’estate, sono addirittura peggiorate. Dal nostro ultimo Speciale, in cui i Radicali chiedevano Amnistia per ripristinare legalità e giustizia, nulla è cambiato. Per questo motivo, domani, giovedì 30 agosto, in tutti i penitenziari italiani dalle ore 19.30 alle 20 andrà in scena “la battitura della speranza”. Si tratta di un’iniziativa voluta e lanciato da Marco Pannella che noi come Clandestinoweb appoggiamo in pieno. Da tutti gli istituti, in contemporanea, riprenderà la lotta non violenta per la riforma del sistema penitenziario italiano. Onorevole Pannella ha scelto di ricominciare la battaglia pro Amnistia dopo l’estate drammatica dietro le sbarre con una “battitura della speranza”. Ci spiega in cosa consiste? Si tratta di una manifestazione di cui, innanzitutto, è importante il nome. “Battitura della speranza”, infatti, non è stato scelto a caso. Il presidente della Repubblica si comporta in questo periodo come il protettore della flagranza criminale, indiscussa e indiscutibile, dello Stato sia rispetto alla Costituzione che ai diritti umani e alla Giustizia. In questa situazione abbiamo pensato che fosse importante che dalle carceri arrivasse un annuncio forte. In cosa consiste la battitura di preciso? Si tratta di una mezzora in cui, contemporaneamente, e in tutte le carceri d’Italia i detenuti faranno sentire non un rabbioso ma un forte suono che vuole richiamare l’attenzione non solo sulla condizione carceraria ma soprattutto sul silenzio assordante dei media e della politica in merito alle condizioni della giustizia italiana, della legalità dello Stato. È una manifestazione che ha un alto valore simbolico. Parla di silenzio, secondo lei i media non parlano abbastanza dell’emergenza carceri? Tra i media Radio Radicale continua ad essere un’eccezione che conferma la regola. Le notizie che noi vogliamo fare arrivare sono soprattutto riferite alle famiglie dei detenuti di uno Stato Criminale. Questo è il primo passo. La battitura è la prima manifestazione di una campagna che sarà intensificata nei prossimi mesi. A quanto pare il Capo dello Stato sembra avere bisogno di aiuto per ripristinare la Giustizia. Si sta comportando come un Capo di Stato nazista della fine degli anni 30. Giustizia: l’equivoco giustizialista che penalizza la sinistra italiana di Michele Salvati Corriere della Sera, 29 agosto 2012 Ci sarà pure una ragione se due riferimenti puramente spaziali (tra chi siede a destra o a sinistra del presidente dell’assemblea) riassumono l’intera storia del conflitto democratico, dai primi parlamenti ottocenteschi sino ad oggi e in tutte le democrazie. La ragione c’è, è seria e ho cercato di spiegarla in un recente articolo sulla rivista Il Mulino (2012, n. 4), cui rinvio coloro che fossero interessati a conoscerla. Temo, però, siano pochi e che la maggior parte dei nostri concittadini sia convinta che destra e sinistra non vogliano dir nulla oggi, se pure qualcosa hanno voluto dire in passato: la minestrina è di destra e la pastasciutta di sinistra, i reggicalze di destra e i collant di sinistra, cantava Giorgio Gaber una ventina d’anni fa, dando voce al suo disincanto. Un disincanto che non ha fatto che aumentare, sino a raggiungere l’allarmante disprezzo per la politica e i politici che oggi contraddistingue il nostro Paese. Il disincanto ha ragioni comprensibili e comuni a molti altri Paesi democratici: il crollo di alternative politiche radicali - chi pensa sia oggi possibile e desiderabile l’eliminazione di una economia di mercato? - e il rafforzamento dei vincoli internazionali alle politiche perseguibili da singoli Stati nazionali in un contesto di globalizzazione - la democrazia è ancora un affare puramente nazionale - hanno di fatto avvicinato molto i programmi dei partiti con ambizioni di governo, siano essi di destra o di sinistra. Il disprezzo e la sfiducia - ai livelli impressionanti che le indagini europee rivelano - sono invece una poco invidiabile caratteristica italiana, che ha origini antiche ma si manifesta con violenza nel trauma politico che ha subito il nostro Paese all’inizio degli anni Novanta. Il trauma che ha portato alla distruzione dei due grandi partiti che avevano governato la Repubblica nei trent’anni precedenti, il democristiano e il socialista, all’emersione di due nuovi partiti con forti tratti personalistici e populistici (Lega e Forza Italia), al cambiamento di nome e pratiche politiche di tutti gli altri: chi non ricorda le monetine del Raphael contro Craxi o i cappi agitati dai leghisti in Parlamento durante Mani Pulite? La Seconda Repubblica, i vent’anni che ci separano da quei tragici avvenimenti, avrebbero potuto attenuare questi sentimenti antipolitici se si fosse affermato un sistema politico civile, capace di affrontare i problemi che l’Italia ereditava dal passato, quelli che tuttora ci trasciniamo appresso. Così non è avvenuto e gli italiani si sono divisi in due tifoserie scalmanate, pro o contro Berlusconi: dalla tifoseria al disprezzo dell’avversario, alla delusione cocente, al “sono tutti ladri, corrotti e incapaci” il passo è breve. Ma veniamo alla sinistra e alla “rissa” che la sta attraversando. Come la destra, la sinistra si è sempre divisa in una componente più radicale e in una più moderata. Quando alternative di sistema erano pensabili, la divisione era tra riformisti e rivoluzionari, una divisione che in Italia si è trascinata più a lungo che altrove a seguito della sciagurata spaccatura tra comunisti e socialisti. Ma anche quando alternative di sistema non sono più pensabili, la divisione tra una componente più dura e antagonistica e una più moderata e governativa è destinata a rimanere, e di fatto rimane in gran parte dei Paesi europei. E questo è sicuramente uno dei motivi della “rissa”: qui è in gioco l’appoggio che la sinistra deve (per alcuni) 0 non deve (per altri) dare al governo Monti. Ma in Italia ad esso si aggiunge, e forse su di esso prevale, un altro motivo, che deriva dalla storia di antipolitica cui ho prima fatto cenno: il motivo giustizialista, quello che esprime l’avversione diffusa per i politici e i potenti, il desiderio che essi siano puniti per le loro malefatte. Questo è un motivo che poco ha a che fare con la divisione tra destra e sinistra, il cui conflitto riguarda questioni economiche e sociali: non c’è alcuna ragione per cui una persona di destra seria debba essere meno esigente di una persona di sinistra seria sul fatto che le leggi vadano applicate a tutti, ricchi e poveri, umili e potenti. I principi basilari dello Stato di diritto dovrebbero essere comuni a entrambe. Ma la storia conta. Conta soprattutto Berlusconi. L’aver fatto causa comune con tutti i suoi avversari, l’aver accettato nel campo antiberlusconiano chi era contro per i motivi più diversi, il non aver affrontato seriamente il problema della giustizia, ha creato una miscela difficilmente gestibile da parte di chi, come Bersani, vorrebbe avviare la sinistra verso una piattaforma moderata ed europea. Il Pd è scoperto sul fronte sinistro, in senso proprio, perché la situazione europea e l’agenda Monti non offrono speranze di crescita nel breve periodo e provocano serie sofferenze sociali. E perché non è riuscito a convincere buona parte del suo popolo che tali sofferenze sarebbero maggiori se si seguissero strategie “più di sinistra”. È scoperto sul fronte giustizialista perché si schiera con il presidente della Repubblica nel conflitto tra Quirinale e Procura di Palermo. Ed è scoperto sul fronte antipolitico perché non è riuscito a dare, ai critici della politica, un’immagine che lo differenzi nettamente dagli altri partiti, quell’immagine di “diversità” che ancora Berlinguer poteva con qualche ragione sostenere. Giustizia: liste d’attesa o numero chiuso… un’idea per le carceri affollate di Luigi Manconi Il Messaggero, 29 agosto 2012 L’idea può sembrare bizzarra e può richiamare quelle vignette, soavemente innocenti e destinate a suscitare appena un sorriso, che pubblicavano, mezzo secolo fa, settimanali popolari come La Tribuna Illustrata e La Domenica del Corriere. Una prigione dalle alte mura invalicabili, sormontata da un cartello: “Tutto esaurito. Tornate domani”. E se non si trattasse solo di una vignetta? Facciamo un passo indietro. Qualche settimana fa, una tragica sequenza di suicidi all’interno delle carceri italiane (tre nei primi tre giorni di agosto) aveva suscitato un qualche interesse verso le condizioni di spaventoso sovraffollamento del nostro sistema penitenziario. Ma è durato quanto la curiosità verso l’anticiclone Caligola: e, immediatamente dopo, sovraffollamento è tornato a essere lo stato ordinario di uno stabilimento balneare di Maccarese in una domenica agostana. E, invece, il sovraffollamento in carcere è tutt’altra cosa: è intollerabile promiscuità di corpi, sudori, respiri; è caduta rovinosa degli standard di tutti i servizi; è degrado delle condizioni igienico sanitarie; è mortificazione di quella funzione rieducativa che, sola, giustifica la pena. È in una parola scempio della dignità. Da quattro anni, da quando