Giustizia: salvare Kate dalla lapidazione, un dovere di civiltà di Giuseppe Anzani Avvenire, 4 settembre 2011 Il carcere come ultimo temporaneo rifugio, le sbarre come protezione da più aspra minaccia, la sventura di una pena dolorosa (com’è doloroso il carcere da noi) come precario scampo dalla annunciata tortura della lapidazione a morte. Kate Omoregbe, la ragazza nigeriana che nella prigione di Castrovillari ha scontato la pena, viene messa in libertà. Fuori, fuori anche un po’ prima del tempo, come ha meritato la sua buona condotta; ma subito via, via di qua, via dall’Italia, sia riportata in Nigeria. In Nigeria Kate non ha fatto niente, è scappata per non sposare un vecchio cui facevano promessa, e per non cambiare fede convertendosi a forza all’islam; ma per questo, appunto, la punizione è la morte a sassate. Incivili. E noi? È pazzesco pensare che corrisponda a un meccanismo di legge nostra, cioè di nostra civiltà giuridica, consegnare questa giovane donna nelle mani del carnefice di casa sua. Da noi, ha pagato il suo debito condanna (se debito ci fu) in quel vecchio processo per la droga che fu trovata nella casa dove abitava con altri); ma non è questo il punto. Il punto è che se il carcere espiato ce la restituisce pulita, e con il conto chiuso, cacciarla ora negli artigli d’una crudeltà ingiusta, che la uccide per una colpa inesistente, cioè per la propria libertà di fede, di dignità di donna, di diritto fondamentale alla vita, sarebbe un’infamia. Incivili, incivili noi, se teniamo così basso il nostro diritto da farne ima simile arancia meccanica. Non è così, per fortuna. Quando la giurisprudenza affrontò le leggi che ai reati di droga avevano allacciato l’espulsione obbligatoria, i giudici mandarono gli atti alla Corte Costituzionale, e il responso fu che non era giusto, e che occorreva in concreto anche la “pericolosità sociale”. Poi è stata la volta di leggi più aspre, e in certo modo “colleriche”, astringer l’imbuto, come il decreto - sicurezza del 2008. Ma se la legge è fatta per l’uomo, se riflette intelligenza in luogo di insipienza, per l’uomo è civiltà trovare soluzione alle insospettate tragedie in cui ci fanno inciampare i casi infiniti della vita, in luogo di celebrare come farisaico summum jus il suicidio della giustizia. L’albero del diritto è fatto di radici, di fronde e di gemme. Non si tagliano le radici per ossequio a un ramo storto o a una gemma impura. L’impianto dei diritti umani vince su tutto, e su tutto vince la vita. Noi questa regola di civiltà ce l’abbiamo scritta chiara, e non solo nella tradizione, nella Costituzione, nella coscienza. Non solo nei trattati e nelle convenzioni internazionali sui rifugiati, sui richiedenti asilo. Ce l’abbiamo scritta per espresso nell’art. 17 di una legge del 1998 (n. 40), che testualmente sancisce il divieto assoluto di espulsione o di respingimento “verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”. La legge è conosciuta come legge “Turco - Napolitano”. Sì, ha questo nome. L’appello a Napolitano che si può firmare su internet, e che è petizione per la vita di Kate, è insieme un promemoria per la civiltà e la giustizia che fu promessa. Lui è un buon garante, la nostra legge può dare salvezza. Ore contate per Kate: va salvata, di Viviana Daloiso La sua vita, ora, è davvero appesa a un filo. E perché quel filo tenga, per vivere, Kate Omoregbe prega dalla sua cella, nel carcere calabrese di Castrovillari. Da ieri potrebbero anche lasciarle aperte, quelle sbarre. È libera, sulla carta: il tribunale di sorveglianza ha emesso un provvedimento di scarcerazione scontandole 90 giorni per buona condotta. Ma qualcuno, nella grande macchina della burocrazia, è ancora in ferie, qualcun altro non lavora il sabato: e così il provvedimento è fermo su chissà quale tavolo, lontano dalla direzione del carcere. Che, per far uscire Kate, deve aspettare. Una fortuna, visto che la libertà per la donna nigeriana è anche una nuova, duplice condanna. All’espulsione dal nostro Paese, dove il reato per cui è stata condannata - la detenzione di droga - presuppone la revoca del permesso di soggiorno. E alla morte nel suo, dove il “reato” per cui è scappata - il rifiuto di convertirsi all’islam dal cattolicesimo e di un matrimonio combinato - presuppone la lapidazione. Leggi diverse, che nel drammatico caso di Kate sembrano volersi accordare sul più macabro dei finali. L’ultimo capitolo della vicenda sarà scritto, probabilmente, già domani. Non importa se una casa di accoglienza a Lodi, gestita dalle suore, sarebbe pronta a prendersi cura della donna. Non importano le due interrogazioni parlamentari presentate ai ministri dell’Interno e della Giustizia. Non importano nemmeno le 1.700 firme raccolte online da una delle maggiori associazioni mondiali americane per i diritti umani, Care 2, per la petizione da consegnare al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i continui appelli del Movimento diritti civili, dell’amministrazione comunale di Castrovillari e di quella provinciale di Cosenza, che da oltre un mese si sono mobilitati per la vicenda. Il destino di Kate dipende da una sola, possibile decisione: quella del tribunale di Castrovillari (o di Cosenza) in merito al blocco del provvedimento di espulsione emesso contestualmente alla sua condanna dai giudici di Roma, nel 2008. Tale provvedimento potrebbe (e dovrebbe, in base alle norme vigenti) essere preso in forza della domanda di asilo politico avanzata dalla donna dieci giorni fa e trasmessa dalla direzione del carcere alla questura di Cosenza. “Quella domanda deve essere ancora esaminata e giudicata dall’autorità competente - spiega Franco Corbelli, leader del Movimento diritti civili - e fino ad allora Kate non può e non deve essere allontanata dall’Italia”. Senza contare che il nostro Paese, in prima linea contro la pena di morte, tutela da sempre gli stranieri dall’estradizione in Paesi dove tale pena sia in vigore: “E nel caso di Kate - continua Corbelli - c’è la certezza assoluta di una condanna a morte sociale e materiale, una volta rientrata in Nigeria”. Il timore è, tuttavia, che proprio quella macchina burocratica “inceppata” in questi giorni possa ricominciare a muoversi, ciecamente. Se così fosse, domani mattina fuori dal carcere del Pollino le forze dell’ordine potrebbero prelevare Kate e dare esecuzione al mandato di espellerla. Un’ipotesi scongiurata da più fronti, a partire dalla Comunità di Sant’Egidio, che per prima il 17 agosto scorso ha lanciato tramite Avvenire il suo appello al capo dello Stato affinché il nostro Paese “mostri il suo livello di civiltà giuridica” e “crei vita là dove c’è solo discriminazione e morte”. Parole che richiamano quelle con cui la stessa Kate si rivolse al Movimento diritti civili nella sua lettera - appello ai primi di agosto, quando per la prima volta fu resa pubblica la sua storia: “Vorrei tanto ricominciare a vivere senza paura di essere uccisa, da donna libera in uno Stato libero”. Lei, cresciuta nella città di Sokoto, al cuore della Nigeria islamica - dove, per intendersi, vige la sharia - a chi la visita nel carcere di Castrovillari continua a ripetere d’essere certa che l’Italia e il suo Paese si distinguano profondamente. Che l’Italia la salverà. Qui, d’altronde, è arrivata dieci anni fa, col solo desiderio di poter vedere Roma, la capitale di quella fede che per tutta la vita aveva dovuto nascondere. E proprio lì s’è affidata a tre connazionali che l’hanno ospitata in casa e che - questa la sua versione - usavano droga. “Ho sbagliato comunque - dice - e ho scontato il mio errore”. E mentre s’incammina verso il bar del carcere - dove la fanno lavorare tre ore al giorno visto il sua carattere mite - bisbiglia il nome della sua sorellina. È rimasta laggiù, “non la sento da quattro anni”. Anche la sua vita, vorrebbe fosse salva. Ma questa è un’altra storia. Adesso la politica si muove: rimarrà in Italia, di Alessia Guerrieri Buone notizie, anche se non ufficiali. Nessuna dichiarazione nero su bianco, in sostanza, ma le informazioni che nella Capitale ruotano intorno al caso di Kate fanno ben sperare. Una cosa è certa: la donna “non verrà reimbarcata su un aereo per la Nigeria lunedì”, quando uscirà dal carcere. Questo non è solo improbabile, ma anche tecnicamente non fattibile, vista la complessità della situazione ed i tempi della burocrazia. Molto più verosimile, invece, che a Castrovillari, in Calabria, domani la donna appena scarcerata venga portata in questura dove ribadirà la sua richiesta di asilo politico, formulata una decina di giorni fa. Tuttavia ci vorrà tempo, forse anche molte settimane, per avere un parere dalla commissione istituita ad hoc. Ai suoi membri, infatti, spetta la verifica sulla veridicità delle dichiarazioni della donna e sui reali pericoli che corre nel suo Paese. Nel frattempo, perciò, Kate aspetterà la risposta in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) o in alternativa in una struttura di accoglienza, dove potrebbe essere trasferita forse già domani. “Passeranno mesi, prima che si arrivi ad un accoglimento o a un rigetto della richiesta d’asilo”, fanno sapere comunque gli organismi competenti. Normalmente la procedura è questa. Ma chi ha in mano le carte va anche oltre e, pur invocando il riserbo, arriva a tratteggiare le prossime puntate della storia di Kate. Visto che la nigeriana è nel nostro Paese da anni e ha alle spalle anche una condanna non lieve, “è ipotizzabile che la sua richiesta non sia accolta”. Ma anche in questo caso, Kate non deve temere per la sua vita, rassicurano da Roma, perché ci sono tutti gli estremi per u - na “protezione internazionale umanitaria”. Insomma, le potrebbe essere concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari. “L’Italia non è una nazione che rimanda a casa una donna che nel suo Paese d’origine rischia la vita e non lo faremo neanche in questo caso”. Non importa, dunque, quanto sia alto questo rischio, basta solo il minimo sospetto che lei in Nigeria possa vedere minacciata la sua incolumità. Il Viminale, a quanto pare, si sta già orientando per questa soluzione, anche se per ora nessuno può dare certezze “in chiaro”. La situazione di Kate non è poi così semplice. Dopo una condanna a quattro anni emessa dal tribunale di Roma, avendo scontato la sua pena nel carcere calabrese di Castrovillari, è il tribunale di sorveglianza di Cosenza che dovrà rendere effettiva la sua espulsione. Ma per emettere il foglio di via, il giudice attenderà, appunto, le conclusioni della commissione asilo. Mentre la giustizia va avanti, anche politica, sindacato e mondo dell’associazionismo non stanno con le mani in mano. “Già martedì, alla ripresa dell’attività della Camera, farò un’interrogazione al ministro dell’Interno chiedendo di intervenire subito”, spiega la deputata del Pdl Souad Sbai che ha avuto anche rassicurazioni dal governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, sulla sistemazione che Kate avrà una volta uscita di cella. “Ci sono centinaia di Kate in Italia - ammette - anche se non fanno notizia, dobbiamo pensare anche a loro. Sarebbe un’ipocrisia andare ad aiutare le donne che vivono in condizioni di pericolo all’estero ed ignorare tutte quelle che abbiamo qui, in Italia”. Accanto a lei ci sono dodici parlamentari bipartisan che ancora attendono risposta a due interpellanze fatte al ministro Maroni e al neo ministro della Giustizia Nitto Palma. Anche il sindacato di via Po, come la gran parte del mondo cattolico, segue con attenzione la vicenda ed è pronto ad intervenire. La prima in ordine di tempo sarà forse proprio la Cisl che domani tratterà il caso, portato all’attenzione dei vertici dalla segretaria confederale con delega alle politiche migratorie, Liliana Ocmin. “Cercheremo di formalizzare la nostra richiesta già domani per aiutare Kate - precisa - agendo nel modo migliore, anche senza grandi proclami, per tutelare soprattutto la ragazza”. Senza dimenticare, comunque, che vanno aiutate e informate le tante donne che “vivono lo stesso dramma nell’ombra”. Giustizia: chi ha ammazzato Carlo Saturno? di Susanna Marietti Terra, 4 settembre 2011 Carlo Saturno è uno dei non pochi ragazzi morti nelle nostre galere in circostanze ancora da chiarire. Vogliamo qui raccontarvi alcuni fatti in proposito. Nei primi anni del 2000, fu rinchiuso nel carcere per minori di Lecce. Pare che vari siano stati i tentativi, sempre ignorati, di far conoscere al Dipartimento della giustizia minorile quel che accadeva lì dentro tra il 2003 e il 2005, episodi gravissimi di violenza nei confronti dei ragazzi detenuti. Fu addirittura l’ex direttore a tentare di denunciare alcuni dei suoi poliziotti. Nel 2007, finalmente, le parole del medico dell’istituto trovano ascolto presso l’allora sottosegretario alla Giustizia Alberto Maritati, il quale manda le carte alla Procura di Lecce. Nove agenti di polizia penitenziaria vengono iscritti nell’inchiesta. Si parla di abusi terribili, di un sistema retto sul terrore. Il carcere viene chiuso e i ragazzi, tra cui Saturno, trasferiti nell’istituto minorile di Bari. E a questo punto Carlo parla. Si costituisce parte civile nel processo, racconta del pugno che gli ha sfondato un timpano e di tante altre cose. Arriviamo all’anno in corso. Carlo è rientrato in carcere. Questa volta ha 22 anni e finisce nel carcere per adulti di Bari. Nessuno ha voluto dirci se in quell’istituto operasse qualcuno dei nove agenti incriminati anche grazie a lui. I primi di aprile Carlo viene trovato boccheggiante attaccato per il collo a un lenzuolo. Viene ricoverato al policlinico barese, muore il 7 aprile scorso. La famiglia non crede al suicidio. La Procura del capoluogo pugliese, apre dapprima un fascicolo senza alcuna ipotesi di reato e poco dopo lo modifica in un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio. Nel frattempo i giudici che si occupavano degli abusi al minorile fissano la successiva udienza oltre i termini di prescrizione. Quel processo muore assieme a Carlo. Cosa c’entra Antigone in tutto questo? Don Raffaele, cappellano del carcere di Lecce, alla morte di Saturno aveva lanciato un appello affinché “se ci sono detenuti che sanno qualcosa, lo dicano”. E alcuni giorni fa un detenuto ce lo ha detto. Ci ha scritto una lettera nella quale ci racconta di aver visto tutto. Carlo, a suo dire, era stato picchiato violentemente mentre era nella cella di isolamento nella quale è stato poi trovato appeso a quel lenzuolo. Carlo, sempre a suo dire, non si sarebbe suicidato. Abbiamo mandato la lettera in Procura. Abbiamo voluto però qui raccontarvela, affinché ci aiutiate a vigilare sull’inchiesta: che la magistratura faccia davvero chiarezza su quanto accaduto a Carlo. Gli elementi ci sono, la comunità del carcere rende le indagini non tra le più difficili. Che non ci dicano un domani che si sono prescritti i tempi. Giustizia: Della Monica (Pd); evasione fiscale; si agitano manette per non cambiare nulla Dire, 4 settembre 2011 “Dalla lettura degli emendamenti presentati dal governo per combattere l’evasione fiscale c’è da rimanere sgomenti. Non solo ci troviamo di fronte a norme di dubbia costituzionalità e di palese inefficacia, ma anche a regole che, se diventassero legge, potrebbero, grazie alla prevista pubblicazione delle dichiarazioni dei contribuenti, incentivare la criminalità ad ampliare il proprio raggio d’azione con estorsioni ai danni di cittadini più o meno abbienti”. Lo dice la senatrice del Pd, Silvia Della Monica, capogruppo in commissione Giustizia di Palazzo Madama. “Il tintinnio di manette paventato contro gli evasori - spiega Della Monica - è l’ennesimo espediente propagandistico con il quale il governo Berlusconi intende ingannare l’opinione pubblica, salvo il fatto che è inefficace: la sospensione condizionale della pena per un determinato reato è di palese incostituzionalità, tanto da far sorgere il dubbio che chi ha presentato questa norma sia digiuno di diritto oppure, più probabilmente, animato dalla malafede”. “Per eliminare queste distorsioni - conclude Della Monica - il Pd ha presentato due emendamenti, il primo perché la sospensione della pena sia condizionata all’effettivo pagamento delle somme dovute al fisco così che ci si concentri sul risultato di recuperare il gettito piuttosto che su una carcerazione che non garantisce alcun rientro d’evasione, il secondo riguarda la necessità di regolare l’accesso alle dichiarazioni dei contribuenti ai solo soggetti che hanno interesse riconosciuto dallo Stato. Il diritto alla curiosità infatti, ancora non esiste”. Giustizia: Osapp; in 10 anni nelle carceri 40% di personale in meno e 15mila detenuti in più Ansa, 4 settembre 2011 “È assai probabile che presto, a causa delle emergenze in atto e della progressiva e gravissima penuria di personale, per il sistema penitenziario il Governo debba iniziare ad immaginare la nomina di una sorta di ‘curatore fallimentare”. È questo il nuovo appello che l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci, rivolge al Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma e all’intera compagine di Governo. “Nel 2000 e con 15mila detenuti in meno - prosegue il sindacalista - erano in servizio negli istituti e nei servizi dell’Amministrazione penitenziaria quasi 10mila addetti dei profili tecnico - amministrativI e 41mila poliziotti penitenziari, tenuto conto dell’assunzione straordinaria, allora prevista oltre l’organico, di 800 agenti ausiliari”. “Oggi, con 67mila detenuti, il personale dei profili tecnici - amministrativi non supera le 7mila unità e di poliziotti penitenziari in servizio ce ne sono poco più di 39mila”. “Non sappiamo se questa politica del gambero derivi degli errori di analisi e di valutazione di questa o di quella maggioranza di governo - indica ancora il leader dell’Osapp - ma si può esser sicuri che l’attuale grave degrado e le precarie condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, non scaturiscono solo dal fatto che oltre la metà delle carceri supera del 70% la capienza massima, ma anche dalla circostanza, tutt’altro che secondaria, che di personale ce n’è sempre di meno e che l’aggravio di responsabilità e di disagi nell’operare in tale situazione, spesso in mansioni e per compiti non di polizia, è sempre di più a carico dei pochi poliziotti penitenziari in servizio.”