si sono esauriti gli effetti positivi dell’ultimo provvedimento di indulto, la situazione è andata inesorabilmente peggiorando: e le ottime intenzioni del Ministro della Giustizia Paola Severino, non sono state in grado di invertire la tendenza: sia per la scarsità di risorse disponibili, sia per l’opposizione di larga parte del Parlamento, tuttora incapace di affrontare il problema con misure sagge e razionali, come l’amnistia. E di ricorrere a quella dose di creatività, che corrisponde, poi, alla capacità di adattare le leggi e le regole alla realtà e ai suoi imperativi. Insomma, quella idea del diritto che Giovanni Battaglini definì splendidamente “geometria con fantasia”. Se ne trova una eco nelle recenti parole dello stesso ministro Severino che, nella formulazione del catalogo delle pene, ha auspicato “più fantasia”. Ebbene, in quella che pigramente ci compiacciamo di chiamare la “culla del diritto” - l’Italia, cioè - di capacità innovativa e creativa, nella concreta amministrazione della giustizia oltre che nella produzione legislativa, non c’è neppure l’ombra. Altrove non è così. La giurisprudenza di paesi come gli Stati Uniti e la Germania ha adottato concetti che, nel linguaggio corrente, potremmo tradurre con “numero chiuso” e “lista d’attesa”: ovvero disposizioni per il rilascio o la non ammissione in carcere di detenuti, fino a quando non vi siano spazi adeguati a una reclusione che rispetti i loro diritti fondamentali. È stata riconosciuta, cioè, la prevalenza della dignità della persona umana, anche se autrice di reati, sulle pur legittime - legittimissime - aspettative di punizione dell’offesa recata alla vittima e alla comunità. Nel 2009 una Corte federale della California, di fronte a due ricorsi di numerosi reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al Governatore dello Stato di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, altrimenti avrebbe potuto avvalersi del potere di rilascio individuale dei singoli ricorrenti. Ciò per ottemperare all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense, che vieta le pene crudeli e inusitate. La Corte federale ha preso in esame non solo le condizioni di detenzione, ma anche la capacità dell’amministrazione statale di farvi fronte, ricordando che lo stesso Governatore aveva ammesso che il sovraffollamento avrebbe potuto causare gravi violazioni al diritto alla salute in carcere. Discendeva da queste considerazioni il provvedimento che stabiliva un tetto al numero di reclusi. Nel maggio 2011, la Corte suprema degli Stati Uniti, interpellata da un ricorso dello Stato della California, ha riconosciuto la correttezza della decisione di quella corte federale: e ha preso avvio, così, il piano di riduzione della popolazione carceraria californiana. In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che gli aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento legale a proposito delle condizioni di carcerazione cui era costretto. Nel decidere sul caso, la Corte costituzionale ha richiamato una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010: in base a essa, se lo stato di reclusione è “disumano”, una volta considerate tutte le alternative disponibili (compreso il trasferimento in un’altra prigione), in assenza di soluzioni diverse, l’esecuzione di una pena detentiva deve essere interrotta. A ispirare queste decisioni c’è un principio fondamentale, sancito ripetutamente sia dalla Corte Federale sia dalla Corte costituzionale della Germania. Ovvero il valore della dignità della persona umana sempre e comunque: dunque anche in stato di privazione della libertà. Di più: la Corte federale di giustizia ha affermato limpidamente che non è ammissibile operare un bilanciamento tra l’inviolabile principio della dignità umana e qualsiasi altro argomento, anche di natura costituzionalmente rilevante (Stefano Anastasia). Ciò significa, in altri termini, che anche il sacrosanto diritto a punire l’autore di reato non può arrivare fino a mettere a repentaglio la dignità e l’integrità di quest’ultimo. Pertanto, la Corte di giustizia - secondo la Corte costituzionale - ha argomentato “in maniera convincente” l’obbligo dello Stato di rinunciare immediatamente all’esecuzione di una pena carceraria nel caso di condizioni di detenzione “inumane”. Ciò è un’ulteriore conferma di come il valore della dignità della persona stia assumendo una centralità come mai in passato nella costellazione dei diritti fondamentali, nel dibattito giuridico più maturo e, progressivamente, nella sensibilità di una parte delle istituzioni pubbliche. Non così in Italia, purtroppo. Da noi, un’ipotesi così ragionevole e dotata di buon senso, come quella del “numero chiuso” - in un clima emotivo dove operano numerosi imprenditori politici della paura - rischia di apparire o una “pazza idea” o una generosa utopia. Per riprendere la categoria utilizzata da Battaglini, in Italia - come ha scritto recentemente Sandro Bonvissuto - “c’è sicuramente più fantasia nel crimine che nella pena”. Giustizia: carceri incivili e l’assordante silenzio dei responsabili di Alessandro De Rossi (Lega Italiana Diritti dell’Uomo) L’Opinione, 29 agosto 2012 A proposito del caldo torrido nelle città, non si riesce a dimenticare quanto poco finora la politica abbia fatto per risolvere il problema delle carceri. Quanto poco o nulla sia stato fatto per la sicurezza dei cittadini e delle città, per le questioni riguardanti i trasporti, constatando come ormai il territorio e i suoi boschi bruciano amaramente insieme agli euro e alle speranze degli italiani, senza che all’orizzonte si possano intravvedere soluzioni e proposte credibili. Mi viene in mente il titolo “Il silenzio degli innocenti” famoso romanzo, nonché bellissimo film. A questo punto, di fronte alla certificata incapacità da parte dei partiti e dei loro apparati dirigenziali di risolvere i gravissimi problemi del paese, avendo gli italiani finalmente preso atto che è questo tipo di sistema politico - fatto di questi uomini - la fonte primigenia della crisi, se si dovesse produrre un Report o uno speciale tg, se ne avessi il potere, sarebbe “Il silenzio dei responsabili”. È pur vero che nessuno risponde se nessuno fa vere domande. E questa non è solo colpa di chi governa. In questi giorni, come se non ce ne fossimo già accorti leggendo i giornali e girando per le strade, apprendiamo dal Viminale la notizia del grande aumento dei reati in Italia e nel Lazio in particolare, rispetto agli anni precedenti. La crisi porta anche a questo, è ovvio: reati contro il patrimonio, furti nelle case, nei negozi e ancora scippi, ammazzamenti e rapine. Non c’è che dire, è un paese sicuro a prova di rivoluzione. Pensate un po’: gli italiani avanzano ai loro governanti la ben strana richiesta del risanamento dei conti pubblici e più autentiche, conseguenti misure di rilancio dell’economia. Come se ciò non fosse da sempre il compito principale di chi intende governare democraticamente uno stato: tenere il bilancio in regola tra entrate e uscite, amministrare bene la cosa pubblica, garantire la pace, amministrare la giustizia... Sembra facile a dirsi. Ma, in Italia, un po’ meno a farsi. Oggi per ottenere questo occorrerebbe riformare nientemeno che lo stato nella sua interezza: una mostruosa macchina mangiasoldi dai consumi insostenibili, con i suoi infiniti gangli e apparati periferici. Mandando soprattutto a casa coloro che di questo sistema vivono da anni alla faccia degli italiani, senza vergogna di sciacquettarsi al mare o rinfrescarsi in montagna in compagnia di costosissime scorte destinate alla loro protezione. Il fin troppo facile demagogo di turno potrebbe dire in questo caso: “Dopo quello che hanno combinato, c’è pure bisogno di proteggerli. Semmai, da questi signori, bisognerebbe proteggere gli italiani”. Ma chi scrive è al di sopra di simili concetti di basso profilo, avendo praticato a lungo la scuola del politicamente corretto: nella professione, nell’università, nella vita. E perciò non lo dice. Fra le varie inutili emanazioni e ripetizioni dello stato pletorico, sotto diverse e più fantasiose forme, all’interno di alcuni apparati regionali riscontriamo la presenza di taluni assessorati che si contraddistinguono per finalità altamente umanitarie e obiettivi programmatici di rassicurante e caritatevole certezza. Uno di questi è nella giunta regionale del Lazio: trattasi niente di meno che dell’assessorato ai Rapporti con gli Enti Locali e alle Politiche per la Sicurezza. Praticamente, dal nome per il quale si auto dichiara, poco meno che l’universo mondo. Fino a quando si discuterà dell’insostenibile situazione delle carceri e di chi, uscendone fuori, non trova occasioni per un idoneo reinserimento sociale? Fino a quando dovremo assistere a una Giustizia cinica e indifferente che costringe per anni in stato di reclusione persone in attesa di giudizio e che poi, alla prova dei fatti, si dimostreranno innocenti? Fino a quando dovremo subire un sistema penitenziario che incarcera donne con figli al seguito in tenera età senza predisporre serie e sistematiche misure alternative che consentano una riduzione del danno psicologico al bambino? In una situazione così grave per la quale varie volte il presidente Napolitano ha invitato i responsabili politici a promuovere riforme coraggiose affinché possa essere migliorato il sistema penitenziario italiano, finalmente avviando proposte anche innovative per risolvere le questioni relative all’universo della detenzione; in un periodo in cui l’economia nazionale ormai da troppo lungo tempo soffre e il fenomeno della disoccupazione genera criminalità, corruzione, malcostume e insicurezza sociale; in questa babele italiana regna sovrana nella politica, cioè all’interno dei partiti, la confusione delle lingue, l’orrendo silenzio dei significati, lo spegnimento della luce della ragione. Tutto questo anche da parte di coloro che si pongono con fare arcigno e sguardo maschio, per il necessario tributo all’apparenza massmediatica, in difesa della sicurezza, promettendo misure per una più civile convivenza nel territorio e nelle città. A proposito del sistema carcerario e delle politiche per la sicurezza, leggiamo stupefatti che una cantante bresciana con il suo gruppo musicale si è esibita recentemente nella Casa di reclusione di Civitavecchia, nel quadro del progetto “Evasioni musicali” (sic!) voluto dalla Regione Lazio, per sostenere i detenuti e migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti di detenzione “specialmente nel momento estivo dove si registra un innalzamento dei disturbi di tipo depressivo e un’incidenza maggiore delle malattie psicosomatiche”. Questo è quanto è stato dichiarato al termine dell’evento musicale nell’istituto di reclusione. “Proprio per rispondere alle istanze che arrivavano da questo istituto - ha illustrato l’assessore ai Rapporti con gli Enti Locali e alle Politiche per la Sicurezza - ho voluto esporre ai detenuti gli interventi che abbiamo approvato in sede di giunta regionale: in particolare per le attività sportive, abbiamo finanziato la ristrutturazione del campo di calcetto. Nel portare i saluti della presidente Renata Polverini ai detenuti, ho ricordato che con la brava cantante bresciana siamo alla quarta esperienza nelle carceri del Lazio; già l’anno scorso avevo avuto il piacere di ascoltarla, ma oggi ha regalato a me e ai detenuti di Civitavecchia un concerto veramente emozionante”. Nulla da aggiungere alla canora iniziativa umanitaria dell’assessorato, anzi registriamo che, in ossequio all’imperativo della nuova politica che intende premiare merito e competenze, l’assessorato ha meritoriamente predisposto uno staff canoro di prima eccellenza: bel colpo! Vista la drammatica situazione delle carceri e della sicurezza nel territorio, c’è solo da domandarsi a quanto stress abbiano dovuto tutti sottoporsi per organizzare questa sorta di Cantagiro carcerario. Nel momento in cui ci si è dovuti confrontare con la richiesta delle autorizzazioni al Dap, alla direzione del carcere per organizzare il concerto, con probabili lunghe e defatiganti ore di preaudizioni del gruppo musicale: forse, anche concordando testi delle canzoni, misurando tempi, modalità d’ascolto e naturalmente, a margine, costi del gruppo canoro e dell’organizzazione tutta. È confortante sapere che in alto, nella politica, dove “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...” c’è a chi pensa con tanta efficienza e innovativa creatività alle politiche della sicurezza, al conforto e ai diritti dei detenuti, al problema dell’affollamento delle celle, al rispetto della dignità di chi sconta la pena (magari senza colpa). In un certo senso, nelle carceri italiane, dove si suicidano detenuti e agenti di custodia, d’estate col caldo africano anche le canzonette fanno bene. Peccato che la musica sta per finire. Negli interessi degli italiani, però, è bene che chi ha stonato cambi mestiere. Dando luogo, per il futuro, magari ad un altro film dal titolo: “Il silenzio dei responsabili”. Giustizia: Vietti (Csm); la carcerazione preventiva sia “extrema ratio” Agi, 29 agosto 2012 “La carcerazione preventiva in un Paese normale dovrebbe essere l’extrema ratio a cui si ricorre solo in ipotesi eccezionali e residuali”. Lo dice Michele Vietti, vicepresidente del Csm, e aggiunge: “Purtroppo l’irragionevole durata dei processi e il meccanismo perverso della prescrizione rendono spesso impossibile pervenire all’accertamento definitivo della responsabilità penale e all’irrogazione della pena finale. Questo non giustifica ma spiega il ricorso anomalo alla carcerazione preventiva”. Vietti sottolinea: “Modifichiamo il regime della prescrizione, sospendendola in un certo stadio del processo, e avremo processi più rapidi, pene definitive più certe e meno misure cautelari”. Quanto ai rapporti tra magistratura e politica Vietti ricorda che “nel nostro sistema la terzietà e l’imparzialità sia del pm che del magistrato giudicante sono la condizione per la loro credibilità nella delicata funzione che esercitano agli occhi dei cittadini” e che “quando decidessero di scendere nell’agone politico, cosa che nessuno può negare loro, personalmente ritengo che non dovrebbero più poter tornare a fare i magistrati”. Giustizia: mostra fotografica sul progetto “Licenza di tortura”, intervista a Claudia Guido di Davide Pelanda www.articolotre.com, 29 agosto 2012 Da due anni Claudia Guido, 29 anni, fotoreporter, ha deciso di rendere pubbliche con una mostra fotografica dove spiega il suo progetto sulla fotografia e la tortura in Italia. Diplomatasi al Liceo Artistico Modigliani di Padova, Claudia si è trasferita a Firenze per studiare Fotografia alla Facoltà di Architettura. Il corso di laurea che oggi non esiste più. Finita l’università ha lavorato da Carlo Giorgi, fotografo matrimonialista fiorentino. L’anno seguente la fotoreporter è tornata a Padova, partecipando però ad un Workshop di Giorgia Florio al Toscana Foto Festival, esperienza che Claudia ritiene essere stata illuminante: “da quel giorno ho concentrato la mia ricerca nella ritrattistica occupandomi quasi esclusivamente di questo” spiega. Nel frattempo Claudia Guido ha partecipato ad una mostra collettiva nel 2011 a Romans d’Isonzo al festival “Strofe dipinte di Jazz” organizzato dal Laboratorio d’Arte Fulvio Zonc. Quest’anno invece ha preso parte al progetto “I luoghi delle emozioni” organizzato da Gi.Ar.P. (Giovani architetti Padovani) di cui esiste un piccolo catalogo. L’abbiamo intervistata. Claudia perché hai dato vita a questo progetto di una mostra fotografica itinerante sulla tortura in Italia? Da dove nasce l’idea? In che cosa consiste di preciso? “Il progetto “Licenza di Tortura” è iniziato quasi due anni fa. Venuta a conoscenza della storia di Federico Aldrovandi ho sentito l’esigenza di approfondire l’argomento scoprendo che non si trattava di un caso isolato. Dopo aver visto il docu-film di Filippo Vendemmiati “È stato morto un ragazzo”, ho continuato la mia ricerca leggendo “Volevo dirti che non eri solo” il libro scritto da Ilaria Cucchi per suo fratello Stefano. A quel punto il desiderio di partecipare attivamente alla loro battaglia (che considero non solo anche mia, ma di tutti noi italiani) è diventato troppo forte per essere ignorato. Ho semplicemente deciso di cercare di aiutare queste famiglie mettendo a loro disposizione ciò che credo di saper fare meglio. Il progetto consiste nell’aver fotografato i familiari di 11 vittime di abusi delle Forze dell’Ordine italiane, per un totale di 20 ritratti singoli. L’idea è che guardando queste immagini ci si senta quasi riflessi e ci si renda conto che sono persone normalissime, esattamente uguali a noi, a cui è successo qualcosa di terribile e purtroppo molto complesso da affrontare. Infatti, oltre alla grande perdita subita da queste persone, capita che debbano scontrarsi anche con forti campagne di disinformazione che screditano i loro familiari uccisi, in modo tale che noi italiani perdiamo interesse nell’argomento” A quanto ammonta la cifra che sei riuscita a raccogliere per la realizzazione del progetto? “La richiesta di finanziamento è partita da un mese, per ora sono riuscita a raccogliere 1017,00 dollari. Più soldi raccolgo, più porterò in giro queste fotografie insieme alle loro storie” Hai avuto richieste in giro per l’Italia e per l’Europa? “Ho avuto richieste ma ancora nulla è nero su bianco. Il mio desiderio sarebbe di iniziare questo percorso al Festival di Internazionale di Ferrara. Poi, mi piacerebbe portarla ovunque, anche all’estero ovviamente. Più persone riuscirò ad informare, più avranno un senso questi due anni di lavoro” Hai per caso partecipato alle manifestazioni ed agli scontri di Genova 2001? Secondo te lì cosa c’è stato? Cosa è capitato? C’è stata tortura? “Nel 2001 avevo 18 anni, ancora non avevo una coscienza politica forte e non ho partecipato alla manifestazione. Ricordo con lucidità il 20 Luglio, la morte di Carlo, i dubbi su quanto accaduto. Credo che il g8 di Genova non sia stato un toccare il fondo. Credo sia stato l’anno “0”, quello in cui gli uomini delle Forze dell’Ordine