. “Purtroppo, mentre per l’oramai residuo personale amministrativo e tecnico delle carceri, in ragione della nuova manovra finanziaria, oltre ad un nuovo blocco delle assunzioni, si ventila la possibilità di una ulteriore riduzione del 10% dell’organico (la terza in 4 anni), per la polizia penitenziaria, in ragione dei veti del ministero dell’economia e finanze e della presunta scomparsa dei fondi che pure la legge 199 del 2010 stabiliva per l’attuazione del c.d. piano - carceri, non si potrà provvedere all’assunzione straordinaria delle 1.611 unità, tanto vantate oltre che più volte promesse dall’ex Ministro della Giustizia Alfano”. “Non vorremmo che, stante il progressivo forfait dello Stato in ambito penitenziario, un giorno o l’altro, si determini l’affidamento diretto della gestione delle carceri ai detenuti, in una sorta di obbligata auto - gestione, come in alcuni paesi del Sudamerica - conclude amaramente Beneduci - per cui, prima del tracollo definitivo è nostro auspicio che l’attuale Guardasigilli riesca a bloccare il meccanismo perverso per il quale al carcere si continuano a togliere risorse umane, nel nome di risparmi che dentro e fuori gli istituti di pena significano soltanto maggiore violenza, meno recupero sociale e, quindi, più criminalità”. Giustizia: Vitali (Pdl); ministro Palma intervenga per l’assunzione di poliziotti penitenziari Adnkronos, 4 settembre 2011 “Raccolgo l’allarme lanciato dall’Osapp, sindacato autonomo agenti polizia penitenziaria, sul rischio che 1.611 agenti della Polpen, la cui assunzione straordinaria era stata prevista da una legge ad hoc, possano non essere assunti per problemi sollevati dal Ministero dell’Economia sulla copertura della spesa” È quanto dichiarato dall’on Luigi Vitali responsabile nazionale dell’ordinamento penitenziario del Pdl, che commenta le dichiarazioni di Leo Beneduci segretario nazionale dell’ Osapp. Vitali ha ricordato che “il personale tutto che opera nei nostri istituti di pena, sia pure con cautela, aveva visto quel gesto come un segnale di attenzione per la grave situazione che vivono le nostre carceri. Chiedo che il Ministro Nitto Palma, da par suo intervenga per rassicurare il Parlamento e la Polizia Penitenziaria anche in considerazione del suo impegno a reclutare, nei prossimi anni, 5.000 unità di polizia penitenziaria necessarie per coprire le vacanze di organico”. Giustizia: reato di prostituzione in strada, il Governo prepara un decreto di Andrea Cuomo Il Giornale, 4 settembre 2011 L’estate violenta di Roma, tra risse e omicidi, finisce in Campidoglio, dove ieri il sindaco Gianni Alemanno ha incontrato il ministro dell’Interno Roberto Maroni, a cui ha chiesto uomini, regole e poteri. Tutte le misure finiranno in un Patto per Roma sicura, il terzo del genere nella capitale, che sarà predisposto dal delegato del ministro Alfredo Mantovano e firmato da Maroni nei prossimi mesi. Tra i punti trattati da Alemanno e Maroni il più importante, anche perché potrebbe interessare altre città italiane, è l’intenzione del governo di predisporre un nuovo decreto legge che preveda il pieno recupero dei poteri di ordinanza dei sindaci, facendo tornare in auge la figura dei sindaci - sceriffi. Nel decreto legge, che conterrà una serie di misure che permetteranno di rendere più sicure le città italiane e non solo Roma, potrebbe esserci anche una novità riguardante la prostituzione su strada che dovrebbe diventare reato. Ma la prima richiesta contenuta nel cahiers de doléance di Alemanno è certamente quella di una maggiore presenza di forze dell’ordine sul territorio, lamentando il sindaco capitolino una carenza di organico che lui fotografa in “2 - 3 mila unità”. Maroni ha promesso per i prossimi giorni un primo contingente di 360 uomini, ma conta di smobilizzare altre forze riducendo le scorte e l’impiego di agenti nelle manifestazioni, in coerenza con un “piano nazionale” che logicamente riguarderebbe soprattutto Roma. In particolare per ciò che riguarda i cortei, Maroni pensa che “bisogna fare in modo che ci sia una regolamentazione che aiuto l’equilibrio tra rispetto del diritto a manifestare e la situazione della città con l’utilizzo delle forze dell’ordine”. In questa direzione va anche l’idea lanciata da Alemanno di far pagare a chi ne usufruisce i “servizi che il Comune eroga per le manifestazioni politiche e sportive”. Ipotesi per la verità piuttosto remota, così come quella di una regolamentazione generale di cortei e manifestazioni che spesso è stata invocata e studiata ma che non ha mai liberato Roma da uno dei suoi mali endemici: la paralisi da corteo. Altro punto caldo, quello delle gang giovanili che spadroneggiano nella capitale, dando l’idea di una città violenta a scapito delle cifre che piazzano Roma ben dietro a Parigi e Londra per numero annuo di omicidi. “A Roma - spiega Alemanno - non c’è una criminalità organizzata che controlla il territorio ma sue infiltrazioni nell’economia. Sul territorio c’è invece la crescente tendenza ad affermarsi di bande giovanili e territoriali che fanno sempre maggiore ricorso alla violenza: servirebbe una struttura specifica di contrasto non solo dal punto di vista della repressione e della prevenzione, ma anche da quello educativo - sociale”. Visto che però ieri si parlava di sicurezza, ecco emergere il progetto di creare una struttura ad hoc simile alla Digos, nata negli anni in cui il terrorismo insanguinava l’Italia. “La mia percezione - spiega ancora il sindaco capitolino - è che l’utilizzo più disinvolto di pistole e coltelli dimostrato dagli ultimi episodi accaduti a Roma possa nascere dalla volontà di queste bande di affermarsi con il tempo”. Un’altra agenzia, specializzata nel contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico della città, potrebbe secondo Alemanno nascere in coordinamento con l’agenzia per i beni confiscati alla mafia affidata al prefetto Giuseppe Caruso, che potrebbe collaborare con le realtà territoriali per sviluppare “un’intelligence specifica”. Giustizia: caso Franceschi, la perizia accusa i medici francesi di Anais Ginori La Repubblica, 4 settembre 2011 Daniele morì nel carcere di Grasse un anno fa. “Gravi responsabilità del personale sanitario” . La madre si era incatenata davanti all’Eliseo. Poi l’intervento di Carla Bruni “Gravi responsabilità del personale medico e paramedico”. Nel mistero sulle ultime ore di Daniele Franceschi, l’italiano morto un anno fa nel carcere di Grasse, spunta una nuova perizia che accusa le autorità francesi. I medici del penitenziario non sarebbero infatti intervenuti prontamente quando il trentaseienne viareggino aveva incominciato a stare male, per poi morire di infarto. Le nuove conclusioni dei periti, un medico legale e un cardiologo, confermano quello che la madre di Franceschi, Cira Antignano, denuncia da mesi: il giovane non è stato adeguatamente seguito e infine soccorso. In alcune lettere Franceschi aveva denunciato maltrattamenti e assenza di cure per forti dolori al petto. “Si tratta di una perizia - ha spiegato l’avvocato della famiglia, Maria Grazia Menozzi - che potrebbe indicare un nesso causale tra quanto accaduto nel carcere e la morte di Daniele”. Secondo i nuovi atti giudiziari, il personale medico avrebbe volutamente ignorato anche le richieste di aiuto da parte del detenuto che era in cella con Franceschi e di uno stesso agente di custodia. La perizia era stata chiesta dal giudice istruttore, Sandrine André, nel gennaio scorso, ed è stata appena notificata al corrispondente francese dei legali italiani, l’avvocato Luc Febbraro. “È la svolta che aspettavamo - ha detto Menozzi - con questa perizia e gli altri atti già in nostro possesso speriamo di poter andare finalmente verso l’accertamento delle responsabilità”. Il giudice André dovrà ora consegnare gli atti al procuratore, che potrebbe allora formalizzare l’ipotesi di reato e gli indagati. La perizia non contiene nomi. “Ma incrociando gli atti ed il contenuto della perizia anche i responsabili potranno avere un nome” ha spiegato l’avvocato Menozzi. La battaglia legale intorno alla morte del giovane, arrestato con l’accusa di falsificazione e uso improprio di carte di credito in un casinò della Costa Azzurra, va avanti da oltre un anno. La famiglia Franceschi attende ancora la restituzione degli organi del ragazzo. “Non si sa dove siano finiti” dice Cira Antignano. Nel primo anniversario della morte, il 25 agosto, è venuta a Parigi per chiedere verità e giustizia. La donna si era incatenata davanti all’Eliseo e aveva infine dato ai funzionari del palazzo presidenziale una lettera a Carla Bruni - Sarkozy. Nel novembre scorso, la première dame aveva assicurato che sarebbero state accertate le circostanze della morte del giovane italiano. Dall’autopsia, Franceschi sarebbe morto per cause naturali. Ma quando la madre del giovane ha rivisto il corpo di suo figlio a Nizza lo ha trovato con il volto tumefatto e il naso fratturato. Elementi confermati dall’esame autoptico svolto in Italia. Il problema, tuttavia, è quello delle probabili lesioni interne, che i medici e le autorità del carcere francese avrebbero sottovalutato, fino alla morte di Franceschi. “Mi sono sempre scontrata contro un muro di gomma - ripete Cira Antignano - ma continuo a sperare”. Forse, adesso, con una ragione in più. Piemonte: Osapp; 6 poliziotti penitenziari feriti a Fossano e a Saluzzo, un bollettino di guerra Adnkronos, 4 settembre 2011 Un vero e proprio bollettino di guerra per la polizia penitenziaria negli istituti del Piemonte, nella giornata di ieri 2 settembre, secondo quanto riferisce l’Osapp - Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. “A Fossano 5 punti di sutura per un agente, lesioni alle costole per un altro, un assistente capo di polizia penitenziaria con una lesione al timpano ricoverato in ospedale ed un Ispettore con contusioni e graffi - comunica il sindacato per voce del Segretario Generale Leo Beneduci - questo il risultato di una operazione di sfollamento verso altre sedi condotta nei confronti di 7 detenuti che nei giorni precedenti avevano instaurato nell’istituto un clima di sopraffazione e paura nei confronti degli altri detenuti.”