italiane hanno capito che se sbagliano, rimangono impuniti. In questi 10 anni hanno solo affinato la tecnica. Diaz e Bolzaneto sono due esempi molto chiari di cosa sia la tortura, eppure tanti italiani non se ne preoccupano. Credo che anche Carlo Giuliani sia una vittima di tortura, ma non è possibile provarlo, perché Carlo non ha mai avuto un processo, a parte quello mediatico si intende”. Da più parti si richiede che l’Italia abbia una normativa che danni la tortura e chi la fa (agenti ecc…). Perché da noi non si riesce a fare una legge in tal senso? “Questa è una domanda difficile. Non so perché tante cose non funzionino in questo paese, ma so che dovremmo essere noi a pretendere che funzionino. A volte penso che gli italiani si sveglino solo quando le cose capitano a loro. Io la tortura l’ho vista negli occhi di chi l’ha subita, solo che la chiamano lesioni gravi e il reato va in prescrizione”. Per realizzare il tuo progetto fotografico hai parlato con i familiari delle vittime che citi? Che impressione/emozione ne hai tratto? Che insegnamento ti hanno trasmesso? “Ovviamente ho conosciuto tutte le persone che ho fotografato, non è stato un processo veloce anzi. Ci sono voluti mesi per conoscerli e le foto non le ho fatte subito. Sono nate amicizie molto forti e parliamo quotidianamente dei loro problemi, di quelli che nascono ogni giorno. Da loro ho imparato cos’è l’amore innanzi a tutto. Patrizia Moretti, ad esempio, sa amare come nessun altro che abbia mai incontrato” Hai mai parlato invece con persone che hanno subito torture nei Paesi con le dittature (esempio: Cile all’epoca di Pinochet)? Se sì, che impressione/emozione ti hanno fatto? “No, non mi è mai capitato”. Giustizia: il caso Breivik e la maturità di Oslo di Stefano Allievi Il Mattino di Padova, 29 agosto 2012 La sentenza che condanna Anders Behring Breivik a 21 anni di carcere per le stragi di Oslo e Utoya, in cui uccise 77 persone e ne ferì oltre 200, si presta a qualche considerazione. La prima riguarda l’Europa, non lui. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Un automatismo che fa riflettere, perché già allora, secondo i dati ufficiali dell’Europol, gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, erano una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi: secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa erano stati 294. Di questi 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 di matrice islamica. Eppure proprio il fatto che la reazione di default fosse di pensare al fanatico islamico la dice lunga sull’islamofobia diffusa di cui anche Breivik è un prodotto (tra i riferimenti citati nel suo torrenziale memoriale, tra gli altri, la nostra Oriana Fallaci). Ma proviamo a pensare se invece la strage fosse stata davvero islamica: quale prezzo terribile le comunità islamiche europee avrebbero pagato. E viene da dire: gli ambienti che producono i loro piccoli e grandi Breivik, stanno pagando un prezzo analogo? O un prezzo qualsiasi, almeno? Non si è sottovalutato, per troppo tempo, il nemico che è dentro di noi, in nome e al posto di quello che viene da fuori? La seconda osservazione riguarda Breivik stesso. Condannato al massimo della pena, ma dichiarato, con una seconda perizia psichiatrica, perfettamente sano di mente: al massimo con un disturbo narcisistico, che ha l’aria di essere malattia assai diffusa nella nostra società. È un bene che sia stato così. Breivik non è un pazzo: è un fanatico. E di fanatici - dagli estremisti politici a quelli religiosi, dai razzisti e gli etnicisti ai fan (appunto una contrazione di fanatic) dei gruppi musicali, fino al tifo calcistico - la nostra società, come altre, ne produce copiosamente, a vario grado. E su questo, sul fatto che l’opinione gridata più che quella equilibrata, quella semplificatrice invece di quella complessa (in particolare, quella che dà la colpa a qualcuno invece di quella che cerca le ragioni di qualcosa), venga valorizzata e promossa, forse una qualche riflessione culturale e sociale andrebbe spesa. È un bene che Breivik sia considerato sano di mente, anche perché, se non lo fosse stato, sarebbe stata una sorta di assoluzione: per lui, ma anche per gli ambienti che l’hanno prodotto, che esistono, sono diffusi e talvolta influenti. Sarebbe stato come dire che in Norvegia, come altrove in Europa, non esistono persone come lui, e ambienti pericolosi per la democrazia che nascono al suo interno. La terza osservazione è sulla civiltà giuridica norvegese: ed è, per noi, un pugno nello stomaco. Intanto, il processo è stato rapido: un anno. Abbiamo presente i processi sulle stragi di stato, ancora senza un colpevole dagli anni 70, andate a sentenza in questi ultimi tempi? Poi la condanna: 21 anni di carcere, aumentabili se permanesse la pericolosità del soggetto. Già l’inversione è significativa: gli anni sono relativamente pochi rispetto ad altri ordinamenti giuridici (qualcuno ha fatto il tragico conto: tre mesi per ogni persona uccisa…), ma aumentabili se la pericolosità permane; altrimenti, di default, diminuiscono. Niente pena di morte, come ovunque in Europa, ma nemmeno ergastolo: nella convinzione che il “fine pena: mai” sia un’insensatezza umana e civile. Infine, la pulizia e il decoro delle celle: addirittura un trilocale, per Breivik. Che allo stato norvegese costerà moltissimo: decine di persone solo per proteggerlo dalla violenza degli altri detenuti. Un segnale di maturità - di voler essere comunque diversi da chi ci minaccia e ci attacca - indigeribile per i molti che preferiscono le leggi del branco (che si ammazzino tra di loro…), e nel nostro paese lo teorizzano, spesso da autorevoli posizioni politiche. Lombardia Fp-Cgil; in area penale esterna più di 7mila condannati, ma c’è carenza di personale Comunicato Stampa, 29 agosto 2012 Immaginate di aggiungere agli attuali 9.374 detenuti nelle carceri lombarde i 6.711 che, in Lombardia, stanno scontando misure alternative di detenzione (dagli affidamenti alla libertà vigilata): come si potrebbe reggere - a situazione già esplosiva - con 16.085 reclusi? L’ipotesi paradossale arriva dalla Fp Cgil lombarda che denuncia l’allarmante carenza di assistenti sociali degli Uffici di esecuzione penale esterna, gli Uepe (7 nella nostra regione, a Bergamo, Brescia, Como, Mantova, Milano, Pavia, Varese). Cioè carenza di coloro che hanno in carico il reinserimento sociale dei 6.711: 103 professionisti, direttori compresi. Un numero destinato a calare visto il blocco dei concorsi (l’ultimo è del 1999) e i prossimi pensionamenti (si prevede il 20%) e che potrebbe anche far chiudere degli Uepe, come afferma la coordinatrice regionale dell’amministrazione penitenziaria - comparto ministeri Barbara Campagna. Che sottolinea: “Quando si parla di sicurezza sociale si pensa solo al carcere mentre si dovrebbe pensare anche al territorio”, come è invece tendenza in altri paesi, ad esempio Francia e Gran Bretagna, dove il numero di “extracarcerari” supera quello dei detenuti. La questione è tanto più stringente ora che il ministro della Giustizia Severino si appresta a provvedimenti per ridurre il sovraffollamento penitenziario, prevedendo più spazio per le misure alternative di detenzione con “la messa alla prova” anche per gli adulti: misure destinate a fallire se non sostenute da un numero adeguato di assistenti sociali, in tutto il paese (con 32815 misure in carico degli Uepe e Lombardia a capofila). Così al ministro è rivolta la petizione on line lanciata lo scorso 10 agosto “per un reale rilancio dell’esecuzione penale esterna e delle misure alternative al carcere”. Guardando allo sciopero del lavoro pubblico del prossimo 28 settembre, Gloria Baraldi, segretaria regionale della categoria sindacale, è perentoria: “I tagli del governo a personale e risorse e, ultima, l’invarianza di spesa prevista dalla spending review stanno demolendo un sistema che andrebbe invece consolidato con un approccio organico, concreto e realista al tema dell’esecuzione penale, che non può prescindere da interventi sul territorio. Occorre investire sull’area penale esterna come modalità di rieducazione”. Teramo: i Radicali presentano i “conti” della visita di Ferragosto alla Casa Circondariale Agenzia Radicale, 29 agosto 2012 “Sovraffollamento, carenza di personale di polizia penitenziaria, alto numero di detenuti con problematiche di tipo sanitario, psichiatrico, o legate alla tossicodipendenza”, sono queste le maggiori criticità della Casa circondariale di Teramo, sottolineate da vice comandante di polizia penitenziaria, Igor De Amicis, nel corso della visita ispettiva a Ferragosto di Marco Pannella e l’on. Rita Bernardini, accompagnati da Riccardo Chiavaroli, consigliere regionale della Regione Abruzzo e da una delegazione di militanti radicali. Un po’ di numeri aiutano a comprendere meglio i termini della questione più volte denunciata. A Teramo “i detenuti presenti sono 418 (376 uomini e 42 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 231 posti; con riferimento alla posizione giuridica, 236 detenuti scontano una condanna definitiva, 62 sono in attesa di primo giudizio, 37 appellanti, 30 ricorrenti, 34 con posizione giuridica mista con definitivo, 18 con posizione giuridica mista senza definitivo”. A l’inequivocabile sovraffollamento si affianca marcato deficit di organico di polizia penitenziaria che incide negativamente sulla vita dei detenuti e sulla vita degli stessi agenti, costretti a operare in condizioni di stress per fare fronte a un notevole carico di lavoro. Secondo i dati forniti, gli agenti assegnati all’istituto sono 180 ma le unità effettivamente in servizio sono soltanto 160 (a causa di distacchi e malattie di lungo corso), mentre è di 203 agenti la dotazione organica dell’istituto prevista dal Decreto Ministeriale del 2001 (previsione effettuata in relazione ad una popolazione detenuta di gran lunga inferiore a quella attuale). Inoltre, l’elevato numero di detenuto affetti da tossicodipendenza (90), patologie psichiatriche (80), disturbi della personalità e forme di disagio psicologico (250), all’interno dell’istituto operano 6 medici (che assicurano una copertura h24), 1 psichiatra per 18 ore settimanali, 9 infermieri più 1 caposala (ciascuno impegnato per 36 ore settimanali, assicurano una copertura dalle 7.00 alle 22.00); l’area sanitaria, secondo quanto riferito, ha effettuato all’interno 6044 visite dall’inizio dell’anno; Gli educatori effettivi sono 4, atteso che 2 dei 6 educatori assegnati al carcere di Castrogno sono distaccati in un altro istituto; l’assistenza psicologica, assicurata soltanto da 2 psicologi volontari, risulta del tutto inadeguata a fare fronte alle esigenze della popolazione detenuta. Quanto al lavoro in carcere a Castrogno lavora solo il 10 per cento dei detenuti, a rotazione: si tratta esclusivamente di lavori domestici alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, mentre non sono presenti lavorazioni interne o collaborazioni con cooperative o imprese esterne; negli ultimi anni, secondo quanto riferito, le ore lavorative complessive si sono progressivamente ridotte, a causa dei consistenti tagli alle mercedi; molti detenuti, inoltre, sottolineano l’esiguità dei compensi. Una delle maggiori criticità è connessa poi al ruolo e alle funzioni del magistrato di sorveglianza, che - come segnalato da moltissimi detenuti e come si appalesa dalle condizioni di detenzione, per molti aspetti non conformi alla normativa vigente - non riesce a espletare in modo pieno e puntuale i compiti che la legge gli affida; fino a non molto tempo fa era competente sul penitenziario teramano il magistrato di sorveglianza di Pescara Alfonso Grimaldi; da circa un mese è subentrato un nuovo magistrato di sorveglianza. Di tutto questo, ma anche di molto altro relativo a situazioni e casi specifici, i radicali hanno dato conto con dovizia di particolari attraverso un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministri di Giustizia e Salute, nella quale si chiedono al Governo quali intenzioni abbia in proposito e cosa voglia fare per il risolvere la situazione sempre più critica del carcere abruzzese. San Gimignano (Si): incontro pubblico per discutere dell’impianto a biomasse nel carcere www.corrierenazionale.it, 29 agosto 2012 Alla serata interverranno il sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi, i rappresentanti del Consorzio di Cooperative “Il Santo” e della società proponenti l’intervento. Amministrazione comunale e operatori del mondo agricolo a confronto sul progetto per la realizzazione di un impianto a biomasse vicino il carcere di Ranza. All’incontro in programma venerdì 31 agosto alle 21,30 al Teatro dei Leggieri, parteciperanno il sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi, i rappresentanti del Consorzio di Cooperative “Il Santo” e della società proponenti l’intervento, i quali illustreranno nel dettaglio il progetto con particolare riferimento alle questioni legate all’agricoltura. Il progetto - Presentato come osservazione al Regolamento Urbanistico dalla Cooperativa “Il Santo” che già opera all’interno del carcere di Ranza per dare ai detenuti una possibilità di utilizzo del proprio tempo ai fini sociali, la proposta consiste nel costruire accanto al carcere una centrale di ultima generazione alimentata a cippato legnoso. L’obiettivo è la produzione di energia elettrica pulita da vendere all’Enel per ripagare l’investimento e con l’energia termica prodotta delle serre dove produrre fiori e ortaggi che alimentino il confezionamento interno al carcere. Il calore in più dovrebbe poi servire anche per riscaldare la struttura penitenziaria. Tra le implicazioni del progetto la creazione di occupazione non solo tra i detenuti e per i soggetti svantaggiati della cooperativa ma anche per i disoccupati del territorio. Non solo, l’impianto dovrebbe utilizzare un terreno confiscato alla mafia e adiacente al carcere e sarebbe alimentato anche con gli scarti di agricoltura come potature di olivi, viti e piante boschive derivanti dalle aziende agricole del territorio sangimignanese. Un tema, quello dello smaltimento delle potature e affini, che più volte il mondo agricolo locale ha sollevato quale questione di una certa importanza nella gestione dell’attività agricola. Parma: i Radicali denunciano “niente intervento chirurgico per un malato grave al 41bis” Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2012 Dichiarazione di Rita Bernardini, deputata radicale, membro della Commissione Giustizia. È il macabro gioco degli equivoci e del mancato rispetto delle leggi in vigore a tenere Tommaso Gentile ancora in cella nel carcere di Parma, per di più al 41-bis, senza che sia effettuato l’intervento chirurgico per asportare un carcinoma maligno dalla sua mammella sinistra. I fatti sono questi: il carcinoma viene diagnosticato a Tommaso Gentile il 23 maggio di quest’anno presso il Centro Senologico dell’Azienda Ospedaliero - Universitaria di Parma. In quella sede i medici consigliano l’intervento chirurgico richiesto dalla stessa Area Sanitaria del Carcere di Parma. I familiari (e i legali) si adoperano affinché l’operazione sia effettuata presso l’Istituto Regina Elena di Roma che però - quasi immediatamente - comunica all’area sanitaria del carcere di Parma l’indisponibilità ad effettuare l’intervento. Il rifiuto del Regina Elena di Roma viene comunicato con molto ritardo all’interessato, ai legali e ai familiari e così i mesi passano senza che nulla accada fino a che i legali, il 7 agosto scorso, inoltrano al Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia l’istanza per poter ottenere il ricovero di Tommaso Gentile presso l’Ospedale di Parma assieme alla regolamentazione della presenza dei familiari durante il periodo di degenza. Inspiegabilmente, il Magistrato di Sorveglianza, rigetta l’istanza adducendo l’indisponibilità del Gentile ad eseguire l’intervento presso l’istituto di Parma, dimostrando così di non aver nemmeno letto le carte che provano esattamente il contrario. Sono così passati vanamente 98 giorni durante i quali, la delegazione radicale alla Camera dei Deputati e i deputati verdi del Parlamento Europeo chiedono chiarimenti alle istituzioni con precisi atti di sindacato ispettivo, mentre l’esponente verde - radicale Emilio Quintieri assieme al quotidiano “Calabria Ora” cercano di tenere desta l’attenzione su questa inqualificabile storia di mancato rispetto di diritti umani fondamentali. Un altro tassello della profanazione della legge e dello stato di diritto in Italia. Sondrio: difficile situazione in carcere, ma la presenza del garante offre spunti di miglioramento Il Giorno, 29 agosto 2012 Il carcere di Sondrio ospita 45 detenuti, l’anno scorso nello stesso periodo erano 40, ma non è aumentato il personale che opera nella struttura. Una situazione incancrenita, ma la presenza del garante offre spunti di miglioramento. Dopo l’annuale visita al carcere di Sondrio l’onorevole Lucia Codurelli del Partito Democratico si mostra abbastanza amareggiata, ad eccezione che per il lavoro svolto in questo anno da Francesco Racchetti, nominato dall’Amministrazione comunale garante dei detenuti. “Dopo un anno di lavoro Racchetti ha stilato una preziosa relazione che offre molti spunti di riflessione - afferma l’onorevole Codurelli - ma di problemi e difficoltà ce ne sono, e molti. Al momento il carcere di Sondrio ospita 45 detenuti, l’anno scorso nello stesso periodo erano 40, ma non è aumentato il personale che opera nella struttura, 25 agenti di Polizia penitenziaria in servizio esattamente come l’anno scorso. C’è, però, una nota positiva: da marzo ha preso servizio una educatrice a tempo pieno, speriamo solo non si tratti di una meteora di passaggio perché è necessaria una presenza stabile per poter iniziare una seria attività educativa. Sono in aumento i detenuti stranieri, ben 21 su 45, e anche i giovani, l’età media è abbondantemente sotto i 30 anni. Sono una ventina, poi, i tossicodipendenti”. L’onorevole Lucia Codurelli, che nella visita è stata accompagnata proprio da Francesco Racchetti e da Angelo Costanzo, intende far riflettere