. “Riferisce il personale - aggiunge l’Osapp - che al termine della giornata non vi era poliziotto penitenziario che non avesse l’uniforme di servizio imbrattata del sangue proprio e degli altri colleghi.” “A Saluzzo, invece - sempre secondo il sindacato - due assistenti di polizia penitenziaria sono stati aggrediti da un detenuto nazionalità italiana che dopo avere chiamato il personale, del tutto immotivatamente, ha prima aggredito il primo poliziotto e poi si è scagliato sull’altro intervenuto nel frattempo. Applicazione di collare e 7 giorni di prognosi per entrambi gli appartenenti al corpo gli effetti dell’aggressione.”. “Per quello apprendiamo quotidianamente, se fortunatamente sembrano essere diminuiti il numero dei suicidi in carcere, le aggressioni ai poliziotti penitenziari risultano aumentate a dismisura - aggiunge il leader dell’Osapp - soprattutto in regioni quali il Piemonte e la Valle d’Aosta (vedasi i 10 poliziotti feriti lo scorso 30 agosto a Brissogne) in cui più forte risulta la presenza di detenuti extracomunitari o tossicodipendenti, che ben difficilmente riescono a sopportare la gravissima promiscuità degli istituti penitenziari e che vedono nel poliziotto penitenziario, in quanto unica figura ovunque e sempre presente, il simbolo di uno Stato che ne penalizza oltre modo, persino in carcere, la già precaria esistenza”. “Ma anche i nostri livelli di sopportazione in Piemonte e in Valle d’Aosta - conclude Beneduci - hanno da tempo superato ogni limite dell’umana sopportazione e oltre ad essere stanchi di prendere schiaffi per errori decennali nella gestione penitenziaria a noi non attribuibili, non possiamo non denunciare la perdurante assenza di iniziative, di considerazione e persino di solidarietà nei confronti della polizia penitenziaria in ambito nazionale e regionale. In particolare, quindi, attendiamo l’aiuto i concreti interventi ed ogni utile iniziativa, oltre che del Ministro Palma, dai Presidente della Regione Piemonte Cota e della Regionale Valle d’Aosta Rollandin”. Caltanissetta: detenuto 35enne muore di meningite, preoccupazione per rischi di contagio Agi, 4 settembre 2011 È morto il detenuto della casa circondariale di Caltanissetta affetto da meningite virale. A renderlo noto è il vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, che ha scritto una lettera all’amministrazione penitenziaria, in cui si esprime “preoccupazione” per il personale che, “visti i tempi di incubazione del virus (otto giorni), potrebbe essere stato contagiato”. Il detenuto deceduto è un 35enne di origine italiana classificato “alta sicurezza”, che era stato ricoverato nell’ospedale cittadino. A tutto il personale penitenziario è stata prescritta una terapia preventiva. Osapp: preoccupazione per il personale Nei giorni scorsi presso la Casa Circondariale di Caltanissetta è stato riscontrato, all’interno della popolazione detenuta, un caso di meningite virale. Si ha notizia che il detenuto di cui sopra sarebbe morto. Lo rende noto il vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, che ha scritto una lettera all’Amministrazione penitenziaria, in cui si esprime “preoccupazione” per il personale, che, “visti i tempi di incubazione del virus (otto giorni), potrebbe essere stato contagiato”. “Rivolgiamo un accorato appello alla Direzione della Casa Circondariale di Caltanissetta - si legge nel documento - affinché adotti tutte le misure necessarie al fine di evitare il propagarsi dell’infezione scongiurando la possibilità, dato che la malattia si trasmette per via aerea, che venga esportata anche presso le famiglie del personale. Rimaniamo comunque in attesa di conoscere tutte le iniziative adottate dall’Amministrazione Penitenziaria nel quadro della tutela del diritto alla salute del Personale di Polizia Penitenziaria che opera presso la Casa Circondariale di Caltanissetta”. Il detenuto deceduto è 35enne di origine italiana classificato Alta Sicurezza ristretto nella Casa Circondariale di Caltanissetta e quindi ricoverato nell’ospedale cittadino perché affetto da meningite. A seguito di tale ricovero, effettuato con modalità d’urgenza martedì scorso, a tutto il personale penitenziario è stata prescritta terapia preventiva. Macerata: esce dal carcere e si impicca dopo aver scoperto di avere contratto malattia infettiva Adnkronos, 4 settembre 2011 Il 35enne, uscito ieri dal carcere di Camerino dove era detenuto per pregressi reati contro il patrimonio, era nel nosocomio per una visita di controllo. Aveva scoperto di essere stato colpito da una malattia infettiva e la notizia lo aveva gettato in una profonda crisi depressiva. Così L.P., 35enne di Tolentino (Mc), oggi ha deciso di levarsi la vita. Si trovava nella sala d’attesa dell’ospedale civile di Macerata per una visita di controllo quando, sopraffatto dalla disperazione, si è diretto in bagno. Lì si è impiccato. Agganciando un laccio di stoffa alle tubature della toilette. Il corpo è stato ritrovato intorno alle 17, poche ore dopo il suicidio, dalla donna delle pulizie che ha richiesto immediatamente l’intervento dei Carabinieri. L’autorità giudiziaria ha disposto la restituzione della salma ai parenti non ritenendo necessario procedere all’autopsia del cadavere. Il ragazzo era uscito ieri dal carcere di Camerino dove era detenuto per pregressi reati contro il patrimonio. Genova: scarcerato da pochi giorni, muore per overdose a 41 anni www.genova24.it, 4 settembre 2011 Una vittima di overdose, come il quartiere non era più abituato a conoscere. Un cadavere di un uomo di 41 anni è stato trovato questa mattina all’interno di un’abitazione di via Serrea sulle alture di Voltri nel ponente di Genova. A causare la molto probabilmente un’overdose. A dare l’allarme è stata un’amica che, non riuscendo a contattare l’uomo, lo ha raggiunto a casa per sincerarsi delle sue condizioni e lo ha trovato morto. Sul posto sono intervenute le volanti della Questura e gli agenti della squadra mobile. L’uomo era uscito dal carcere alla fine di agosto; la sua tossicodipendenza era nota. La salma è stata trasferita all’Istituto di medicina legale dell’ospedale San Martino a disposizione del pubblico ministero di turno che potrebbe disporre l’autopsia. Gela (Ct): dossier su “carceri fantasma”; 50 anni di lavori, due inaugurazioni, ma mai aperto di Davide Pelanda Nuova Società, 4 settembre 2011 I fantasmi non esistono. Lo abbiamo imparato da grandi, mentre da piccini ci credevamo ancora. Oggi invece esistono le “carceri fantasma”. Li hanno scoperti quelli dall’Associazione “Detenuto Ignoto”: secondo i dati raccolti da questo gruppo sarebbero ben quaranta queste strutture penitenziarie, da Ferrara a Reggio Calabria, da Pesaro a Monopoli, strutture costruite, talvolta già arredate, e poi lasciate lì, vuote e mai utilizzate. Il “dossier” in questione è stato trasformato in interrogazione parlamentare dai deputati Radicali. Tra di essi quello che spicca per l’esagerato tempo per portarlo a termine è il carcere di Gela, cinquant’anni di lavori, ben due inaugurazioni: l’ultima nel 2007, con una cerimonia alla presenza dall’allora Ministro della giustizia Clemente Mastella. È costato oltre cinque milioni di euro, per cento posti consegnato all’amministrazione penitenziaria nel 2009, è ancora inutilizzato e il Comune paga per la sorveglianza. E a questo proposito il sindaco di Gela Angelo Fasulo ha dichiarato: “Tutti gli adempimenti che dovevano essere compiuti da Comune, Provincia e Regione sono stati regolarmente espletati. Adesso aspettiamo risposte da Roma”. E Roma ha risposto per bocca del Dap, Dipartimento di amministrazione penitenziaria: la struttura “è tuttora inutilizzabile a causa di un insufficiente approvvigionamento idrico non imputabile all’Amministrazione penitenziaria”; a cui il Primo Cittadino Fasulo prontamente ha risposto: “L’allaccio idrico al carcere è stato completato dalla ditta incaricata già a fine maggio e tutti i problemi di approvvigionamento idrico sono stati abbondantemente risolti. Gli arredi sono stati regolarmente consegnati e tutto questo è stato tempestivamente comunicato al ministero che, addirittura, ha chiesto all’amministrazione di provvedere a sistemare e pulire la strada d’accesso per poter programmare l’inaugurazione. La strada è stata immediatamente pulita e sistemata ma ad oggi non ci è stata comunicata alcuna data d’apertura. Se il carcere non viene aperto è solo perché il ministero non ha provveduto al trasferimento del personale necessario”. Progettato nel 1959 e approvato definitivamente nel 1978, i lavori del carcere di Gela iniziarono nel 1982. Ora da più parti viene chiesta la sua immediata apertura, così come afferma Mimmo Nicotra, vicepresidente generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp: “Urge aprire la nuova struttura penitenziaria di Gela, paralizzata da ritardi. In un momento delicato come quello attuale, in cui le carceri sono sovraffollate, l’apertura del carcere di Gela, che dovrebbe ospitare centro detenuti, sarebbe di aiuto. E permetterebbe di avvicinare detenuti e anche poliziotti penitenziari che da oltre 20 anni sono in giro per l’Italia prima e per la regione dopo ed aspettano ancora di raggiungere la terra di origine. Per questo chiediamo a gran forza un incremento delle unità di polizia penitenziaria in Sicilia, anche alla luce della imminente uscita dai corsi dei neo agenti il prossimo settembre, ed invitiamo il sindaco di Gela, Angelo Fasulo, che ha sollevato il problema col Dap, ad unirsi a noi la prossima settimana, quando effettueremo un sopralluogo nella struttura”. Dello stesso tenore è l’altro sindacato nazionale di polizia penitenziaria, l’Ugl che, per bocca del suo segretario nazionale Giuseppe Moretti, ritiene “giusta l’apertura di nuove case circondariali e, ancora più nello specifico, di quella di Gela per dare una boccata d’ossigeno a tutti quegli Istituti saturi e invivibili e, soprattutto, per permettere agli agenti di polizia penitenziaria di poter svolgere il proprio lavoro con dignità e senza dover quotidianamente rispondere a disagi ed ostacoli di ogni genere. Se realmente i lavori di messa in sicurezza ed agibilità che hanno interessato la struttura siciliana sono terminati, ormai da tempo, inutile, a parer nostro, temporeggiare”. Le strutture ancora chiuse e segnalate nel dossier di “Detenuto Ignoto” ci sarebbero poi: il carcere di Irsina, vicino Matera (Basilicata), costruito negli anni ‘80 con una spesa di oltre 3 miliardi di lire, fu aperto per un anno, poi chiuso; nel barese Minervino Murge, finito ma mai entrato in funzione; a Monopoli la struttura, abbandonata da 30 anni, è occupata da un gruppo di cittadini sotto sfratto; in provincia di Foggia non sono mai stati aperti Volturata Appula, rimasto incompiuto, Castelnuovo della Daunia, finito e arredato, Bovino, 120 posti, e Orsara; chiuso, dopo essere stato inaugurato e aperto, il carcere campano di Gragnano, in provincia di Napoli; pronto anche Morcone, in provincia di Benevento, ma mai messo in funzione Eppure dal Dap, Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria dicono che “nel sistema penitenziario italiano non esistono strutture fantasma. Non ci sono infatti disponibili strutture penitenziarie inutilizzate”. Padova: troppi detenuti; Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico invita a fare meno arresti di Nicoletta Cozza Il Gazzettino, 4 settembre 2011 L’indicazione era stata data durante una riunione del Cosp. “Rallentate gli arresti dei clandestini, perché in carcere in ci sta più nessuno”, era stato detto al termine dell’incontro del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico. A svelarlo è oggi Maurizio Saia, senatore di maggioranza del gruppo Coesione Nazionale ed ex assessore comunale alla Sicurezza. L’input aveva fatto seguito a una lettera di Antonella Reale, direttrice della casa circondariale Due Palazzi, in cui segnalava che la struttura è al limite del collasso a causa del sovraffollamento. E addirittura chiedeva che i detenuti per i quali venisse disposto il rito direttissimo, restassero custoditi nelle camere di sicurezza della Questura o dei Carabinieri. Senatore Saia, che cos’è successo? “Non è un segreto che mesi fa, a latere di una riunione del Cosp a cui non partecipavano i politici, i vertici delle forze dell’ordine abbiano dovuto condividere, di fronte all’emergenza carceraria, la scelta di rallentare eventuali arresti, se non necessari per flagranza o gravità”. Che cosa era stato detto a Palazzo Santo Stefano? “La sintesi effettuata in ambito prefettizio partiva dal dato sulla sovrappopolazione carceraria, che evidenziava un numero di ospiti doppio rispetto alla capienza, soprattutto di detenuti in attesa di giudizio. Con un tacito accordo, non ufficiale, si è deciso di andare più cauti con gli arresti. La situazione oggi non è migliorata e basta parlare in camera caritatis con gli agenti per capire quanto sia drammatica la gestione di un irregolare che viene ammanettato. Cosa succede di costui? Mal che vada, dopo una notte passata in galera, è di nuovo in strada”. Ci sarà pure un sistema per intervenire. “Sì, la realizzazione anche nel Veneto di un Cie, dove mettere gli irregolari da rimpatriare. Le colpe se ancora non è stato fatto un Centro di espulsione sono a Roma. Mi fanno ridere i leghisti quando sbraitano per i kebab, ma non riescono a imporsi su questo. Il problema non è chi ha il permesso di soggiorno per motivi umanitari, bensì la massa di gente, spesso composta da delinquenti, che non si sa dove mettere. Le forze dell’ordine sono preparate, ma manca il contenitore. Tra l’altro, perpetuando questa situazione, il clandestini che sono in giro a spacciare, danneggiano in primis i connazionali che lavorano e che guadagnano in un mese quello che i pusher intascano in un giorno”. Non è facile fare un Cie dall’oggi al domani. “Invece è semplice. Non serve realizzarlo ex novo, ma basta utilizzare una caserma dismessa che il Ministero della Difesa, o degli Interni, dato che siamo in una fase emergenziale, è disposto a mettere a disposizione. È assurda la posizione di chi tergiversa, sostenendo che il Cie deve essere fatto vicino all’aeroporto: oggi gli agenti che accompagnano un clandestino a un Centro di espulsione si sobbarcano 2 mila chilometri. Se in futuro ne faranno anche 40 per arrivare allo scalo, non credo sarà un problema. La scelta va fatta sul tempo, magari a scapito del luogo”. Ha ragione, quindi, il Prefetto Sodano a bacchettare i politici. “Ha tutte le ragioni del mondo. Sorge il dubbio che a qualche politico, sia di centrodestra, che di centrosinistra, con motivazioni opposte, la situazione faccia comodo. Se Padova versa in una condizione drammatica, per esempio, colpe ci sono a Roma, ma anche a Palazzo Moroni”. Si spieghi meglio. “Se il governo ha la responsabilità di non avere realizzato i Cie, il sindaco Zanonato ha quella di non aver mai considerato la sicurezza come un problema. Situazioni come quelle che si vedono in Stazione, non ci sono da nessun’altra parte, neppure a Termini. E non si diano colpe alle Cucine Popolari, se la Ferrovia è un luridume, il Borgomagno pure e il centro anche. Alle 18 in piazza Duomo ci sono i pusher che spacciano indisturbati, manca solo che allestiscano un banchetto con scritto “offerte speciali”. Non posso negare che Zanonato per tanti aspetti si possa considerare un buon sindaco, ma la sua gestione della sicurezza è indecente. In cuor suo non può certo dire di avere fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza urbana”. Che cosa dovrebbe fare? “Per esempio usare diversamente la polizia locale. Basta con gli agenti utilizzati quotidianamente, con un’ossessione maniacale, per misurare i banchi del mercato, invece che mandati in strada a fermare gli extracomunitari irregolari. Certo, bloccare questi ultimi è una “rogna”, ma in altre città si fa. È sufficiente confrontare le notizie degli ultimi sei mesi sulle cronache dei giornali di Verona e di Padova per avere la conferma di quanto dico. Per Zanonato la sicurezza non è una priorità e il risultato è sotto gli occhi di tutti”. Sulmona (Aq): Uil-Pa; chiudiamo il reparto detenuti dell’ospedale, è troppo pericoloso Il Centro, 4 settembre 2011 La chiusura immediata del reparto dell’ospedale di Sulmona riservato ai detenuti. L’ha chiesta la Uil Penitenziari nel corso di una conferenza stampa in cui ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la struttura. Secondo i sindacalisti, l’assenza di ermeticità, di un sistema d’allarme, di un circuito di videosorveglianza e di un posto fisso di polizia, minano fortemente la sicurezza degli agenti penitenziari, dei detenuti e l’incolumità dell’intero ospedale. “Da quattro anni abbiamo chiesto una nuovo reparto”, spiega il segretario provinciale della Uil Penitenziari, Mauro Nardella, “ma nonostante le varie promesse la situazione è addirittura peggiorata. A questo punto proprio per non minare ulteriormente la sicurezza dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria chiediamo l’immediata chiusura del reparto riservato ai detenuti e il trasferimento degli stessi in quella più attrezzata e moderna dell’ospedale dell’Aquila”. (c.l.) Gorgona (Li): il Consiglio di zona scrive lettera al ministero, per avere chiarimenti sul carcere Il Tirreno, 4 settembre 2011 Sembra un piccolo angolo di paradiso (e di sofferenza) lontanissimo da Livorno. In realtà l’isola di Gorgona fa parte della circoscrizione 2 guidata da Monica Ria, la stessa che abbraccia La Venezia. Ed è proprio attraverso la circoscrizione che sull’isola è stato istituito per la prima volta un consiglio di zona. “L’unico organo istituzionale - sottolineano i suoi rappresentanti - democraticamente eletto dalla comunità gorgonese in senso ampio. Altri soggetti o comitati agiscono a titolo personale...”