sulla necessità di applicare pene alternative alla carcerazione, sia per una migliore educazione dei detenuti sia per poter diminuire la spesa sociale. “È una questione che deve far riflettere tutti - spiega. Voglio che sia chiara la mia posizione e quella del partito: siamo assolutamente per la certezza della pena, la nostra battaglia riguarda le pene alternative al carcere, soprattutto in condizioni come quella del carcere di Sondrio dove sono tanti i detenuti rinchiusi per reati che possiamo definire “minori”, che escono dalla cella e siccome non hanno possibilità di lavoro e recupero finiscono per essere arrestati di nuovo. Il costo sociale delle carceri è alto per due motivi: una causa è la lentezza della Giustizia, l’altra è la mancanza di pene alternative. Con questo tipo di impostazione, molto rigida, finiamo per spendere di più e di non riuscire a reinserire i detenuti nella società”. Cagliari: costruzione del nuovo carcere a Uta, l’impresa proroga le ferie degli operai La Nuova Sardegna, 29 agosto 2012 Amara sorpresa per i lavoratori impiegati nel cantiere del nuovo carcere di Uta. Al rientro dalle ferie di agosto hanno trovato una lettera dell’azienda con la proroga d’ufficio delle ferie causa “le alte temperature delle ultime settimane” che non consentirebbero di lavorare in sicurezza. “Riteniamo sia un pretesto - dice Chicco Cordeddu della Fillea Cgil -. I lavoratori restano così senza gli stipendi di giugno, luglio e con le ferie di agosto non pagate e ora prorogate”. I lavori di costruzione del nuovo carcere sono fermi ormai dall’8 agosto scorso. “Uno stop molto lungo - prosegue Cordeddu - nonostante il ministro Severino nella sua visita abbia sottolineato l’urgenza di terminare la struttura entro il più breve tempo possibile. Siamo di fronte al paradosso che, mentre viene ribadito lo stato di emergenza dei carceri, vengono affidati altri nuovi lavori, come ci ha comunicato la Opere Pubbliche spa, a un’azienda che non è in grado di pagare i dipendenti per quelli già portati a termine”. Oggi, è in programma un incontro in Provincia con le organizzazioni sindacali per fare il punto sulla situazione. Bologna: Totire; report Ausl sulla Dozza denuncia condizioni disumane, anche per gli agenti Dire, 29 agosto 2012 Il carcere Dozza di Bologna “è illegale. Qualunque altra struttura, di qualsiasi tipo, in quelle condizioni sarebbe chiusa”. A dirlo è il medico del lavoro Vito Totire, portavoce del circolo Chico Mendes, commentando la prima relazione semestrale fatta nel 2012 dall’Ausl sulla situazione igienico - sanitaria del penitenziario. “Il quadro complessivo rimane quello della illegalità - afferma Totire - sulla quale, nonostante le denunce, le istituzioni continuano a sorvolare”. Primo problema, il sovraffollamento: al momento dell’ispezione dell’Ausl, alla Dozza si contavano 1.008 detenuti sui 483 posti in teoria disponibili. Anche i locali di infermeria sono usati come normali celle di detenzione. “Si tratta di un sovraffollamento disumano - attacca Totire - che induce un rischio di incremento dell’aggressività oltre che del disagio psicologico, con incremento dell’aggressività autodiretta”. Insomma, la situazione alla Dozza “è ancora lontana anni luce da ogni livello di accettabilità e di umanità”. Ma il problema non è solo dei detenuti. “Le condizioni di lavoro sono disumane per gli agenti penitenziari - afferma Totire - infatti hanno un’incidenza di comportamenti suicidari o parasuicidari di otto volte superiore agli altri lavoratori”. Per loro, Totire chiede di stilare un “piano di tutela della salute”. Dal punto di vista strettamente sanitario, l’Ausl riferisce di 235 detenuti tossicodipendenti, 16 affetti da Hiv, 52 da epatite C e tre da epatite B. Inoltre, si registrano otto casi sospetti di tubercolosi e uno di scabbia. L’Ausl denuncia poi la presenza di blatte in tutte le sezioni, di zanzare e altri animali infestanti, oltre al problema del guano dei piccioni. Secondo Totire, dunque, il carcere “non è uno strumento di contrasto al grande crimine, ma è un luogo di grande internamento destinato a contenere e costringere la parte più povera della popolazione, sadicamente costruito per essere il contrario dei principi costituzionali”. Insomma, secondo Totire alla Dozza “serve il martello pneumatico”. Ovvero, occorre “adottare un piano di ristrutturazione edilizia con abbattimento di muri, aumento di spazio per singola persona e realizzazione dei refettori. Perché è assurdo che i detenuti siano costretti a mangiare in cella di fianco al wc e con i fornelli”. Inoltre, vanno “abbattute le doppie grate” messe alle finestre per impedire il lancio di rifiuti. Per ovviare al problema, Totire propone la raccolta “cella a cella”. In più, “non deve essere consentito fumare in nessun luogo salvo che in salette per fumatori”. In favore dei detenuti della Dozza serve poi un “piano di piena occupazione”, visto che “il numero di lavoranti a Bologna è particolarmente basso rispetto ad altre carceri, anche dell’Emilia Romagna”. Infine, Totire esorta a “chiarire finalmente la fattibilità dell’invio di materiali su supporto informatico” per i carcerati. In particolare, “occorre definire il quadro del patrimonio librario già esistente collocandolo online”, per consentire donazioni più mirate. Un capitolo a parte Totire lo riserva al Cie. “È un carcere a tutti gli effetti e deve essere chiuso immediatamente”, sostiene il medico del lavoro, che lamenta da parte delle istituzioni “un muro di gomma” sul centro di via Mattei. “Nessuno, dal presidente della Repubblica al ministro dell’Interno alla Regione all’Ordine dei medici - si sfoga Totire - ha risposto sul diritto degli stranieri rinchiusi nel Cie di nominare un medico di fiducia”. Bologna: indagine sui “fatti” all’Ipm del Pratello; 15 giovani detenuti sotto accusa Dire, 29 agosto 2012 Agenti aggrediti e minacciati, botte ad altri detenuti, atti di danneggiamento (compreso l’allagamento della sala mense e degli altri locali del carcere), piccoli quantitativi di droga in cella e anche un tentativo di evasione. Sono episodi avvenuti dentro le mura del carcere minorile del Pratello di Bologna nel 2010 e 2011: una lunga lista di reati di cui ora la Procura presenta il “conto” ai responsabili, 15 ragazzi maggiorenni (hanno tra i 19 e i 21 anni) che in quel periodo erano reclusi al Pratello. I fatti, per cui il pm Antonello Gustapane in questi giorni ha inviato gli avvisi di fine indagine, fanno parte dei tanti episodi di abusi e aggressioni mai denunciati alla magistratura per cui sono finiti sotto accusa in 35 dipendenti del Pratello (tra agenti, operatori e l’ex direttrice Paola Ziccone). Per loro, l’avviso di fine indagine per omessa denuncia arrivò ai primi di agosto. Ora, invece, è arrivata a conclusione anche l’inchiesta nei confronti dei responsabili di quei reati che per gli inquirenti furono indebitamente taciuti e risolti all’interno del Consiglio di disciplina con una semplice sanzione. Dei 15 detenuti che hanno ricevuto il fine indagine (atto che solitamente prelude ad una richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura), 10 sono stranieri (tre nati in Italia) e cinque italiani. Ne hanno fatte un po’ di tutti i colori: hanno rubato un paio di forbici, insultato e minacciato di morte gli agenti (a volte prendendoli a testate), allagato i locali del carcere (il 27 giugno 2010), ribaltato tavoli, picchiato altri detenuti. In quache caso sono stati trovati in loro possesso piccoli quantitativi di sostanze stupefacenti (in un caso uno psicofarmaco che non era per uso personale). L’episodio forse più grave, nell’elenco di quelli di cui questi 15 ragazzi maggiorenni dovranno rispondere, è il tentativo di evasione. Avvenne il 9 luglio 2011, quando quattro ragazzi (uno italiano e tre stranieri), in compagnia di un detenuto minorenne (per cui procede separatamente la Procura dei minori), fecero un buco nella cella in cui si trovavano con l’obiettivo di evadere. Il pronto intervento della Polizia, sostengono gli inquirenti, ha impedito che la fuga riuscisse. Nell’avviso di fine indagine per omessa denuncia inviato a Ziccone, agli agenti di Polizia penitenziaria e agli altri dipendenti del Pratello, compariva anche il caso di un detenuto picchiato e chiuso in una cella da quattro poliziotti (accusati per questo di percosse e abuso di autorità su detenuti). Non solo. Il più grave, poi, degli episodi non denunciati alla Procura minorile era un caso di violenza sessuale avvenuta tra detenuti: questa vicenda non fa parte di questa seconda inchiesta complessiva e va invece avanti per conto suo. I reati contestati ai 15 detenuti (o ex detenuti) del Pratello vanno dalla resistenza a pubblico ufficiale alle percosse, dal furto al danneggiamento fino alla detenzione di sostanza stupefacente. Totire: dov’era l’Ausl? grave che ispettori e presidio interno non abbiano notato nulla È grave che l’Ausl di Bologna non abbia avuto sentore dei soprusi e delle violenze maturate all’interno del carcere minorile del Pratello. A puntare il dito è Vito Totire, medico del