. Sono cinque i consiglieri eletti: Ada Mastrangelo (coordinatrice), Alessandro Aureli, Marco Verdone, Vincenzo Simone, Nicola Di Batte. Tutti discendenti delle famiglie storiche: Citti, Dodoli, Frascati... Sull’isola oggi ci sono una cinquantina di residenti, ma solo in pochissimi vivono estate e inverno in mezzo al mare. A questi si aggiungono una settantina di detenuti e altrettante guardie, con una decina di famiglie. “Il consiglio di zona - scrivono i rappresentanti - intende rivitalizzare l’isola e la sua comunità, migliorare e favorire i servizi di collegamento con la terraferma, favorire lo scambio con il mondo esterno, razionalizzare e chiarire le modalità di accesso all’isola e valorizzare il lavoro della Casa di reclusione come modello di riferimento nel sistema penitenziario italiano”. Il comitato ha appena scritto al Ministero di Giustizia proprio per avere chiarimenti sul possibile smantellamento del carcere. Un elemento chiave perché è proprio la struttura ha mantenere in vita, oggi, l’isola (che fa parte del parco dell’arcipelago). Cosa accadrebbe se la struttura fosse chiusa? Intanto la direzione carceraria, la circoscrizione e l’ente parco hanno firmato un protocollo per regolamentare, a partire dalla prossima estate, le visite e gli accessi all’isola. Il protocollo sarà portato tra pochi giorni in giunta. Catanzaro: progetto di percorsi riabilitativi per i minori sottoposti a provvedimenti penali Redattore Sociale, 4 settembre 2011 Progetto definito dall’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro, in collaborazione con il Centro per la giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata. Destinatari assuntori di sostanze stupefacenti e bevande alcoliche. È finalizzato alla tutela e promozione della salute dei minori e giovani - adulti sottoposti a provvedimenti penali il percorso socio-sanitario definito dall’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro, in collaborazione con il Centro per la giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata. Il progetto, che risponde agli obiettivi del Piano sanitario nazionale 2009, si propone di fornire ai ragazzi che hanno commesso reati la possibilità di riconciliarsi con la comunità verso la quale è stato rotto il patto sociale, dando loro occasioni in cui poter sviluppare comportamenti produttivi e socialmente condivisi per cambiare la percezione propria ed altrui e ristabilire il giusto legame con il contesto di appartenenza, oltre che potenziare l’integrazione e la sinergia tra i settori sanitario - sociale - penale. Diverse sono le azioni programmate, tra queste il lavoro di rete, per rafforzare la collaborazione tra servizi pubblici e privati, in un’ottica di sistema; la promozione di attività formative e di rianimazione per i ragazzi basate sulla valorizzazione delle risorse personali; la preparazione alla fuoriuscita dal carcere, favorendo i processi di inclusione e reinserimento sociale dei minori detenuti nell’Ipm di Catanzaro. Alla stesura del progetto, sottoscritto dal Gerardo Mancuso, in qualità di direttore generale dell’Asp (Azienda sanitaria provinciale) di Catanzaro, hanno partecipato il direttore del Sert, Bernardo Grande, il direttore dell’Istituto penale per i minorenni di Catanzaro, Francesco Pellegrino, il referente sanità penitenziaria, Antonio Montuoro, il direttore del Centro per la giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata, Angelo Meli. La proposta progettuale, che inizialmente prevedeva l’intervento per i soli istituti penali per i minorenni (Ipm) e Comunità ministeriali (Cm) per assistere i giovani assuntori di sostanze stupefacenti e bevande alcoliche, è stata pensata anche per il territorio di Reggio Calabria, secondo distretto di Corte d’Appello di competenza della giustizia minorile calabrese, dove ha sede il Centro di prima accoglienza (Cpa), la Cm e l’Ufficio di servizio sociale minorenni (Ussm). Una decisione che consente di offrire protezione e assistenza a un maggior numero di destinatari, siano essi minori che operatori a vario titolo, interagenti nell’ambito del sistema giustizia minorile. Un ulteriore universo di destinatari è stato individuato nelle Comunità specialistiche e non, e dei Gruppi appartamento che, in regione, accolgono minorenni sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, nonché del Centro diurno polifunzionale sito a Catanzaro. Il contesto specifico di riferimento dell’iniziativa progettuale è quello di ragazzi e ragazze dai 14 ai 21 anni, inseriti nel circuito penale minorile della regione con un manifestarsi dei fenomeni di devianza tra i minorenni che riguarda, prevalentemente, il contesto sociale esterno che condiziona e a volte vanifica l’azione educativa della famiglia all’interno della quale, sovente, si riscontra la mancanza di comunicazione. “Si tratta di un progetto particolarmente importante - ha affermato il direttore generale Mancuso - che si inserisce nelle iniziative portate avanti dall’Asp di Catanzaro per favorire la promozione della salute, valorizzando e incentivando gli aspetti della vita di ogni giorno nella direzione del benessere psicofisico e sociale”. La Spezia: dibattito sulle carceri, renderle vivibili è una battaglia di civiltà Ansa, 4 settembre 2011 Si è svolto, in occasione della Festa Regionale Ligure del Psi, un incontro sul tema delle carceri e sull’amnistia. Al dibattito erano presenti Deborah Cianfanelli del Partito Radicale e Arncangelo Merella del Partito Socialista, con Licia Vanni ed Anna Maria Rosini. Dall'evento è emersa chiaramente la volontà comune di sostenere iniziative presso il Governo e il Parlamento affinché si apra un vero e definitivo dibattito per affrontare i problemi riguardanti la crisi della giustizia e l’emergenza igienica e sanitaria dovuta alla carenza strutturale ed al sovraffollamento degli Istituti di Pena. "Uno Stato civile deve togliere la libertà a chi ha commesso un reato ed è stato giudicato colpevole, ma - evidenzia Maurizio Viaggi, segretario Regionale del Psi - non può privare le persone della propria dignità e attentare alla loro salute facendoli vivere in gravi situazioni igieniche, senza adeguate cure e nel sovraffollamento delle strutture carcerarie. Conveniamo con le parole del presidente Napolitano sulla necessit di fornire un servizio di giustizia efficiente, a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini. Per questo auspichiamo che il dibattito parlamentare chiesto dai compagni radicali possa contribuire ad affrontare concretamente il problema. Una battaglia di civiltà che i socialisti, purtroppo non rappresentati nel parlamento italiano, sapranno condurre nella società". Campobasso: Sappe; sventata introduzione stupefacenti in carcere Comunicato stampa, 4 settembre 2011 “Esprimo il convinto e sincero apprezzamento del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, per l’importante attività di Polizia giudiziaria dei Baschi Azzurri di Campobasso che ha sventato l’ingresso e quindi lo spaccio in carcere di stupefacente. Ritengo che il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria debba adeguatamente valorizzare questa attività di servizio, riconoscendo al Personale di Polizia impiegato una adeguata ricompensa. Il costante e pesante sovraffollamento fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza. Da parte mia intendo ancora una volta esprimere la testimonianza di vicinanza del Primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, ai disagi delle colleghe e dei colleghi in servizio nel Molise ed in particolare a Campobasso”. Lo dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria. Capece sottolinea che “gli ultimi dati, riferiti al 31 agosto scorso, ci dicono che in Molise sono presenti 539 detenuti a fronte dei 389 posti letto regolamentari. Poco o nulla ha inciso la legge sulla detenzione domiciliare , la 199/2011, considerato che fino ad oggi ne hanno fruito in Regione solo 22 detenuti. È importante ricordare, considerata l’operazione di oggi, che nel 2010, nel carcere di Campobasso, si sono registrati 1 tentativo di suicidio di un detenuto, 10 atti di autolesionismo, 2 soggetti hanno posto in essere ferimenti e 24 episodi di protesta con sciopero della fame, rifiuto del vitto dell’Amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle (la cosiddetta battitura).” Il Sappe torna a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative e sottolinea l’importante ruolo svolto quotidiano dai Baschi Azzurri del Corpo: “Nonostante le croniche e gravi carenze di Personale, nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento i Baschi Azzurri della Penitenziaria in servizio nel Molise credono nel proprio lavoro, hanno valori radicati ed un forte senso d’identità e d’orgoglio, e ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando suicidi di detenuti.” Trapani: pet