lavoro e portavoce del circolo Chico Mendes, questa mattina in conferenza stampa convocata per commentare il primo rapporto semestrale 2012 dell’azienda sanitaria sulla situazione nei penitenziari. “Come mai le visite semestrali dell’Ausl e lo stesso presidio sanitario interno non hanno percepito i gravi fatti verificatisi? - si chiede Torire - a nostro avviso i sensori non hanno funzionato perché, probabilmente, il controllo è solo sulla dimensione igienica e fisico - ambientale”. Al contrario, sostiene Totire, “un presidio fisso deve funzionare anche come sensore dello stato di benessere psicofisico complessivo della popolazione ristretta, andando controcorrente e sconfiggendo prassi omertose”. Quanto successo al Pratello, sostiene Totire, “conferma il fallimento a priori delle istituzioni totali che non servono, anzi sono nocive all’interno di un percorso di riabilitazione e inclusione sociale”. E insiste: “Se la sorveglianza sanitaria si limita alla routine o ai soli aspetti fisici dello stato di benessere, gli aspetti relazionali, il clima di violenza e di sopruso non verranno mai alla luce”. In altre parole, afferma Totire, “se le vittime non si sono confidate col personale sanitario, né si sono confidati i testimoni non responsabili delle violenze, ciò indica la necessità di cambiare registro e indica la necessità di sganciare la vigilanza sui rischi professionali dall’inefficace autocontrollo del ministero della Giustizia”. Tra l’altro, aggiunge Totire, “se non fosse per le gravissime questioni relazionali, l’ambiente fisico del carcere minorile evidenzia meno problematicità della Dozza” in termini di spazio e sovraffollamento di fatto inesistente. Bologna: la (ri)nomina del Garante tornerà al Tar; Associazione Papillon presenta nuovo ricorso Dire, 29 agosto 2012 Non c’è pace per la Garante dei detenuti del Comune di Bologna, Elisabetta Laganà, rieletta a fine luglio dal Consiglio comunale dopo che il suo primo incarico (durato pochi mesi) era stato invalidato dal Tar. L’associazione Papillon, che aveva già presentato il primo ricorso, aveva definito la seconda nomina di Laganà “uno spettacolo desolante” e si era riservata di fare nuove verifiche dal punto di vista giuridico. Alla fine, pare proprio che l’associazione tornerà al Tar un’altra volta. “Stiamo lavorando in questo senso”, conferma Valerio Guizzardi, responsabile regionale di Papillon, questa mattina in conferenza stampa nella sede di Legambiente insieme a Vito Totire e Davide Fabbri. Guizzardi parla di “illegittimità del Consiglio comunale” nel rinominare Laganà, perché incompatibile con il ruolo di garante a causa di un precedente incarico al Tribunale di sorveglianza. “Non è la garante dei detenuti - attacca l’associazione Papillon - ma la garante della maggioranza in Consiglio comunale e della magistratura di sorveglianza”, che secondo Guizzardi è tra l’altro “corresponsabile del sovraffollamento della Dozza” visto che tutte le richieste di uscita durante il giorno da parte dei detenuti “vengono cassate”. Eppure, sarebbero “in 360 ad avere i requisiti”. Anche Totire, che si era candidato per ricoprire proprio l’incarico di garante, usa parole gravi contro Laganà. “Non esiste al mondo un garante che, in occasione dell’ultimo suicidio alla Dozza, dichiara pubblicamente che le cause forse sono legate a problemi familiari - si sfoga Totire - solo per non collegare il suicidio alle condizioni disumane in cui vivono i detenuti”. Marsala (Tp): Rita Bernardini; prevista chiusura del carcere sarebbe un delitto La Sicilia, 29 agosto 2012 Le carceri di piazza Castello non vanno chiuse. Benché ci sia un decreto già firmato dal Ministero della Giustizia nel maggio scorso “sarebbe un delitto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria decidesse di risparmiare sul rispetto dei diritti umani, perché sappiamo che per un processo di rieducazione la vicinanza alla famiglia è una cosa essenziale, altrimenti stiamo perdendo tempo e violando diritti umani”. Lo ha dichiarato sabato scorso l’on. Rita Bernardini al termine di una visita effettuata al carcere con i militanti Radicali Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli per verificare le condizioni dei detenuti e intervenire sul provvedimento di chiusura dopo aver tastato con mano la realtà. La visita all’istituto, dove sono reclusi 33 detenuti in regime di media sicurezza distribuiti in 7 celle, si è protratta dalle 18,30 fino alle 21 e da un “sondaggio” effettuato dalla parlamentare, tutti, tra detenuti e agenti, sono contrari alla chiusura. “Nessuno vuole che questo carcere chiuda nonostante ci siano alcuni problemi e carenze strutturali: i detenuti stanno vicini alla famiglia, hanno un ottimo rapporto con gli agenti e la maggior parte di loro sono in attesa di giustizia”. Gli agenti di polizia penitenziaria assegnati al carcere sono 34, ma quelli effettivi sono 27, con turni di 8 ore giornaliere e ferie godute con sacrifici. Sono presenti pure 2 educatori che hanno un ottimo rapporto con i detenuti, non altrettanto soddisfatti del magistrato di sorveglianza per la legge 199, la cosiddetta “Svuota carceri” che prevede i domiciliari per condanne fino a 18 mesi. Nonostante le richieste avanzate da tempo sono in perenne attesa di risposta. In cella non ci sono le docce e per lavarsi i detenuti devono raggiungerle esternamente. “Una cosa che contraddistingue questi istituti più piccoli rispetto agli altri - conclude l’on. Bernardini - è che c’è un ottimo rapporto con gli agenti penitenziari, che poi sono le figure professionali che stanno maggiormente a contatto con i detenuti. In generale l’ordinamento penitenziario è violato in tutte le carceri italiane per responsabilità centrali dell’amministrazione penitenziaria, perché non arrivano le risorse necessarie per fare la rieducazione e gli spazi sono quelli che sono”. Il buon rapporto tra i detenuti e gli agenti è testimoniato da Giovanni Barbara: “Se tornassi indietro rifarei questo lavoro senza ripensamenti. Per noi non è come per i carabinieri o i poliziotti che arrestano i detenuti e basta. Noi ci viviamo assieme”. Cosenza: Corbelli (Movimento Diritti Civili); in libertà detenuto gravemente malato Ansa, 29 agosto 2012 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, in una nota, esprime “grande soddisfazione. Un’altra mia importante battaglia è stata vinta: è stato scarcerato, infatti, Aurelio T., 39 anni, che da quasi un anno era rinchiuso nella casa circondariale di Cosenza, per un piccolo reato, da lui sempre negato”. “Aurelio - aggiunge Corbelli - è gravemente malato, invalido e rischiava di morire in cella. Aveva tentato più volte il suicidio e le sue condizioni di salute si erano sempre più aggravate, tanto da risultare assolutamente incompatibili con il regime carcerario”. Corbelli, riferisce una nota, “ha dedicato tutto il mese di agosto per questa battaglia e per questo drammatico caso umano. A chiedere il suo intervento erano stati, oltre allo stesso recluso, 60 detenuti che dal carcere cosentino, agli inizi di agosto, gli avevano fatto recapitare una lettera-appello, con le loro firme, chiedendo al leader di Diritti civili di salvare Aurelio prima che sia troppo tardi”. Saluzzo (Cn): la luna dietro le sbarre… palcoscenico in carcere con Voci Erranti Onlus La Repubblica, 29 agosto 2012 Sembra fatto apposta, in omaggio al primo uomo sulla luna, l’astronauta Neil Armstrong, morto sabato scorso, invece “Volevo la luna”, messinscena con i detenuti del carcere di Saluzzo, prodotta da Voci Erranti Onlus con il sostegno della Compagnia San Paolo, è frutto di una meticolosa preparazione che va avanti da mesi; sarà rappresentata in carcere dal 26 al 29 settembre, con una doppia replica venerdì e sabato, ma ne parliamo già perché è obbligatorio prenotare, ed è bene affrettarsi: è possibile farlo da oggi fino al 15 settembre, non oltre, da lunedì a venerdì tra le 18 e le 20 al numero 348.0465363 e il sabato dalle 12 alle 16 al cellulare 348.0356243 (ulteriori informazioni su www.vocierranti.org). “Volevo la luna” è un allestimento astronomico e fantastico, ed è bello pensare che qualche immagine, fra le tante che artiglieranno gli spettatori coinvolti in un’esperienza rara, sia dedicata ad Armstrong, al piacere della scoperta e alla volontà di superare i propri limiti. Voci Erranti esiste dal 2000 e dal 2002 lavora in carcere, è Grazia Isoardi, qui autrice del testo e regista, a condurre laboratori stagionali, con due incontri a settimana rivolti ad un gruppo di venti detenuti, che sfociano in spettacoli aperti al pubblico esterno. È un’attività seria e importante, ammantata forse di stile sabaudo, quello del faccio e non dico, che le ha impedito il giusto riconoscimento nazionale. Voci Erranti non è la sola realtà in Piemonte a fare teatro con passione, qualità, idee, professionalità, nelle patrie galere. L’Associazione, che ha sede a Racconigi, può vantare pregevoli colleghi, ma tutti lavorano in sordina: eppure il progetto di Voci Erranti non è così lontano dal percorso blasonato e giustamente decantato dalla stampa