therapy per le detenute, il Garante dona cuccioli di gatto Comunicato stampa, 4 settembre 2011 Il Sen. Fleres, Garante dei diritti dei detenuti, ha donato al carcere di Trapani tre cuccioli di gatto che sono stati destinati alla sezione femminile. “Non si tratta di una vera e propria pet therapy, che prevederebbe l’intervento di specialisti, ma non c’è dubbio che gli effetti positivi che scaturiscono dal prendersi cura di un piccolo animale sono noti a tutti. È stato dimostrato che accarezzare un gatto riduce lo stress, la sua presenza abbassa la pressione sanguigna e risolleva l’umore. Inoltre, è stato del pari dimostrato che all’interno della case circondariali il gatto diminuisce la tensione e la solitudine degli ospiti, abbassandone anche l’aggressività. I tre gattini vivranno all’interno della sezione, così le detenute potranno prendersene cura durante tutta la giornata. I gatti sono stati consegnati dalla Dott.ssa Gloria Cammarata, responsabile della segreteria del Garante, questa mattina. Si tratta, ha concluso il Sen. Fleres, di un progetto pilota che è stato favorevolmente accolto dal direttore del carcere e potrà essere esteso alle altre strutture che ne facciano richiesta”. Immigrazione: la prigione dei bambini… rinchiusi nel Centro di detenzione di Lampedusa di Fabrizio Gatti L’Espresso, 4 settembre 2011 Hanno pochi anni, alcuni pochi mesi. Rinchiusi in centinaia nel centro di detenzione di Lampedusa. Dove restano per settimane tra malattie, incidenti, caldo infernale. Ecco cosa ha visto il nostro inviato. Non dorme nessuno stanotte. Il mondo dei grandi è in rivolta. La stanza rimbomba sotto una grandinata di colpi. Omar comunque non sa cosa siano una rivolta e la grandine. E un neonato, ha due mesi. Nemmeno suo fratello Hamza, 3 anni, e sua sorella Maha, 7, capiscono da dove arrivi questo rumore spaventoso. Infatti non grandina. Sull’isola di Lampedusa d’estate non succede mai. Sono i sassi che cadono contro le pareti e il tetto in lamiera. Lanciano pietre ovunque. Una notte ordinaria nel centro di detenzione per immigrati e rifugiati. Omar, Hamza e Maha sono piccoli carcerati. Da settimane non possono uscire dal recinto di filo spinato e lamiere arroventati dal sole. Sono sbarcati alle quattro e un quarto del mattino, sabato 6 agosto. A quell’ora Omar è apparso sul molo con i due fratellini. Lui era stretto nelle braccia del papà, scappato con la moglie dalla guerra. I genitori, emigrati dal Sudan in Libia anni fa per lavoro, li hanno protetti dagli spari, dalle bombe. E dalla fatica della traversata. È sopravvissuto sano e forte, Omar. Uscirà invece di qui, quando uscirà, con una brutta ustione alla coscia destra. Una notte uno dei dipendenti assunti per l’emergenza, che la retorica si ostina a chiamare volontari, l’ha messo sotto l’acqua bollente. Voleva lavarlo. Si è sbagliato. Cose che succedono nella prigione dei bambini. Tutto è precario. Tutto è pericoloso. È per questo che i bambini non andrebbero mai rinchiusi in un posto così. C’è anche la piccola Chideria. Nata in Libia il 6 maggio 2011, è l’unica sopravvissuta tra i bimbi del suo barcone approdato il 4 agosto. I piccoli compagni di viaggio sono morti uno dopo l’altro. Chideria l’hanno liberata con i genitori nigeriani soltanto dopo tre settimane. Così piccola si è fatta 20 giorni di reclusione. Si è anche ammalata. Un certificato sanitario di Medici senza frontiere che riscontrava sintomi persistenti di bronchite, pus dagli occhi e punture da insetto multiple è rimasto inascoltato fino a mercoledì 24 agosto. Sono stati necessari l’esposto di un avvocato, Alessandra Ballerini, legale dell’associazione Terre des hommes e l’intervento del Tribunale dei minori di Palermo. Altri due minorenni, 16 e 17 anni, sono stati feriti dalle pietre lanciate dalla sezione adulti durante la rivolta notturna di martedì scorso. E proprio in queste ore c’è preoccupazione per un caso sospetto di tubercolosi. Una donna tunisina, trasportata in elicottero a Palermo. Tossiva sangue. È il secondo caso questa estate. A fine agosto sono 225 i bambini e gli adolescenti rinchiusi da settimane nelle due strutture di detenzione di Lampedusa: 111 nel “Centro di primo soccorso e accoglienza” di Contrada Imbriacola, 114 nella base in disuso dell’Aeronautica militare. A poche decine di metri dai radar di scoperta aerea e di difesa antimissile. E dai campi elettromagnetici. La maggior parte ha più di 13 anni ed è partita senza genitori. Omar, Hamza e Maha sono i più piccoli. Il racconto su Lampedusa deve cominciare da loro. Nell’autunno 2005 “l’Espresso” aveva denunciato le condizioni disumane nel centro di detenzione. Qualcosa di importante è migliorato. Adesso c’è maggiore trasparenza e minore isolamento: nonostante il divieto di ingresso ai giornalisti, le associazioni e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati possono monitorare da vicino l’attività delle forze dell’ordine. Altro è peggiorato. Per i bambini: nel 2005 i più piccoli venivano trasferiti in poche ore in strutture aperte. Per i migranti in cerca di lavoro: la crisi economica e la detenzione amministrativa prolungata fino a diciotto mesi stanno innescando una bomba sociale già esplosa con le rivolte nei Cie, i centri di espulsione. Per il rispetto della legalità: adulti, teenager e bambini vengono illegalmente reclusi a Lampedusa fino a due mesi senza nessuna convalida da parte di un giudice, come prevede la Costituzione. E per le casse dello Stato: dalle auto elettriche consegnate alla Guardia di finanza fino agli inutili quad per i pompieri. Mentre perfino albergatori e ristoratori sono sull’orlo della rivolta: la prefettura ha arretrati da marzo nei pagamenti di pasti e camere per le centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri di rinforzo sull’isola. Nel frattempo la gestione è passata dalla Misericordia, un tempo di area Udc, alla società LampedusAccoglienza imparentata a sinistra con la Legacoop. Ecco il diario di una settimana. Sei anni dopo. MARTEDÌ 23 AGOSTO. Il centro di detenzione di Contrada Imbriacola raccoglie oggi 529 reclusi. I piccoli Omar e Chide - ria sono ospitati nella sezione femminile. A pochi metri dai cancelli che isolano le due aree maschili, che qui dentro tutti chiamano il “gabbio”. Le difficoltà per due neonati detenuti si nascondono già nelle piccole cose. Nella farmacia di Lampedusa un tubetto di crema zinco - calendula per la pelle arrossata dei bimbi costa 7 euro. Ma le mamme di Omar e di Chi - deria non possono uscire a comprarne. A ogni cambio di pannolino devono chiedere al personale del centro di detenzione. C’è un solo tubetto per tutti i bambini. Bisogna avere pazienza. Un poco di crema viene messo in un bicchiere di plastica. E questo deve bastare. Il termometro sfiora i 40 gradi. Non c’è molta ombra. Nelle scorse settimane hanno visto mamme stendere i loro piccoli sui sacchi neri della spazzatura al riparo di un blindato dei carabinieri. Si dorme su materassini di gommapiuma grezza. E non sono il massimo dell’igiene. Due gli sbarchi della giornata. Tutti dalla Tunisia. Poco dopo le otto di sera: 14 e 8 persone. Da Tripoli non arriva più nessuno dal 17 agosto. Qualcuno ha telefonato laggiù. Dicono che sabato 20 sia stato bombardato il porto. Si viene a sapere di una operazione di rimpatrio collettivo senza identificazione, vietato dalle convenzioni internazionali. Ieri, lunedì 22, poco dopo le 18 una nave militare italiana consegna a una motovedetta tunisina 104 persone partite dalla Tunisia. Prima dell’operazione la nave scarica a Lampedusa 7 emigranti: un paraplegico in carrozzina e altri tunisini bisognosi di assistenza. Quando capisce che stanno per essere tutti rimpatriati, un ragazzo si lancia dal ponte della nave militare. Si schianta sul ponte più basso. Riesce comunque a buttarsi in acqua. Ha una gamba rotta. Resta anche lui a Lampedusa. Alla banchina di cala Pisana è attraccata da tre giorni la motonave Audacia della Grimaldi. Aspettano ordini per portare via i migranti dall’isola. MERCOLEDÌ 24 AGOSTO. Contrada Imbriacola è la zona più rovente di Lampedusa. Le baracche a due piani del centro sono costruite sul fondo di un canalone di calcare. Meglio di così non potevano nasconderle agli occhi dei lampedusani e dei turisti. La brezza quaggiù non arriva. La roccia e la polvere sono bianche come la neve. Riflettono ancora di più la luce e il calore. Squadre di militari dell’Aeronautica, armati e sudati, sorvegliano la recinzione su tutti i lati. Non ci si può avvicinare. Bisogna nascondersi per guardare. Al tramonto e all’alba gli insetti non fanno complimenti. Per proteggersi qualche recluso ha avvolto i letti a castello nelle lenzuola di carta. Chideria e i suoi genitori vengono finalmente trasferiti. Vanno ad Agrigento, ma in centri di accoglienza separati: mamma e figlia da una parte, papà da un’altra. La mamma, 27 anni, in Libia lavorava come addetta alle pulizie. Il papà, 35, in un autolavaggio. Hanno preso il largo la notte tra il 28 e il 29 luglio. Sono quasi in 500 alla partenza. Arrivano in 370: 317 uomini, 44 donne, 9 bambini. I sopravvissuti raccontano che molti bimbi e molte donne sono morti di fame e di sete. Almeno cento. Rivelano