della Compagnia della Fortezza, gruppo di Volterra, diretto da Armando Punzo e costituito da detenuti a vita o con pene molto severe, come i protagonisti del film dei fratelli Taviani, “Cesare deve morire”, Orso d’Oro a Berlino, sul “Giulio Cesare” di Shakespeare recitato dai carcerati di Rebibbia. Il successo della pellicola ha illuminato di luce riflessa le tante iniziative affini e dunque anche la decennale presenza di Voci Erranti a Saluzzo sta ricevendo maggiore attenzione, come si evince da piccoli segnali: “Volevo la luna” sarà eccezionalmente replicato nel mese di ottobre per le scuole che ne faranno richiesta. Non è dato sapere i nomi degli interpreti che hanno sperimentato un cammino immaginario tra stelle e pianeti guidati da Grazia Isoardi e coreografati da Marco Mucaria. Però, ancorché innominati, gli attori si sono messi in gioco volentieri con tematiche imponenti e non è la prima volta: nel 2010 si erano cimentati in “Non calpestare i fiori” con la Costituzione della Repubblica Italiana e nel 2011 in “Allegro ma non troppo” con le suggestioni della musica sinfonica. Immigrati: in Libia drammatica situazione profughi, vessazioni e torture su migliaia di persone Adnkronos, 29 agosto 2012 “Sto ricevendo telefonate drammatiche dalla Libia. Migliaia di profughi rinchiusi nei 21 centri di detenzione sono oggetto di vessazioni e torture. Centinaia di loro sono a rischio espulsione nei Paesi di origine, nonostante lì rischino la vita. Le loro condizioni, in questa nuova Libia, sono peggiorate”. Lo denuncia oggi al Sir don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo presidente dell’agenzia Habeshia che da tempo denuncia le violazioni dei diritti umani sui profughi che tentano di arrivare in Europa passando per il deserto del Sinai o dalla Libia. “I flussi stanno aumentando - afferma, anche perché molti scappano dai campi profughi in Sudan dove vengono rapiti dai predoni del Sinai per chiedere il riscatto alle famiglie”. Secondo don Zerai i centri di detenzione dei profughi nella Libia post-Gheddafi sono “almeno due in più, ma le condizioni non sono cambiate. Spesso agli operatori sociali viene vietato l’ingresso. Questa politica è anche frutto della pressione europea ed italiana per bloccare gli arrivi di immigrati dalla Libia. Il governo italiano, con l’ultimo accordo firmato, sta anche finanziando alcuni centri di detenzione”. In queste ore, denuncia don Zerai, “i militari libici stanno costringendo centinaia di profughi a registrarsi presso le ambasciate dei Paesi di origine, per poi espellerli”. Il sacerdote ricorda che “questo atto grave accompagnato da violenza fisica è contro ogni diritto internazionale umanitario”, perché viola il principio di “non refoulement” dei profughi nei Paesi da cui fuggono perché rischiano la vita. “La Libia sta violando la convenzione dell’Unione africana che tutela i diritti dei profughi e richiedenti asilo politico, firmata da precedente regime. L’attuale governo sta deportando donne e uomini in condizione degradanti. Nelle settimane scorse sono stati uccisi quattro profughi, tre eritrei e un somalo. Ci sono anche vessazioni delle forze dell’ordine sulle donne perché cristiane”. Don Zerai descrive nel dettaglio la situazione nei centri di Tuewshia e Bengasi. Qui, in particolare, sono detenute circa 400 persone. “Il centro di Bengasi in teoria è gestito dalla Luna Rossa, la croce rossa musulmana - spiega - ma di fatto comandano gli uomini armati della rivoluzione al punto di permettersi di entrare, abusare sessualmente delle donne, portarsi via 140 uomini per farli lavorare come schiavi. A Bengasi neanche i minorenni vengono risparmiati da percosse e tortura: i militari si divertono a fare tiro a segno sui ragazzini”. “Da una Libia democratica - osserva don Zerai - ci aspettavamo maggiore rispetto dei diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli africani. Perché tutto questo accanimento? Perché tanta violenza e massacri?”. Il sacerdote conclude con un appello a tutte le organizzazioni umanitarie, in particolare alle agenzie delle Nazioni Unite perché facciano “ogni sforzo possibile per ottenere il rispetto dei diritti dei rifugiati” e “la liberazione dalle carceri, per essere accolti in un campo profughi gestito dall’Unhcr”. Immigrati: Save the Children; minori e adulti a Lampedusa sono stati detenuti nei Centri libici Adnkronos, 29 agosto 2012 Dalle interviste rilasciate agli operatori emerge che “minori e adulti migranti sono stati detenuti nei centri e nelle carceri libiche dove hanno subito violenze di ogni genere”. “Molti dei minori giunti a Lampedusa - come d’altra parte molti adulti migranti - sono transitati dalla Libia dove hanno vissuto situazioni drammatiche e di grande pericolo”. Lo denuncia Save the Children che, nell’ambito del progetto Praesidium, che mira a fornire informazione, consulenza legale, mediazione culturale ai minori migranti non accompagnati, ha raccolte molte storie e testimonianze. Sono 51 i minori stranieri non accompagnati, provenienti dalla Libia, ancora presenti nel Centro di pronta accoglienza dell’isola di Lampedusa per Save the Children ha chiesto un veloce trasferimento in comunità d’accoglienza idonee. “Nelle interviste rilasciate agli operatori presenti a Lampedusa - sottolinea l’associazione - emerge come molti minori e adulti migranti siano stati detenuti nei centri di detenzione e nelle carceri libiche dove hanno subito violenze di ogni genere, soprattutto nel caso di migranti musulmani o musulmani non praticanti Altri minori intervistati hanno dichiarato di essere invece rimasti in Libia per un periodo limitato, necessario per l’organizzazione della partenza”. Secondo Save the Children molti migranti lavorano in paesi di transito, al fine di recuperare i soldi necessari per il viaggio e partono per la Libia solo quando hanno ottenuto la somma necessaria a partire. I minori hanno anche raccontato che i migranti in attesa di partire vengono nascosti e poi portati verso le barche in partenza in gruppi di 30, su gommoni. M.G., un minore eritreo di 15 anni, ha detto a Save the Children di aver lavorato in Sudan per 3 anni, per guadagnare 1.400 dollari e poter partire. In Libia è rimasto un mese, nascondendosi in una cava. Poi, è stato finalmente possibile partire. In generale, la ripresa dell’afflusso dalla Libia si spiega con il contemporaneo ramadan che ha causato un allentamento dei controlli da parte dei poliziotti. Il viaggio, nella testimonianza di tanti ragazzi, si conferma un’esperienza ad alto rischio e dall’esito incerto. Secondo i racconti resi agli operatori di Save the Children alcuni migranti sono stati abbandonati dai trafficanti vicino a Sabah (nell’area centro meridionale della Libia) o nel deserto e sono stati poi rintracciati dalla polizia libica che li ha condotti in centri di detenzione. “Per i minori che hanno attraversato esperienze di questo tipo, è tanto più importante garantire soccorso immediato e successivamente protezione e un percorso di integrazione in Italia”, conclude Direttore Generale Save the Children Italia. Stati Uniti: per arrivo uragano Isaac in Louisiana trasferiti oltre 2.100 detenuti Ansa, 29 agosto 2012 Oltre 2.100 detenuti sono stati trasferiti nelle ultime ore dalle prigioni della Lousiana in zone ritenute a rischio per l’imminente passaggio dell’uragano Isaac verso carceri più sicure, ha reso noto il governatore della Lousiana, Bobby Jindal. “Abbiamo completato il trasferimento e ora non ci muoviamo più”, ha detto il governatore precisando che l’operazione è iniziata domenica e che i detenuti sono stati ricollocati in altri penitenziari dello Stato. Ucraina: definitiva condanna di Yulia Tymoshenko; Ue “profondamente delusa” Tm News, 29 agosto 2012 Continua la guerra a distanza tra Yulia Tymoshenko e il presidente Victor Yanukovich dopo il giudizio della Corte suprema che ha confermato oggi la condanna a sette anni di prigione per la leader dell’opposizione. I legali dell’ex premier hanno già annunciato il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, da cui si attende a breve la decisione in merito all’appello presentato sulla legalità dell’arresto discusso ieri. Prossimamente saranno dunque la condanna al carcere e all’interdizione ai pubblici uffici a essere esaminate a Strasburgo. Secondo l’avvocato Sergei Vlasenko “non vi è stato un processo equo”. La difesa ha sempre sostenuto che le accuse a carico di Tymoshenko sono state orchestrate da Yanukovich per allontanarla dalla scena politica. Una versione condivisa in Europa, che negli ultimi mesi ha aumentato la pressione su Kiev per giungere a una risoluzione del caso. Anche oggi l’Ue, rappresentata all’udienza dai due inviati speciali - l’ex presidente polacco Alexander Kwasniewski e l’ex presidente del parlamento europeo Pat Cox, si è detta “profondamente delusa” dalla decisione della Corte di Kiev. Continua quindi anche il braccio di ferro tra Yanukovich e Bruxelles che sino ad ora non ha avuto esiti se non quello di spostare il baricentro dell’Ucraina più verso la Russia che non verso l’Europa.