anche di due passeggeri che a forza di bere acqua di mare sono stati presi dai gin, gli spiriti del deserto. E sono diventati aggressivi. Picchiavano i compagni di viaggio, volevano buttare in acqua i bambini. Alcuni uomini li hanno legati e lanciati in mare. Erano ancora vivi. Oggi quattro sbarchi, 162 tunisini. Tutti di sera. Li portano al molo Favarolo, vicino agli yacht. “Buttateli a mare”, gridano i loro proprietari con accento siciliano. Un turista veneto si avventura sul pontile galleggiante e solleva il suo bimbo di un anno: “Guarda”, gli dice, “sono quelli che verranno al Nord a rubare nelle nostre case”. Il bimbo piange, si divincola. Vuole andare via da quelle grida. Qualche lampedusano osserva. In silenzio. Omar e la sua famiglia restano nel centro. GIOVEDÌ 25 AGOSTO. La motonave Audacia è sempre in rada. La mattina un ufficiale ammette: “Stiamo ancora aspettando ordini”. L’ordine arriva poco dopo. La nave riparte vuota. Si fa economia sulle creme per i neonati, ma non sui trasporti. Cinque giorni di attesa e di noleggio inutili: 33 mila euro al giorno più 70 euro di carburante a miglio marino, secondo il contratto con la Protezione civile che prevede un’aggiunta di 16 euro a pasto per ogni passeggero. L’Audacia è una nave porta rimorchi. Avrebbe potuto prendere al massimo 474 persone, meno della metà della capienza dei due centri di detenzione. L’altra nave noleggiata, la Moby Fantasy, è in navigazione. Il problema è che i Cie sono saturi e la Tunisia accetta soltanto 60 persone a settimana. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, annuncia in queste ore 30 mila rimpatri entro la fine dell’anno: 1885 a settimana. Qualcosa nelle cifre non torna. Alle 18.30 la Finanza porta a Lampedusa 6 tunisini recuperati in mare. VENERDÌ 26 AGOSTO. Il centro di detenzione per i teenager sembra un avamposto nel deserto. Dieci chilometri di salita dal paese. Fino alla base in disuso. Il sole a picco. Quattro alberi a fare ombra. Un doppio recinto di rete e filo spinato. Poco oltre, l’isola finisce con i radar e uno strapiombo di cento metri. Qui sono tutti neri africani. Per la loro età non possono essere rimpatriati. Aspettano il trasferimento. Si sono costruiti la dama. Un quadrato di legno. Tappi rosa e tappi azzurri dell’acqua come pedine. Giorni sempre uguali. Tra i materassi non c’è spazio per camminare. Qualcuno dorme all’aperto. Ragazzi e ragazze vivono insieme. Nascono amori. Nessuno però distribuisce condom. Da qui è passato Said, 14 anni, nato in Camerun, cresciuto in Libia, orfano di padre, figlio unico. Non sa dove sia sua mamma. Lui è stato catturato e costretto a imbarcarsi. Ha lasciato una lettera, Said: “L’amore di un bambino per la sua mamma. Scrivo questa lettera per dirti che ti amo...”. Tre sbarchi oggi: 171 tunisini. SABATO 27 AGOSTO. Lampedusa è a sua volta prigioniera. Meno 50 per cento di turisti, dicono. Le promesse mancate fanno male. Le elenca perfino una senatrice locale della maggioranza, Angela Maraventano, Lega Nord. I venti malati di cancro per le terapie devono pagarsi ogni settimana il viaggio fino a Palermo. Gli interni delle scuole aspettano la ristrutturazione. Perfino i bambini di Lampedusa nascono già emigranti. Sull’isola manca la sala parto. Bisogna andare a Palermo, prendere in affitto un monolocale o pagare un albergo. Ma qualcuno trae beneficio dagli sbarchi. È l’indotto sommerso. Dall’inizio dell’anno sono stati contrabbandati almeno 100 mila litri di gasolio estratto dai barconi dei migranti. Un euro al litro, esentasse. L’altra storia è quella dei pescherecci lasciati affondare in fondo al molo Favarolo. “Alcuni galleggiavano perfettamente”, racconta un pescatore, “io me ne intendo. Basta staccare il manicotto della pompa di raffreddamento del motore. E quelli vanno giù, piano piano. Il recupero di una barca affondata paga meglio di una galleggiante”. Segnalazioni da affidare alla Procura di Agrigento. Un altro sbarco, nel primo pomeriggio: 96 uomini e una donna, tutti dalla Tunisia. DOMENICA 28 AGOSTO. Alle otto e mezzo del mattino arrivano dal mare altri 11 tunisini. Nella gabbia è rinchiuso da giorni un ragazzo sordomuto, 25 anni, anche lui tunisino. E il connazionale arrivato con la carrozzella. Ora che la stagione turistica sta terminando, è evidente che i trasferimenti promessi dal ministro Ma - roni sono sempre meno rapidi. I migranti sull’isola sono saliti a 817: i 114 minori della base radar e i 703 complessivi di Contrada Imbriacola. LUNEDÌ 29 AGOSTO. Nella notte Omar viene messo per sbaglio sotto l’acqua bollente. L’ustione gli arriva alla carne. La mattina 32 tunisini salgono su un aereo. Finiscono in Tunisia. All’arrivo qualcuno telefona e avverte gli amici che non li hanno portati in Italia come promesso. A mezzogiorno scoppia la rivolta. Nel pomeriggio scappano in 180 e bloccano la strada principale di Lampedusa. Sono solo tunisini. Un gruppetto guida la protesta. Sembrano teppisti da stadio. Davanti a queste provocazioni, è impossibile essere solidali. Gli abitanti guardano. Si lamentano sottovoce. Sanno che non reggeranno un altro inverno così. A mezzanotte gli ultimi più esagitati accettano di rientrare. Ma una volta nella gabbia prendono a sassate polizia e carabinieri. Dal buio delle alture di calcare si vede benissimo sotto i riflettori che illuminano a giorno la prigione. I piccoli Omar, Ham - za e Maha sono sempre là dentro. E per loro è un’altra notte di paura. Libia: Hrw a ribelli; basta arresti arbitrari di immigrati di colore Adnkronos, 4 settembre 2011 Human Rights Watch chiede ai ribelli libici di porre fine agli arresti arbitrari e agli abusi ai danni dei lavoratori immigrati africani e dei libici di colore accusati di essere stati mercenari al soldo del colonnello Gheddafi. Nella passata settimana le forze ribelli a Tripoli hanno condotto una serie di arresti di massa di persone provenienti da vari Paesi africani come il Ciad, il Sudan, il Niger e il Mali. L’organizzazione umanitaria ha chiesto al Consiglio nazionale transitorio che ora governa il Paese di rilasciare quanti vengono detenuti solamente in base al colore della loro pelle. Zimbabwe: si arricchisce dieta alimentare per i detenuti Agi, 4 settembre 2011 Piselli, fagioli, pesce, latte, frutta fresca, patate, riso. Nelle prigioni dello Zimbabwe la dieta dei detenuti si arricchisce di nuovi prodotti che andranno a sostituire un’alimentazione fatta di cavoli, manioca e poco altro. Una situazione davvero intollerabile in uno dei sistemi carcerari peggiori al mondo, in via di ulteriore deterioramento, denunciano organizzazioni umanitarie internazionali. Negli ultimi anni sono aumentati i suicidi, il numero dei detenuti con Hiv-Aids privi di qualsiasi assistenza medica e i casi di violenza all’interno delle carceri. Il governo ha deciso che è giunto il momento di dare qualche risposta all’emergenza e di riformare il sistema penitenziario. Si parte con il tentativo di eliminare uno dei problemi più gravi: la malnutrizione. In gazzetta ufficiale è stato pubblicato il nuovo regime alimentare valido in tutte le 42 case circondariali della nazione, incluso l’elenco dei nuovi prodotti, uno per uno. La stampa africana non risparmia l’ironia sulle buone intenzioni del governo e scrive che se riuscirà a garantire un pasto del genere almeno per il cenone di Natale sarebbe già un grande successo. Egitto: blogger rischia di morire in carcere, condannato per “insulti” a esercito Tm News, 4 settembre 2011 Un blogger condannato a tre anni di prigione per aver “insultato” l’esercito rischia di morire in carcere per uno sciopero della fame: è quanto ha denunciato oggi Reporters sans frontieres (Rfs) che chiede la sua liberazione immediata. Maikel Nabil, condannato ad aprile da un tribunale militare, ha avviato il 23 agosto uno sciopero della fame e negli ultimi giorni ha anche cominciato ad astenersi dal bere. “Rischia di morire nel giro di poco tempo”, ha messo in guardia l’organizzazione in un comunicato la cui sede è a Parigi. “Il Consiglio supremo delle forze armate dovrà assumersene la totale responsabilità. Detenuto per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione, Maikel Nabil non deve diventare il simbolo di un Egitto post - Mubarak dove regna la repressione e l’ingiustizia”, prosegue Rsf. Il dipartimento di Stato americano si era detto “profondamente preoccupato” ad aprile dopo la condanna del blogger, precisando che non è il genere di progresso che si attendeva nell’Egitto post - Mubarak. Bahrain: sciopero fame per attivisti in carcere, mercoledì al via processi Aki, 4 settembre 2011 Un numero sempre crescente di detenuti nelle prigioni del Bahrain ha avviato uno sciopero della fame in segno di protesta per i processi contro i manifestanti che hanno partecipato ai cortei antigovernativi dei mesi scorsi, che si apriranno mercoledì. Secondo una nota del Centro per i Diritti Umani del Bahrain, si sono uniti allo sciopero circa 20 medici, arrestati per aver curato i manifestanti feriti e accusati di attività contrarie agli interessi nazionali. Le proteste contro la dinastia sunnita sono cominciate nel regno a maggioranza sciita a febbraio, sulla scia delle rivolte in Tunisia ed Egitto.